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Autore: Paperback White    13/05/2015    3 recensioni
"Is there anybody going to listen to my story
All about the girl who came to stay?
She's the kind of girl you want so much it make you sorry
Still you don't regret a single day
Ah girl, girl"
Chi era questa misteriosa ragazza cantata da John, su un testo scritto insieme a Paul? E se fosse stata una presenza importante nella loro vita?
Questa è la storia del più grande gruppo rock degli anni sessanta, osservata attraverso gli occhi di una ragazza ai più sconosciuta, e di cui la cronaca non lascia alcun ricordo.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: John Lennon, Nuovo personaggio, Paul McCartney, Quasi tutti
Note: What if? | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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12. JULIA STANLEY LENNON
(Mother)

 
Mother, you had me, but I never had you
I wanted you, you didn't want me
So I, I just got to tell you
Goodbye, goodbye
 
15 Luglio 1958
L'unica cosa che ricordo di quella serata era che stavo ascoltando il singolo dei ragazzi. Il puntello girava senza sosta su quella superficie lucida, eseguendo per me i due brani cantati da John qualche giorno prima. Mi stesi sul letto, appoggiando la testa sul cuscino e assaporando la musica, emozionata di poter essere l’unica ad ascoltare quella piccola incisione. Fu con quel suono leggero che sprofondai in un sonno profondo e sereno, interrotto la mattina successiva da mia zia, che mi scuoteva da sotto le coperte.
-Freddie svegliati! E’ una cosa urgente!-
Cominciai a sbattere ripetutamente le palpebre, cercando di abituarmi alla luce del sole proveniente dalla finestra, le cui tendine erano state aperte poco prima. Presi pian piano coscienza, stiracchiando braccia e gambe per svegliare anche il resto del mio corpo.  Mia zia si era alzata non appena si era accorta che il suo richiamo aveva avuto il suo effetto, e mi continuava a fissare cupamente.
-Che succede?- la mia voce usciva bassa e spezzata, e mi schiarii la gola per parlare meglio.
-Paul è al telefono, mi ha chiesto di svegliarti perché vuole parlarti subito- mi disse lei.
-Paul?!- quel nome riuscii a risvegliare ogni cellula ancora assopita nel mio corpo. Non riuscivo a capire per quale motivo mi avesse chiamata a quell’ora. L’orologio della mia stanza segnava che mancavano pochi minuti alle sette, orario in cui, solitamente, ci trovavamo entrambi nel mondo dei sogni.
-Non vorrei allarmarti però mi sembrava molto agitato. Mi ha chiesto se potevo cortesemente svegliarti che aveva un bisogno urgente di sentirti-
Io mi alzai di corsa dal letto e mi avvicinai a grandi passi al telefono nell'altra stanza, senza fermarmi nemmeno a pensare. Afferrai la cornetta grigia e l'avvicinai all'orecchio.
-P-Paul?- feci io, titubante.
-Freddie ciao! Scusami se ti ho svegliata- la voce di Paul mi giungeva lievemente metallica, per colpa della linea disturbata.
-Non preoccuparti... cosa succede? Mia zia mi ha detto che avevi un bisogno urgente di parlarmi- chiesi subito, non riuscendo a trattenere più la curiosità.
-Si tratta di John-
Eccolo là quel secondo nome, che ebbe la stessa forza del primo di mettermi in allarme non appena lo sentii pronunciare. Ma in questo caso era tutto aggravato dal tono che Paul aveva usato per quelle quattro parole: una tonalità triste e angosciata, che lui tentava di nascondere invano.
-Paul che succede? John sta male?!- afferrai con forza la cornetta e l'avvicinai ancora di più all'orecchio, come a non voler perdere nemmeno il più sottile respiro di Paul. Un profondo terrore mi pervase, immaginandomi mille e più modi in cui John avrebbe potuto stare male.
-Fisicamente sta bene, tranquilla non è quello che lo fà stare male. Freddie devo dirtelo- Prese un profondo respiro, prima di dire quella frase.

-Julia è morta-

Per un momento non realizzai quello che aveva detto il mio amico, cercando di afferrare il significato di ogni singola parola.
-Morta?-
-E’ stata investita ieri sera- precisò lui, pronunciando dolorosamente quella frase.
-Non è possibile...- mi sentivo come dentro un sogno, ovattata, come se fossi in uno dei miei incubi.
-Non ho altri dettagli che posso dirti per telefono. Ho solo una richiesta: ti prego vieni subito a Blomfield Road. John ha bisogno di entrambi- mi supplicò lui.
-Certamente, arrivo subito- chiusi la cornetta senza aspettare che mi salutasse, mentre rielaboravo quella frase dentro di me.

Julia è stata investita.

