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Autore: Sibylla    21/05/2015    4 recensioni
E se Kate non avesse mai accettato la proposta di matrimonio di Castle? E se il destino non si fosse ancora arreso, a differenza di loro stessi?
Dal prologo:
"Erano già passati due anni. [...]
Lo aveva detto lui, entrambi meritavano di più: più della paura di rivelarsi cosa fossero e più di un forse. E un forse era proprio ciò che gli aveva dato lei. Tutta l'esitazione concentrata nel rapido scatto delle sue iridi verdi. Avevano ceduto un solo istante all'attrazione dei loro sguardi, per posarsi su un punto troppo distante da loro due, tradendo il proprio desiderio di fuga.
[...]
Da quel giorno non aveva mai più visto Rick.
Castle, invece, lo aveva incontrato altre volte."
Genere: Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kate Beckett, Richard Castle | Coppie: Kate Beckett/Richard Castel
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nel futuro, Più stagioni
Capitoli:
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Tired of justifying

And right now there's a war between the vanities
But all I see it's you and me
The fight for you is all I've ever known

(Come Home - One Republic)


L'illuminazione stradale aveva da poco ceduto il passo alla luce naturale.
Le parve di scorgere il sole nel timido riverbero dello specchietto retrovisore, il primo raggio da che era sveglia, e non riuscì a soffocare l'ennesimo sbadiglio al pensiero di aver battuto sul tempo l'alba, di nuovo.
Ancora una volta l'America, aiutata dal soave strepitio del cellulare, le aveva dato il buongiorno nel modo che le era più congeniale: con un omicidio. E ancora una volta non si era curata di chiedersi se le cinque e mezza, un'ora come tante per una città come Washington, fossero altrettanto adatte a lei, che di dormire invece ne avrebbe avuto bisogno. Svoltò per Cannabeel Street con il piede un po' troppo in sintonia con l'acceleratore, approfittando del fatto d'essersi finalmente lasciata alle spalle il centro cittadino con il suo traffico e i suoi semafori rossi, troppi per essere appena le sei di un banale giovedì mattina. 
Dopo una decina di minuti raggiunse finalmente l'ingresso del centro di demolizione.
L'insegna in ferro battuto campeggiava alta e imponente sopra il cancello principale, stridendo fortemente col cimitero di rottami e vecchie carcasse d'auto che si stagliava tutto intorno. Improvvisamente la sua malandata vettura le sembrò perfetta.
Posteggiò al centro di uno spiazzo, e sufficientemente lontano dalla pila di automobili ammassate le une sulle altre, timorosa che in un impeto di gelosia queste decidessero di franare sulla propria. Estrasse con lentezza la chiave, lasciando che le spie luminose del cruscotto venissero inghiottite dall'oscurità, e si abbandonò col capo all'indietro.
Era esausta ancor prima di cominciare.
Attraverso le palpebre chiuse, percepì il fastidio di un raggio di sole più violento degli altri, e si costrinse ad aprire un occhio per esaminarlo ad armi pari.
Non le ci volle molto per individuare la fonte di quel fastidioso riflesso di luce, fastidioso quanto l'oggetto che l'aveva causato: il bottone blu di un pantalone oscillava vanesio davanti al suo viso, sospeso allo specchietto tramite un sottile filo di cotone, mosso da un vento che non c'era. Al centro, il minuscolo inserto in metallo che avrebbe consentito al bottone di chiudersi, se opportunamente accompagnato da un secondo pezzo -attualmente disperso-, catturava avido il sole da ogni angolatura possibile, rispedendone il riflesso al mittente in un continuo e generoso do ut des.
Delicatamente, Kate lasciò che le proprie dita tracciassero in aria quella piccola circonferenza, inducendone una modifica nella traiettoria che alleviò temporaneamente il suo fastidio. Non sapeva perché avesse deciso di costruire quell'insolito pendaglio, né tanto meno perché, di tutti i posti possibili, avesse scelto di posizionarlo proprio in auto.
Aveva trovato quel bottone una mattina di quasi due mesi prima, qualche giorno dopo la loro notte insieme e  non le ci era voluto molto per indovinare chi fosse il proprietario di quel piccolo disperso. La fattura elegante e la costosa marca incisa sul retro avevano spazzato poi via ogni dubbio, se mai ne avesse avuti. Sul momento aveva ovviamente pensato di gettarlo via, come avrebbe fatto chiunque altro di fronte a un ritrovamento tanto insignificante e privo di valore, ma arrivata a un passo dal cestino aveva sviluppato un improvviso e morboso attaccamento per quel pezzetto di plastica, e non aveva avuto cuore di separarsene. Al contrario, aveva passato un'intera giornata a rigirarselo tra le dita, e prima di rendersene conto vi aveva già fatto passare un filo attraverso e lo aveva appeso esattamente lì dove era ora.
Piccolo com'era, c'erano giorni in cui neanche vi faceva caso o in cui esso stesso si nascondeva alla sua vista, dietro la superficie dello specchietto retrovisore. Altre volte invece, Kate aveva come l'impressione che fosse cresciuto in dimensioni durante la notte, e si ritrovava così a fare i suoi viaggi per le strade di Washington con una presenza silenziosa, ma considerevolmente ingombrante, al suo fianco. L'aspetto peggiore di quei giorni, comunque, non era tanto la compagnia in sé -talvolta quasi piacevole- quanto i discorsi che, senza spreco di parole, venivano puntualmente affrontati e che sfociavano regolarmente nella rievocazione della mattina dopo.
Anche adesso, che pure il bottone era rimasto bottone e non s'era fatto passeggero inopportuno, Kate sentiva la sua mente scivolare inarrestabile lungo la pericolosa china di quel ricordo.

Un fruscio di stoffe l'aveva svegliata dal suo sonno. Stanca e confusa, e disabituata com'era alla compagnia nel suo letto, aveva dovuto allungare la mano e scoprire il calore insolito sull'altro lato del materasso per ricordarsi di ciò che si era appena consumato in quella camera, e rendersi conto dell'uomo in piedi, nel buio, di fronte a lei.
«Castle...»
Una punta d'allarme aveva sfaldato le barriere della sua stanchezza, donando alla sua voce ancora impastata dal sonno un tono tuttavia straordinariamente vigile. Non aveva avuto bisogno di accendere la luce per capire che si stava rivestendo.
