Ho gridato il tuo nome ancora e ancora nelle
tenebre,
non ci sei che tu, nel tempo senza fine.
[…] perfino un sorriso senza suono ora mi renderebbe felice.
Anche in quel tempo che non tornerà mai più,
noi ridevamo.
L’autunno è la stagione
dei colori caldi e delle foglie che cadono. A Yasusada piace, non solo perché
tutto sembra più accogliente e familiare, ma anche perché trova piacevole
rimanere a spazzare il viale quando è necessario, anche se non è il suo turno.
L’autunno è un sole tiepido in tarda mattinata perfetto per asciugare il bucato
e l’odore inebriante delle patate dolci che ogni tanto arriva fino alla sede
della Shinsengumi o – persino – proviene proprio dal lato meno esposto; è lo
scricchiolio delle foglie secche sotto i propri passi, del caldo dell’estate
che ancora si trascina all’inizio della nuova stagione e il vento freddo la
sera che preannuncia l’inverno quando è ormai alle porte.
Yasusada ha imparato con gli anni a scandire il tempo anche con i particolari
che la natura gli offre, quelli che spesso non ha tempo di soffermarsi a
guardare, apprezzandoli ancora di più quando riesce a farlo.
L’autunno è la stagione che più gli porta alla mente la figura di Kashuu, per
una questione di colori, certo – c’è qualcosa di quasi artistico nel vederlo,
con il kimono rosso in mezzo alle foglie a terra o tra gli alberi ancora non
del tutto spogli –, ma anche per qualcosa che non sa ben spiegare ma che è per
lui un pensiero scontato e quasi naturale. Kashuu, nonostante possa sembrare il
contrario, a lui non appare forte;
non con la spada, le capacità nel combattimento non hanno nulla a che fare con
la sensazione che Yasusada prova quando sono vicini. Semplicemente, Kashuu non
è il caldo asfissiante dell’estate né il gelo dell’inverno, e benché tenga al suo
aspetto e si renda bello agli occhi degli altri come un fiore sboccia per
mostrare il suo massimo splendore, non ha quella delicatezza che lui associa
alla primavera.
Kashuu è il calore, quel che rimane almeno, quello che sfuma e ogni tanto fa
venire i brividi se sparisce all’improvviso. Non è scontato, non è sempre
presente, ma con il tempo – gli anni, le battaglie – Yasusada ha imparato che
nei momenti in cui non si hanno certezze Kashuu ha questa capacità di divenire
proprio ciò di cui si ha bisogno; o almeno, per Yamato è sempre stato così. Per
questo non è mai stato strano ai suoi occhi come Okita sembrasse fidarsi
ciecamente, come se la possibilità che Kashuu deludesse le sue aspettative
anche solo in un singolo fendente fosse inesistente. E quando Yasusada era
arrivato e aveva visto per la prima volta l’altro allenarsi con il loro
padrone, aveva provato incontenibile gioia: lui e Kashuu erano – sono –
entrambi delle spade difficili da maneggiare; se in un primo momento Yasusada
ha avuto qualcosa da temere, in quel preciso istante ha compreso che quello
sarebbe stato il suo posto.
Kashuu ha quello, dell’autunno: ti fa sentire come se, dopo l’avventura e
l’atmosfera quasi irreale dell’estate, tu fossi finalmente tornato a casa.
L’inverno è quando Kashuu
si sente più amato dal suo padrone, perché la manutenzione delle spade quando
devono essere ripulite richiede acqua, e sa bene quanto poco sia piacevole per
Okita bagnarsi le mani quando acqua e vento all’esterno sono troppo gelidi per
renderlo anche solo sopportabile. Nonostante questo, però, Kashuu viene pulito
ogni giorno, pronto in ogni momento a servire al meglio delle sue possibilità
Okita.
L’inverno è anche la stagione che associa a Yasusada, forse perché è in quel
periodo che il suo – loro – padrone
lo ha portato lì, senza alcun preavviso. Kashuu lo ha odiato nel modo in cui si
mal sopporta un fratello acquisito più che in quello con cui si desidera la
morte di un vero nemico. Ha impiegato tempo a capire che la presenza di
Yasusada non avrebbe significato essere meno amato, e soprattutto non
significava aver fallito al punto da costringere Okita Souji a servirsi di
un’altra spada al suo posto. Ci sono volute ore passate in silenzio, richiami
senza risposta e quello che, a pensarci ora, è un infinito ritrarsi dalla mano
tesa verso di lui. A volte Kashuu si dice che erano poco più che bambini
dopotutto, ma la realtà è che lui è sempre stato “il bambino dell’argine”, dove
non s’impara niente che non sia rubare, e odiare, e maledire la sorte – che
ironicamente è l’unica cosa che davvero gli appartiene, forse.
