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Autore: Bolide Everdeen    12/05/2015    2 recensioni
[Storia interattiva-Tributi al completo]
C'è una nazione, Panem.
C'è un anniversario, il cinquecentesimo della creazione di questo stato.
C'è un nuovo presidente, Coriolanus Snow.
C'è un'edizione speciale degli Hunger Games.
Ci sono ventiquattro tributi.
Ci sarà solo un sopravvissuto.
***
Dal primo capitolo:
"Ma Panem è simile ad un'enorme arena.
Non si può fuggire.
Solo combattere, o morire.
A voi la scelta."
Genere: Azione, Drammatico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Altri tributi, Caesar Flickerman, Presidente Snow
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie '500 - Behind the scenes'
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Capitolo XV

Il silenzio

Distretto 10, Eaves Isinthaw

Si trovava nel nono cerchio. Solo. Questo aggettivo lo torturava da quando Reed si era sacrificato per lui, congedandolo con quelle strane parole, insensate. Almeno apparentemente, per il pubblico capitolino che aveva assistito a quel magnificamente crudo spettacolo, ma non aveva sentito i discorsi notturni fra i due alleati. Gli Strateghi non erano tanto stupidi e non potevano essere così assonnati da permettere allo schermo di trasmettere quelle confidenze, così private, senza alcun fondo sentimentale o commovente. Solamente terribili. In più, le amicizie già ribadite di Ivan con gli Strateghi le quali avrebbero dovuto incoronare Reed superstite dell'edizione probabilmente si erano lasciate cogliere da quel sentimento di lealtà nei confronti del mentore, però la mente di Eaves non accettava con talmente tanta facilità questo dettaglio. Non conosceva a fondo i capitolini, ma attribuiva a loro con difficoltà delle emozioni. Una parte di sé era quasi riconoscente loro, però era impossibile definirla inchinata a loro. Avevano consegnato un dignitoso futuro a suo padre, Deimo, spingendolo ad adottarlo. Ma non bastava a contrastare la sua antipatia per loro. Soprattutto, ora che ogni nota di silenzio di quel posto lo stava uccidendo.

Fischiettava, come per esorcizzare quel vuoto. Il distretto 9 era così tranquillo, una distesa dorata di cereali. Non ne aveva mai visti dal vivo, eppure le immagini nei libri erano sufficienti a comunicare quell'impressione al cervello. Un poco, facevano ricorrere la sua mente ad Astrid, quando solamente tre giorni prima l'aveva interrogato sulla natura di quelle piante. Sorrise, senza accorgersene. E, sempre senza accorgersene, rabbuiò il suo volto quando si ricordò che il minuto corpo della ragazza era gelato al tocco, pallido alla vista; inerte, riassumendo. E calò di nuovo il silenzio, come la falce della mietitura che l'aveva trascinato in quell'arena. Si permeava dal mondo, dalla tristezza, dall'angoscia rinchiudendosi in se stesso, rimanendo confuso fra i cereali, dormendo, mangiando il meno possibile, determinando nella sua mente quale potesse essere la sua strategia.

Riflettendoci, la prima alternativa era spostarsi di lì. Scaldando una piccola porzione di terra con la sua presenza, non si meritava né doni degli sponsor, non innalzava la sua situazione verso qualcosa di più positivo e, soprattutto, permetteva al lutto di conquistarlo. La sua coscienza gli imponeva di spostarsi, ma quel giorno era dominato dal suo lato oscuro. Le rivolgeva una risposta arrabbiava, e tornava a rannicchiarsi nella sua minuscola tana.

All'improvviso, conosciuto ma non atteso, un evento ravvivò la sua giornata, apparentemente morta già all'inizio: l'apertura della porta fra l'ottavo disco e il nono, segnale orario che stabiliva le otto o le nove del mattino. Eaves, ancora, non aveva compreso l'effettivo meccanismo. Però, non gli importava. Si rese conto che, da quando la sua abitazione e la sua condanna si era condensata in quel luogo, stava valutando per la prima volta la possibilità di vincere. Non c'era nessuno per cui soffrire, non più.