«Devo andare. Se sarò fuori di qui prima che faccia giorno forse potrò illudermi di aver semplicemente immaginato tutto questo, come sempre»
«Castle, aspetta...»
Sebbene le sue intenzioni le fossero state chiare sin dall'inizio, quando lo aveva scoperto ad aggirarsi furtivo nell'oscurità, il sentirsi confermare ad alta voce la prospettiva di una fuga nel cuore della notte l'aveva trafitta con una violenza tale da spingerla a credere, per un attimo, che lui l'avesse colpita con qualcosa di molto grosso e appuntito. Solo parecchi profondi respiri dopo, insieme alla certezza -tastata con mano per maggiore sicurezza- che facendolo non sarebbe morta dissanguata, l'avevano convinta a muoversi. Colta da un brivido di freddo per l'abbandono improvviso del suo caldo giaciglio, non aveva avuto il coraggio di scendere fisicamente dal letto e separarsi così dal calore delle lenzuola, piuttosto s'era trascinata fino al bordo del materasso e aveva allungato una mano nel buio, nel disperato tentativo di acchiapparlo pur non riuscendo a vederlo.
«Aspetta, Rick. Ti prego!»
«No Kate! Non parlare, per favore... Perché se tu ora mi dicessi di restare io lo farei, lo farei senza pensarci un attimo, e non posso permetterlo. Tu non sei rimasta per me, non sei rimasta con me...»
Aveva scorto un rapido e indistinto movimento nel buio, e aveva immaginato le sue spalle irrigidirsi sotto la durezza di quelle parole. Avrebbe voluto poggiare una mano su quelle scapole, rubare da esse la tensione che sapeva essersi accumulata, ma tutto ciò che le sue dita riuscivano ad acchiappare erano l'aria e la minaccia sempre più vicina della sua assenza.
«Se me lo chiedessi ora direi di sì. Se tu mi chiedessi di sposarti, adesso, io ti direi di sì»
«Il tuo adesso arriva troppo tardi»
Non lo aveva visto uscire, non aveva udito nemmeno il rumore dei suoi passi allontanarsi dalla camera. Aveva solo smesso di sentire il suo respiro risuonare per la stanza -e fino ad allora neanche si era accorta di quanto normale suonasse alle sue orecchie la presenza di quel sottofondo e di quanto fosse sbagliata la sua assenza. E poi era arrivato il fragore della porta, sbattuta violentemente contro lo stipite.
Quel tonfo sordo aveva spazzato in un sol colpo ogni cosa dalla sua mente, lasciandola sola senza neanche più un pensiero a cui aggrapparsi. Le mani, ancora tese verso il nulla, erano ricadute inermi sul materasso, ma con l'adrenalina ancora non smaltita del tutto erano andate a chiudersi intorno alla prima cosa che avevano trovato: le lenzuola. Senza mollare mai la presa, se le era avvolte intorno al corpo ripetutamente, fino al punto da non potersi più muovere, e si era poi rannicchiata sul lato del letto in cui fino a qualche istante prima aveva giaciuto lui, accoccolandosi tra le spire del suo calore ancora vivido sul materasso. Si era addormentata così, senza cuscino e con la sola compagnia di una lacrima solitaria, venuta ad animare il suo viso altrimenti inespressivo.

Un urlo e l'inconfondibile odore di copertoni bruciati riportarono la sua attenzione al presente.
Già da lì poteva vedere la piccola folla di uomini della scientifica e poliziotti riunita, presumibilmente, attorno al cadavere: come schegge impazzite saettavano da un lato all'altro del perimetro, quasi che un omicidio nell'alba americana fosse una cosa rara a vedersi. Lei invece, per quanto si sforzasse, non riusciva a farsi coinvolgere da quella frenesia, forse perché ancora troppo assonnata e con una grave insufficienza da caffeina, forse perché distratta da altri pensieri o forse perché, semplicemente, troppo avvezza ormai ai morti. Rassegnata mai, ma l'abitudine era talvolta un inconveniente del suo lavoro.
Un lavoro che si era scelta e che adesso la reclamava.
Fece schioccare le dita sul volante, come a volersi dare la carica, e finalmente si decise ad uscire dall'abitacolo, richiudendosi la portiera alle spalle con un colpo secco.
Procedette spedita in direzione dei suoi uomini, ben stretta nel suo cappotto blu per ripararsi dall'umidità notturna di cui l'aria era ancora satura. L'eco dei suoi tacchi si fuse gradualmente con le voci dei presenti e, quando ormai mancavano solo pochi metri alla sua meta, riuscì a scorgere una mano penzolare fuori dal sedile di un catorcio arrugginito. Un sorriso amaro le si disegnò sul viso.
No, forse -e per fortuna- non si sarebbe mai abituata alla morte.


Era stata una giornata pesante, complicata ulteriormente da un assassino con la passione per la piromania e una vittima dal volto troppo noto e dalla vita privata insospettabilmente vivace. Gran parte del pomeriggio lo aveva trascorso ad ascoltare il suo capo dipartimento sottolineare, per l'ennesima volta, i rischi del trovarsi tra le mani un caso di così dominio pubblico quale prometteva di essere quello. In pratica aveva, e in maniera neanche troppo velata, ricordato loro che per quanta libertà d'agire gli fosse concessa dal proprio distintivo, c'erano comunque dei limiti che era necessario non superare, mai.
Era forse questo ciò che odiava di più del suo lavoro attuale: una gran dose di potere, ma solo apparente, tenuto al guinzaglio dalle macchinazioni della politica e del governo. Scaraventò con ben poca delicatezza i fascicoli del caso sul divano, e si versò un bicchiere di vino, prima di prendere posto accanto a loro. Per quanto portarsi a casa il lavoro non fosse un ostacolo alla sua vita sociale pressoché inesistente, la sua capacità di concentrazione quella sera languiva così come la sua voglia di cercarla.
Arrivata al fondo del suo bicchiere, non aveva ancora nemmeno aperto il primo fascicolo e dovette venire a patti con la consapevolezza che, almeno per quella sera, non sarebbe mai successo. Decisa ad assecondare la piega che i suoi pensieri avevano preso sin da quella mattina in auto, e conscia che combatterli sarebbe stato estenuante oltre che prevedibilmente inutile, si diresse quindi verso la porta sull'estremità destra del soggiorno, non prima però di aver fatto tappa intermedia in cucina per versarsi un altro bicchiere di rosso.