-Cosa è successo?-
Mia zia si sporse dallo stipite della porta appena avvertii che avevo finito di parlare. Aveva evitato di ascoltare la conversazione, ma era comunque preoccupata e non riuscì a trattenersi dal farmi quella domanda.
-Julia è morta- le risposi, come se stessi dando l'annuncio della morte di qualcuno che non conoscevo.
Ma io la conoscevo bene. Julia era la risata fresca e cristallina che accompagnava ogni battuta che faceva, quella gonna che svolazzava libera per le strade, quei capelli che si illuminavano come fuoco liquido sotto i raggi del sole estivo, la confidente delle mie passioni, la donna che mi riempiva di profondi abbracci appena mi incontrava, con quel suo profumo che sapeva di pulito, libertà e giovinezza. Questa era la mia Julia. E ora non c'era più. E il pronunciare tale realtà a voce alta mi diede una scossa violenta, facendomi sussultare un momento. Fu solo in quel momento che realizzai davvero che quella era la realtà e non uno dei miei peggiori incubi, e questa consapevolezza portò con sé una feroce reazione. Scoppiai a piangere, un pianto disperato che rigava il mio volto e puntellava le mie mani, che invano tentavano di fermare le lacrime. Ma sfrontatamente esse continuavano la loro corsa senza sosta, facendomi vibrare ogni muscolo, non riuscendo a controllarmi. Mia zia subito si strinse forte a sé, cercando di coprire con il suo corpo quella crudele verità.
-Piccola mia, sono davvero dispiaciuta per la tua perdita- mi disse lei.
-Che succede?- mio fratello sbucò fuori dalla sua stanza, guardandoci preoccupato.
-Nulla piccolino, stai tranquillo- gli disse la zia, voltandosi leggermente verso di lui.
Lui non sembrava esserne convinto, perché mi guardò qualche secondo per poi unirsi al nostro abbraccio. Probabilmente nemmeno sapeva cosa mi stava accandendo, ma la naturale empatia dei bambini lo spinse a coccolarmi e farmi sentire il suo calore e il suo affetto. Rimanemmo alcuni minuti tutti e tre stretti, con entrambi che cercavano di far smettere quella mia reazione disperata.
-Tesoro mio- disse mia zia, separandosi da me –So che in questo momento stai male e vorrei porterti lasciare sfogare in pace il tuo dolore, ma devo ricordarti che non puoi concederti questo lusso: ci sta una persona che ha bisogno di questo molto più di te-
- J-John- dissi, reprimendo un singhiozzo.
-Esattamente. E sono sicura che tu non vorresti mai e poi mai lasciarlo da solo-
Annuii alla sua affermazione. Per un attimo avevo pensato solo a me stessa, ma non ero io ad aver perso nuovamente la mamma.
-Mi preparo per andare subito da lui-
-Bravissima- mi rispose lei, baciandomi la fronte.
Mi ricomposi un momento, indossai degli abiti comodi e mi diressi verso casa di Julia. Prima di uscire mia zia mi chiese se volessi mangiare qualcosa, ma rifiutai più volte non riuscendo ad ingoiare nulla. Poco prima di uscire lei mi sorrise e mi disse –Sono fiera di te-
La ricambiai con una debole smorfia e lasciai quella casa, dirigendomi a grandi passi verso la mia meta. Un pallido sole splendeva sopra di me, beffardamente inappropiato in quell’occasione. Come poteva il mondo sorridere ancora, dopo che una delle sue creature più allegre e vitali aveva appena abbandonato questa terra?
Il cuore battè all'impazzata nel petto quando avvistai il profilo chiaro dell'abitazione di Julia, dall'alto comignolo e il cancelletto scuro, che ad ogni passo si faceva sempre più vicino. Superai il vialetto e battei tre volte alla porta, cercando di preparare qualcosa di sensato da dire a chiunque avesse aperto.

-George...- feci io, stupita di trovarmelo là davanti. Ma dovevo aspettarmi che ci fosse anche lui: dopottutto ormai era uno dei migliori amici di John.
-Ben arrivata- mi rispose lui.
Mi fece accomodare all’ingresso e mi guardai intorno: la casa appariva deserta, avvolta in un gelido silenzio, come se fosse defunta l'anima stessa di quel posto.
-Le bambine e il signor Dykins...-
-E’ passato a prendere le figlie una mezz’ora fa, per portarle da un loro parente-
Annuii a quelle brevi informazioni che mi dava.
-E voi due come avete saputo?-
-Merito di Paul, mi ha chiamato poco fa. Lui e John dovevano vedersi questa mattina e trovando Mendips vuota è venuto qui-
-Una fortunata coincidenza…- commentai.
Lui non disse più nulla, e mi accompagnò nel salone, dove trovai Paul e quelle povere spoglie che un tempo erano il sarcastico John Lennon. Fu una visione che mi strinse il cuore: John era accovacciato sul divano con le gambe strette, nascondendo dietro di esse il suo volto. Paul era seduto vicino a lui e stringeva con forza la sua mano. Le loro dita erano intrecciate in una stretta perfetta, sovrapponendosi le une alle altre, dando l'impressione che nulla le avrebbe potute separate. Nessuno dei due parlava, sembravano essere persi in un mondo diverso. Paul osservava John con un’espressione disperata e malinconica: conosceva benissimo quel sentimento. Aveva lo sguardo di chi può capire, di chi sa e non riesce a stare lì immobile a guardare il suo amico subire quella stessa identica punizione. Ma rimaneva comunque là, con le mani intrecciate alle sue e con gli occhi ben aperti, a guardare John e il suo dolore. Vi era una sorta di atteggiamento quasi paterno: sembrava pronto ad insegnargli tutto quello che la sua esperienza gli aveva fatto apprendere, come accogliere quel dolore ed elaborarlo, tenerlo stretto a sé e metterlo in un angolo del proprio cuore, perchè anche quel sentimento faceva parte del suo rapporto con Julia.

Io avrei saputo fare tanto?

