Salve a tutti...chiedo venia per il tremendo ritardo nel pubblicare
(*sorride imbarazzata*)... ma spero di farmi perdonare con questo
nuovo capitolo (*sfoggia due enormi occhioni da cane bastonato*).
Grazie a tutti quelli che mi seguono e che sostengono Belle nella
sua stramba avventura.
Sbuffò.
Il tempo sembrava non passare mai in quella stanza. Si alzò
da sopra il
davanzale,
camminò avanti e indietro, si guardò allo
specchio, cercando di
sistemare almeno un po’ il
groviglio dei suoi capelli, soppesò il risultato e
sospirò ancora. Si era svegliata dopo un
sogno che l’aveva turbata molto.
Christian sarebbe tornato presto. Per lei. Ma la bestia non
l’avrebbe lasciata
andare. Guardò la rosa sulla sua mano, seguendone i
lineamenti con le
dita, il
bocciolo era sempre più piccolo a mano a mano che passavano
i giorni. Erano
rimasti pochi petali. Una volta che non ne fosse rimasto più
nessuno, Adam
l’avrebbe liberata,
no?
Eppure,
quel sogno le aveva mostrato anche qualcos’altro. Finalmente
era riuscita ad
afferrare quel pensiero che più di una volta
l’aveva sfiorata. La bestia non
aveva fatto altro
che cercare di ammaliarla per tutto quel tempo, di
convincerla a restare, aveva cercato di
farle dimenticare cosa c’era dall’altra
parte dello specchio. I libri, le serre, le letture davanti al
fuoco, era stato
tutto un inganno per intrappolarla lì di
sua volontà. Aveva fatto tutto perché
lei
volesse rimanere, per non farla
più andare via. Era stata una
stupida. Si era fatta abbindolare
per tutto il tempo, aveva permesso che
manovrasse la sua mente e quanto abilmente il
burattinaio aveva guidato i fili,
manipolando i suoi sentimenti, quanto malleabile si era
dimostrata lei, creta
ignara. Aveva evitato la realtà dei fatti, lei non sarebbe mai stata altro che
una prigioniera.
E
si era sentita ancor più sciocca nel momento in cui si era
resa conto che,
oltre la rabbia, c’era
la delusione, il dolore.
Così,
si era imposta di non uscire da quella stanza per nulla al mondo. Se
era una
prigioniera,
allora quella sarebbe stata una prigione a tutti gli effetti.
si era tormentato tutto il giorno, a stento aveva chiuso occhio
durante la notte.
L’avete
uccisa? Sì..
Cosa
diavolo gli era venuto in mente? Doveva essere sconvolta, terrorizzata,
disgustata..
Gli
aveva detto che non lo riteneva un mostro, ma ora che sapeva..
Si
allontanò dalla finestra e si affacciò nel
corridoio. Perché non era ancora
arrivata?
Non
l’aveva sentita uscire quella mattina e Rebecca gli aveva
detto che non era
andata neanche
in biblioteca. Sicuramente era turbata dopo quello che le aveva
detto.
Eppure
avrebbe dato qualsiasi cosa per vederla scendere le scale.
Sentì dei passi e
trattenne
il fiato, scrutando la penombra.
Rebecca
comparve a pochi passi da lui, illuminando l’ambiente.
-Signore-
-Cosa
c’è ora?-
-Mi
manda a riferire che..- arretrò impercettibilmente. -..non
scenderà per la
cena-
-Cosa?-
Avrebbe
dovuto immaginarlo. Finalmente aveva visto cos’era realmente,
una bestia.
Logico che
lo evitasse, che ora lo temesse, che non volesse più vedere
il
mostro, le aveva rivelato di aver
ucciso sua moglie, era stato lui a
spaventarla. Era.. sensato, ragionevole, ovvio, lecito, eppure..
Non
era solo la bestia che stava rifiutando, ma anche lui.
Al suo arrivo non le aveva
forse detto che non
avrebbe tollerato una sua assenza? Che, in tal caso,
avrebbe lasciato che il
bosco la uccidesse? Minacce
inconsistenti ovviamente, tuttavia una sola
cosa le aveva imposto, scendere
ogni sera per la cena e non avrebbe concesso una disobbedienza.
-Allora
dille che è un ordine-
-Mio
signore.. io.. non credo scenderà comunque-
Ringhiò.
Si precipitò per le scale con furia, raggiunse la porta
della sua camera e
picchiò con forza.
-Credevo
di averti detto di scendere per la cena alle sette esatte-
sbraitò contro il
legno.