Yasusada gli è apparso come colui che lo avrebbe privato persino di quella, e
così aveva adottato con lui ogni tecnica che un animo troppo giovane e
infantile potrebbe tirar fuori: lo ha ignorato, trattato con freddezza, fatto
sentire non voluto a discapito di quanto Okita si prendesse cura di entrambi; è
riuscito persino a farsi rispondere a tono da lui, così placido lontano dal
campo di battaglia quanto una forza indomabile quando un combattimento richiede
la sua presenza. Eppure, Yasusada non è freddo come l’inverno a cui lo
paragona, né i suoi occhi sono vuoti come il cielo che preannuncia una
nevicata: sono di un blu che non ha niente da spartire con il cielo estivo; se
soltanto lo avesse visto, a Kashuu ricorderebbe il punto più profondo
dell’oceano in cui non arriva che una luce fioca, ma pur sempre luce. Invece
l’unica acqua che Kashuu ha conosciuto è quella del fiume e, nonostante questo,
la prima volta che gli occhi di Yasusada lo hanno guardato con un sentimento
simile alla rabbia non può dimenticarla. Chi scorderebbe mai una delle cose più
belle mai viste?
Quando si rende conto di pensarlo davvero, Kashuu desidera ancora scostare la
mano dell’altro quando lui l’allunga in sua direzione alla fine di un
allenamento, o per porgergli qualcosa; vorrebbe ma non lo fa mai, le dita che
sfiorano quelle altrui – e impara così che Yasusada è sempre incredibilmente
caldo, tranne le sue mani. In inverno sono così fredde che Kashuu a volte pensa
debbano riflettere la loro natura di spade, perché la lama non si scalda mai se
non quando viene forgiata. A volte è tentato di prenderle e tenerle nelle
proprie, perché inspiegabilmente sembra sempre averle calde abbastanza per
entrambi; non lo fa mai, se non quando Yamato è già sprofondato in un sonno
senza sogni e lui può fare un gesto che non saprebbe spiegargli altrimenti.
Forse non ce ne sarebbe bisogno. Forse, se solo osasse, Yasusada non farebbe
domande. Non ha mai avuto modo di scoprirlo.
«Stupidi specchi.» borbotta mentre lo shoji scorre e l’altra spada entra nella stanza che
condividono, sentendo i passi fermarsi poco dopo; lo cerca con la coda
dell’occhio e lo vede inginocchiarsi a terra poco distante da lui e sorridere
divertito quando incrocia il suo sguardo: «Stai ancora sistemando i capelli,
Kashuu?»
Risponde con un verso stizzito, tornando con gli occhi sulla superficie in
vetro che gli manda indietro il riflesso di un volto imbronciato: «Non riesco a
vedere dove taglio, e non posso rischiare di fare un danno irreparabile.» si
spiega, le forbici in una mano e una ciocca di capelli nell’altra, in un
tentativo di voltarsi abbastanza da far rientrare il tutto nel proprio campo
visivo. È in quel momento che Yasusada si rende conto, a un’occhiata più attenta,
che l’altro sta cercando di spuntare i capelli: inarca un sopracciglio,
perplesso, abbandonando l’asciugamano con cui stava tamponando i propri sulle
spalle.
«Questo è raro» osserva cauto «non chiedi a Okita-kun di tagliarti i capelli,
di solito?»
«Non voglio farmi tossire nelle orecchie.» replica secco, e Yamato sa che in
realtà Kashuu non è infastidito dalla tosse, ma preoccupato che diventi febbre
se il loro padrone non riposa abbastanza almeno quando non hanno motivo di
uscire con il freddo che sta facendo in quei giorni. Un tempo, senza
comprendere Kashuu, probabilmente avrebbe assunto un atteggiamento sulla
difensiva; ora invece gli si fa più vicino e allunga una mano, rimanendo in
attesa in un tacito invito a lasciargli le forbici.
«Se vuoi, posso tagliarli io.» si offre, e l’istante dopo – come se non ci
fosse nemmeno da pensare in merito – le forbici sono alla sua portata.
C’è silenzio, e non è così strano perché anche se si sono abituati l’uno alla
presenza dell’altro nella propria vita, non sono mai stati il tipo di compagni
o di “fratelli” che parlano tra loro. C’è sempre stato uno strano equilibrio,
fatto di ore di silenzi e poche, occasionali, significative frasi.