Lo stanzino era polveroso, come ci si poteva aspettare da una stanza piccola e tenuta sempre chiusa, e tuttavia stipata com'era di scatoloni -ordinatamente impilati gli uni sugli altri- non lo era al punto da risultare sporco: probabilmente lì dentro teneva così tanta roba che anche la polvere faticava a trovar posto.
E in effetti Kate aveva rinchiuso in quel loculo di due metri per due tutta la sua vita passata: dai ricordi dell'infanzia a quelli del Dodicesimo, compreso lui.
Più volte aveva tentato di dare una collocazione definitiva alle centinaia di ninnoli e oggetti che si era portata da New York, ma ogni volta che li aveva tirati fuori da quello stanzino non erano durati che pochi giorni nella loro nuova sistemazione, i più fortunati anche una settimana. Non sapeva esattamente quale fosse il problema di quella casa, ma sembrava decisa a sputar fuori qualunque cosa non trovasse di proprio gradimento: e apparentemente aveva gusti estremamente difficili. 
Era come se in qualunque modo, o zona, Kate sistemasse i suoi effetti personali, questi stonassero violentemente con il resto al punto da risultare persino fastidiosi.
Alla fine aveva semplicemente smesso di provarci.
Certe volte una vocina nella sua testa le sussurrava che quella divergenza di opinioni non era un banale problema di stili d'arredamento, ma piuttosto era il segnale di un disagio più grande: un disagio tutto interiore, e non davvero legato alla casa. Quando quella vocina tornava alla carica, riesumava dal mucchio qualche foto -quelle erano più facili da collocare- e le disseminava per la casa a dimostrazione che, se solo avesse voluto, avrebbe potuto riversarvi dentro anche l'intero stanzino. Per il resto quando ne aveva bisogno, o semplicemente voglia, apriva quella porta e faceva un tuffo nel proprio passato, seduta sul limitare della soglia, in un punto che -come in un limbo- era una realtà a sé stante: né parte né non parte di quella casa.
Col bicchiere sapientemente adagiato sul parquet, a distanza di sicurezza dalle proprie gambe, guadagnò la solita postazione, e trascinato verso di sé uno scatolone lo aprì.
Odorava di chiuso con un vago sentore di lavanda.
Una ad una estrasse le piccole cornici, custodi di fotografie per lo più sbiadite dal tempo e dal sole: una in particolare appariva più usurata delle altre, a causa di tutto il tempo passato ripiegata tra le piccole tasche del suo vecchio portafoglio. Risaliva al matrimonio di Ryan. Erano tutti lì: dagli sposi, raggianti in primo piano, a loro quattro -accoppiati anzitempo, e nel giusto ordine, per un strano scherzo del destino. A voler prestare maggiore attenzione, sullo sfondo si sarebbero potuti facilmente intravedere persino i rispettivi -e improbabili- accompagnatori di Lanie ed Esposito, ma i veri protagonisti della foto erano indubbiamente loro sei, in quella che facilmente sarebbe potuta essere un'esaustiva anticipazione del futuro. Se le cose fossero andate diversamente.
Accantonato quel piccolo attentato fotografico al suo cuore, si dedicò ad altre memorie passando così in rassegna l'intero scatolone e procedendo indietro lungo il suo passato da poliziotto, fino alla foto del suo ultimo giorno all'Accademia. In piedi e sull'attenti, avvolta nella sua divisa, lo sguardo fiero di chi sa di aver trionfato sulle proprie avversità, ma velato dall'ombra di una ferita ancora troppo fresca. Aveva ancora quella divisa, conservata da qualche parte proprio in quello stanzino: ormai consunta e troppo stretta, non era mai riuscita a disfarsene sebbene negli anni ne avesse accumulate di più nuove e più conformi alla sua taglia. Sorrise nel ripercorrere il proprio profilo più giovane, immortalato tra le sue mani; poi, quando ne fu sazia, rimise di nuovo tutto accuratamente dentro la scatola e la spinse fino in fondo allo stanzino, facendole riguadagnare il suo posto.
Non sentendosi ancora pronta a terminare quel viaggio lungo il viale dei ricordi, perlustrò con gli occhi lo spazio di fronte a sé, decisa a passare a una nuova scatola, e la sua scelta si orientò -in un puro e consapevole atto di masochismo- su una appena visibile da dietro le altre, ricoperta da uno strato di polvere talmente spesso da apparire quasi come un voluto imballaggio. Fu necessario tirar fuori altri tre scatoloni prima di poter raggiungere quello prescelto, ma alla fine eccolo lì, torreggiante tra le sue gambe e sigillato così bene che aprirlo quasi le dispiacque.
Con le dita leggermente madide di sudore, scivolose ad ogni tocco, dovette combattere un bel po' contro lo scotch prima di poterlo ridurre tutto in una palla appiccicosa e disordinata sul pavimento. Quando infine la scatola fu aperta, una leggera nuvola di polvere si sollevò dallo strato superiore facendola starnutire. Liberatasi così dall'impaccio delle vie respiratorie ostruite, fu colta dal forte e inconfondibile odore di carta, tipico di quando ci si tuffa col naso tra le pagine di un libro mai aperto o aperto troppo poco.
La copertina di Heat Rises in cima alla pila, leggermente avulsa in alcuni punti e scolorita in altri, si pavoneggiò delle sue tinte brillanti, decisa a recuperare tutto il tempo trascorso chiusa in quella scatola, dove nessuno aveva potuto ammirarla. Passando con disinvoltura dalle avventure di Nikki Heat a quelle di Derrick Storm e viceversa, ad uno tutti i volumi vennero tirati fuori dalla loro angusta dimora, e impilati ordinatamente sulle assi del parquet.
Nel farlo, Kate si costrinse a non capovolgerli mai, per non doversi imbattere nella sua faccia tronfia e nella profondità recriminante del suo sguardo puntato su di lei. Prima di riposarli al proprio fianco li sfogliava però distrattamente, catturando qua e là qualche parola o qualche frase scelta a caso tra i milioni di caratteri dormienti su quelle pagine. Solo Heat Wave venne aperto con intenzione, esattamente alla seconda pagina: quella custode della famosa dedica. Nel ripassarla, le dita esercitarono una maggiore pressione sulle sue iniziali in grassetto, fino a percepire il leggero ripiegarsi della carta verso il fondo, lì dove la macchina da stampa aveva impresso in eterno la K e la B.