La
sua voce lo raggiunse calma, fredda, impassibile.
-Non
ho fame-
-Se
non uscirai da qui, butterò giù la porta!-
Gli
rispose solo il silenzio. Rebecca lo guardava dalla cima delle scale.
-Signore,
forse.. con più gentilezza..-
-Sono
stato fin troppo gentile e questo è il risultato-
tuonò, indicando con enfasi
la porta e
fulminandola con lo sguardo. Fece un profondo respiro, cercando di
calmarsi. Dopotutto.. magari..
se avesse provato..
-Potresti
scendere per la cena?- chiese, cercando di modulare la voce. Rebecca
gli fece
un cenno
con la mano, incitandolo a continuare.
-Per
favore?- aggiunse, tra i denti, con un certo sforzo.
-No-
rispose solo.
Il
suo ringhio riecheggiò per tutto il castello, rimbombando
attraverso le pareti.
Colpì con forza la
porta, spalancandola. Belle, seduta sul davanzale, balzò in
piedi, gli occhi sbarrati, lo spavento
dipinto sul volto.
Avanzò
verso di lei, guardandola truce. Le afferrò il braccio e la
trascinò fuori, giù
per la scalinata e
poi nel sotterraneo. La strattonava con forza, tirandola
dietro di sé per farla stare al suo passo.
Rebecca continuava a chiamarlo,
implorandolo, ma la ignorò.
Lei
non fiatò, arrancò dietro di lui, stringendo a
sua volta la zampa chiusa in una
morsa dolorosa.
Respirava affannosamente, invasa dalla paura.
Furente,
aprì una delle celle e la spinse dentro senza garbo.
Richiuse le sbarre, trafiggendola
con
uno sguardo di fuoco.
-Se
vuoi rimanere rinchiusa, ti accontenterò-
Lo
vide scomparire prima che potesse rendersi conto di cosa stesse
succedendo. Si
mise seduta,
sentendo le articolazioni brontolare per il modo barbaro in cui avevano
picchiato terra. Si massaggiò
il braccio dolorante, guardandosi intorno.
Eccola
lì, alla fine, nelle segrete. Dove sarebbe dovuta stare fin
dall’inizio.
Sbuffò, spostandosi i
capelli da davanti agli occhi e sistemandosi la felpa.
Aveva indossato di nuovo i suoi panni e si era
sentita proprio come il primo
giorno, quando aveva visto suo fratello allontanarsi con la bestia.
Sola, persa,
in trappola.
Allo
stesso tempo, però, aveva percepito i suoi piedi tornare a
toccare terra. Non
era mai stata
una principessa, un’eroina di quelle storie che adorava
tanto,
era di nuovo semplicemente la
ragazzina spaventata che aveva fatto di tutto per
salvare suo fratello, la ragazzina che si era sempre
sentita sola ma che
avrebbe fatto il possibile per tornare a casa. Si era sentita di nuovo
se
stessa
e non quella versione perfetta quanto evanescente di una regina.
Si
alzò, appoggiandosi alle sbarre, si asciugò una
lacrima solitaria sfuggita al
suo controllo e sospirò.
Non
riusciva ancora a considerarlo una bestia. Dopotutto, non aveva fatto
nulla che
non avesse
avuto il diritto di fare.
Suo
fratello aveva rubato in casa sua e lui lo aveva imprigionato. Avevano
fatto
uno scambio e ora era
lei quella rinchiusa in una cella.
Era
suo diritto. Non era un mostro per questo. Era un uomo che era sempre
stato
solo e aveva
dimenticato cosa volesse dire l’umanità. Questo
vedeva. Guardò
la mano. Rimanevano solo due
petali. Due notti. Solo due notti e poi sarebbe
stata libera.
Si
stese a terra, accanto al muro, raggomitolandosi su se stessa e
stringendosi le
ginocchia al petto.
Chiuse con forza gli occhi, ignorando le lacrime che
iniziarono a bagnarle il volto amare.
Inoltre,
presto sarebbe arrivato Christian. Lei sarebbe stata libera, Christian
sarebbe
tornato a
prenderla e sarebbero andati via insieme.
Con
questo pensiero, si addormentò.
che possedeva quella terra. Ella, che era in realtà una
ninfa marina, dotata di
straordinaria
bellezza e immortalità, era priva dell’anima. Come
le leggende
avrebbero poi narrato negli anni
avvenire, le ninfe marine potevano ottenere
l’anima solo sposando un uomo mortale, ma
ciò
avrebbe sancito anche la perdita
dell’immortalità. Così la ninfa accolse
lieta il matrimonio
impostole dal padre
e, ottenuta l’anima e abbandonata
l’immortalità, iniziò ad amare
quell’uomo
che
esaudiva ogni suo desiderio e che aveva giurato di amarla oltre
qualsiasi cosa.