Come se i nostri sguardi avessero potuto esercitare un certo richiamo in lui, Paul alzò la testa e ci guardò un secondo, mostrandomi chiaramente i segni di lacrime da poco versate.
-Ciao Freddie-
A seguito di quelle parole anche John alzò la testa e mi guardò. Aveva la faccia stanca e pasticciata, gli occhi lucenti e ogni altra parte del suo corpo appariva arrugginita da quella sofferenza. L'ombra del mio migliore amico era un involucro stropicciato, dolorante e annientato. Si mise seduto composto con movimenti lenti e sgraziati, probabilmente stanco di quella posizione. Aveva lasciato solo un momento la mano di Paul, per poi ricercarla subito, come se non riuscisse a starne senza. Continuava a guardarmi, incapace di dirmi qualsiasi cosa.
Ma non avevo bisogno di sentire nulla. Non ci furono parole, solo azioni: seguii solo quello che l’istinto e il cuore mi dicevano di fare e mi accovacciai a terra accanto a lui, poggiando la mia testa sulle sue gambe. Accarezzai dolcemente e con movimenti circolari la sua coscia, come a voler imitare le dolci carezze che gli dava la sua mamma. Ero stata guidata naturalmente a quella posizione, volendo accoccolarmi su di lui ed essere la sua coperta contro tutti i mali del mondo.
-La mia mamma non c'è più- mi disse lui.
Anche George si avvicinò a noi, sedendosi alla sinistra di John e poggiando la testa sulla sua spalla, mentre la mano del mio amico veniva stretta da quelle più piccole di George. John versò alcune lacrime in silenzio, senza dire nulla, senza sentirsi intimidito di mostrarsi così debole ai nostri occhi.
Rimanemmo in quella posizione per un tempo che parve infinito, senza stancarci, senza che nessuno volesse disertare il suo compito. Non lo avremmo mai abbandonato. Piano piano le lacrime vennero meno e John si calmò abbastanza per sbiascicare alcune parole. Come era capitato in passato, anche in quell’occasione si sentiva di dover spiegare quello che era successo, come a giustificare il suo comportamento. Un’azione tipica dell’insicuro John Lennon, che non accettava di mostrarsi debole troppo a lungo. Cominciò una specie di breve racconto di come avesse scoperto la notizia; erano per lo più piccole frasi con grandi pause nel mezzo, commentate a bassa voce e ripetute con estrema fatica. Ci parlò del poliziotto che era venuto a bussare alla loro porta, frantumando la vita che stava creando insieme alla madre, della loro folle corsa al Sefton Hospital (1) e della conferma delle loro paure: Julia Stanley Lennon era morta quella notte, poco prima dell'arrivo dell'ambulanza, tra le braccia di sua sorella Mimi (2).
John sarebbe dovuto andare con lei a Mendips quel giorno (3), ma non voleva sorbirsi le chiacchiere sulla sua educazione, sulla chitarra e sulla poca voglia che aveva di studiare. Per questo aveva desistito alle richieste della madre, che si era arresa: lui l’aveva salutata con un semplice "Ci vediamo più tardi" (4). Nessun "Ti voglio bene", nessun abbraccio: solo un frettoloso bacio, due paroline, ed era tornato alle sue letture.
E poi Julia era morta, lontana da lui. Se ci fosse stato anche lui quella macchina non avrebbe mai preso l'ultimo respiro di Julia, lui non l’avrebbe permesso. Non l’aveva difesa, non l’aveva protetta, ed ora era troppo tardi per rimediare.
Eric Clague (5), era questo il nome del suo assassino. Era un poliziotto, come lo era quel messaggero di morte che bussò alla porta bianca di Bloomsfield Road.
Julia era morta e con lei anche la ragione se ne era andata. Davati agli occhi di John, tutti sembravano marionette impazzite, in preda ad una follia dilagante. Mimi piangeva istericamente, perdendo quella corazza che l'aveva protetta per anni, e Bobby… lui fece ben di peggio. Come John, non riuscì ad entrare nella sala dove le membra malconce di Julia erano state adagiate, svenuto non appena aveva appreso la notizia. Quando riprese i sensi erano solo lui e John, poiché Mimi si trovava nella camera mortuaria. Quella stessa Mimi che aveva pianto disperata, ma aveva ripreso la sua leggendaria forza non appena ve ne era stato bisogno. Mentre loro due, due uomini, tremavano peggio di due bimbe spaventate, seduti in quella sala d’attesa.
-Come farò adesso con le bambine? Chi si occuperà di loro?- sbiascicò, dopo qualche minuto di silenzio.
John gli lanciò uno sguardo carico d'odio, seguito da una vagonata di insulti. Come poteva pensare a queste cose quando un muro lo divideva dal corpo della compagna, che ancora non aveva perso del tutto il calore umano?
Si alzò e se ne andò, lasciando Bobby in stato di shock e abbandonando Mimi, l’unica ad aver mantenuto in qualche modo il controlllo della situazione (6).
Ed ora era là, a riferirci questi particolari. Ci furono alcuni minuti di silenzio, in cui nessuna sapeva bene quale fosse la cosa migliore da dire a John, in che modo sollevare questo peso che schiacciava la sua anima. Ma non esistevano parole che avrebbero riportato indietro sua madre.
Il brontolio allo stomaco di George interruppe questi pensieri, facendoci voltare verso di lui.