"Lui dedica i suoi libri solo alle persone a cui tiene molto..."
Le parole
di Kira Blaine ogni tanto tornavano a farle visita. Chissà a chi avrebbe dedicato adesso ai suoi libri. A Laura, forse?
Il solo pensiero bastò a rimestarle le budella nello stomaco.
Di slancio si alzò da terra, e sicura si diresse all'armadio della sua camera da letto, spalancandone le ante. Lì, in basso, ben nascosta tra sciarpe e borse d'ogni tipo, la busta rossa del suo ultimo acquisto in libreria giaceva intonsa e ancora chiusa. Con un gesto deciso l'afferrò e ne strappo la sommità, lasciando che il libro al suo interno vedesse finalmente la luce. E con una punta di puerile orgoglio notò, con scorretto piacere, che nessuna dedica introduceva quelle pagine.
Forte di quella nuova scoperta, si sedette sul bordo del letto con il libro stretto tra le mani.
Una parte di lei fremeva dalla curiosità di sapere se in esso si parlasse ancora di lei, o se anche Nikki Heat -come Derrick Storm prima di lei- aveva ormai appeso il distintivo al chiodo, lasciando spazio alle nuove leve. D'altra parte a vincere fu l'altra Kate, quella che invece non voleva sapere, preferendo restare a sguazzare nel mare di possibilità che l'ignoranza le apriva dinnanzi.
Non sapeva esattamente perché lo avesse comprato: non aveva mai avuto nessuna intenzione di leggerlo, e probabilmente non lo avrebbe mai fatto. Si era data della vigliacca per questo, più di una volta, ma era qualcosa cui -nella sua condizione attuale- non era disposta a cedere. Tuttavia aveva sentito comunque di doverlo comprare: quasi che a rompere la sequenza ordinata di quella collezione, anche l'ultimo filo che ancora li teneva legati si sarebbe spezzato per sempre.
Tornata in soggiorno alcuni minuti dopo, trascinò tutti i libri fuori dal perimetro sicuro dello stanzino, verso il divano, e sedutasi a terra con la schiena appoggiata ai cuscini, li dispose in ordine di uscita, lasciando che il libro ancora stretto tra le sue mani andasse a occupare l'ultimo posto rimasto. Quando ebbe finito, si concesse qualche istante per osservarli: le mani giunte di fronte al viso, col pollice a picchiettare meditabondo la punta del suo naso.
A vederli così, tutti insieme uno dietro l'altro, era come osservare la sua stessa vita concentrata nello spazio rilegato di alcune pagine. Ogni libro, oltre la propria trama, raccontava infatti anche un periodo ben preciso della sua vita: così in un capitolo della saga di Derrick Storm rivedeva se stessa alle prese con l'omicidio di sua madre, mentre in un altro si vedeva nel momento in cui aveva iniziato a maturare la decisione di diventare poliziotta. E ancora, nel primo Nikki Heat ritrovava la se stessa di sette anni prima, alle prese con il primo Castle in quello che -avrebbe capito solo dopo- sarebbe stato un importante momento di svolta della sua vita.
L'allungarsi del suo braccio per afferrare il cordless del telefono fisso fu la conseguenza diretta di quel continuo osservare la propria esistenza venir fuori dalle copertine dei manoscritti. Non dovette neanche pensare, le dita digitarono il numero autonomamente, rapide quanto il battito del suo cuore adesso. 
Non sapeva cosa gli avrebbe detto una volta che avesse risposto, certa che, come l'ultima volta, le parole giuste sarebbero sgorgate fuori da lei spontaneamente. Qualunque cosa fosse ad ogni modo le morì in gola nell'esatto istante in cui a risponderle fu una voce femminile, che a malincuore non riconobbe nè come quella di Alexis né di Martha.
Il tono di quella voce, e la serena insistenza con cui ripeteva "Pronto", le impedirono di agire con prontezza e chiudere immediatamente il telefono. Solo al terzo richiamo riuscì nell'impresa di riagganciare, quando ormai aveva avuto tempo a sufficienza a che quella voce le si imprimesse in profondità nella mente. 
Era la voce di una donna bella, giovane e felice. Una donna, ne era certa, con un buon profumo sempre addosso, e che risultava sempre perfetta qualunque cosa indossasse. Il tipo di donna in grado di lavorare, avere una famiglia e tanti amici, e contemporaneamente trovare sempre il tempo per sorridere alla vita. L'esatto opposto di lei, insomma.
Con un moto di stizza calciò i libri di fronte a lei, mandandone in pezzi l'ordine di pochi istanti prima, e rabbiosa ricacciò indietro le lacrime che cercavano ostinatamente di venire a farle visita.
Si era comportata da sciocca. Aveva sbagliato tutto.
Quella chiamata era stata solo l'ultimo della sfilza di errori stupidamente commessi quel giorno, fin dal dialogo mattutino col bottone.
Decise tuttavia che riversare tutta la sua frustrazione e la sua rabbia su di lui e su quella donna perfetta sarebbe stata una scelta molto più salutare così, ricacciati con furiosa fretta i libri dentro lo scatolone e rimesso quest'ultimo al proprio posto, si sedette sul divano con l'intera bottiglia di vino al suo fianco, pronta a venirle in soccorso se necessario, e decise che avrebbe passato il resto della serata ad odiarlo. Giusto per provare qualcosa di diverso, una volta tanto.


Il mercoledì sera all'Old Haunt era divenuto per loro tre un appuntamento fisso.
Eccetto che nei giorni in cui un omicidio li reclamava a lavoro: in quei casi era lui a raggiungerli al distretto, approfittandone per dar loro una mano col caso. Un tuffo nel passato. Piccole collaborazioni messe in piedi per lo più in concomitanza di omicidi particolari o eccentrici, del tipo che piacevano a lui; un modo come un altro per tenere viva la tradizione. Sorprendentemente la Gates non si era mai mostrata contraria a queste sue saltuarie incursioni, limitandosi alla solita aria indifferente -e sofferente- con cui Castle aveva imparato a conoscerla e ad apprezzarla fin dal suo primo giorno. Non sapeva se questa sua tolleranza fosse dovuta all'abitudine, alla semplice convenienza di una mente in più a lavoro su cui contare, o al fatto che anche lei talvolta sentisse quasi la mancanza di quell'atipico equilibrio maturato negli anni della sua collaborazione col dipartimento. Personalmente lui amava pensare fosse quest'ultima la ragione, per quanto improbabile che fosse.