Ma il padre della
ragazza tradì il patto stretto, così, nonostante
il giuramento fatto alla
giovane
sposa, l’uomo si recò da lui per ucciderlo.
Aveva giurato di
amarla sopra ogni altra cosa, ma la vendetta era venuta prima del suo
amore.
Aveva promesso di risparmiare il padre, e così non era stato.
La ninfa, sopraffatta
dal dolore, si tolse la vita e maledì il suo sposo.
Lo trasformò in una
bestia, così che tutti sapessero che mostro era stato nel
venir meno alla
parola data. Lo marchiò con l’immagine di una rosa
e di questi fiori ricoprì
ogni superficie, così
che ricordasse ogni momento ciò che aveva fatto.
Trasformò il giorno in un perenne paradiso
e la notte in un incubo infernale,
per ricordargli la menzogna in cui era vissuta. Marchiò
ogni
abitante presente
e futuro del castello, affinché sapesse che non era il solo
a rispondere delle
sue azioni.
Infine, poiché le
aveva dato la possibilità di ottenere l’anima, gli
concesse una sola occasione.
Una sola occasione perché qualcuno potesse amarlo sopra ogni
altra cosa,
nonostante il suo
aspetto mostruoso. Una sola occasione perché lui amasse
qualcuno sopra ogni altra cosa.
Una sola occasione per redimersi ed essere
finalmente libero..
Era nel bosco,
circondata dagli alberi e dalla luce tenue del mattino. La voce dolce
e
malinconica che l’aveva cullata fino a quel momento in una
tenera litania, si
era affievolita
poco a poco. Si guardò intorno in cerca di Rosaline, per
chiederle perché aveva voluto
raccontare tutto questo proprio a lei.
Sicuramente non era di lei che parlava, qualcuno che
potesse amarlo.. lei non
lo amava. Ed era certa che neanche lui l’amasse, considerato
che
l’aveva appena
rinchiusa in una squallida cella.
-Rosaline- chiamò.
Si incamminò,
sperando di aver preso la direzione della fontana, anche se non
riusciva a
vedere
altro che alberi. Dei passi affrettati la fecero voltare di colpo.
Trattenne il fiato.
Rosaline.
-Oh, sei tu- lasciò
andare l’aria e continuò a guardarsi intorno. Leon
le si avvicinò cauto.
-Ti aspettavi qualcun
altro?-
Si voltò, puntando lo
sguardo nel suo. Perché sembrava così teso? E il
suo sguardo era carico
di..
pentimento? Cosa aveva combinato?
-Stai bene?-
-Perché non dovrei
stare bene?- sorrise per la sua preoccupazione. In effetti, non le
dispiaceva
che
le rivolgesse tutte quelle attenzioni. Forse temeva che la bestia le
avesse
fatto del male?
Il sorriso le morì
sulle labbra, mentre continuava a guardare quegli occhi. Quello sguardo
carico
di
speranza e dolore..
Uno sguardo che così
tante volte le era parso familiare.
Guardò l’uomo che le
stava di fronte, così diverso da come l’aveva
visto la prima volta, con i
capelli scuri, la corporatura possente e il volto statuario.
fatto del male. Sapeva
che
la bestia le aveva fatto del male.
-Sei
tu- arretrò, spiazzata, la mente in
subbuglio.
–Sei sempre stato tu, Leon non è mai esistito-
Avanzò
verso di lei,
la mano protesa, lo sguardo colmo d’ansia.
-Belle, aspetta..-
Arretrò ancora,
allontanando le braccia per non farsi toccare.
-Gliel’avevi
promesso.. è colpa tua.. tutto questo solo perché
non hai voluto mantenere la
parola data..-
Aveva detto di averla
uccisa lui perché si sentiva colpevole della sua morte. Ed
era così.
Non aveva ucciso lei,
ma aveva comunque assassinato un uomo.
Si prese la testa tra
le mani, stringendo gli occhi e cercando di calmare il vortice di
pensieri che
continuava a frastornarla.