Camminò, incagliandosi in qualche pianta, assetato dal desiderio di trovare la sua svolta nell'ottavo cerchio. E la trovò.

Si specchiò in un volto che riuscì a localizzare scavando con qualche sforzo nella sua memoria, sporco, desolato, splendente solo per un paio di occhi che mostravano quanto quella condizione miserabile permettesse alla voglia di non essere più in quel luogo di galleggiare, anzi di sorvolare, il mare dei suoi pensieri. Era la ragazza del 9, Rainway. Emanava anche lei un odore strano, che Eaves improvvisamente si era sentito appartenere: un misto di sudore, di pioggia, di fango striato da un'enorme sofferenza avvertibile. Osservò a lungo i suoi occhi, mentre lei faceva altrettanto. Li scoprì azzurri, e senza alcuna intenzione di pace.

Si accorse che aveva solo uno zaino sgonfio, oltre alla sua arma. E lui aveva qualcosa. Questo lo metteva in un'evidente posizione di pericolo, mentre la ragazza allungava la mano.

«Lo zaino» ordinò, distogliendo il suo sguardo, quasi dimostrando di non voler essere veramente lei l'aggressore della situazione. Non era la prima volta, in quell'arena.«Scordatelo» borbottò Eaves, in preda a uno dei suoi momenti peggiori, in preda alla paura della morte che aveva afflitto i suoi amici.

«Per favore» calcò Rainway,«dammi lo zaino.» Era terribilmente seria, ed il ragazzo provò nelle sue vene quel brivido di scontro già sentito il giorno prima con l'agnello.«È mio» espresse le sue ragioni, mentre iniziava a sapere che lei si sarebbe scagliata contro di lui.

Questa volta era diverso. Era una ragazza. L'avrebbe uccisa? Sarebbe stato ucciso? Era... terribile. Ogni tanto era stato colto dall'istinto di ferire qualcuno, ma non era mai serio. Era una sua simile. Avrà avuto la sua età. Come...?

Rainway accettò la sua resistenza, inferendo ferocemente con la sua falce. Eaves si ritrasse prima di trovarsi coinvolto dal dolore, trovandosi con il coltello pronto in posizione d'attacco. Però non voleva rispondere, non subito. Si sentiva, di nuovo, costretto, quasi arrabbiato da questo. Non era necessario, se lei si fosse resa conto di poter essere in svantaggio. Ma era affamata, bisognosa, determinata. E, aspettandoselo ma non prevedendolo, Eaves sentì un pugno feroce sulla sua guancia. Ricambiò con il doppio della dose, portando Rainway a ritrarsi massaggiandosi la tempia. Un rigagnolo di sangue feriva la sua sporcizia.«Non ti conviene» ribatté la ragazza, mollando un pugno allo stomaco asfissiante all'avversario.

Eaves sentì come se tutto il suo fiato, terrorizzato, non volesse essere coinvolto nella sua morte e volesse scappare. Si piegò in due per pregarlo, riprendendosi solo dopo qualche secondo grazie alla gentilezza dell'ossigeno. Lo adorò, per un istante. Fino a quando non si scoprì a terra sovrastato da Rainway.

D'impeto, Eaves le afferrò i polsi, allontanandoli dal suo corpo, allontanando la morte. Era forte, la ragazzina. Si scagliava contro la sua presa divincolandosi, arrivando più volte a graffiare il petto di Eaves e squarciandogli la tuta. Non ci pensò. Non se ne rese conto. Voleva solo sconfiggerla.

Tentò di capovolgere la lotta, arrivando ai bracci dell'avversaria e gettandola sul fianco di terra accanto a sé. Ma non ci riuscì. Il sangue dei pugni le stava colando lungo il viso, violando quelli che sarebbero potuti essere solchi di lacrime, mischiandosi a loro. Rainway riuscì a liberare la mano opposta a quella con l'arma, sedando Eaves con un altro colpo. Per un attimo, il ragazzo perse le sue percezioni, con la vista a granuli rivolta verso l'esterno del combattimento e un dolore piatto sul volto. Allentò la presa, ma non la mollò. Tentò di offendere con il suo coltello, arrivando a condannare la spalla della nemica. Per un poco, riuscì ad affondare la lama, insieme alla sicurezza di Rainway che sfociò in un urlo. Poi lei si sottrasse, scattando i piedi, come se il male le avesse ricordato di essere viva. Dell'utilità di quel gioco.

