Tired of justifying
And
right now there's a war between the vanities
But all I see it's
you and me
The fight for you is all I've ever known
(Come
Home - One
Republic)
L'illuminazione
stradale aveva da poco ceduto il passo alla luce naturale.
Le parve di scorgere
il sole nel timido riverbero dello specchietto retrovisore, il primo
raggio da che era sveglia, e non riuscì a soffocare
l'ennesimo
sbadiglio al pensiero di aver battuto sul tempo l'alba, di nuovo.
Ancora una volta
l'America, aiutata dal soave strepitio del cellulare, le aveva dato
il buongiorno nel modo che le era più congeniale: con un
omicidio. E ancora una volta
non si era curata di chiedersi se le cinque e mezza, un'ora come
tante per una città come Washington, fossero altrettanto
adatte a
lei, che di dormire invece ne avrebbe avuto bisogno. Svoltò
per
Cannabeel Street con il piede un po' troppo in sintonia con
l'acceleratore, approfittando del fatto d'essersi finalmente lasciata
alle spalle il centro cittadino con il suo traffico e i suoi semafori
rossi, troppi per essere appena le sei di un banale giovedì
mattina.
Dopo una decina di
minuti raggiunse finalmente l'ingresso del centro di demolizione.
L'insegna in ferro
battuto campeggiava alta e imponente sopra il cancello principale,
stridendo fortemente col cimitero di rottami e vecchie carcasse
d'auto che si stagliava tutto intorno. Improvvisamente la
sua malandata vettura le sembrò perfetta.
Posteggiò al centro
di uno spiazzo, e sufficientemente lontano dalla pila di automobili
ammassate le une sulle altre, timorosa che in un impeto di gelosia
queste decidessero di franare sulla propria. Estrasse con
lentezza la chiave, lasciando che le spie luminose del cruscotto
venissero inghiottite dall'oscurità, e si
abbandonò col capo
all'indietro.
Era esausta ancor
prima di cominciare.
Attraverso le
palpebre chiuse, percepì il fastidio di un raggio di sole
più
violento degli altri, e si costrinse ad aprire un occhio per
esaminarlo ad armi pari.
Non le ci volle
molto per individuare la fonte di quel fastidioso riflesso di luce,
fastidioso quanto l'oggetto che l'aveva causato: il bottone blu di un
pantalone oscillava vanesio davanti al suo viso, sospeso allo
specchietto tramite un sottile filo di cotone, mosso da un vento che
non c'era. Al centro, il minuscolo inserto in metallo che avrebbe
consentito al bottone di chiudersi, se opportunamente accompagnato da
un secondo pezzo -attualmente disperso-, catturava avido il sole da
ogni angolatura possibile, rispedendone il riflesso al mittente in un
continuo e generoso do ut des.
Delicatamente, Kate
lasciò che le proprie dita tracciassero in aria quella
piccola
circonferenza, inducendone una modifica nella traiettoria che
alleviò
temporaneamente il suo fastidio. Non sapeva perché
avesse deciso di costruire quell'insolito pendaglio, né
tanto meno
perché, di tutti i posti possibili, avesse scelto di
posizionarlo
proprio in auto.
Aveva trovato quel
bottone una mattina di quasi due mesi prima, qualche giorno dopo la
loro notte insieme e non le ci era voluto molto per
indovinare chi
fosse il proprietario di quel piccolo disperso. La fattura elegante
e la costosa marca incisa sul retro avevano spazzato poi via ogni
dubbio, se mai ne avesse avuti. Sul momento aveva ovviamente pensato
di gettarlo via, come avrebbe fatto chiunque altro di fronte a un
ritrovamento tanto insignificante e privo di valore, ma arrivata a un
passo dal cestino aveva sviluppato un improvviso e morboso
attaccamento per quel pezzetto di plastica, e non aveva avuto cuore
di separarsene. Al contrario, aveva passato un'intera giornata a
rigirarselo tra le dita, e prima di rendersene conto vi aveva
già
fatto passare un filo attraverso e lo aveva appeso esattamente
lì
dove era ora.
Piccolo com'era,
c'erano giorni in cui neanche vi faceva caso o in cui esso stesso si
nascondeva alla sua vista, dietro la superficie dello specchietto
retrovisore. Altre volte invece, Kate aveva come l'impressione che
fosse
cresciuto in dimensioni durante la notte, e si ritrovava
così a fare
i suoi viaggi per le strade di Washington con una presenza
silenziosa, ma considerevolmente ingombrante, al suo fianco.
L'aspetto peggiore di quei giorni, comunque, non era tanto la compagnia
in
sé -talvolta quasi piacevole- quanto i discorsi che, senza
spreco di
parole, venivano puntualmente affrontati e che sfociavano
regolarmente nella rievocazione della mattina
dopo.
Anche adesso, che
pure il bottone era rimasto bottone e non s'era fatto passeggero
inopportuno, Kate sentiva la sua mente scivolare inarrestabile lungo
la pericolosa china di quel ricordo.
Un
fruscio di stoffe l'aveva svegliata dal suo sonno. Stanca e confusa,
e disabituata com'era alla compagnia nel suo letto, aveva dovuto
allungare la mano e scoprire il calore insolito sull'altro lato del
materasso per ricordarsi di ciò che si era appena consumato
in
quella camera, e rendersi conto dell'uomo in piedi, nel buio, di
fronte a lei.
«Castle...»
Una
punta d'allarme aveva sfaldato le barriere della sua stanchezza,
donando alla sua voce ancora impastata dal sonno un tono tuttavia
straordinariamente vigile. Non
aveva avuto bisogno di accendere la luce per capire che si stava
rivestendo.
«Devo
andare. Se sarò fuori di qui prima che faccia giorno forse
potrò
illudermi di aver semplicemente immaginato tutto questo, come sempre»
«Castle,
aspetta...»
Sebbene
le sue intenzioni le fossero state chiare sin dall'inizio, quando lo
aveva scoperto ad aggirarsi furtivo nell'oscurità, il
sentirsi
confermare ad alta voce la prospettiva di una fuga nel cuore della
notte l'aveva trafitta con una violenza tale da spingerla a credere,
per un attimo, che lui l'avesse colpita con qualcosa di molto grosso
e appuntito. Solo parecchi profondi respiri dopo, insieme alla
certezza -tastata con mano per maggiore sicurezza- che facendolo non
sarebbe morta dissanguata, l'avevano convinta a muoversi. Colta da un
brivido di freddo per l'abbandono improvviso del suo caldo
giaciglio, non aveva avuto il coraggio di scendere fisicamente dal
letto e separarsi così dal calore delle lenzuola, piuttosto
s'era
trascinata fino al bordo del materasso e aveva allungato una mano nel
buio, nel disperato tentativo di acchiapparlo pur non riuscendo a
vederlo.