Gesti. Loro sono il tipo di persone capaci di dirsi tutto ciò che hanno bisogno
di raccontarsi con i soli gesti, ed è per questo che Yasusada prende la ciocca
di capelli altrui tra le dita, studiandola con cura prima di tagliare; per lo
stesso motivo, quando ha finito e ripulito, Kashuu gli posa una mano sul capo con
poca delicatezza, glielo copre con l’asciugamano rimasto fino ad allora sulle
spalle di Yamato e gli friziona i capelli quasi fosse una seccatura.
Si prendono cura l’uno dell’altro così, quasi fosse la cosa più naturale del
mondo – lo diventerà, quando saranno soli; lo sanno, in cuor loro, perché il
metallo è immortale.
Le persone no.
La primavera sa di fiori e
aria tiepida sulla pelle, sa di dolce e di risate quando i bambini tornano a
giocare per le strade senza rischiare di finire prede di un freddo implacabile.
Yasusada la trova la stagione più piacevole, anche se forse meno caratteristica
ai suoi occhi: ha preso l’abitudine, da che ha memoria, di associare a ciò che
vede e sente le persone, convinto che tutto sia un insieme di suoni e odori e
sensazioni, ancora prima di ciò che gli occhi possono scorgere. Così ha sempre
pensato che Kashuu fosse come l’autunno, Horikawa l’estate, Izumi una mezza
stagione troppo equilibrata per essere definita con facilità; Okita per lui ha
sempre rappresentato l’inverno – non solo perché lo ha portato con sé in quella
stagione, ma anche perché appare freddo e scostante da qualsiasi emozione umana
quando affronta i propri nemici, uccidendo gli uomini come se calpestasse
foglie secche, eppure Yasusada sa che è umano quanto gli altri, più degli altri.
La primavera non è per lui nessuna delle persone che ha conosciuto da quando ha
aperto gli occhi, eppure più di una volta è capitato di associarla a qualcosa,
un’immagine confusa che è rimasta tale finché una sera non ha accompagnato
Okita in una casa di geisha. Yasusada
ricorda bene quanto fosse evidente che solo per lui si trattasse della prima
volta in un posto simile – a giudicare da quanto placidi erano Izuminokami e
Horikawa, nonché lo stesso Kashuu –, dove lo sguardo non aveva fatto altro che
seguire i movimenti di danze leggiadre e dita che con eleganza si muovevano
sulle corde degli shamisen,
incantato da quell’arte e da quei colori, dimentico che nelle strade non
c’erano che le solite sfumature affatto sgargianti e per nulla invitanti; la
battaglia non è mai stata, d’altronde, qualcosa che dovesse affascinare gli
uomini. Anche se a volte sembrava avere proprio quell’effetto su persone come
Okita.
Dopo quella sera, ci sono stati giorni in cui ha guardato Kashuu allenarsi nel
giardino incurante dei ciliegi che iniziavano a fiorire: in alcune occasioni lo
ha imitato, in altre ancora ha chiesto a Horikawa di essere il suo avversario,
ma qualche volta gli capita di osservare Kashuu fendere l’aria con la spada
come se danzasse. I fiori non sono fatti per gli uomini, Yasusada lo ha appreso
e sentito dire milioni di volte – sono delicati, adatti a esaltare la bellezza
e la fragilità di una donna, e sa che l’altro non sarebbe felice di essere
paragonato né a essi, né all’eleganza di dita sottili o qualsiasi altra cosa
gli venga fin troppo naturale accostargli. Yasusada lo sa bene, eppure accade
che con naturalezza guardi Kashuu e non riesca a tenere per sé parole che per
lui non hanno alcuna intenzione di deridere o sminuire, anzi.
«È bello.»
«Ah?»
«Il modo in cui ti muovi.» pronuncia guardando il punto in cui, fino a poco
prima, l’altro è rimasto in piedi colpendo ripetutamente un nemico immaginario.
Kashuu sbuffa tra il soddisfatto e il seccato, perché attestare l’ovvio non gli
è mai piaciuto: «Lo so. Lo stile del sottoscritto è e sarà sempre impeccabile.
Sarò difficile da utilizzare, ma Okita ci riesce.»