Era sopra di lui. Lo assicurò al terreno con un piede, facendo avvertire a Eaves un'impotenza terribile al cuore, e, brandendo la sua falce con uno spavento disperato, finì per imporre la sua lama sul collo di Eaves.

Il ragazzo non ascoltò più il dolore, dopo un poco. Non durò molto.

Solo il tempo di rendersi conto di non potersi più sollevare.

I suoi pochi amici... i suoi fratelli... suo padre...

Già. Suo padre ce l'aveva fatta. Lui...

Lui...

 

Distretto 3, Emilie Levieva

Un colpo. Emilie risvegliò i suoi occhi in favore del cielo, come se esso rivelasse improvvisamente chi fosse il disgraziato carezzato dalla morte. Invece no. La risposta sarebbe arrivata a sera. A dire la verità, la ragazza avrebbe preferito intercettare un hovercraft, un aereo, un miserabile mezzo qualunque per trascinarla a casa. Anche senza vincere. Emilie stava perdendo la speranza.

Niente stuzzicava la sua voglia di rivedere la sua famiglia, il suo distretto, il suo letto, la sua vasca di bagno. Le mancavano, il letto e la vasca del bagno. La sporcizia bruciava sul suo copro come un'umiliante testimonianza di quanto la sua condizione fosse misera, inaccettabile. Quando l'arena intorno a lei si spegneva, questo processo si attuava anche su di lei. Ma non il contrario. Non si ricordava da quanto tempo non dialogasse con qualcuno, e perciò attuava un conto per scoprire da quanto tempo era morto Lynton: il secondo giorno. Ormai, si trovavano al quinto. Tre giorni. Tre giorni durante i quali aveva notato solamente il cambio di paesaggio, oramai non più affascinante, monotono come tutte le cose parte delle nostre abitudini, trovando ogni tanto una bestia e sfidandola senza prospettive, ma uscendo continuamente indenne. Riportava sulle braccia i graffi di un cavallo imbizzarrito che la aveva attaccata sulla strada del sesto cerchio, convincendola a scappare. Ogni tanto si facevano avvertire, quando si caricava dei più pesanti pesi per spostarsi, tese ferite che avevano offeso la su tuta. Sapeva che si sarebbe potuta infettare, perciò aveva creato con la tela dello zaino di Lynton delle garze per i bracci in un momento di cupa lucidità. Era sopravvissuta per un caso. Le porte fortunatamente si trovavano a suo favore, ed una volta oltrepassato il confine che la segnava sul territorio del settimo disco il cavallo non aveva osato seguirla. Non era sua autorità. Lì i suoi spaventi dovevano essere provocati da altro. Lì c'era spazio per un altro mostro, oltre ad Emilie.

Perché ormai Emilie si sentiva tale: un mostro. Non veniva più raggiunta da alcun sentimento, sfiorata dalla seme, dalla fame, dalla stanchezza di trascinarsi dietro quella cassa ripiena di cavi ancora senza la sua utilità verso la quale aveva provato un bisogno irrinunciabile, inequivocabile. Ora la malediceva, ma sentiva ancora quella necessità, per uccidere senza macchie di sangue sulla tuta. Si sentiva una bestia, e il peggio era che questa condizione non l'angosciava. Ansimava, ascoltava il suo interno, ed avvertiva quella comune sensazione uditiva: il silenzio. Rifletteva e basta, sul fondo della sua mente, svegliando il suo corpo solo per le idee migliori. Fine.

Ma qualcosa, dopo poco tempo, scavò la sua coscienza, portando a galla un avvenimento di poco tempo prima. Di quella notte. Una specie di scoperta.

Precedentemente all'attacco del cavallo, Emilie aveva scoperto una conca. Si era accucciata accanto a lei, forse per la spossatezza, o forse perché emanava una strana speranza capace di avvolgere persino lei. E dopo qualche minuto, il miracolo. L'acqua aveva iniziato a sprigionare acqua cristallina, che colpiva dolcemente i fianchi del bacino, e risvegliava la sete della ragazza.