«Aspetta,
Rick. Ti prego!»
«No
Kate! Non parlare, per favore... Perché se tu ora mi dicessi
di
restare io lo farei, lo farei senza pensarci un attimo, e non posso
permetterlo. Tu non sei rimasta per me, non sei rimasta con me...»
Aveva
scorto un rapido e indistinto movimento nel buio, e aveva immaginato
le sue spalle irrigidirsi sotto la durezza di quelle parole. Avrebbe
voluto poggiare una mano su quelle scapole, rubare da esse la
tensione che sapeva essersi accumulata, ma tutto ciò che le
sue dita
riuscivano ad acchiappare erano l'aria e la minaccia sempre
più
vicina della sua assenza.
«Se
me lo chiedessi ora direi di sì. Se tu mi chiedessi di
sposarti,
adesso, io ti direi di sì»
«Il
tuo adesso arriva troppo tardi»
Non
lo aveva visto uscire, non aveva udito nemmeno il rumore dei suoi
passi allontanarsi dalla camera. Aveva solo smesso di sentire il suo
respiro risuonare per la stanza -e fino ad allora neanche si era
accorta di quanto normale suonasse alle sue orecchie la presenza di
quel sottofondo e di quanto fosse sbagliata la sua assenza. E poi era
arrivato il
fragore della porta, sbattuta violentemente contro lo stipite.
Quel
tonfo sordo aveva spazzato in un sol colpo ogni cosa dalla sua mente,
lasciandola sola senza neanche più un pensiero a cui
aggrapparsi. Le
mani, ancora tese verso il nulla, erano ricadute inermi sul
materasso, ma con l'adrenalina ancora non smaltita del tutto erano
andate a chiudersi intorno alla prima cosa che avevano trovato: le
lenzuola. Senza mollare mai la presa, se le era avvolte intorno al
corpo ripetutamente, fino al punto da non potersi più
muovere, e si
era poi rannicchiata sul lato del letto in cui fino a qualche istante
prima aveva giaciuto lui, accoccolandosi tra le spire del suo calore
ancora vivido sul materasso. Si era addormentata così, senza
cuscino
e con la sola compagnia di una lacrima solitaria, venuta ad animare
il suo viso altrimenti inespressivo.
Un urlo e
l'inconfondibile odore di copertoni bruciati riportarono la sua
attenzione al presente.
Già da lì poteva
vedere la piccola folla di uomini della scientifica e poliziotti
riunita, presumibilmente, attorno al cadavere: come schegge impazzite
saettavano da un lato all'altro del perimetro, quasi che un omicidio
nell'alba americana fosse una cosa rara a vedersi. Lei invece, per
quanto si sforzasse, non riusciva a farsi coinvolgere da quella
frenesia, forse perché ancora troppo assonnata e con una
grave
insufficienza da caffeina, forse perché distratta da altri
pensieri
o forse perché, semplicemente, troppo avvezza ormai ai
morti. Rassegnata mai, ma
l'abitudine era talvolta un inconveniente del suo lavoro.
Un lavoro che si era
scelta e che adesso la reclamava.
Fece schioccare le
dita sul volante, come a volersi dare la carica, e finalmente si
decise ad uscire dall'abitacolo, richiudendosi la portiera alle
spalle con un colpo secco.
Procedette spedita
in direzione dei suoi uomini, ben stretta nel suo cappotto blu per
ripararsi dall'umidità notturna di cui l'aria era ancora
satura. L'eco dei suoi
tacchi si fuse gradualmente con le voci dei presenti e, quando ormai
mancavano solo pochi metri alla sua meta, riuscì a scorgere
una mano
penzolare fuori dal sedile di un catorcio arrugginito. Un sorriso amaro
le
si disegnò sul viso.
No, forse -e per
fortuna- non si sarebbe mai abituata alla morte.
Era stata una
giornata pesante, complicata ulteriormente da un assassino con la
passione per la piromania e una vittima dal volto troppo noto e dalla
vita privata insospettabilmente vivace. Gran parte del
pomeriggio lo aveva trascorso ad ascoltare il suo capo dipartimento
sottolineare, per l'ennesima volta, i rischi del trovarsi tra le mani
un caso di così dominio pubblico quale prometteva di essere
quello.
In pratica aveva, e in maniera neanche troppo velata, ricordato loro
che per quanta libertà d'agire gli fosse concessa dal
proprio distintivo, c'erano comunque
dei limiti che era necessario non superare, mai.
Era forse questo ciò
che odiava di più del suo lavoro attuale: una gran dose di
potere,
ma solo apparente, tenuto al guinzaglio dalle macchinazioni della
politica e del governo. Scaraventò con ben
poca delicatezza i fascicoli del caso sul divano, e si versò
un
bicchiere di vino, prima di prendere posto accanto a loro. Per quanto
portarsi
a casa il lavoro non fosse un ostacolo alla sua vita sociale
pressoché inesistente, la sua capacità di
concentrazione quella
sera languiva così come la sua voglia di cercarla.
Arrivata al fondo
del suo bicchiere, non aveva ancora nemmeno aperto il primo fascicolo
e dovette venire a patti con la consapevolezza che, almeno per quella
sera, non sarebbe mai successo. Decisa ad
assecondare la piega che i suoi pensieri avevano preso sin da quella
mattina in auto, e conscia che combatterli sarebbe stato estenuante
oltre che prevedibilmente inutile, si diresse quindi verso la porta
sull'estremità destra del soggiorno, non prima
però di aver fatto
tappa intermedia in cucina per versarsi un altro bicchiere di rosso.
Lo stanzino era
polveroso, come ci si poteva aspettare da una stanza piccola e tenuta
sempre chiusa, e tuttavia stipata com'era di scatoloni -ordinatamente
impilati gli uni sugli altri- non lo era al punto da risultare
sporco: probabilmente lì dentro teneva così tanta
roba che anche la
polvere faticava a trovar posto.
E in effetti Kate
aveva rinchiuso in quel loculo di due metri per due tutta la sua vita
passata: dai ricordi dell'infanzia a quelli del Dodicesimo, compreso
lui.
Più volte aveva
tentato di dare una collocazione definitiva alle centinaia di ninnoli
e oggetti che si era portata da New York, ma ogni volta che li aveva
tirati fuori da quello stanzino non erano durati che pochi giorni
nella loro nuova sistemazione, i più fortunati anche una
settimana. Non sapeva
esattamente quale fosse il problema di quella casa, ma sembrava
decisa a sputar fuori qualunque cosa non trovasse di proprio
gradimento: e apparentemente aveva gusti estremamente
difficili.