Yasusada sa bene che per Kashuu è motivo di vanto, che si presenta al meglio
perché Okita non debba mai fare a meno di lui – è conscio del suo essere per
nulla cosciente del fatto che il loro padrone non lo lascerebbe nemmeno se
fosse sudicio da cima a fondo –, e forse per quello si volta a guardarlo,
mostrargli che alla sua serietà risponde con altrettanta convinzione di pensiero
e di intenti.
«Sì.» ammette con un sorriso dolce, forse troppo dolce e troppo sincero, la
mano che scosta una ciocca di capelli che finisce sempre con l’infastidire la
vista di Kashuu quando si allena e si muove per colpire, non per ammaliare «Intendevo
dire che tutto è bello.» e intende tutto
di te, anche se non lo dice chiaramente.
Si aspetta qualcosa di molto diverso da un rossore che scorge per pura fortuna
e di una mano che lo allontana goffamente, prima che la schiena di Kashuu sia
l’unica cosa visibile insieme alla camminata di chi ha fretta di allontanarsi
da una felicità fugace che non sa come accogliere.
L’estate è tutto ciò con cui Kashuu non ama avere a che fare: è l’umidità del
letto del fiume che gli è penetrata nelle ossa alla nascita, quella che non se
ne andrà mai, la sensazione di qualcosa di estraneo che si insinua sottopelle e
striscia, striscia al punto di non potersene più liberare. È la presenza di
toni di voce troppo alti, di una vitalità che non capisce da dove venga fuori,
dell’instancabilità dei bambini che corrono a perdifiato. Se c’è una cosa che
può apprezzare della stagione sono i colori di cui si tingono le strade durante
i matsuri:
raramente ha potuto prendervi parte, avanzando al fianco di Okita, eppure in
quelle rare occasioni ha potuto apprezzare le bancarelle, le chiacchiere dai
toni allegri, il fascino delle lanterne durante la notte – le aveva già viste,
sì, ma mai per un evento festoso. Le volte in cui è riuscito a godere di quello
spettacolo, Kashuu si è sentito debole e benché la sensazione fosse tutt’altro
che apprezzata, non è riuscito comunque a portare anche quelle feste ricorrenti
nella sfera di ciò che odia dell’estate.
Si è sentito debole perché ha visto delle strade solo ciò che una pattuglia
notturna può scorgere – ne ha sempre riso amaramente, perché quasi si immagina
a presentarsi oggi per la prima volta a Okita e poter dire che lui è Kashuu Kiyomitsu, il “bambino dell’argine” che del mondo impara a
conoscere solo l’aspetto brutto, sudicio, e non conosce altro. A Kashuu non è
mai sembrata una maledizione, perché se conosce il peggio pensa di poter fare
solo di meglio, di poter essere solo il
meglio, ma a volte vede tutto ciò che avrebbe potuto avere e allora capisce
quanto orribile sia avere sentimenti umani; è quando preferirebbe avere
sentimenti adeguati al proprio corpo, quello vero, fatto di metallo e di forme
lineare, nette, decise.
L'estate
è per lo più suoni: le cicale che sembrano instancabili mentre cantano tutto il
giorno; è il caldo che lo spossa dopo pochi minuti all'aperto, il verde degli
alberi così forte che gli occhi bruciano se lo si guarda troppo a lungo. Non si
capacita di come Yamato riesca ad allenarsi come se ci fosse ancora la frescura
primaverile ad accogliere i suoi movimenti; non sembra nemmeno stanco, o
cosciente del sudore che gli attacca i capelli alla fronte o scorre lungo i
lineamenti del viso. Kashuu è cosciente di non essere in uno stato migliore, lo
sente nel codino che rimane fastidiosamente attaccato al lato del collo anche
quando si muove velocemente, nei vestiti appiccicati al proprio corpo, nella
mano sudata che stringe maggiormente la spada che si rifiuta di perdere come il
peggiore dei dilettanti.
«Kashuu?» sente la voce dell’altro distante,
perso in pensieri che lo distraggono; non osa nemmeno chiedere come fosse la
propria forma nell’ultimo fendente: «Mh?» quasi lo
brontola, senza guardarlo.
Sente Yamato ridacchiare sommessamente e lo cerca con la coda dell’occhio,
trovandolo a passare un braccio contro la fronte, la frangia che finisce in
condizioni terribili che Kashuu non concederebbe mai a se stesso.