-George?!- gli fece Paul, sgranando gli occhi.
-Be è passato mezzogiorno, io ho fame- ammise lui, senza mostrare un minimo di vergogna.
Io, John e Paul scoppiammo a ridere, e fummo grati a George che aveva stemperato quel momento di pesante silenzio.
-Ok, ho capito- fece Paul, alzandosi dal divano -Vorrà dire che vi mostrerò le mie grandi doti culinarie. Posso usare la cucina John?-
-Sono disperato, ma non fino a questo punto...- gli rispose.
-Ehi!- fece Paul, gonfiando le guance.
-Diamogliela una chance John- risi io, vedendo la buffa espressione di Paul.
-Ok- gli concesse, con un piccolo ghigno che si fece strada sul suo volto -Ma poi pulisci tutto tu, ovviamente-
Paul annuì, deciso di farsi valere dopo la sfida che inconsciamente gli aveva lanciato John. Lasciò il comodo divanetto e si avvicinò alla cucina, ma prima di andarsene si voltò verso di noi.
-George vieni, avrò bisogno del tuo aiuto-
-Oh ma perchè proprio io??- sbuffò lui.
-Perché sei tu che hai iniziato con questa storia- gli disse lui –Ma vedi di non mangiarti tutti gli ingredienti prima che io abbia finito-
George fece un’alzata di spalle –Questo non posso promettertelo-
Mentre le figure di George e Paul sparivano alla nostra vista, io e John ridacchiavamo, immaginandoci le imprese che avrebbero compiuto dentro la povera cucina.
-Sono contenta di vederti sollevato. Anche se fosse solo per questi pochi minuti- gli dissi, mentre mi accomodavo sul divano accanto a lui.
-Dopo la nottata passata da solo dentro questa casa vuota avevo proprio bisogno della compagnia dei miei amici- mi rispose, rilassandosi sul suo posto.
Io sgranai gli occhi -Ho capito bene? Hai detto veramente una cosa gentile? Tu? John Winston Lennon?-
-Io sono sempre gentile- mi disse lui, assumendo un espressione convinta.
-Sarà- feci io -Però davvero, mi fa piacere essere qui. Appena ho saputo la notizia mi sono precipitata subito!-
-A proposito, come hai fatto a saperlo?- mi chiese lui.
-Mi ha chiamata Paul, e gli sono davvero grata per averlo fatto -
-Come? Paul ti ha chiamata? Quando?-
-Uhm circa mezz’ora prima che arrivassi- feci mente locale io.
-E come ha fatto?- mi chiese sorpreso.
-Ha alzato la cornetta e ha composto il mio numero di telefono sulla tastiera?- gli dissi io, ironica.
-Intendevo: come faceva ad avere il tuo numero?- ripetè lui.
Rimasi perplessa da quella domanda di John –Umh… deve averlo letto nella rubrica accanto al telefono-
-Mezz’ora prima che tu arrivassi lui si trovava già qui. E l’unico quaderno in cui è scritto il tuo numero si trova a Mendips in questo momento…-
-Allora non so, forse se lo sarà ricordato- tentai.
-Perché vi sentite spesso? E' per questo che lui lo sa?- vidi un'ombra aleggiare sul volto di John.
Mordicchiai un labbro, preoccupata di ammettere la verità. Io e Paul ci eravamo sentiti per telefono in alcune occasioni, e lui aveva i numeri delle mie case, sia quella di Londra che quella di Liverpool. Ma anche John li aveva, ed erano capitato che avessi chiacchierato anche con lui attraverso quello strumento. Perchè mi stavo preoccupando? Non ci stava nulla di male nel parlare per telefono con Paul. John sapeva persino della nostra corrispondenza e non aveva detto nulla. E poi perché avrebbe dovuto?
-Be ci sentiamo ogni tanto- dissi alla fine.
John mi guardò un momento prima di scoppiare a ridere. Una risata sguaiata, che mi fece sussultare dal mio posto. Era un suono che non prometteva nulla di buono.
-Avrei dovuto immaginarlo, ecco perché corsa qui. Il tuo amato Paulie ti ha chiamata e tu dovevi esserci-
-Ehi, che cavolo stai dicendo?- gli dissi, infastidita.
-La verità. Tu sei qui per lui- il tono della sua voce si faceva sempre più stridulo.
-John non devi nemmeno dirle queste cose! Io sono venuta per starti vicina- dissi, avvicinando la mia mano alla sua. Appena lo sfiorai lui la ritrasse indietro, come se il mio tocco l’avesse scottato.
-Non dire stronzate! Tu sei qui solo per lui. Dopotutto è dallo scorso anno che muori dalla voglia di scoparti quel bimbetto!- si alzò in piedi, spalancando le braccia e gridandomi quelle parole.
-John ma cosa cazzo stai dicendo! Come puoi pensare cose simili?- mi alzai anche io, volendolo fronteggiare. Mi sentivo persa, non sapevo che dire e fare. Come poteva dubitare della nostra amicizia?
-Mi attengo solo ai fatti. Ma cosa potevo aspettarmi da una come te? Credi di essere unica? Appena ti si sarà portato a letto ti scaricherà subito. Forse se ci impegniamo anche io e George potremmo divertirci un pochino con te!- un sorriso maliziosamente crudele accompagnò quella frase. La cattiveria di quelle parole mi colpiva come freccie, penetrando con dolore nel mio corpo.
-Anche se stai male non ti permetto di dirmi cose simili... capisco che è il dolore a farti parlare ma...-
-Dolore?- rise lui -No, è la lucidità: mi sono stufato di averti intorno, sbavante per quel tipo-
-John smettila!- urlai, tappandomi le orecchie e chiudendo gli occhi. Stavo cercando di non sentire e non vedere quel mostro che avevo davanti. No, non poteva essere John, non lo avrei accettato.
Lui mi afferrò per i polsi, stringendo forte e costringendomi a guardarlo negli occhi -Che fai ti nascondi? povera piccola Freddie, si trova con le spalle al muro! E ora, cosa hai da dire in tua difesa?-
-Mi fai male, basta John, ti prego lasciami andare!- urlai, disperata.
-Che diavolo sta succedendo?!- fu Paul ad interrompere la scena, cogliendo me e John in piedi, mentre lui troneggiava su di me schiacciandomi con la sua forza.
John mollò la presa, guardando con un sorriso cattivo il suo amico -Ma ecco qua il nostro principe azzurro pronto a salvare la sua dama! Aspetta, ma non eri tu la principessa?-
George si affacciò dietro di Paul, guardandoci preoccupato.
-John?!-
-Toh ma guarda, ci sta anche il suo fedele scudiero! Allora dovrò affrontarvi insieme?- scrocchiò le dita, come a volersi preparare per una scazzottata.
-Ma che dici? Che sta succedendo?- rispose confuso George.
-Stavo solo parlando con Freddie. E' giunto il momento di mettere in chiaro questioni rimaste in sospeso- rispose John con noncuranza, lanciandomi un’occhiataccia.
Paul fu l’unico ad avvicinarsi a noi, senza rispondere nulla a John. Sentivo il suo sguardo su di me, ma evitavo di guardarlo. Sapevo che avrebbe avvertito tutta la paura che stavo provando nei confronti del nostro amico e volevo solo che quella situazione terminasse. Ma non ci voleva un genio per intuire che stava succedendo qualcosa, la tensione era abbastanza palpabile senza bisogno di ulteriori parole. Paul si fermò davanti me e mi afferrò con dolcezza le mani, accarezzandomi i polsi doloranti. Aveva notato la presa forte con cui John mi teneva stretta, che aveva lasciato dei lunghi segni rossi sulla mia pallida pelle, l’impronta delle lunghe dita di John. Si voltò a guardarlo, in un misto tra rabbia e sbigottimento per quanto aveva fatto.
-Cosa diavolo pensavi di farle? Sei impazzito forse?- chiese, con un tono duro.
-Le stavo solo ricordando quello che è in realtà. Una puttana- rise di nuovo, in quel modo perfido come mai lo avevo sentito.
-John ma come ti permetti?!- gli occhi di Paul erano pieni di rabbia –Non osare mai più dirle una cosa simile!-
-Perché tu cosa farai?-
-Qualsiasi cosa, nessuno deve offendere Freddie in questo modo, o può farle del male-
Guardai un secondo Paul, che prendeva così cavalieramente la mia difesa. Poi mi voltai verso di John che ci guardava come se si sentisse smarrito. Spostò lo sguardo da lui a me, e poi sulle nostre mani, con quelle di Paul intente a massagiare dolcemente i miei polsi feriti. Come se quel tenero gesto fosse stato un affronto nei suoi confronti, vidi la sua espressione mutare. Quel ghigno malefico si distorse, distendendo i lati della sua bocca e facendogli contrarre i muscoli facciali. L’ulteriore lieve carezza di Paul fu quel qualcosa che fece scattare John. Con una ferocia che non gli avevo mai visto si scagliò contro di lui: il suo pugno destro incontrava la bianca guancia del nostro amico, stendendolo a terra. Io vidi quella scena a distanza ravvicinata, trattenendo il fiato, incapace di credere a ciò che avevano visto i miei occhi. In un secondo, io e George ci precipitammo verso di Paul, dolorante a terra. John ci guardava, tremando dalla rabbia.
-Paul!- urlammo in coro.
Paul alzò leggermente, sedendosi sul pavimento, sostenendosi con il braccio sinistro mentre con la destra si toccava il labbro sanguinante. Io mi chinai accanto a lui, accarezzando il suo volto, non riuscendo ancora a credere a quanto era appena accaduto. John mi scansò da lui con una piccola spinta, che mi fece quasi cadere a terra. Subito George si mise in mezzo, cercando di fermare la follia del suo amico, ma rimediando solo una gomitata sullo stomaco, che lo fece cadere a terra dolorante.
-Vattene immediatamente da questa casa, sporca immigrata!-
Le parole urlate di John mi fecero tremare. Colui che anni prima aveva spezzato il mio muro fatto di incertezze, ora stava recuperando i mattoni che avevamo gettato a terra e me li stava tirando contro.