Di certo c'era che nessuno si era aspettato di rivederlo tanto presto da quelle parti, sicuramente non appena un mese dopo la partenza di Beckett.
Lui stesso era stato il più sorpreso da quel ritorno.
In cuor suo mai avrebbe creduto di poter rimettere piede in quel luogo tanto in fretta, e con la relativa e ammirabile dose di disinvoltura che aveva invece sfoggiato nel varcare la soglia. Ed era era certo che in fatto di incredulità si era trovato in ottima compagnia, avendola chiaramente letta negli occhi di Esposito e Ryan la prima volta che li aveva rivisti e per tutto il mese successivo. E d'altronde tutti e due, per i primi giorni, non avevano fatto altro che trattarlo con i guanti, muovendosi con la stessa cura e professionalità con cui tante volte li aveva visti aggirarsi tra i detriti di una scena del crimine particolarmente cruenta, e questo non aveva fatto altro che far crescere il lui il dubbio di stare agendo in maniera sbagliata o inopportuna, sebbene essere lì con loro gli apparisse nonostante tutto ancora come la cosa più naturale del mondo.
E alla fine aveva capito: al di là di lei, e di quello che loro erano stati lì dentro, in qualche modo quelle quattro mura erano diventate anche sue. In qualche modo, per quanto inizialmente fosse entrato da ospite in quel distretto e pur non essendo davvero un poliziotto, col tempo questo aveva finito per diventare anche la sua casa. E solo dopo la loro. Era sempre stato certo che tornare lì avrebbe significato accettare l'idea di vedere tanta lei quanta ne aveva respirata in quei cinque lunghi anni, al punto da uscirne annientato. E in effetti era stato così, specie all'inizio.
I corridoi, l'ascensore, la scrivania, persino l'ufficio della Gates, tutto parlava di lei... Eppure l'annientamento non era arrivato: in compenso erano arrivati, dolore, nostalgia, frustrazione e una buona dose di rabbia inespressa.
Si era così velocemente reso conto che, per quanto quegli spazi fossero pieni di lei, non lo erano meno di quelli del suo loft. Il Dodicesimo era solo un'altra casa da cui lei era andata via, ma non per questo l'assenza di lei l'aveva resa meno sua. Questa cosa l'aveva rassicurato, e inondato di una nuova e tiepida iniezione di gioia. Rendersi conto che quegli ultimi anni gli avevano regalato, oltre a un amore vinto, anche dei veri amici, una scappatoia dalla sua quotidianità, la voglia e l'ispirazione per tornare a scrivere e in generale slancio al suo futuro, gli aveva dato la forza per riprendere a frequentare quel mondo con regolarità.
Certo, ancora adesso passare accanto alla sua scrivania e non cercare gli elefantini gli costava fatica, come anche dura era perdere l'abitudine a fare due caffè anziché uno: quando questo capitava, per salvare le apparenze ed evitare gli sguardi carichi di sincero e pesante cordoglio dei suoi amici, fingeva di averli preparati per loro e andava a farsene un altro, o tutt'al più ne cedeva uno alla Gates o a qualche poliziotto di passaggio spacciandolo per un gesto programmato. Anche la sua sedia, per anni rimasta immobile al suo posto accanto alla scrivania di lei, tanto da lasciare segni di usura su quel fazzoletto di pavimento, era stata ora sapientemente spostata tra quelle di Ryan ed Esposito. Ma a parte questo la vita al distretto era sufficientemente sopportabile, spesso addirittura piacevole.
Le serate all'Old Haunt tuttavia erano un'altra storia: in quelle ore era loro concesso di abbandonare chi i panni dello scrittore, chi del poliziotto per tornare ad essere semplicemente tre amici riuniti di fronte a una buona birra, a parlare del più e del meno e magari sfidarsi a freccette. E per quanto si sforzasse, Rick faticava a ricordare serate del genere prima delle loro: nonostante, grazie soprattutto al suo lavoro, fosse in effetti sempre stato pieno di amicizie di numerose conoscenze, dalle più altolocate alle meno raccomandabili, poteva affermare con assoluta certezza di non aver mai avuto prima d'ora degli amici veri e sinceri quali erano quelli seduti di fronte a lui in questo momento.
«Parlando di cose serie, Jenny è incinta o no?»
Nell'ultima mezz'ora la conversazione aveva preso una strana piega, dando vita a un'accesa discussione tra Ryan ed Esposito riguardo i pro e i contro delle lampade abbronzanti: Esposito affermava che nessun vero uomo avrebbe mai accettato di farsi innaffiare di colorante dentro una doccia, Ryan invece si era dimostrato più aperto all'argomento affermando che anche gli uomini, se non dotati per natura di una carnagione sfacciatamente ispanica, dovevano poter avere il diritto di non mimetizzarsi con la spuma del mare, senza per questo minare la propria virilità, sebbene lui giurasse di non averne mai provata una. Inizialmente Castle aveva partecipato divertito alla discussione, raccontando di un episodio del suo passato che coinvolgeva una donna particolarmente procace, un set di accappatoi trafugati da un hotel e una doccia abbronzante, per l'appunto. Quando però venti minuti dopo la discussione sembrava non aver ancora raggiunto un punto di svolta e gli animi avevano preso a surriscaldarsi, annoiato aveva iniziato a pensare a qualcosa che potesse distrarli e permettere di andare avanti con la serata. Ryan era senza dubbio la preda più facile. Focalizzate tutte le sue attenzioni su di lui, non gli ci volle molto per ripescare dalla memoria l'aggancio adatto, l'unico argomento che sapeva avrebbe smosso nell'immediato l'animo dell'irlandese: Jenny.
E infatti basto quella domanda ad ottenere l'effetto sperato:al solo sentire il nome di sua moglie, il viso di Ryan, prima serrato in un agguerrito cipiglio, si era immediatamente disteso in un sorriso raggiante -che più tardi Esposito avrebbe definito ebete, minacciando di riaccendere la miccia della battaglia- e la querelle sull'abbronzatura era stata ben presto accantonata.