Si era nutrita dei residui nello zaino, ormai allo stremo, dicendo che avrebbe cacciato, ma l'acqua si era essiccata in un fondo di bottiglia. Si era rinfrescata la faccia e la gola, provocando un sollievo solo temporaneo, interrotto all'arrivo burrascoso del maledettissimo cavallo. Aveva interpretato quello per uno strano regalo degli Strateghi, forse una preparazione per lo scontro. La sua idea si era volta quando aveva notato una conca identica, delle stesse dimensioni, nel settimo disco. Aveva stabilito lì la sua base, aveva consumato una cena più ricca di aria che di cibo che non si avvicinava neanche ad una colazione, e aveva cercato di reprimere il desiderio di acqua. E, durante il suo sonno, la verità l'aveva destata con un lieve rumore.

Si era voltata, notato che l'acqua era tornata a consolarla anche lì, nel buio. Il cielo non era più oppresso dal nero della notte, ed Emilie aveva intuito che l'ora circolasse attorno alle otto del mattino. E una strana ipotesi si era consolidata come certezza in pochi secondi.

Credeva che, ogni tal ora, la conca si riempisse per diventare un lago, per poi scomparire dopo aver lasciato desiderio e sollievo. Aveva due borracce, riempite con quel magnifico serio. E poi, si era ritrovata in fronte a un'idea.

Una domanda: l'acqua di questo lago circola in tutti i cerchi? In tal caso, avrebbe potuto raggiungere altri tributi senza guai. , rispose Emilie alla sua nuova iniziativa.

Aveva acqua a sufficienza, e in quel momento che più di un momento era un'occasione non era comandata dalla ragione per l'improvviso risveglio. Afferrando delle bacche raccolte la sera prima perché identificate come velenose (anche quelle si sarebbero potute rivelare utili, come il resto nello zaino straripante), le aveva schiacciate, ottenendo un liquido nerastro. Le colò per le mani, ma Emilie non ci badò subito poiché in quel momento si rese conto dell'efficacia dell'idea.

Si lavò con una semplice passata della mano nell'acqua, continuando a frantumare bacche sopra al lago. Ogni volta, il loro nettare pioveva sulla superficie, affondava, ballava e si spargeva, fino a dissiparsi. Dopo un momento, non c'era più, ed era ancora più letale di prima.

Aveva avvelenato l'acqua. Non seppe se fosse efficace, fino al sospetto che quel colpo di cannone fosse un ribadimento della sua illogica colpa, ma comunque presente.

Dove era in quel momento il lago? Era stato vero che qualcuno, cercando conforto, aveva trovato la morte a causa sua?

In questo caso, sarebbe stato qualcuno di simile a lei. Uguale, forse. In quell'arena, non c'era molta disponibilità di caratteri. O si viveva come bestie, sopravvivendo e soprassedendo sia sui miracoli sia sulle tragedie, oppure si moriva. Lei aveva scelto la prima opzione, uccidendo i suoi sentimenti.

Ma un'ampolla tossica si ruppe nel suo spirito, persuadendola con la sua voce. Sei stata tu. Sei un mostro. Ma come hai osato?

Non l'avrebbe dovuta ferire. Non avrebbe dovuto piangere, perché aveva segregato le sue emozioni, attendendo il momento in cui tutto sarebbe potuto parere un sospiro di sollievo.

Le lacrime le nettarono il viso. E, con un misto di angoscia e di rabbia verso la sua incapacità, si rese conto della sua ennesima debolezza: non era una bestia.

Doveva rimediare, in qualche modo.

Perché nell'arena, una parte di te deve essere in una tomba, per mantenerti in piedi.

 

Distretto 5, Myrtle Hopkins

C'era... silenzio. O forse, lei semplicemente non sentiva. Il giorno precedente ogni tanto le orecchie l'avevano confusa con uno strano sfrigolio, forse dovuto alla stessa malattia che la opprimeva con quel freddo e una strana, insormontabile, insopportabile fiacchezza. Non aveva voglia di camminare, di muoversi, di guardare, e non più quella di combattere. Quasi non si rendeva conto di essere in un'arena, a difendere la sua vita, a guadagnarsi la corona di vincitrice. Quasi non si rendeva conto che una simile atrocità si potesse verificare nel mondo. Quasi non si rendeva conto... della vita. Di niente.