"Sporca immigrata".
Scappai via da quella casa, con le lacrime che mi appannavano la vista. Fu una corsa folle e disperata, mentre dentro di me si ripeteva quella frase.
"Sporca immigrata".

L'unica persona che non mi aveva giudicato, che non mi aveva crocifisso per quella mia diversità, che mi aveva fatta sentire per la prima volta a casa, ora rimarcava con rabbia quel particolare. Quei due piccoli nomi sulla mia carta d’identità, che segnavano l'unica differenza tra di noi.

Nata a Roma, Italia.
Con quelle due parole anche il mio mondo sembrava essersi spezzato definitivamente.
 
***
 
Ero crollata sul letto dopo essermi disperata per ore, fremendo a causa dell'eccessiva forza del mio pianto. Mia zia aveva ascoltato ogni singola parola strozzata, accarezzandomi la mia schiena e cercando di placare con le sue amorevoli attenzioni i continui sussulti che pervadevano il mio corpo.
Tentò due volte di chiedermi una spiegazione, ma si arrese quandò capì che non ero in grado di dire qualcosa in modo sensato. Non avrei potuto, ero fin troppo sconvolta per ripetere a voce alta tutti gli insulti. Puttana, maledetta immigrata. John sapeva bene quale fosse il mio punto debole e senza alcuna indecisione lo aveva colpito in pieno, andando dritto verso il suo scopo: la mia distruzione.
Mi addormentai e svegliai più volte, senza mai dimenticare quello che era successo, spezzata dal dolore. Sentivo gli occhi pulsare e i miei arti intorpiditi dalla scomoda posizione, ma non mi accennavo a muovermi. Le ore passavano lente e inesorabili ogni volta che mi svegliavo, inchiodandomi a quella realtà. Più volte mia zia e mio fratello bussarono per chiedermi come stessi o se avessi bisogno di qualcosa. In realtà Chris era ancora piccolino per capire, ma come in precedenza aveva avvertito che qualcosa non andava e con il suo modo di fare infantile tentava di essermi vicino. Ero grata del loro affetto e sostegno, ma necessitavo di starmene da sola. Rifiutavo cortesemente la loro presenza, non avendo voglia di scagliare contro nessuno le cattiverie che si erano accumulate nella mia mente. Mi rigirai ancora, più volte, non accettando la realtà che mi trovavo a vivere.

Poi, udii quasi in lontananza bussare alla porta.
-Posso entrare?-
La voce di Paul interruppe il dilagare di quella sensazione senza fine.
-Paul?!-
Mi alzai a fatica e piano aprii la porta, trovandomi di fronte la dolce espressione del mio amico, storpiata dal piccolo taglio che aveva a destra, sul labbro inferiore.
Lo feci accomodare in stanza e ci sedemmo entrambi sul letto.
-Tua zia mi ha fatto entrare, sperando che potessi aiutarti a star meglio...- disse piano, incerto se avrebbe o meno potuto soddisfare quell’aspettativa.
-Hai sentito cosa mi ha detto?-
-Si. E sono qui per questo-
Le braccia di Paul si strinsero intorno al mio corpo, facendomi poggiare la testa sul suo petto. Sentivo il suo cuore così vicino, che bussava su quella parete in cui mi ero accostata. Batteva al mio stesso ritmo, irregolarmente veloce. Mi strinsi a lui, aggrappandomi alla sua maglietta scura, mentre mi cingeva le spalle e mi alleggeriva con quel suo atteggiamento protettivo. Ero confusa, emozionata, ma anche triste, insicura e devastata. Non avrei mai e poi mai voluto che accadesse tutto ciò, che Paul fosse colpito da John e che poi lui mi avesse riversato contro tutto il suo odio. In cosa avevo sbagliato? Non riuscivo a darmi una vera e propria risposta. Ma in quel momento non volevo ulteriormente torturare la mia mente con quel pensiero: ero bisognosa delle attenzioni che Paul mi stava dando, mancando di tutta la sicurezza che John mi aveva aiutata a costruire nel corso degli anni. Con quel suo modo di fare così schietto, affettuoso e sensibile, Paul mi aveva avvolta a sé, ripetendomi tutto quello che volevo sentirmi dire, senza opporre alcuna resistenza a quelle lacrime che bagnavano i suoi vestiti.
-Mi spiace di esserci solo ora- iniziò lui -Ma dovevo stare con John. Lui... è impazzito dal dolore, dalla gelosia, da tutto quello che è successo. Lui vorrebbe cambiare tutto ma non può farlo. Quindi fa lo stronzo e calpesta chiunque si trovi davanti, sopratutto chi ama con tutto il cuore, a cui riserva il trattamento peggiore-
-L-lui mi- dissi, senza finire la frase.
-Ti ha detto una cosa orribile con l'intento di farti male. E lo sapeva bene. Lui doveva difendersi, avendo paura di essere lasciato solo-
"Io non lo farei mai!" pensai. Poi rividi davanti a me la scena della mia fuga e capii che l'avevo fatto. Avevo abbandonato John, nonostante tutte le mie promesse. E il fatto che fossi stata cacciata da lui non aveva alcun valore: avevo lasciato John da solo con il suo dolore.
-Lui ti vuole bene con tutta la sua anima, lo dico davvero. Con me è riuscito solo a piangere un po’ ma quando sei arrivata tu è riuscito a sfogarsi e togliere quel tappo che gli impediva di esprimere i suoi sentimenti: e solo in quel modo può superare la situazione. E’ stata la tua presenza e la tua vicinanza ad aiutarlo, da solo non ci sarebbe mai riuscito. John è distruttivo di carattere, e non sà prendersi cura né di se stesso né degli altri. Purtroppo quando si ama troppo qualcuno si ha timore di perderlo, ed è per questo che si compiono azioni impensabili-
Rimasi accoccolata ancora tra le sue braccia, mentre quelle vellutate parole lenivano quella ferita aperta. Paul era l’unico che sapeva come si potesse sentire John, l’unico a capirlo, e che potesse perdonare quel gesto violento che gli aveva rovinato il volto. Fu grazie a lui se riuscii a rilassarmi e a tornare alla lucidità. Se non fosse stato per il suo appoggio forse le cose sarebbero peggiorate, e non so se avrei perdonato John per quella sua sfuriata. Per lo meno, non in tempi abbastanza brevi per poter aiutare il mio amico. In quel periodo non ero forte abbastanza per subire quell’aspetto del mio amico e restargli comunque accanto; non ero ancora matura per capire il suo sentimento e non lasciarmi scalfire. Ero solo una ragazzina che credeva di sapere tutto su John Lennon, ma che stava scoprendo quanto quell’idea fosse sbagliata. Anche quello era John, e nonostante la perfidia che aveva dimostrato avrei dovuto imparare ad amare anche quel suo lato.
-Ora devo tornare da lui. E' mio compito stargli vicino, nonostante tutto- disse, indicando il piccolo taglio che si era procurato.
-Sei davvero un buon amico- commentai con un sorriso, sotto gli occhi gonfi dal pianto.
-L'esperienza mi ha aiutato in questo genere di cose, e per una volta posso sfruttarla in modo positivo- disse, sospirando.-E voglio farlo, voglio troppo bene a quel cretino-
Sorrise dopo quella frase, di un sorriso stupendo, che nemmeno il nuovo difetto sul suo volto poteva scalfire, interrompendo comunque la linearità della sua bocca. In quel momento mi apparve ancora più bello del solito, come se quella sua sensibilità fosse un ulteriore adornamento alla naturale grazia di quel ragazzo.
-Il 21 faranno il funerale e tu devi venire. Per John è importante che tu ci sia- mi rivelò.
-E dici che sarà felice di vedermi?-
-Sicuramente, anche se non lo darà a vedere la tua presenza è fondamentale per lui. E stavolta ci sarò io a sostenerti e difenderti, se ricomincerà a fare lo stronzo- mi promise lui.
-Ma come fai a saperlo? Come fai ad essere sicuro di tutto ciò?- la mia incertezza parlò per me.
-Perchè è impossibile non volerti bene-