«Perché non ci fermiamo? Potremmo riprendere stasera, quando farà più fresco.»
propone, riponendo la spada nel fodero. Kashuu tace, perché sente dentro
qualcosa che non è fatica e nemmeno un’imprecazione contro l’afa che rende
impossibile persino riprendere fiato dopo un esercizio misero come quello
appena concluso. È la voce di Okita a raggiungerli e a distrarlo, lui che si
lamenta con Hijikata di una riunione della Shinsengumi che richiederà un tempo
troppo lungo per essere davvero sopportabile con quel caldo – tempo non
impiegato ad allenarsi, o a dimostrare una volta tanto il giovane che è con
scherzi discutibili ai danni dei suoi compagni. Sfuma via prima che lui o Yamato
possano fare cenni di alcun tipo.
«Pare che non avremo da fare per un po’.» dice Yamato con un sorriso divertito,
riferendosi a quanto appena udito; Kashuu decide di avere il diritto di
maledire il caldo per i momenti successivi, quando si accorge che la sua mano
ha scostato i capelli dalla fronte di Yamato e che la distanza tra loro è
troppo poca, sconveniente e soprattutto pericolosa.
Kashuu odia l’estate: suda troppo, pensa troppo, guarda troppo – gli alberi,
Okita, Yasusada.
Soprattutto Yasusada.
Lo tocca molto prima di rendersi conto di avere una mano calda contro pelle
ancora più calda.
«Mh.»
Nessuno dei due si aspetta di ritrovarsi così vicino all’altro, in una stanza
che finisce col ritrovarsi in poco tempo nella penombra, a causa delle piogge improvvise
da cui la stagione prende il nome; Kashuu ricorda vagamente di aver mal
sopportato la cosiddetta “stagione delle piogge” quando era ancora nel fango
prima di Okita, prima della Shinsengumi. Eppure ora è quasi grato di quel buio
improvviso nonostante sia pieno giorno, perché è molto più facile poggiare le
labbra su quelle di Yasusada nel modo goffo che sperava di mascherare meglio di
come invece sta facendo. Per la prima volta Kashuu non si preoccupa troppo di
quanto in disordine siano i suoi capelli, né dei vestiti: le mani di Yamato lo
sfiorano come se fosse fragile o dovesse rompersi a causa di un suo gesto, e
Kashuu avverte in quelle mani e nei baci leggeri e imbarazzati che si scambiano
quell’amore che ricerca spasmodicamente da che ha memoria.
Non lo spoglia completamente, né Yasusada insiste per spogliare lui: forse è il
timore che qualcuno possa andarli a cercare, che Okita abbia bisogno di loro
senza preavviso, o forse è solo l’imbarazzo di quando si tocca qualcosa che si
ritiene più preziosa di ogni altra al punto da non aver mai pensato di poterla
toccare in quel modo. Yasusada è così, ai suoi occhi, e sebbene Kashuu sappia
meglio di chiunque altro quanto sia forte sul campo di battaglia non riesce a
concepire l’idea di trattarlo con meno delicatezza.
Così le dita si insinuano sotto la stoffa dei vestiti e toccano una pelle
calda, liscia; passando lungo il fianco di Yamato riesce a sentire con i
polpastrelli un neo leggermente in rilievo e sorride – ha sempre trovato
ironico il loro averne sul viso, dallo stesso lato, ma in punti diversi. Si è
chiesto se fosse vero che chi nasce con un neo come Yasusada sia destinato a
una vita di dolore e sofferenza e ha sentito una stretta allo stomaco pensando
che, se fosse davvero così, avrebbe voluto evitarlo. Si è reso conto solo dopo
di volerlo proteggere, quando non si è mai preoccupato di proteggere se stesso
da niente di ciò che ha visto e che con ogni probabilità schiaccerebbe
facilmente anche il più forte degli uomini.
«Kashuu…» non se lo aspetta quel richiamo, o quella
voce bisognosa, e non si aspetta nemmeno che una mano di Yasusada si intrufoli
per prima tra le sue gambe fino a raggiungere la sua erezione, sebbene questa
non sia ancora completa. Lui sussulta, e boccheggia appena, lasciandosi
sfuggire un verso di sorpresa mentre le mani fermano quella di Yamato
istintivamente, quasi nel panico.
A quel punto è inevitabile incontrare il suo sguardo confuso, timoroso di aver
male interpretato la situazione – Kashuu impreca mentalmente, perché non c’è
davvero niente da fraintendere – e
inspira rumorosamente, allentando la stretta sul polso dell’altro e poggiando
la fronte contro la sua. Non si aspettava troppe cose, e per quello muove piano
il viso cercando di darsi un ordine, di darlo a entrambi: sfiora con il naso
quello di Yasusada, le labbra trovano le sue un po’ più sicure forse, una mano
torna a sostare sul fianco altrui e l’altra a imitarlo e a insinuarsi tra la
stoffa.