Qualcuno la trascinava in strani ambienti oscurati da uno strano velo di stanchezza che le opprimeva gli occhi. Chi era? Conosceva così tanta gente, però, in quel posto... Milton. Quello strano, timido ragazzino dai capelli rossi e una strana fratellanza nei suoi confronti. Era un po' pauroso, certo, ma si addobbava di una gran quantità di pregi che annullavano quel pietoso timore. Non poteva essere altro. Affondando con fatica nei pensieri, Myrtle si accorse di essere all'interno degli Hunger Games. Che quegli strambi, scintillanti azzurri e per un certo senso opprimenti erano la sua casa e il suo nemico. Doveva affrontarli. Non doveva lasciarsi spaventare. O schiacciare.

Un'altra idea le violò il cervello: doveva sconfiggere la morte, sopravvivendo. All'apparenza, non si trattava di un compito così difficile, ma sentiva la fame ribollire nel suo stomaco, la sete nella sua gola, il sudore sulla fronte, la stanchezza in tutte le sue membra. Se qualcuno le avesse chiesto come stesse ed avesse trovato il coraggio di replicare, l'ovvia risposta sarebbe stata:«Male.» Si riassumeva tutto così: “Male”. E mai si era sentita tanto male. Sospettava anche che mai si sarebbe avvertita altrettanto terribilmente.

Ed ora si sentiva... fluttuare. No, questa volta non era un inganno delle sue sensazioni, qualcosa veramente la stava reggendo e portando via. Con lei c'era Milton. Ci aveva pensato poco prima, perché così tanta fatica per ricordarlo? Non ne aveva idea, né voglia di rifletterci sopra. Era così. Niente. La sua mente rispecchiava il vuoto, le sue sensazioni il desiderio di qualcosa di fortemente improbabile.

Rimase così per una quantità indecifrabile di tempo, sospesa, sia nella mente che nel corpo. E poi... finì. Forse Milton era eccessivamente stanco per continuare, ma avvertì come una lieve presenza terrena qualcosa sotto di lei. Prima, questa era manifestata sotto forma delle braccia di Milton, ma ora... Tentò di allungare la mano, per reclutare qualcosa oltre alla coltre di nebbia che le assaltava gli occhi, e si accorse di toccare un volto madido di probabile sudore, freddo e soffice.

«Va tutto bene, Myrtle. Sono io» distinsero, fra i granuli del suo udito, le sue orecchie. Non riuscì a localizzare la voce, ma pensò fosse quella del compagno. E chi altri, sennò? La sua mente non sfiorò i nemici, non s'impiegò a trovarli nei suoi pensieri. Borbottò un «Milton» come a confermare la sua presenza, fino a non sentire la sua mano afferrata con grazia dalla stessa entità che le aveva parlato.

«Come va?» le sembrò che lui stesse chiedendo. «Così» biascicò lei, sentendo la gola bruciare ancora di più, senza manifestare l'oppressione della sua mente.«Sono stanca» si accorse anche, commentando inconsapevolmente con quelle parole.

Le sue palpebre calavano, rendendo inutili quegli ultimi tentativi dei suoi occhi di riuscire a vedere qualcosa. Voleva dormire, nonostante ciò un istinto più profondo le consigliava di tenersi ben sveglia. Qualcosa di angosciante la scherniva dal farlo. Doveva rimanere vigile, qualunque cosa succedesse. Qualunque ombra calasse.

«Puoi sdraiarti, se vuoi» propose Milton, ora accucciato accanto a lei. Poteva scorgerne la macchia non gigantesca ed anche qualche ciuffo rosso al suo apice.«Penso che il terreno sia morbido.»

Le sue proposte di rimanere vigile si affumicarono in un attimo, attirate dal prospetto di un riposo. Annuì, e con l'aiuto della mano di Milton che le sorreggeva la testa, si adagiò per terra, dimenticando che quello sarebbe potuto divenire il suo sepolcro.