Era
come se in qualunque modo, o zona, Kate sistemasse i suoi effetti
personali, questi stonassero violentemente con il resto al punto da
risultare persino fastidiosi.
Alla fine aveva
semplicemente smesso di provarci.
Certe volte una
vocina nella sua testa le sussurrava che quella divergenza di
opinioni non era un banale problema di stili d'arredamento,
ma
piuttosto era il segnale di un disagio più grande: un
disagio tutto interiore, e
non davvero legato alla casa. Quando quella vocina tornava alla
carica, riesumava dal mucchio qualche foto -quelle erano più
facili
da collocare- e le disseminava per la casa a dimostrazione che, se solo
avesse voluto, avrebbe potuto riversarvi dentro anche l'intero
stanzino. Per il resto quando
ne aveva bisogno, o semplicemente voglia, apriva quella porta e faceva
un tuffo nel proprio passato, seduta sul limitare della soglia, in un
punto che -come in un limbo- era una realtà a sé
stante: né parte né
non parte di quella casa.
Col bicchiere
sapientemente adagiato sul parquet, a distanza di sicurezza dalle
proprie gambe, guadagnò la solita postazione, e trascinato
verso di
sé uno scatolone lo aprì.
Odorava di chiuso
con un vago sentore di lavanda.
Una ad una estrasse
le piccole cornici, custodi di fotografie per lo più
sbiadite dal
tempo e dal sole: una in particolare appariva più usurata
delle
altre, a causa di tutto il tempo passato ripiegata tra le piccole
tasche del suo vecchio portafoglio. Risaliva al matrimonio di Ryan.
Erano tutti lì: dagli sposi, raggianti in primo piano, a
loro
quattro -accoppiati anzitempo, e nel giusto ordine, per un strano
scherzo del destino. A voler prestare maggiore attenzione, sullo
sfondo si sarebbero potuti facilmente intravedere persino i
rispettivi -e improbabili- accompagnatori di Lanie ed Esposito, ma i
veri protagonisti della foto erano indubbiamente loro sei, in quella
che facilmente sarebbe potuta essere un'esaustiva anticipazione del
futuro. Se le cose fossero andate diversamente.
Accantonato quel
piccolo attentato fotografico al suo cuore, si dedicò ad
altre
memorie passando così in rassegna l'intero scatolone e
procedendo
indietro lungo il suo passato da poliziotto, fino alla foto del suo
ultimo giorno all'Accademia. In piedi e sull'attenti, avvolta nella
sua divisa, lo sguardo fiero di chi sa di aver trionfato sulle
proprie avversità, ma velato dall'ombra di una ferita ancora
troppo
fresca. Aveva ancora quella divisa, conservata da qualche parte
proprio in quello stanzino: ormai consunta e troppo stretta, non era
mai riuscita a disfarsene sebbene negli anni ne avesse accumulate di
più nuove e più conformi alla sua taglia. Sorrise
nel
ripercorrere il proprio profilo più giovane, immortalato tra
le sue
mani; poi, quando ne fu sazia, rimise di nuovo tutto accuratamente
dentro la scatola e la spinse fino in fondo allo stanzino, facendole
riguadagnare il suo posto.
Non sentendosi
ancora pronta a terminare quel viaggio lungo il viale dei ricordi,
perlustrò con gli occhi lo spazio di fronte a sé,
decisa a passare
a una nuova scatola, e la sua scelta si orientò -in un puro
e
consapevole atto di masochismo- su una appena visibile da dietro le
altre, ricoperta da uno strato di polvere talmente spesso da apparire
quasi come un voluto imballaggio. Fu necessario tirar
fuori altri tre scatoloni prima di poter raggiungere quello
prescelto, ma alla fine eccolo lì, torreggiante tra le sue
gambe e
sigillato così bene che aprirlo quasi le dispiacque.
Con le dita
leggermente madide di sudore, scivolose ad ogni tocco, dovette
combattere un bel po' contro lo scotch prima di poterlo ridurre tutto
in una palla appiccicosa e disordinata sul pavimento. Quando infine la
scatola fu aperta, una leggera nuvola di polvere si sollevò
dallo strato
superiore facendola starnutire. Liberatasi così
dall'impaccio delle
vie respiratorie ostruite, fu colta dal forte e inconfondibile odore
di carta, tipico di quando ci si tuffa col naso tra le pagine di un
libro
mai aperto o aperto troppo poco.
La copertina di Heat
Rises in cima alla pila, leggermente avulsa in alcuni punti e
scolorita in altri, si pavoneggiò delle sue tinte brillanti,
decisa
a recuperare tutto il tempo trascorso chiusa in quella scatola, dove
nessuno aveva potuto ammirarla. Passando con
disinvoltura dalle avventure di Nikki Heat a quelle di Derrick Storm
e viceversa, ad uno tutti i volumi vennero tirati fuori dalla loro
angusta
dimora, e impilati ordinatamente sulle assi del parquet.
Nel farlo, Kate si
costrinse a non capovolgerli mai, per non doversi imbattere nella sua
faccia tronfia e nella profondità recriminante del suo
sguardo
puntato su di lei. Prima di riposarli al proprio fianco li sfogliava
però distrattamente, catturando qua e là qualche
parola o qualche
frase scelta a caso tra i milioni di caratteri dormienti su quelle
pagine. Solo Heat Wave venne aperto con intenzione, esattamente alla
seconda pagina: quella custode della famosa dedica. Nel ripassarla,
le dita esercitarono una maggiore pressione sulle sue iniziali in
grassetto, fino a percepire il leggero ripiegarsi della carta verso
il fondo, lì dove la macchina da stampa aveva impresso in
eterno la
K e la B.
"Lui
dedica i suoi libri solo alle persone a cui tiene molto..."
Le
parole di
Kira
Blaine
ogni
tanto
tornavano a farle visita. Chissà a chi
avrebbe dedicato adesso ai suoi libri. A Laura, forse?
Il solo pensiero
bastò a rimestarle le budella nello stomaco.
Di slancio si alzò
da terra, e sicura si diresse all'armadio della sua camera da letto,
spalancandone le ante. Lì, in basso, ben nascosta tra
sciarpe e
borse d'ogni tipo, la busta rossa del suo ultimo acquisto in libreria
giaceva intonsa e ancora chiusa. Con un gesto deciso
l'afferrò e ne
strappo la sommità, lasciando che il libro al suo interno
vedesse
finalmente la luce. E con una punta di puerile orgoglio
notò, con
scorretto piacere, che nessuna dedica introduceva quelle pagine.