Mi diede un leggero bacio sulla guancia e in leggero imbarazzo mi salutò, dicendomi che sarebbe passato domani a vedere come stavo. Come era comparso improvvisamente allo stesso modo lasciò la mia camera e me stessa, su quel letto, in preda ad un turbinio di sentimenti diversi. Il dolore aveva fatto posto alla dolcezza, la vergogna, la confusione per quelle parole e quel gesto di Paul, che mi aveva stretto lo stomaco e fatto rabbrividire il corpo. Ma non era una sensazione negativa, anzi. Il calore prodotto aveva lo straordinario potere di allontanare la gelida tristezza che mi aveva attanagliata per ore.

Fissai ancora per un momento la porta, da dove era appena uscito il mio principe azzurro.
 
***
 
Lo spiazzale davanti alla chiesetta era insolitamente occupato, quel lunedì mattina. Una piccola folla di persone in abiti scuri cercavano di sfuggire a quel sole di Luglio, con i suoi raggi che penetravano con insistenza nel tessuto dei loro vestiti, impregnandoli del proprio calore. L'atmosfera era smorzata, leggera, e tutti erano riuniti in piccoli gruppetti a parlottare tra di loro. A bassa voce, come se quel loro chiacchiericcio fosse irriverente verso il dolore della famiglia. Ma in realtà erano irriverenti anche solo con questo loro modo di fare.
Era proprio tra quella ipocrisia in abito funebre che mi snodai, alla ricerca del mio migliore amico. Quelle facce così simili mi confondevano la vista, ma non mi diedi per vinta e continuai la ricerca, finchè una mano non mi afferrò e bloccò ogni mio movimento.
-Pete!-
-Quanto tempo Freddie. Peccato doverci incontrare ad un occasione simile- mi sorrise debolmente lui.
Era da un bel po’ che non lo vedevo, precisamente dalla scorsa estate, quando aveva lasciato i Quarry Men. Da quel momento lui e John si frequentavano di meno, e in questo modo anche i miei contatti con lui erano diminuiti.
-Già- gli risposi -Stavo cercando John...-
-Lo immaginavo. Vieni ti accompagno da lui, ci sono appena stato-
Pete mi guidò verso il retro della chiesa, in un piccolo spazio verde, dove i ragazzi erano seduti insieme a John. Potevo vederlo parlare con Paul, George e Ivan, con l'aria sbattuta e due grandi occhiaie che dominavano sul suo volto. Era accovacciato su un piccolo muretto, soffocato dalla lunga giacca nera e strozzato da quella cravatta. I suoi capelli erano al loro posto, senza il solito gel ad acconciarli, e il suo beffardo sorriso era scomparso.