«Tutto bene?» chiese lui, dolcemente, nel momento in cui lei fu pronta. Priva di acqua per rifornire la sua bocca, Myrtle annuì. Che fatica, si rese conto di aver pensato dopo aver confermato.

Della luce sfuggiva dai rami, portandole un poco di conforto. Qualcosa in lei sembrava brillare, voler raggiungere quel barlume alto. Alto ed affascinante. Era lì...

Una mano assicurava di mantenerla su quel terreno, ma la ricacciava al suo interno, facendole desiderare ancora di più il chiarore.«Resisti» emergeva ogni tanto in un sussurro. Era una delle miliardi di cose che la chiamava. Le parole, la luce, il sonno. E forse...

«Milton?» chiese, quando la mano fu così abituata sulla sua fronte quasi da non avvertirla. Si accorse della sua voce, venata da una roca asprezza che sarebbe potuta non scappare più.

Silenzio.«Sì?» avvertì la voce non appena sembrò più sicuro.

Aveva bisogno di dire qualcosa di importante. Quasi potesse essere la sua testimonianza su quel mondo. Quasi potessero divenire le sue ultime parole.

«La luce... sembra bella, da qui. Ma potrebbe non esserlo» lasciò fluire la sua ispirazione, spezzando il suo tono sulla conclusione. La conclusione di tutto. Myrtle, in un momento di consapevolezza imprecisata, capì che non avrebbe più detto nulla.

Passò del tempo. Secondi lunghi giorni ma percepiti come anni. Era tutto che si dissolveva.

Myrtle raggiunse la luce nel pieno pomeriggio della giornata.

 

Distretto 8, Who Powell

Ecco. Quelli erano i suoi giochi. Il terrore, il sangue, i fiumi di grida immaginati si erano manifestati solo il primo giorno, davanti i suoi occhi e come una tortura nel sonno. E poi, l'arena si era spenta. Il suo mondo si era ridotto a montagne di provviste, armi, del futile irrinunciabile da controllare. Credeva di essere l'unico tributo a non aver abbandonato mai la Cornucopia. D'altronde, questo per lei era un vantaggio. Nessuna arma la minacciava. O almeno, non esplicitamente.

In quel clima che tanto la proteggeva, che tanto la preservava dalla morte quanto lei preservava il bottino, circolava una minaccia, rappresentata dal ghigno da una persona e condivisa sia da Who che da Eracle. Perché Who aveva paura. Paura di Andrea.

Il giorno prima il silenzio era stato devastato dal furioso ritorno a corsa del ragazzo del 9. Lei e Eracle erano accorsi verso l'angoscia di Andrea, e lui, con il fiato mozzato, aveva raccontato in velocità e scarsa lucidità di aver visto Emerald ucciso da un ibrido di Capitol City. Le sue parole erano frammenti di ricordi, non convinti, immersi in una strana emozione, quasi un'eccitazione. Qualcosa faceva storcere la bocca sia a Who che al ragazzo del 2, aveva permesso ai loro occhi di incrociarsi e domandarsi la gravità della situazione. E tutto era stato confermato quando Eracle confessò un dettaglio notato a Who, privatamente.

«Ha i bordi delle maniche macchiati di sangue» aveva confessato il Favorito, attento a mantenere un tono impercettibile, lasciando la compagna interdetta a confronto con le sue considerazioni. Esistevano mille opzioni per le quali Andrea sarebbe potuto essere corrotto con del sangue. Un combattimento diretto con l'ibrido, un tentativo di rianimazione, qualcosa di semplicemente immaginabile. E invece no. Avevano subito pensato a una colpevolezza di Andrea, a una bugia diffusa e colpevole. Ad un enorme timore. Si erano lasciati contagiare dall'idea di dover sfuggire a quella prematura e vana morte.