Forte di quella
nuova scoperta, si sedette sul bordo del letto con il libro stretto
tra le mani.
Una parte di lei
fremeva dalla curiosità di sapere se in esso si parlasse
ancora di
lei, o se anche Nikki Heat -come Derrick Storm prima di lei- aveva
ormai appeso il distintivo al chiodo, lasciando spazio alle nuove
leve. D'altra parte a vincere fu l'altra Kate, quella che invece non
voleva sapere, preferendo restare a sguazzare nel mare di
possibilità
che l'ignoranza le apriva dinnanzi.
Non sapeva
esattamente perché lo avesse comprato: non aveva mai avuto
nessuna
intenzione di leggerlo, e probabilmente non lo avrebbe mai fatto. Si
era data della vigliacca per questo, più di una volta, ma
era
qualcosa cui -nella sua condizione attuale- non era disposta a
cedere. Tuttavia aveva
sentito comunque di doverlo comprare: quasi che a rompere la sequenza
ordinata di quella collezione, anche l'ultimo filo che ancora li
teneva legati si sarebbe spezzato per sempre.
Tornata in soggiorno
alcuni minuti dopo, trascinò tutti i libri fuori dal
perimetro
sicuro dello stanzino, verso il divano, e sedutasi a terra con la
schiena appoggiata ai cuscini, li dispose in ordine di uscita,
lasciando che il libro ancora stretto tra le sue mani andasse a
occupare l'ultimo posto rimasto. Quando ebbe finito,
si concesse qualche istante per osservarli: le mani giunte di fronte
al viso, col pollice a picchiettare meditabondo la punta del suo
naso.
A vederli così,
tutti insieme uno dietro l'altro, era come osservare la sua stessa
vita concentrata nello spazio rilegato di alcune pagine. Ogni libro,
oltre la propria trama, raccontava infatti anche un periodo ben
preciso della sua vita: così in un capitolo della saga di
Derrick
Storm rivedeva se stessa alle prese con l'omicidio di sua madre,
mentre in un altro si vedeva nel momento in cui aveva iniziato a
maturare la decisione di diventare poliziotta. E ancora, nel primo
Nikki Heat ritrovava la se stessa di sette anni prima, alle prese con
il primo Castle in quello che -avrebbe capito solo dopo- sarebbe
stato un importante momento di svolta della sua vita.
L'allungarsi del suo
braccio per afferrare il cordless del telefono fisso fu la
conseguenza diretta di quel continuo osservare la propria esistenza
venir fuori dalle copertine dei manoscritti. Non dovette neanche
pensare, le dita digitarono il numero autonomamente, rapide quanto il
battito del suo cuore adesso.
Non sapeva cosa gli avrebbe detto una
volta che avesse risposto, certa che, come l'ultima volta, le parole
giuste sarebbero sgorgate fuori da lei spontaneamente. Qualunque
cosa fosse ad ogni modo le morì in gola nell'esatto istante
in cui a risponderle
fu una voce femminile, che a malincuore non riconobbe nè
come quella di
Alexis né di Martha.
Il tono di quella
voce, e la serena insistenza con cui ripeteva "Pronto", le
impedirono di agire con prontezza e chiudere immediatamente il
telefono. Solo al terzo richiamo riuscì nell'impresa di
riagganciare, quando ormai aveva avuto tempo a sufficienza a che
quella voce le si imprimesse in profondità nella
mente.
Era la voce
di una donna bella, giovane e felice. Una donna, ne era certa, con un
buon profumo sempre addosso, e che risultava sempre perfetta
qualunque cosa indossasse. Il tipo di donna in grado di
lavorare, avere una famiglia e tanti amici, e contemporaneamente
trovare sempre il tempo per sorridere alla vita. L'esatto opposto di
lei, insomma.
Con un moto di
stizza calciò i libri di fronte a lei, mandandone in pezzi
l'ordine
di pochi istanti prima, e rabbiosa ricacciò indietro le
lacrime che
cercavano ostinatamente di venire a farle visita.
Si era comportata da
sciocca. Aveva sbagliato tutto.
Quella chiamata era
stata solo l'ultimo della sfilza di errori stupidamente commessi quel
giorno, fin dal dialogo mattutino col bottone.
Decise tuttavia che
riversare tutta la sua frustrazione e la sua rabbia su di lui e su
quella donna perfetta sarebbe stata una scelta molto più
salutare
così, ricacciati con furiosa fretta i libri dentro lo
scatolone e
rimesso quest'ultimo al proprio posto, si sedette sul divano con
l'intera bottiglia di vino al suo fianco, pronta a venirle in
soccorso se necessario, e decise che avrebbe passato il resto della
serata ad odiarlo. Giusto per provare qualcosa di diverso, una volta
tanto.
Il
mercoledì sera all'Old Haunt era divenuto per loro tre un
appuntamento fisso.
Eccetto
che nei giorni in cui un omicidio li reclamava a lavoro: in quei casi
era lui a raggiungerli al distretto, approfittandone per dar loro
una mano col caso. Un tuffo nel passato. Piccole collaborazioni messe
in piedi per lo più in concomitanza di omicidi particolari o
eccentrici, del tipo che piacevano a lui; un modo come un altro per
tenere viva la tradizione. Sorprendentemente
la Gates non si era mai mostrata contraria a queste sue
saltuarie incursioni, limitandosi alla solita aria indifferente -e
sofferente- con cui Castle aveva imparato a conoscerla e ad
apprezzarla fin dal suo primo giorno. Non sapeva se questa sua
tolleranza fosse dovuta all'abitudine, alla semplice convenienza di
una mente in più a lavoro su cui contare, o al fatto che
anche lei
talvolta sentisse quasi la mancanza di quell'atipico equilibrio
maturato negli anni della sua collaborazione col dipartimento.
Personalmente
lui amava pensare fosse quest'ultima la ragione, per quanto
improbabile che fosse.
Di
certo c'era che nessuno si era aspettato di rivederlo tanto presto da
quelle parti, sicuramente non appena un mese dopo la partenza
di
Beckett.
Lui
stesso era stato il più sorpreso da quel ritorno.