«Ancora niente di certo, aspettiamo l'ecografia per dare la notizia. Visto l'ultimo falso allarme non vogliamo sbilanciarci, sapete com'è»
«Sì, dillo alla tua faccia»
Il tono piccato di Esposito sfogò gli ultimi strascichi di adrenalina rimasti dalla conversazione precedente, ma il suo volto rabbonito fece ben sperare sulla bontà delle sue intenzioni. E d'altronde, che lo ammettesse o no, l'ispanico aveva sviluppato una sorta di adorazione per Sarah Grace, la primogenita del suo partner, per cui all'idea di un secondo pargolo era animato da una sincera ma ben celata eccitazione, specie perché tutti sapevano -senza bisogno di dirlo- che, esauriti cugini e parenti con la precedenza, il prossimo turno per fare da testimone -o da padrino, in questo caso- sarebbe spettato a lui. Fatto che segretamente lo riempiva d'orgoglio. E a vederlo così entusiasta per una famiglia non sua, Rick proprio non riuscì a trattenersi dall'infierire sul suo raro lato sentimentale -né, a essere sinceri, ci provò.
«Di questo passo, una volta sposato dovrai impegnarti parecchio per raggiungerlo Espo»
La battuta ebbe l'effetto desiderato, ed Esposito quasi si strozzò con la birra. L'urgenza di rispondere fu tale da spingerlo a parlare quando ancora non aveva smaltito il colpo, alternando le parole a colpi di tosse e schiarimenti di gola.
«Vacci piano, non che non voglia una famiglia ma prima vorrei potermi godere un po' la mia signora, se capite che intendo»
«Beh a guardare Ryan sembra che una cosa non escluda l'altra»
«Beh, ecco... Oh, fatela finita!»
Ad essere imbarazzato era Ryan adesso, che sentendosi al centro del mirino, e privo di difese, non trovò di meglio da fare che nascondersi dietro un generoso sorso di birra. L'argomento bambini correlato all'evidente darsi da fare dei due sposini novelli, Ryan e Jenny, era infatti un tema particolarmente caro agli altri due, più per il piacere di metterlo in difficoltà che perché sinceramente stupiti dal loro, come lo definiva sornionamente Castle, fare le cosacce con una bambina in casa.
Era una cosa più che normale per qualunque coppia di genitori, lo stesso Castle non si era certo risparmiato ai tempi di Alexis neonata, quando ancora Meredith non aveva abbandonato la nave. Tuttavia Ryan viveva l'argomento con sincero disagio e questo chiaramente non era che un invito per gli altri due a rincarare la dose.
«Davvero Bro', è il terzo falso allarme quest'anno, vi date parecchio da fare...»
«E basta!»
Le risate del gruppo soffocarono definitivamente, almeno per quella sera, la discussione e ben presto anche Ryan si unì a loro, incapace di tenere il broncio troppo a lungo, specie di fronte a un Castle deciso a ordinare da bere in russo.
«Quest'ultimo giro lo offro io, ragazzi, e poi vado. Sarah Grace ha le coliche e ho promesso a Jenny che oggi non avrei fatto tardi»
«La mogliettina ti tiene al guinzaglio, eh latte e miele?»
«Ne riparliamo tra tre settimane, Javier»
«Non tutti gli uomini sposati sono remissivi come te, alcuni li pretendono i loro spazi»
«Ma non tutti gli uomini sono sposati con una Lanie, ricordalo»
Quest'ultima imbeccata di Ryan suscitò l'ilarità di Castle ma non, ovviamente, quella di Esposito, che si limitò a uno sbuffo superbo pur non trovando modo di controbattere.
«E a proposito di questo, so di non essere il tuo primo testimone ma vorrei comunque chiedere il permesso di organizzare io il tuo addio al celibato. Innanzitutto perché, in mano mia, è certo che ci divertiremo...»
Con fare presuntuoso, Rick sollevò un dito in aria, nell'atto di contare le innumerevoli ragioni per cui avrebbe dovuto poter prendere in mano i festeggiamenti. Chiaramente non fece in tempo a sollevare del tutto la prima nocca che venne interrotto dai commenti sarcastici dell'amico.
«Oh sì certo, perché ce lo ricordiamo tutti l'addio al celibato di Ryan...»
«… E secondo perché finanzierei io, e io sono ricco»
Un secondo dito si alzò a fare compagnia al primo, e negli occhi dei due compari Rick lesse che non avrebbe avuto bisogno di aggiungerne un terzo.
«Permesso accordato, senza offesa bro'»
«Nessuna offesa»
«Meraviglioso! E a questo riguardo ho una domanda da fare: spogliarelliste sì o spogliarelliste no?»
«Sì Javier, cosa dice la sposa?»
Il tono di Ryan era chiaramente ironico, teso ad affondare il coltello su una piaga aperta anni prima, ai tempi del suo di addio al celibato in q
uel di Atlantic City. Allora quella stessa domanda era stata posta a lui, e la sua risposta non era particolarmente piaciuta ai suoi amici.
«A differenza tua, Ryan, io sposerò una donna dalle larghe vedute per cui le spogliarelliste sono accettate purché viga la regola del “si guarda ma non si tocca”»
«Mi sembra accettabile»
Castle ascoltava ridicolmente assorto, il mento poggiato sulle mani intrecciate e la stessa serietà e concentrazione che avrebbe dedicato al resoconto di un omicidio da risolvere, o tutt'al più a una partita di poker particolarmente agguerrita.
«Però Lanie ha precisato che se io avrò le spogliarelliste al mio addio al celibato, lei avrà i spogliarellisti al suo addio al nubilato... Uno scambio equo, così l'ha definito. Ma sinceramente non ho ancora deciso se questa equità mi stia bene oppure no»
«Beh, c'è tempo per quello, pensiamo ad altro…tipo la location!»
Abbandonato l'atteggiamento grave e riflessivo di qualche istante prima, il viso di Castle tornò ad accendersi di una puerile esaltazione, che ben presto contagiò anche gli altri due compagni. La successiva mezz'ora passò così a discutere di dettagli come il cibo, la componente alcolica e soprattutto il dove organizzare il tutto, passando da location più comuni -come un nightclub o lo stesso Old Haunt- ad altre più eccentriche -come gli Hamptons- fino a quelle decisamente improbabili quali la luna -candidamente proposta da Castle perché :chi mai non vorrebbe un addio al celibato spaziale?
Se Ryan a un certo punto non si fosse responsabilmente imposto di alzarsi, avrebbero facilmente potuto continuare a discuterne per ore. 