-Avresti infranto la
parola data di nuovo, non è così?-
Ora capiva. I sogni,
Rosaline che le diceva di scappare.. le stava dicendo che non
l’avrebbe mai
fatta andare via. Aveva capito che cercava di convincerla a restare, ma
sperava
che, terminata
la sua prigionia, una volta che il debito fosse stato estinto,
l’avrebbe liberata. Ecco perché le
aveva mostrato la sua storia. L’aveva
avvertita. Non avrebbe mantenuto l’accordo, ancora una
volta. Non l’avrebbe mai
liberata.
-Volevi trattenermi
qui! Hai cercato di rabbonirmi, di.. di.. convincermi che qui ero
più felice,
mi hai ingannata! Non mi lascerai mai tornare a casa..-
Adam era immobile, le
braccia abbandonate lungo i fianchi, la guardava in silenzio.
Una luce sinistra
illuminò i suoi occhi.
-Dove nessuno sa dei
tuoi sogni? Dove ti aspetta un fratello che ti ha messo in questa
situazione?
Dove hai il perenne timore che ti credano pazza?-
-Almeno lì nessuno mi
ha mai mentito. In tutta questa storia l’unico mostro sei tu-
Una lacrima le solcò
il volto, mentre lo vedeva abbassare il capo e chiudere gli occhi,
sconfitto.
Voleva andare a casa.
Voleva solo andare a casa.
Aprì
gli occhi di colpo, trattenendo il fiato. Balzò a sedere e
sbatté più volte le
palpebre.
Accanto
a lei, Rebecca la chiamava insistentemente.
-Miss!
Miss!- sussurrava concitata. –Forza,
prima che il padrone se ne accorga. Venite-
Si
alzò, ancora frastornata, e la seguì.
-Come
hai fatto a prendere le chiavi della cella?-
-Ho
i miei assi nella manica, miss-
Si
diresse verso il lato più in ombra dei sotterranei,
allontanandosi dalle scale,
si accostò al muro
dove faceva bella mostra un drappeggio raffigurante una
scena di caccia.
Belle
si passò una mano sul volto, senza farsi vedere, e
notò di avere il volto umido
di lacrime,
l’asciugò in fretta, con un gesto rabbioso.
Rebecca la guardava.
-Spostate
il dipinto, troverete una porta e un sentiero che vi porterà
fuori dal
castello. Una volta
fuori, dovete proseguire sempre dritto e arriverete alla
rimessa-
-Come
conosci questo passaggio?-
-Miss,
lavoro qui da molto ormai, conosco ogni centimetro e ogni antro-
Sorrise,
sentendo l’improvviso bisogno di abbracciarla.
-Perché
mi stai aiutando?-
Un
rumore di passi affrettati fece voltare entrambe.
-Andate-
la incitò ancora.
Aprì
la porta di legno con la chiave che Rebecca le aveva dato e, dopo
averle sorriso
per l’ultima
volta, se la richiuse alle spalle.
A
quel punto fu completamente al buio, sola. Tastò le pareti
attorno a lei. Era
uno stretto corridoio
in pietra, alto pochi centimetri più di lei e non
abbastanza largo da permetterle di tenere le braccia
distese. Si incamminò,
seguendo le mura con le mani. Più di una ragnatela le si
impigliò tra i
capelli
o tra le dita e ogni volta un brivido di ribrezzo le percorreva la
schiena.
Probabilmente
era stata una fortuna che non vedesse nulla, chissà quanti
insetti le stavano
camminando tranquillamente intorno ai piedi. Sospirò, chiuse
gli occhi, soffocò
il disgusto e proseguì.
Doveva andarsene il prima possibile.
Dopo
un tempo che le parve un’eternità, scorse una luce
fioca raggiungerla e farsi
sempre più intensa
mano a mano che proseguiva. Velocizzò il passo,
finché non
si ritrovò davanti una grata di ferro
chiusa a chiave. Oltre quella, la notte
faceva capolino sopra una foresta particolarmente silenziosa.
Usò ancora una
volta la chiave che le aveva dato Rebecca e la grata si
aprì. Uscì da quel
cunicolo
orribile e si levò di dosso le ragnatele. Scosse i piedi,
lasciando
cadere i piccoli insetti che
cercavano di risalire lungo la gamba e dovette prendersi un
momento per controllare il conato di vomito
che l’aveva assalita.
Odiava gli insetti. Odiava i ragni. Odiava qualsiasi animale che
le camminasse
addosso.
Sospirò.
Cos’era costretta a fare.
Riaprì
gli occhi e girò su se stessa, respirando a pieni polmoni la
brezza fredda
della notte.
Rebecca
le aveva detto di continuare dritto per tornare alla rimessa.
Fece un profondo respiro e si incamminò, senza
voltarsi indietro.