In
cuor suo mai avrebbe creduto di poter rimettere piede in quel luogo
tanto in fretta, e con la relativa e ammirabile dose di disinvoltura
che aveva invece sfoggiato nel varcare la soglia. Ed era era certo
che in fatto di incredulità si era trovato in ottima
compagnia,
avendola chiaramente letta negli occhi di Esposito e Ryan la prima
volta che li aveva rivisti e per tutto il mese successivo. E
d'altronde tutti e due, per i primi giorni, non avevano fatto altro che
trattarlo con i guanti, muovendosi con la stessa cura e
professionalità con cui tante volte li aveva visti aggirarsi
tra i
detriti di una scena del crimine particolarmente cruenta, e questo
non aveva fatto altro che far crescere il lui il dubbio di stare agendo
in
maniera sbagliata o inopportuna, sebbene essere lì con loro
gli
apparisse nonostante tutto ancora come la cosa più naturale
del
mondo.
E
alla fine aveva capito: al di là di lei, e di quello che
loro erano
stati lì dentro, in qualche modo quelle quattro mura erano
diventate
anche sue. In qualche modo, per quanto inizialmente fosse entrato da
ospite in quel distretto e pur non essendo davvero un poliziotto, col
tempo questo aveva finito per diventare anche la sua casa. E solo
dopo la loro. Era
sempre stato certo che tornare lì avrebbe significato
accettare
l'idea di vedere tanta lei quanta ne aveva respirata in quei cinque
lunghi anni, al punto da uscirne annientato. E in effetti era
stato così, specie all'inizio.
I
corridoi, l'ascensore, la scrivania, persino l'ufficio della Gates,
tutto
parlava di lei... Eppure l'annientamento non era arrivato: in
compenso erano arrivati, dolore, nostalgia, frustrazione e una buona
dose di rabbia inespressa.
Si
era così velocemente reso conto che, per quanto quegli spazi
fossero
pieni di lei, non lo erano meno di quelli del suo loft. Il Dodicesimo
era solo un'altra casa da cui lei era andata via, ma non per
questo l'assenza di lei l'aveva resa meno sua. Questa cosa l'aveva
rassicurato, e inondato di una nuova e tiepida iniezione di gioia.
Rendersi conto che quegli ultimi anni gli avevano regalato, oltre a
un amore vinto, anche dei veri amici, una scappatoia dalla sua
quotidianità, la voglia e l'ispirazione per tornare a
scrivere e in
generale slancio al suo futuro, gli aveva dato la forza per riprendere
a frequentare quel mondo con regolarità.
Certo,
ancora adesso passare accanto alla sua scrivania e non cercare gli
elefantini gli costava fatica, come anche dura era perdere
l'abitudine a fare due caffè anziché uno: quando
questo capitava,
per salvare le apparenze ed evitare gli sguardi carichi di sincero e
pesante cordoglio dei suoi amici, fingeva di averli preparati per
loro e andava a farsene un altro, o tutt'al più ne cedeva
uno alla
Gates o a qualche poliziotto di passaggio spacciandolo per un gesto
programmato. Anche la sua sedia, per anni rimasta immobile al suo
posto accanto alla scrivania di lei, tanto da lasciare segni di
usura su quel fazzoletto di pavimento, era stata ora sapientemente
spostata tra quelle di Ryan ed Esposito. Ma a
parte questo la vita al distretto era sufficientemente sopportabile,
spesso addirittura piacevole.
Le
serate all'Old Haunt tuttavia erano un'altra storia: in quelle ore
era loro concesso di abbandonare chi i panni dello scrittore, chi del
poliziotto per tornare ad essere semplicemente tre amici riuniti di
fronte a una buona birra, a parlare del più e del meno e
magari
sfidarsi a freccette. E per quanto si sforzasse, Rick faticava a
ricordare serate del genere prima delle loro: nonostante,
grazie soprattutto al suo lavoro, fosse in effetti sempre stato pieno
di
amicizie di numerose conoscenze, dalle più altolocate alle
meno
raccomandabili, poteva affermare con assoluta certezza di non aver
mai avuto prima d'ora degli amici veri e sinceri quali erano quelli
seduti di fronte a lui in questo momento.
«Parlando
di cose serie, Jenny è incinta o no?»
Nell'ultima
mezz'ora la conversazione aveva preso una strana piega, dando vita a
un'accesa discussione tra Ryan ed Esposito riguardo i pro e i contro
delle lampade abbronzanti: Esposito affermava che nessun vero uomo
avrebbe mai accettato di farsi innaffiare di colorante dentro una
doccia, Ryan invece si era dimostrato più aperto
all'argomento
affermando che anche gli uomini, se non dotati per natura di una
carnagione sfacciatamente
ispanica, dovevano
poter avere il diritto di non mimetizzarsi con la spuma del mare,
senza per questo minare la propria virilità, sebbene lui
giurasse di
non averne mai provata una. Inizialmente Castle aveva partecipato
divertito alla discussione, raccontando di un episodio del suo
passato che coinvolgeva una donna particolarmente procace, un set di
accappatoi trafugati da un hotel e una doccia abbronzante, per
l'appunto. Quando però venti minuti dopo la discussione
sembrava non
aver ancora raggiunto un punto di svolta e gli animi avevano preso a
surriscaldarsi, annoiato aveva iniziato a pensare a qualcosa che
potesse distrarli e permettere di andare avanti con la serata. Ryan
era senza dubbio la preda più facile. Focalizzate tutte le
sue
attenzioni su di lui, non gli ci volle molto per ripescare dalla
memoria l'aggancio adatto, l'unico argomento che sapeva avrebbe
smosso nell'immediato l'animo dell'irlandese: Jenny.
E
infatti basto quella domanda ad ottenere l'effetto sperato:al solo
sentire il nome di sua
moglie, il viso di Ryan, prima serrato in un agguerrito cipiglio, si
era immediatamente disteso in un sorriso raggiante -che più
tardi
Esposito avrebbe definito ebete, minacciando di riaccendere la miccia
della
battaglia- e la querelle sull'abbronzatura era stata ben presto
accantonata.
«Ancora
niente di certo, aspettiamo l'ecografia per dare la notizia. Visto
l'ultimo falso allarme non vogliamo sbilanciarci, sapete
com'è»
«Sì,
dillo alla tua faccia»
Il
tono piccato di Esposito sfogò gli ultimi strascichi di
adrenalina
rimasti dalla conversazione precedente, ma il suo volto rabbonito
fece ben sperare sulla bontà delle sue intenzioni. E
d'altronde, che
lo ammettesse o no, l'ispanico aveva sviluppato una sorta di adorazione
per Sarah Grace, la primogenita del suo partner, per cui all'idea di
un secondo pargolo era animato da una sincera ma ben celata
eccitazione, specie perché tutti sapevano -senza bisogno di
dirlo-
che, esauriti cugini e parenti con la precedenza, il prossimo turno
per fare da testimone -o da padrino, in questo caso- sarebbe spettato
a lui. Fatto che segretamente lo riempiva d'orgoglio. E a vederlo
così entusiasta per una famiglia non sua, Rick proprio non
riuscì a
trattenersi dall'infierire sul suo raro lato sentimentale
-né, a
essere sinceri, ci provò.