È Yamato a scostare il viso per posargli un bacio sul neo vicino alla bocca, ad
arrivare a cingergli in parte il collo per far passare le dita tra i capelli di
Kashuu, toccando piano la base del collo e facendolo rabbrividire. Da quel
momento è un susseguirsi di baci sempre più umidi, di morsi leggeri sulle
labbra, di carezze che causano sospiri e riempiono la stanza di gemiti bassi,
trattenuti per non essere sentiti da chiunque passi fuori da lì.
C’è un momento in cui Kashuu avverte solo due suoni: la voce di Yasusada che
geme vicino al suo orecchio e la pioggia fuori, fitta come se dovesse attirare
con il suo rumore la sua attenzione – la ignora, sceglie di farlo volutamente e
di concentrarsi sulla mano di Yasusada che stringe la sua, mentre lo bacia di
nuovo.
Solo ore dopo, costretti ancora all’interno da una pioggia che non vuole
saperne di smettere, presta a quel tempo terribile un’occhiata pigra; almeno
finché Yamato non lo richiama con un tono morbido e un sorriso sulle labbra: «Stanno
fiorendo le ortensie.» gli dice piano quasi fosse un segreto, indicandone
alcune poco lontane, lì nel giardino.
Kashuu non sa cosa ci sia di bello, in fiori che passano buona parte della loro
esistenza fatta di pochi mesi sotto una pioggia incessante; ma non lo chiede,
non rovina quello sguardo che ama tanto vedere negli occhi di Yasusada.
Preferisce stringergli un poco di più la mano, intrecciare le dita con le sue,
e socchiudere gli occhi fingendo una sonnolenza piacevole.
Le labbra di Yamato gli sfiorano la fronte, e il rumore della pioggia non è più
così fastidioso.
L’estate è scivolata di
nuovo verso l’autunno, portando con sé le foglie dai colori caldi e tutto ciò
che per Yasusada è sempre stato “casa”.
La stanza ha un vago odore di fiori, e gli occhi chiari accarezzano le ortensie
che lui stesso si è premurato di portare lì: le tiene ancora strette tra le
mani, inginocchiato vicino al futon,
il corpo di Okita coperto con cura. Non ha un viso da osservare, Yasusada, e
anche se lo avesse non ci sarebbe uno sguardo vivace a rispondere al suo: solo
occhi verdi vuoti, in un corpo che non ha più vita.
Stringe di più i fiori, e una parte di lui sa di starli rovinando senza motivo.
Fuori piove, anche se non è più un maltempo stagionale da qualche mese, e lui
vede le proprie mani tremare.
Non si volta, perché è vero che davanti a sé non ha più nulla – perché quello
non è più Okita, non è più il suo padrone, non è più l’uomo che può guidarlo
sul campo di battaglia – ma non ha più niente nemmeno alle proprie spalle; sa
che anche voltandosi non vedrà Kashuu e forse vorrebbe, forse desidera vederlo
disperarsi per una morte che lo dilania dentro quanto sta facendo con lui, o
magari è felice che l’altro non possa vederlo, è felice di risparmiargli un
dolore simile.
Yasusada lo sa, non c’è nulla di diverso che avrebbe potuto fare per salvare
Okita, e le urla che sente ancora nella testa non sono che l’ironia contorta di
una sorte che si prende gioco di lui ricordandogli che mentre Kashuu si
spezzava, lui non poteva far altro che osservare.
Lo percepisce, mentre le ortensie si seccano tra le sue dita e lui sente un’altra
vita scivolargli fra le mani: ogni tanto c’è ancora una folata di vento caldo
che ricorda l’estate e lui lo odia, perché l’estate gli ha portato via tutto –
la sorte è l’unica cosa che forse appartiene a tutti loro, eppure ogni istante
di felicità che gli ha donato sembra essere stato concesso al solo scopo di
causare altro dolore.
Credo di non avere note da
aggiungere, a meno che qualcuno non sia interessato al periodo di fioritura
delle ortensie 8D
Tanti, tantissimi auguri a Rin (xrinnenotsumi
qui su efp) <3 Sono un po’ in anticipo, ma spero
mi perdonerai uwu
(In realtà dovrei implorare il perdono per aver avuto la faccia tosta di fare
una cosa così angst come regalo di compleanno, forse
XD)
Oh, giusto: la canzone in apertura è Birdcage (Gackt).