Tutte queste ipotesi che albeggiavano nelle menti di entrambi i ragazzi erano nascoste, taciute nella paura di essere avvertite. Who si era dovuta avvicinare ancora di più alla muscolosa figura del ragazzo, sentirne il respiro frettoloso e pensoso e cercare di soffocare le conseguenze. Non si era sporta fino al suo orecchio, per non risentire eccessivamente della pressione della vicinanza.«Dovremmo andarcene» concluse velocemente Who, il più possibile, un'idea striminzita fuggita attraverso i suoi denti. Un'idea irraggiungibile ed esorbitante come un castello di pietra.

Andarsene sarebbe significato regalare ad Andrea tutte le loro provviste; restare regalare ad Andrea la loro vita. Se, come loro pensavano, aveva ucciso il suo umile e fedele servitore, arretrava all'ipotesi di colpirli solo perché si sarebbero potuti ribellare più facilmente, l'uno schierato con l'altro. Who sperava che questa paura realmente si radicasse nel cuore del compagno e nemico, così da poterla utilizzare come vantaggio. Ma non avrebbe mai sfiorato i vertici della sua.

Persino, la divideva dal pensare di desistere dalla morsa di Andrea eliminandolo direttamente. No. Aveva una specie di stregoneria assorta nel suo interno che l'avrebbe svegliato, scatenando il suo istinto omicida contro di lei e contro di Eracle. Probabilmente anche questa era stimolata dal terrore, ma la cementava al terreno ed a congetture più possibili, meno pericolose. Da poter condividere, ovviamente, con Eracle.

La ragazza si spingeva a pensare che la sua lealtà nei suoi confronti fosse solamente mossa da una sorta di complicità sbocciata in quel periodo, comune ai Favoriti dal lato opposto di quello a cui apparteneva Andrea, ma era una convinzione instaurata per non riconoscere il fascino del compagno. Era consapevole che Eracle mai l'avrebbe sfiorata, né con il pensiero, né audacemente con una mano, tranne che con la voce. All'intervista lo aveva sentito rivelare di avere una relazione con una ragazza gelosa, ed adesso il motivo della sua diffidenza erano vividi nella sua mente. Eracle aveva un serio ascendente che stava paralizzando anche lei. Ma non l'avrebbe coinvolta fisicamente. Sotto un sorriso beffardo, Who cercava di non rimanerne delusa.

Era arrivata la sera, il cielo oscuro poggiato sulle loro teste quasi come una condanna. La cena era stata consumata, nel silenzio più imbarazzante e pieno, con qualche nota d'ipocrisia di Andrea a caratterizzarlo. Eracle e Who non avevano parlato. Si erano rifocillati il più possibile, come previsto dal piano.

Il piano si attuò poco dopo.

Si attuò quando Who fu davanti a Eracle, uno zaino pesante di provviste che si sarebbero potute rivelare necessarie, un coltello in mano, e, nel buio, al di fuori del campo uditivo del dormiente Andrea, sussurrò verso le porte spalancate:«Andiamo.»

 

Spazio autrice

Sono imperdonabile. Nello scorso spazio autrice non ho spiegato che avrei avuto per una settimana in casa la mia corrispondente francese, perciò il computer sarebbe stato solo un desiderio. Ed eccomi qua. Con un ritardo terribile ed ingiustificabile. Vedrò di sbrigarmi.

Niente... cosa c'è da dire? È un capitolo un po' vuoto; i POV stanno iniziando a ripetersi per la diminuzione del numero dei tributi. A quanto siamo? Otto, se non sbaglio. Faccio confusione. Diamine.

Mi dispiace molto per i tributi morti, soprattutto per l'alleanza Reed-Astrid-Eaves, che ha avuto una sfortuna tremenda. I membri decimati uno dopo l'altro. E pensare che tutti e tre mi piacevano.

Allora... vi anticipo che il prossimo capitolo riguarderà il sesto e il settimo giorno insieme, altrimenti sarebbe troppo corto. E altri giorni saranno saltati. Però, ancora manca abbastanza alla fine.

Giusto! Cielo di sera, oggi particolarmente incomprensibile:

  • Distretto 5, Myrtle Hopkins;

  • Distretto 10, Eaves Isinthaw.

Su Emilie... il suo veleno non ha ancora ucciso nessuno. Non ancora.

Alla prossima,

Bolide

  
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