«Di
questo passo, una volta sposato dovrai impegnarti parecchio per
raggiungerlo Espo»
La
battuta ebbe l'effetto desiderato, ed Esposito quasi si
strozzò con
la birra. L'urgenza di rispondere fu tale da spingerlo a parlare
quando ancora non aveva smaltito il colpo, alternando le parole a
colpi di tosse e schiarimenti di gola.
«Vacci
piano, non che non voglia una famiglia ma prima vorrei potermi godere
un po' la mia signora, se capite che intendo»
«Beh
a guardare Ryan sembra che una cosa non escluda l'altra»
«Beh,
ecco... Oh, fatela finita!»
Ad
essere imbarazzato era Ryan adesso, che sentendosi al centro del
mirino, e privo di difese, non trovò di meglio da fare che
nascondersi dietro un generoso sorso di birra. L'argomento bambini
correlato all'evidente darsi da fare dei due sposini novelli, Ryan e
Jenny, era infatti un tema particolarmente caro agli altri due,
più per il
piacere di metterlo in difficoltà che perché
sinceramente stupiti
dal loro, come lo definiva sornionamente Castle, fare
le cosacce con una bambina in casa.
Era
una cosa più che normale per qualunque coppia di genitori,
lo stesso
Castle non si era certo risparmiato ai tempi di Alexis neonata,
quando ancora Meredith non aveva abbandonato la nave. Tuttavia Ryan
viveva l'argomento con sincero disagio e questo chiaramente non era
che un invito per gli altri due a rincarare la dose.
«Davvero
Bro', è il terzo falso allarme quest'anno, vi date parecchio
da
fare...»
«E
basta!»
Le
risate del gruppo soffocarono definitivamente, almeno per quella
sera, la discussione e ben presto anche Ryan si unì a loro,
incapace di tenere il broncio troppo a lungo, specie di fronte a
un Castle deciso a ordinare da bere in russo.
«Quest'ultimo
giro lo offro io, ragazzi, e poi vado. Sarah Grace ha le coliche e ho
promesso a Jenny che oggi non avrei fatto tardi»
«La
mogliettina ti tiene al guinzaglio, eh latte e miele?»
«Ne
riparliamo tra tre settimane, Javier»
«Non
tutti gli uomini sposati sono remissivi come te, alcuni li pretendono
i loro spazi»
«Ma
non tutti gli uomini sono sposati con una Lanie, ricordalo»
Quest'ultima
imbeccata di Ryan suscitò l'ilarità di Castle ma
non, ovviamente,
quella di Esposito, che si limitò a uno sbuffo superbo pur
non
trovando modo di controbattere.
«E
a proposito di questo, so di non essere il tuo primo testimone ma
vorrei comunque chiedere il permesso di organizzare io il tuo addio
al celibato. Innanzitutto perché, in mano mia, è
certo che ci
divertiremo...»
Con
fare presuntuoso, Rick sollevò un dito in aria, nell'atto di
contare
le innumerevoli ragioni per cui avrebbe dovuto poter prendere in mano
i festeggiamenti. Chiaramente non fece in tempo a sollevare del tutto
la prima nocca che venne interrotto dai commenti sarcastici
dell'amico.
«Oh
sì certo, perché ce lo ricordiamo tutti l'addio
al celibato di
Ryan...»
«…
E secondo perché finanzierei io, e io sono ricco»
Un
secondo dito si alzò a fare compagnia al primo, e negli
occhi dei
due compari Rick lesse che non avrebbe avuto bisogno di aggiungerne
un terzo.
«Permesso
accordato, senza offesa bro'»
«Nessuna
offesa»
«Meraviglioso!
E a questo riguardo ho una domanda da fare: spogliarelliste
sì o
spogliarelliste no?»
«Sì
Javier, cosa dice la sposa?»
Il
tono di Ryan era chiaramente ironico, teso ad affondare il coltello
su una piaga aperta anni prima, ai tempi del suo di addio al celibato
in
quel
di Atlantic
City.
Allora quella stessa domanda era stata posta a lui, e la sua risposta
non era particolarmente piaciuta ai suoi amici.
«A
differenza tua, Ryan, io sposerò una donna dalle larghe
vedute per
cui le spogliarelliste sono accettate purché viga la regola
del “si
guarda ma non si tocca”»
«Mi
sembra accettabile»
Castle
ascoltava ridicolmente assorto, il mento poggiato sulle mani
intrecciate e la stessa serietà e concentrazione che avrebbe
dedicato al resoconto di un omicidio da risolvere, o tutt'al
più a
una partita di poker particolarmente agguerrita.
«Però
Lanie ha precisato che se io avrò le spogliarelliste al mio
addio al
celibato, lei avrà i spogliarellisti al suo addio al
nubilato... Uno
scambio equo, così l'ha definito. Ma sinceramente non ho
ancora
deciso se questa equità mi stia bene oppure no»
«Beh,
c'è tempo per quello, pensiamo ad altro…tipo la
location!»
Abbandonato
l'atteggiamento grave e riflessivo di qualche istante prima, il viso
di Castle tornò ad accendersi di una puerile esaltazione,
che ben
presto contagiò anche gli altri due compagni. La successiva
mezz'ora passò così a discutere di dettagli come
il cibo, la
componente alcolica e soprattutto il dove organizzare il tutto,
passando da location più comuni -come un nightclub o lo
stesso Old
Haunt- ad altre più eccentriche -come gli Hamptons- fino a
quelle
decisamente improbabili quali la luna -candidamente proposta da
Castle perché :chi mai non vorrebbe un addio al
celibato
spaziale?
Se
Ryan a un certo punto non si fosse responsabilmente imposto di
alzarsi, avrebbero facilmente potuto continuare a discuterne per
ore.
Salutato l'amico, i due reduci decisero per un ultimo giro prima di
tornare anche loro alle rispettive case. Traendo vantaggio dalla
scarsa clientela, Rick ne approfittò per versare da bere a
sé e
all'amico lui stesso, assecondando così la sua poco appagata
passione per lo spillare la birra. Nonostante l'ora non troppo tarda,
infatti, nelle sere infrasettimanali all'Old haunt non c'era mai
particolare movimento. Era anche per questo che avevano scelto di
riunirsi il mercoledì: ciò consentiva loro di
stare più raccolti e
di poter parlare senza il fastidio dell'eccessiva confusione tipica,
invece, del weekend.