Salutato l'amico, i due reduci decisero per un ultimo giro prima di tornare anche loro alle rispettive case. Traendo vantaggio dalla scarsa clientela, Rick ne approfittò per versare da bere a sé e all'amico lui stesso, assecondando così la sua poco appagata passione per lo spillare la birra. Nonostante l'ora non troppo tarda, infatti, nelle sere infrasettimanali all'Old haunt non c'era mai particolare movimento. Era anche per questo che avevano scelto di riunirsi il mercoledì: ciò consentiva loro di stare più raccolti e di poter parlare senza il fastidio dell'eccessiva confusione tipica, invece, del weekend.
Castle tornò al suo tavolo tenendo tra le mani due birre traboccanti di schiuma, segno che, se avesse dovuto effettivamente gestire il locale da sé, sarebbe ben presto fallito e anche miseramente, ché neanche un mese di pratica sarebbe bastato a compensare un'evidente mancanza di talento naturale. Nell'osservare il proprio boccale lo sguardo di Esposito era evidentemente perplesso, e Castle immaginò stesse decidendo se risparmiargli o meno il commento sarcastico di rito, di quelli che puntualmente gli venivano rivolti ogni qualvolta decideva di cimentarsi in imprese simili dinanzi i suoi amici.
«Con tutto questo parlare di matrimoni e bambini, ho dimenticato di chiederti come è finita con l'esercito! Hai deciso se accettare o meno la loro proposta?»
«A dire la verità no. Si tratterebbe di tenere un corso di tecniche investigative di base di fronte a dei pivelli, quindi minimo sforzo e ottimi guadagni. D'altra parte però non so se mi vada l'idea di rientrare nella realtà dell'esercito... Non tutti i ricordi legati a quel periodo sono piacevoli»
«Lanie che dice?»
«Secondo lei sarebbe una buona opportunità, ma lascia che sia io a decidere. Quindi penso mi prenderò un altro po' di tempo, se non altro per indispettire qualcuno ai piani alti»
Una risata increspò le loro labbra, che Castle soffocò tuffando le proprie oltre la coltre di schiuma del boccale, attendendo pazientemente che della birra sopraggiungesse a destinazione. Quando ne ebbe ingollata una generosa sorsata allontanò il boccale dal proprio viso, per scoprirsi così oggetto d'attenzione di Esposito, intento a osservarlo ora con un strano cipiglio in volto, perso in chissà quale riflessione.
«E a te invece le cose come vanno? Successo qualcosa di interessante oggi?»

La domanda suonò strana alle orecchie di Castle tanto quanto il fatto che a pronunciarla fosse stato un tipo come Esposito, raramente interessato alla quotidianità degli altri. Il chiacchiericcio era più una prerogativa sua, o tutt'al più di Ryan, cui Esposito si sottoponeva esclusivamente per necessità sociali.
«Niente di speciale, in effetti. Le solite beghe con l'editore, qualche commissione e poi ho cenato da Laura. È in giornate piatte come queste che smanio per qualche bell'omicidio intricato da risolvere»
«Se fossi costretto a farlo per lavoro smanieresti meno, te lo assicuro. E con Laura come vanno le cose?»
«Con Laura va tutto benissimo, come sempre»
L'improvviso interesse per la sua vita sociale mostrato dall'ispanico iniziò a insospettire Castle che, indeciso su dove questi volesse andare a parare con le sue domande, settò il proprio cervello anticipatamente sulla difensiva, giusto per preucazione. Col senno di poi non si pentì della sua scelta.
«Hai presente quel tacito accordo tra noi, per cui quando siamo soli non si parla di Beckett, mai in nessuna occasione? Bene, sto per romperlo, per quest'unica volta sia chiaro, dopodiché le cose torneranno come al solito»
«Che c'entra Beckett adesso?»
«Andiamo amico, questo...» Esposito si lasciò andare ad un ampio gesto della mano, a indicare la faccia di Castle e l'ombra funerea che l'aveva accompagnata per tutta la sera, nonostante i suoi evidenti sforzi di tenerla sottopelle «c'entra sempre con Beckett. Per cui te lo chiederò una volta sola. Che è successo?»
Castle sembrò ponderare attentamente la situazione, indeciso se dar libero sfogo o meno alla fiumana di parole che, a quanto pareva, portava scolpita a chiare lettere sul volto da che era arrivato. Da giocatore di poker esperto quale si reputava, si sentì offeso nel profondo dalla propria mancanza di autocontrollo, specie di fronte a due detective la cui esperienza nello scoprire indizi nascosti avrebbe dovuto anzi spingerlo ad alzare ulteriormente le proprie difese. Quantomeno con Laura aveva avuto successo.
Non che non avesse intenzione di parlarne ai suoi amici, soltanto che non gli era sembrato il momento adatto, con tutta quella felicità che, tra i non-troppo-falsi allarmi di Ryan e le imminenti nozze di Esposito, si respirava in quel gruppo ultimamente. Alla fine comunque, l'inaspettato presentarsi dell'occasione, lo sguardo di chi non ammetteva replica di Esposito, e il sincero bisogno di formulare a voce alta i propri pensieri a qualcuno che non fosse invisibile, lo convinsero ad aprirsi, non prima però di aver cercato coraggio in una nuova dose di birra ghiacciata.
«L'ho incontrata, il week-end in cui sono stato a Washington»
«Lo sapevo! Ma insomma Castle, che ti dice la testa? Perché diavolo sei andato a cercarla, cosa speravi di ottenere?»
«Ad essere chiari è stata lei a presentarsi davanti al mio albergo, non l'ho cercata io! D'altra parte però non ho neanche girato i tacchi quando l'ho vista, quindi immagino di avere anche io la mia buona parte di responsabilità...»
«E che è successo? Perché dubito che il tuo malumore sia dovuto al semplice averla rivista, è una cosa a cui dovresti essere abituato ormai»
«No, infatti...»
Il capo di Castle si fece pesante, sotto il peso di immagini evidentemente più grevi delle precedenti. A Esposito non sfuggì quel repentino cambio di atteggiamento, e avendo letto nel gesto dell'amico un totale crollo di difese, abbandonò anch'egli i toni incalzanti mantenuti fino a quel momento, e gli lasciò invece il suo tempo per rispondere, attendendo pazientemente che mettesse in ordine le parole prima di proseguire.