-Ciao John- dissi, facendo voltare tutti quanti. Ivan e George mi salutarono, e anche Paul, che mi guardò con una punta di soddisfazione negli occhi, sicuramente fiero del mio coraggio.
Mi avvicinai a John, il cui sguardo era fisso su di me.
-Sei qui-
-Sono qui- ripetei -E non scapperò più via-
Incrociai quelle iridi chiare, senza battere ciglio. Cercavo di captare come quella notizia potesse essere accolta da lui.
-Ok- mi rispose semplicemente.
Detto questo rimasi accanto a lui, senza aggiungere altro. Parlai poco con tutti quanti, maggiormente interessata ad osservare John e le sue reazioni. Non sapevo se qualche mio comportamento potesse infastidirlo, e quindi mi decisi ad aspettare che fosse lui a dirmi cosa fare.
Poco prima di entrare in chiesa John mi disse piano "siediti accanto a me".
Io annuii, felice che mi fosse ancora concesso di stargli accanto, e lo seguii dentro quell’edificio, sedendoci nelle prime panche presenti nella grande navata. Quando furono entrati tutti, fu il turno di Julia. Una bara lucida, di legno chiaro, venne trasportata da quattro uomini dalle spalle larghe abbastanza per portare quel piccolo involucro che conteneva le spoglie di Julia. Mi strinse il mio cuore pensare a quella donna così piena di vita, che giaceva fredda e rigida nel suo contenitore. John fu il primo a voltarsi a guardarla, ma fu per un solo momento. Lo vidi rigirarsi subito e stringere con forza i pugni, a voler fermare le lacrime. Con un moto di coraggio afferrai la sua mano e l’accarezzai, e gli sussurrai “non sei da solo”. Lui mi guardò un momento e poi strinse la mia con forza maggiore, lanciandomi un debole sorriso.
Rimanemmo stretti l'uno all'altra per tutta la cerimonia e persino dopo John non dava segni di voler abbandonare la presa; quindi mi feci guidare da lui, che riceveva le condoglianze dei vari parenti. I nostri amici si avvicinarono e si strinsero nuovamente intorno a John, che rispose con vaghi sorrisi a quel calore che gli emanavano. C'erano tutti: Ivan, Pete, Colin, Bill, Vicky... e Nigel. Era comparso dal nulla, senza che ce ne rendessimo conto. Alla sua vista, John mollò per la prima volta la mia mano e si avvicinò a lui, spintonandolo con rabbia.
-Cosa cazzo ci fai qui? Vattene via! Non permetterti mai più di starmi vicino!-
Nigel perse l'equilibrio e cadde a terra, venendo subito soccorso da Pete. Gli occhi di quel ragazzo erano pieni di lacrime e non aveva la minima forza di rispodergli. Sbiascicava solo vari "ti prego" "mi dispiace", ma nulla che avesse la forza di scalfire l'animo indurito di John. Tutti lo guardavano sbigottiti e non capivano il motivo di quella reazione.
-Lasciatemi da solo porca puttana!- gridò lui, mentre si allontanava con le mani in tasca, lasciandoci tutti in quello stato.
Paul stava per farsi avanti, ma lo superai.
-John aspetta!- gli corsi dietro, mentre gli altri chiedevano spiegazioni a Nigel.
Afferrai per un soffio il braccio di John e lo obbligai a girarsi. I suoi occhi erano lucidi e non lasciavano posto ad alcuna rabbia: solo tanta amarezza.
-Scusami-
Io rimasi un momento a bocca aperta, a sentire quelle parole.
-Scusami, sono il peggiore degli stronzi, ho un carattere di merda-
Se poteva essermi rimasto un briciolo di rabbia verso di lui fu cancellato in quell’istante, quando lo trascinai verso di me e lo strinsi tra le mie braccia, mentre lui posava con delicatezza la testa nell'incavo del mio collo.
-Tu sei solo il mio John, nient'altro. E nessuno potrà farmi cambiare l'affetto che provo per te-

A quelle parole, John si strinse ancor più forte a me, scoppiando nuovamente a piangere. Dieci, cento, mille lacrime: quante erano quelle che John aveva versato per la sua povera mamma in quei giorni? E quante ne avrebbe versate nel corso della sua vita? Innumerevoli. E io non potei essere sempre presente per asciugarle tutte, dalla prima all’ultima.
Scoprii poco dopo perchè John aveva avuto quella reazione nei confronti di Nigel: lo riteneva in parte responsabile della morte di Julia. Era stato lui ad incontrarla per ultimo quel giorno, accompagnandola a quella maledetta fermata dove quel pazzo ce l'aveva strappata via (7).
Per nostra fortuna Nigel volle rispettare il dolore di John, e insieme a Pete e Vicky lasciarono la cerimonia. Quella fu l’ultima volta che li vidi. Ma in questo modo John potè concentrarsi solo su quello che provava e che stoicamente cercava di nascondere dietro un volto di pietra. Stesso ed identico atteggiamento che lessi guardando sua zia, donna che era crollata in lacrime davanti al corpo straziato della sorella, e che sarebbe esplosa di rabbia il giorno in cui avrebbero assolto Clague, gridandogli contro "assassino", nonostante la giustizia l’avesse salvato da quell'onta (8).
Julia fu sepolta nel cimitero di Allerton (9), dove si trovavano altri loro familiari. La bara venne calata piano, e vidi John abbandonarsi sulla spalla di Paul, che era sempre e comunque la sua colonna. Guardai quei due ragazzi davanti a me, chiedendomi quanto dolore stessero patendo. Non potevo avere la benchè minima risposta, non avevo mai perso una madre. John viveva la perdita di quella figura genitoriale per una seconda volta, strappata dalla sua esistenza quando era ancora piccolo e faticosamente riguadagnata, solo per perderla di nuovo. E Paul, che subiva nuovamente quell'immagine davanti agli occhi: quel nero che dominava nei vestiti e negli animi dei presenti, le lacrime, e il ricordo di una persona che ormai era ridotto ad un solo nome.

Julia o Mary, ormai che differenza faceva? Entrambi non le avevano più, ma gli restava una sola certezza: la presenza l'uno dell'altro. Si perchè John aveva bisogno di Paul, la cui anima poteva capirlo così bene, e Paul necessitava di consolare John, confronandolo con se stesso e traendone forza per andare avanti. Due ragazzi di sedici e diciasette anni, a cui la vita non aveva concesso sconti, e aveva fin da subito fatto pagare loro un caro pedaggio. Fu grazie alla presenza di George, alle mie carezze e alle parole di Paul che, in piccola parte, riuscimmo a placare il dolore che John provava per la sua perdita.

Dopo quel giorno andai spesso a trovare Julia, ogni qualvolta che arrivavo a Liverpool. Era la mia tappa fissa verso una cara amica a cui non potevo far mancare il mio saluto. Ero sempre là davanti, con gli occhi lucidi persino dopo anni dalla sua scomparsa, ad esaminare quella lastra di pietra scura, perdendomi nella puntellata e liscia superficie, mentre il mio occhio si spostava lungo quei nomi battuti a freddo, che la riunivano ai suoi adorati bambini.
 
"MUMMY
JOHN
VICTORIA (10)
JULIA
JACKIE"
 
NOTE
(1)= Il Sefton General Hospital era un ospedale di Liverpool, che si trovava al L15 2HE di Smithdown Road. Fondato nel 1859 e chiuso nel 1990, fu l'ospedale dove fu portato il corpo di Julia dopo l'incidente.