Castle
tornò al suo tavolo tenendo tra le mani due birre
traboccanti di
schiuma, segno che, se avesse dovuto effettivamente gestire il locale
da sé, sarebbe ben presto fallito e anche miseramente,
ché neanche
un mese di pratica sarebbe bastato a compensare un'evidente mancanza
di talento naturale. Nell'osservare
il proprio boccale lo sguardo di Esposito era evidentemente
perplesso, e Castle immaginò stesse decidendo se
risparmiargli o
meno il commento sarcastico di rito, di quelli che puntualmente gli
venivano rivolti ogni qualvolta decideva di cimentarsi in imprese
simili dinanzi i suoi amici.
«Con
tutto questo parlare di matrimoni e bambini, ho dimenticato di
chiederti come è finita con l'esercito! Hai deciso se
accettare o
meno la loro proposta?»
«A
dire la verità no. Si tratterebbe di tenere un corso di
tecniche
investigative di base di fronte a dei pivelli, quindi minimo sforzo e
ottimi guadagni. D'altra parte però non so se mi vada l'idea
di
rientrare nella realtà dell'esercito... Non tutti i ricordi
legati a
quel periodo sono piacevoli»
«Lanie
che dice?»
«Secondo
lei sarebbe una buona opportunità, ma lascia che sia io a
decidere.
Quindi penso mi prenderò un altro po' di tempo, se non altro
per
indispettire qualcuno ai piani alti»
Una
risata increspò le loro labbra, che Castle
soffocò tuffando le
proprie oltre la coltre di schiuma del boccale, attendendo
pazientemente che della birra sopraggiungesse a destinazione. Quando
ne ebbe ingollata una generosa sorsata allontanò il boccale
dal
proprio viso, per scoprirsi così oggetto d'attenzione di
Esposito, intento a osservarlo ora con un strano cipiglio in volto,
perso
in chissà quale riflessione.
«E
a te invece le cose come vanno? Successo qualcosa di interessante
oggi?»
La
domanda suonò strana alle orecchie di Castle tanto quanto il
fatto
che a pronunciarla fosse stato un tipo come Esposito, raramente
interessato alla quotidianità degli altri. Il
chiacchiericcio era
più una prerogativa sua, o tutt'al più di Ryan,
cui Esposito si
sottoponeva esclusivamente per necessità sociali.
«Niente
di speciale, in effetti. Le solite beghe con l'editore, qualche
commissione e poi ho cenato da Laura. È in giornate piatte
come
queste che smanio per qualche bell'omicidio intricato da
risolvere»
«Se
fossi costretto a farlo per lavoro smanieresti meno, te lo assicuro.
E con Laura come vanno le cose?»
«Con
Laura va tutto benissimo, come sempre»
L'improvviso
interesse per la sua vita sociale mostrato dall'ispanico
iniziò a
insospettire Castle che, indeciso su dove questi volesse andare a
parare con le sue domande, settò il proprio cervello
anticipatamente
sulla difensiva, giusto per preucazione. Col senno di
poi non si pentì della sua scelta.
«Hai
presente quel tacito accordo tra noi, per cui quando siamo soli
non si parla di Beckett, mai in nessuna occasione? Bene, sto per
romperlo, per quest'unica volta sia chiaro, dopodiché le
cose
torneranno come al solito»
«Che
c'entra Beckett adesso?»
«Andiamo
amico, questo...» Esposito si
lasciò andare ad un ampio gesto della mano, a indicare la
faccia di
Castle e l'ombra funerea che l'aveva accompagnata per tutta la sera,
nonostante i suoi evidenti sforzi di tenerla sottopelle
«c'entra sempre con
Beckett. Per cui te lo chiederò una volta sola. Che
è successo?»
Castle
sembrò ponderare attentamente la situazione, indeciso se dar
libero sfogo o meno
alla fiumana di parole che, a quanto pareva, portava scolpita a
chiare lettere sul volto da che era arrivato. Da giocatore di poker
esperto quale si reputava, si sentì offeso nel profondo
dalla
propria mancanza di autocontrollo, specie di fronte a due detective
la cui esperienza nello scoprire indizi nascosti avrebbe dovuto anzi
spingerlo ad alzare ulteriormente le proprie difese. Quantomeno con
Laura aveva avuto successo.
Non
che non avesse intenzione di parlarne ai suoi amici, soltanto che non
gli era sembrato il momento adatto, con tutta quella
felicità che,
tra i non-troppo-falsi allarmi di Ryan e le imminenti nozze di
Esposito, si respirava in quel gruppo ultimamente. Alla fine
comunque, l'inaspettato presentarsi dell'occasione, lo sguardo di chi
non ammetteva replica di Esposito, e il sincero bisogno di formulare
a voce alta i propri pensieri a qualcuno che non fosse invisibile, lo
convinsero ad aprirsi, non prima però di aver cercato
coraggio in
una nuova dose di birra ghiacciata.
«L'ho
incontrata, il week-end in cui sono stato a Washington»
«Lo
sapevo! Ma insomma Castle, che ti dice la testa? Perché
diavolo sei
andato a cercarla, cosa speravi di ottenere?»
«Ad
essere chiari è stata lei a presentarsi davanti al mio
albergo, non l'ho cercata io! D'altra parte però non ho
neanche
girato i tacchi quando l'ho vista, quindi immagino di avere anche io
la mia buona parte di responsabilità...»
«E
che è successo? Perché dubito che il tuo malumore
sia dovuto al
semplice averla rivista, è una cosa a cui dovresti essere
abituato
ormai»
«No,
infatti...»
Il
capo di Castle si fece pesante, sotto il peso di immagini
evidentemente più grevi delle precedenti. A Esposito non
sfuggì
quel repentino cambio di atteggiamento, e avendo letto nel gesto
dell'amico un totale crollo di difese, abbandonò anch'egli i
toni
incalzanti mantenuti fino a quel momento, e gli lasciò
invece il suo
tempo per rispondere, attendendo pazientemente che mettesse in ordine
le parole
prima di proseguire.
«Abbiamo
cenato insieme, non so neanche perché, ma inaspettatamente
non è stato poi troppo strano o imbarazzante, anzi
è andata
piuttosto bene... Finché non siamo finiti a letto. Il giorno
dopo
sono ripartito»
«Wow...
»
«Già,
wow»
Quell'ultima
parola lasciò l'amaro in bocca a Castle, e lui
tentò di lavarlo via
con un altro consistente sorso dal suo boccale.