«Abbiamo cenato insieme, non so neanche perché, ma inaspettatamente non è stato poi troppo strano o imbarazzante, anzi è andata piuttosto bene... Finché non siamo finiti a letto. Il giorno dopo sono ripartito»
«Wow... »
«Già, wow»
Quell'ultima parola lasciò l'amaro in bocca a Castle, e lui tentò di lavarlo via con un altro consistente sorso dal suo boccale.
«Non imparerò mai, ogni volta penso di essermela lasciata alle spalle e poi...»
Esposito ritenne di dover dire qualcos'altro, per evitare che il suo unico contributo a quella discussione consistesse in una serie di domande e in un lapidario monosillabo dalla scarsa utilità, tuttavia per quanto si stesse sforzando non riusciva a ripescare nella sua mente nulla di adatto alla situazione, o comunque niente che immaginava avrebbe potuto portare sollievo alla frustrazione evidente del suo compagno di bevute, cosicché alla fine ad uscire dalla sua gola fu l'ennesima domanda.
«Questo però è successo quasi un mese e mezzo fa, no? Quello che non capisco è perché tu ci stia ripensando proprio adesso»
«Prima di venire qui ho ricevuto una chiamata sul cellulare da un numero fisso sconosciuto. Io ero in bagno e ha risposto Laura, ma ha detto che all'altro capo non c'era nessuno...»
«E tu pensi che fosse lei?»
«Sono certo che fosse lei, Javier... Ma tanto per non lasciare dubbi ho controllato il numero, il prefisso è di Washington. Chi altri potrebbe essere»
Non era una domanda la sua, ma una lucida constatazione.
«E Laura? Pensi sospetti qualcosa, è questo che ti preoccupa?»
«No, lei non sa nulla, non ha neanche fatto caso alla chiamata. E anche se fosse, detto sinceramente sappiamo entrambi che la nostra non è una cosa così seria da far sorgere preoccupazioni, non ancora almeno...»
Mentre ancora stava parlando, Castle vide la sua stessa mano sbattere violentemente il boccale sul tavolo, in un impeto di sfogo totalmente arbitrario che immaginò fosse dovuto alla rabbia che lentamente sentiva risalire lungo il proprio corpo, e che il suo braccio doveva aver colto prima ancora che questa divenisse accessibile alla sua coscienza.
«Perché fa così? Io davvero non riesco a capirla! Cosa vuole ancora da me, perché diavolo mi chiama?»
«Beh in questa storia vi ci siete cacciati in due, però...»
«Lo so, maledizione! Lo so...» il tono si fece di nuovo pacato, e la frustrazione tornò a dominare sulla rabbia «Ma come hai detto tu è passato più di un mese, quindi perché adesso?»
«Non lo so Castle, forse qualcosa l'ha fatta ripensare a..»
«No Espo, basta tentare sempre di giustificarla. La verità è che lei ha sempre fatto il bello e il cattivo tempo nella mia vita, a suo totale piacimento. E io l'ho sempre lasciata fare. Se ne va, poi torna, poi mi lascia, mi riprende... ora sono davvero stanco»
«Mi dispiace amico»
Non trovò nient'altro da dire, e in cuor suo sapeva che nulla comunque avrebbe mai davvero potuto sortire un qualche effetto positivo sull'umore dello scrittore. E in fondo, se lo aveva spinto a parlare non era per elargire consigli, ma soltanto per dargli la possibilità di sfogarsi, convinto che al momento attuale quella fosse la sola cosa a potergli portare un qualche beneficio. O comunque l'unico modo in cui lui poteva provare ad aiutarlo. Aveva sempre creduto in loro, in Castle e Beckett, e ancora adesso nonostante tutto ciò che era successo, nonostante tutto il tempo che era passato e tutte le cose che erano cambiate nel frattempo, una parte di lui ancora credeva in loro.
Non era mai stato un tipo sentimentale, niente colpi di fulmini o anime gemelle: per lui l'amore erano semplicemente due persone che si incontravano, si piacevano e decidevano di stare insieme. Libero arbitrio, nessun intervento del destino. Se con una non andava allora ce n'era un'altra ad aspettarlo dietro il prossimo angolo, senza troppe complicazioni: non temeva la fine di una relazione, per importante che fosse, perché non credeva nell'esistenza di quella giusta. Esisteva solo quella del momento, quanto a lungo durasse quel momento, quella era un'altra storia. Con Lanie si augurava sarebbe durato per sempre.
Eppure più volte osservare Castle e Beckett insieme aveva fatto vacillare le sue certezze: non sapeva se fosse stato per l'ostinazione mostrata da Castle in tutti quegli anni in cui era rimasto al suo fianco, aspettando fiducioso una sua apertura, o per l'aver assistito in prima persona, giorno dopo giorno, al cambiamento di Beckett da chiusa e intransigente detective a donna sorprendentemente vitale e completa. Anche adesso, quel dolore ancora vivido nello sguardo di Castle gli dava ragione di credere che non tutto era perso. O ancora, forse era solo colpa del troppo tempo passato con Lanie, che in loro aveva riposto incondizionata fiducia sin da subito, prima ancora che quel rapporto assumesse connotati reali.
Senza più alcuna parola da poter essere aggiunta, entrambi lasciarono che il discorso cadesse, finché le ultime gocce di birra non furono smaltite in silenzio e arrivò il tempo dei saluti. Castle fu il primo a uscire dal locale, una pacca sulle spalle dell'amico e sparì dietro la spessa porta legnosa dell'Old haunt, inghiottito dalle luci della città. Esposito invece si attardò ancora qualche minuto, intento a esaminare una qualche riflessione apparentemente emersa dal fondo opalino del bicchiere, che giocava a far oscillare di fronte al proprio naso.
«Quei due mi faranno impazzire...»
Poggiò con rassegnazione il boccale sul bancone, fece un cenno di commiato al barista -ormai vecchio amico- e afferrata la giacca se la buttò malamente sulle spalle, cacciando le mani dentro le tasche mentre anche lui si tuffava nell'umida sera NowYorkese.
La mano destra prese a frugare nel piccolo antro di tessuto in cui s'era adagiata fino ad estrarne il telefono. Pigiò, senza neanche guardarlo, un numero sulla tastiera e attese che la chiamata rapida venisse inoltrata.
«Hey Javier, che succede?»
«Mi devi venti dollari Bro'»
«Cos... Oh, ma andiamo!»
«Consolati, in compenso io ne devo cinquanta a Lanie»
«Vuoi dire che... Loro hanno...»
«Sì»
«Che casino»
«Già, proprio un gran casino»

  
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