(2)= John racconta per filo e per segno la sera in cui ricevettero la notizia: stava passando quei giorni a casa della madre, e mentre aspettavano il suo ritorno a casa qualcuno bussò alla porta. Davanti a loro trovarono un poliziotto, pronto ad informarli del tragico incidente. Bobby e John si precipitarono all'ospedale, prendendo un taxi per arrivare prima. John era isterico, e parlava senza fermarmi con il tassista, mentre la meta di quella folle corsa si avvicinava inesorabilmente. Giunti in ospedale dovettero accogliere quella notizia: Julia era già morta intorno alle 21.30 di quella sera, il 15 Luglio 1958, quando il suo corpo non era stato ancora raccolto dall’ambulanza.

(3)= Julia e Mimi avevano un bel rapporto ed erano solite vedersi. Quel giorno, Julia era andata a trovare Mimi a Mendips, e fu poco distante da casa sua, a Vale Road, che avvenne l'incidente.

(4)= Visto che John in quel fine settimana dormiva da Julia, mi sono voluta inventare questo ultimo saluto che si erano dati.

(5)= Julia fu investita da un'auto Vanguard standard, guidato da un poliziotto fuori servizio, Eric Clague. Dopo l'incidente, Clague ha lasciato il corpo di polizia e divenne un postino.
(curiosità: Casualmente, nel 1964, parte del suo giro è stato quello di fornire borse di fan mail a casa McCartney a 20 Forthlin Road.)

(6)= Questa parte, è vera in alcuni punti: è vero il pianto disperato di Mimi, il rifiuto di John di vedere il corpo della madre, lo svenimento e le parole di Bobby. Ho inventato io la reazione di John, che ha permesso di farlo allontanare dall'ospedale e farlo essere là quella mattina, a raccontare tutto l'accaduto ai suoi amici.

(7)= Nigel Whalley era andato a visitare John e trovò Julia e Mimi che parlavano davanti al cancello principale di Mendips. John non c'era perché si trovava a casa di Julia. Nigel si offrì di accompagnare Julia alla fermata più a nord lungo Menlove Avenue, raccontando alcune battute lungo la strada. Verso le 21.30 l’aveva lasciata su Vale Road all'incrocio con Menlove Avenue, allo spartitraffico tra due corsie, fiancheggiato da siepi che coprivano binari del tram in disuso. Subito dopo, sentito "un tonfo forte", e si voltò per vedere il corpo della donna che "volava in aria” (atterrando quasi 30 m oltre a dove era avvenuto l’impatto). Tornò di corsa per chiamare Mimi e aspettarono insieme l'ambulanza, con la donna che piangeva istericamente. Fu per questo che John lo ha ritenuto complice della morte della madre e per moltissimi mesi si è rifiutato di parlare con lui.

(8)= Clague è stato assolto da tutte le accuse, con una breve sospensione dal servizio. Quando Mimi sentito il verdetto ha gridato "Assassino!" a Clague, mentre le forze dell’ordine cercavano di farla calmare.

(9)= Allerton Cemetery, è il cimitero dove il 21 luglio 1958 venne seppellita Julia. Si trova ad Allerton Road, al civico L19. La donna riposa ancora qui in una tomba segnata unicamente da una minuscola lapide (lapide affissa qualche anno dopo, ma che ho voluto inserire fin da subito, trovandola estremamente bella). Si trova nella sezione della Chiesa d’Inghilterra, sezione 38, tomba n.805.

(10)= Victoria fu la seconda figlia di Julia: concepita con un ufficiale gallese, Taffy Williams, durante una delle tante lunghe assenze di Alfred Lennon. La nascita della bambina fu accolta come uno scandalo dalla famiglia e alla fine la madre fu costretta a darla in adozione. In Norvegia la piccola Victoria cambiò il suo nome in Ingrid. Quando John venne a sapere di Victoria fece delle lunghe ricerche nel tentativo di conoscere la sorella. Fu tutto inutile in quanto non riuscì mai a rintracciarla. Solo molti anni dopo la morte di John, Ingrid-Victoria scoprì, in un armadio, i documenti che dimostravano che era la sorella di John Lennon.

ANGOLO DELL'AUTRICE: Vi prego non linciatemi, ho avuto una giornata piena piena piena. Davvero piena. E ho potuto pubblicare solo ora, in extremis...
Che dire, solo leggermente insoddisfatta dal cap, volevo dire di più e meglio, ma ci accontentiamo insomma. Era arrivato il momento della sua morte, purtroppo. Ve lo sareste aspettate? Non so se l'ultima frase dello scorso cap poteva essere di qualche aiuto. Diciamo quindi addio alla nostria Julia, mi spiace abbandonarla la adoro così tanto! Ed è una fan Jeddie anche lei! (ci terrei a precisare che il nome Jeddie per la coppia John/Freddie è stato creato da Cagiu_Dida  due commenti fà, e mi ero scordata di citarla! E ovviamente io sono sempre la persona più banale del mondo e ci ho tratto la Peddie per Paul/Freddie XD Vi piacciono come nomi?)
La canzone, Mother, era l'unica che potevo utilizzare in questa occasione, non credo servano altre parole.
E ora, inizio con il darvi alcune piccole spiegazioni seguite da quelle scuse: diciamo che a prescindere da tutto è un buon periodo per me questo, ma gli impegni mi terranno lontana dal pc per un po'. Questo week end starò alla Jus in Bello VI, la convention su Supernatural, una serie tv che seguo, mentre la prossima settimana, quella del mio compleanno (25-29 maggio), me ne andrò a fare la pazza a Liverpool con Anya a sperperare per bene i nostri soldi eheh <3
Quindi per questo sono costretta a mettere come data del prossimo capitolo domenica 24 maggio
(chiedo davvero perdono in ginocchio!).
Inoltre, vi avviso che vi aspetteranno bei capitoli pieni fino ad Amburgo (che ho iniziato a scrivere ora): io li trovo interessanti per lo sviluppo dei personaggi, saranno piccoli corridoi che spero possiate apprezzare <3 Si tratta di circa 4/5 cap, non di più!
Ora passiamo ai ringraziamenti: sempre grazie a Anya povera anima che continua a subirsi tutte le mie paranoie (e che non ha potuto betare questo cap, ve lo dico perché se è pieno di errori è solo colpa mia!), e il mio fantastico trio che mi lascia sempre tanti commentini carini
Cagiu_Dida, Penny e Jude: sappiate che se pubblico con attenzione ed entusiasmo è grazie a voi <3
Al prossimo capitolo
Baci
White
  
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