«Non
imparerò mai, ogni volta penso di essermela lasciata alle
spalle e
poi...»
Esposito
ritenne di dover dire qualcos'altro, per evitare che il suo unico
contributo a quella discussione consistesse in una serie di domande e
in un lapidario monosillabo dalla scarsa utilità, tuttavia
per
quanto si stesse sforzando non riusciva a ripescare nella sua mente
nulla di adatto alla situazione, o comunque niente che immaginava
avrebbe potuto portare sollievo alla frustrazione evidente del suo
compagno di bevute, cosicché alla fine ad uscire dalla sua
gola fu
l'ennesima domanda.
«Questo
però è successo quasi un mese e mezzo fa, no?
Quello che non
capisco è perché tu ci stia ripensando proprio
adesso»
«Prima
di venire qui ho ricevuto una chiamata sul cellulare da un numero
fisso sconosciuto. Io ero in bagno e ha risposto Laura, ma ha detto
che all'altro capo non c'era nessuno...»
«E tu pensi
che fosse lei?»
«Sono
certo che fosse lei, Javier... Ma tanto per non lasciare dubbi ho
controllato il numero, il prefisso è di Washington. Chi
altri
potrebbe essere»
Non
era una domanda la sua, ma una lucida constatazione.
«E
Laura? Pensi sospetti qualcosa, è questo che ti preoccupa?»
«No,
lei non sa nulla, non ha neanche fatto caso alla chiamata. E anche se
fosse, detto sinceramente sappiamo entrambi che la nostra non
è una
cosa così seria da far sorgere preoccupazioni, non ancora
almeno...»
Mentre
ancora stava parlando, Castle vide la sua stessa mano sbattere
violentemente il boccale sul tavolo, in un impeto di sfogo totalmente
arbitrario che immaginò fosse dovuto alla rabbia che
lentamente
sentiva risalire lungo il proprio corpo, e che il suo braccio doveva
aver
colto prima ancora che questa divenisse accessibile alla sua
coscienza.
«Perché
fa così? Io davvero non riesco a capirla! Cosa vuole ancora
da me,
perché diavolo mi chiama?»
«Beh
in questa storia vi ci siete cacciati in due, però...»
«Lo
so, maledizione! Lo so...» il
tono si fece di nuovo pacato, e la frustrazione tornò a
dominare
sulla rabbia «Ma come hai detto tu è passato
più di un
mese, quindi perché adesso?»
«Non
lo so Castle, forse qualcosa l'ha fatta ripensare a..»
«No
Espo, basta tentare sempre di giustificarla. La verità
è che lei ha
sempre fatto il bello e il cattivo tempo nella mia vita, a suo totale
piacimento. E io l'ho sempre lasciata fare. Se ne va, poi torna, poi
mi lascia, mi riprende... ora sono davvero stanco»
«Mi
dispiace amico»
Non
trovò nient'altro da dire, e in cuor suo sapeva che nulla
comunque
avrebbe mai davvero potuto sortire un qualche effetto positivo
sull'umore dello scrittore. E in fondo, se lo aveva spinto a
parlare
non era per elargire consigli, ma soltanto per dargli la
possibilità
di sfogarsi, convinto che al momento attuale quella fosse la sola
cosa a potergli portare un qualche beneficio. O comunque l'unico modo
in cui lui poteva provare ad aiutarlo. Aveva sempre creduto in loro,
in Castle e Beckett, e ancora adesso nonostante tutto ciò
che era
successo, nonostante tutto il tempo che era passato e tutte le cose
che erano cambiate nel frattempo, una parte di lui ancora credeva in
loro.
Non era
mai stato un tipo sentimentale, niente colpi di fulmini o anime
gemelle: per lui l'amore erano semplicemente due persone che si
incontravano, si piacevano e decidevano di stare insieme. Libero
arbitrio, nessun intervento del destino. Se con una non andava allora
ce n'era un'altra ad aspettarlo dietro il prossimo angolo, senza
troppe complicazioni: non temeva la fine di una relazione, per
importante che fosse, perché non credeva nell'esistenza di quella
giusta. Esisteva solo
quella del momento,
quanto a lungo durasse quel momento, quella era un'altra storia. Con
Lanie si augurava sarebbe durato per sempre.
Eppure
più volte osservare Castle e Beckett insieme aveva fatto
vacillare
le sue certezze: non sapeva se fosse stato per l'ostinazione mostrata
da Castle in tutti quegli anni in cui era rimasto al suo fianco,
aspettando fiducioso una sua apertura, o per l'aver assistito
in prima persona, giorno
dopo giorno, al cambiamento di Beckett da chiusa e intransigente
detective a donna sorprendentemente vitale e completa. Anche adesso,
quel dolore ancora vivido nello sguardo di Castle gli dava ragione di
credere che non tutto era perso. O ancora, forse era solo
colpa del
troppo tempo passato con Lanie, che in loro aveva riposto
incondizionata
fiducia sin da subito, prima ancora che quel rapporto assumesse
connotati reali.
Senza
più alcuna parola da poter essere aggiunta, entrambi
lasciarono che il discorso cadesse, finché le ultime gocce
di birra
non furono smaltite in silenzio e arrivò il tempo
dei saluti. Castle
fu il primo a uscire dal locale, una pacca sulle spalle dell'amico e
sparì dietro la spessa porta legnosa dell'Old haunt,
inghiottito
dalle luci della città. Esposito
invece si attardò ancora qualche minuto, intento a esaminare
una qualche
riflessione apparentemente emersa dal fondo opalino del bicchiere,
che giocava a far oscillare di fronte al proprio naso.
«Quei
due mi faranno impazzire...»
Poggiò
con rassegnazione il boccale sul bancone, fece un cenno di commiato
al barista -ormai vecchio amico- e afferrata la giacca se la
buttò
malamente sulle spalle, cacciando le mani dentro le tasche mentre
anche lui si tuffava nell'umida sera NowYorkese.
La
mano destra prese a frugare nel piccolo antro di tessuto in cui
s'era adagiata fino ad estrarne il telefono. Pigiò,
senza neanche
guardarlo, un numero sulla tastiera e attese che la chiamata rapida
venisse inoltrata.
«Hey
Javier, che succede?»
«Mi
devi venti dollari Bro'»
«Cos...
Oh, ma andiamo!»
«Consolati,
in compenso io ne devo cinquanta a Lanie»
«Vuoi
dire che... Loro hanno...»
«Sì»
«Che
casino»
«Già,
proprio un gran casino»