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Autore: Helena Kanbara    26/05/2015    3 recensioni
Sono stata una bambina ubbidiente per ben sedici anni, poi ho smesso improvvisamente di eseguire gli ordini del “mondo” e mio padre ha cominciato a chiedersi dove avesse sbagliato con me. Ecco perché sono qui in isolamento, insieme ai delinquenti. Ecco perché passo le mie giornate sola in questa schifosissima cella ad aspettare il mio diciottesimo compleanno per essere giustiziata. Perché non ho voluto seguire gli ordini. Sapete cosa penso? La vita sull’Arca fa schifo. E preferirei di gran lunga la morte.
Genere: Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: John Murphy, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'The heart wants what it wants'
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9.   UNITY DAY

 
We were children
thrust into war
and once it ends
what will we become?


 
Gli allenamenti con le armi erano cominciati già da un po' quando arrivò il mio turno. Proprio come da programma, Bellamy e qualche altro ragazzo – c'erano più di novanta delinquenti lì sulla Terra, ma scoprii con immensa sorpresa che solo in due o tre fossero capaci di usare un fucile – si stavano occupando di insegnare a tutti, nessuno escluso, come comportarsi in caso di pericolo. Volevano che chiunque fosse in grado di difendersi non appena ce ne fosse stata la necessità. E io ovviamente non costituivo un'eccezione.
Avevo pregato a lungo che non mi capitasse proprio Bellamy come insegnante, ma non è che ci fossero poi tutte queste alternative. Da solita fortunella qual ero, mi era stato imposto di passare molto più tempo di quanto potessi sopportare insieme all'unico ragazzo che proprio non riuscivo più a digerire.
Era pazzesco come gli equilibri potessero cambiare, come bastasse un singolo gesto per far mutare completamente l'opinione che avevo avuto su di una persona. Bellamy non mi era andato a genio fin da subito, ma imparando a conoscerlo mi ero trovata d'accordo con lui più volte. Fino a poco prima dell'episodio di John, quasi quasi l'avevo rivalutato. Ma poi...
Non sapevo se ce l'avevo con lui – non più, perlomeno – fatto stava che la sua presenza m'infastidiva molto più di quella di Clarke, sebbene fosse lei – o per meglio dire la sua boccaccia che mai stava chiusa – la vera colpevole. Bellamy comunque si dimostrava altrettanto freddo nei miei confronti: mai una volta aveva sfiorato il discorso Murphy né mi aveva dato più corda di quanto non fosse necessario. Era troppo orgoglioso per farsi avanti per primo. E io lo ero ancor più di lui.
“Tira indietro il mento”, lo sentii che, all'improvviso, mi ammoniva; e immediatamente misi uno stop al flusso incessante di pensieri che m'affollava la mente.
Sistemai la posizione rilassata che avevo assunto involontariamente e ubbidii, raddrizzando il fucile sulla spalla destra.
“Stringi di più le braccia sul fucile”.
Cercai di non indispettirmi. Stavo facendo del mio meglio, perché mai non la smetteva di riprendermi? Strinsi le braccia sul fucile più forte che potei, cercando di soddisfarlo. Bellamy stava solo cercando di aiutarmi. Perché allora mi sentivo così agitata?
“Non...”, ricominciò dopo qualche minuto, e lo sentii arrancare alla ricerca di parole giuste mentre mi si faceva pericolosamente più vicino. Mi irrigidii. “Non tirare indietro i fianchi”, mormorò infine, così velocemente che a malapena lo intesi, indicandomi i fianchi con un gesto appena percettibile.
Capii subito che non volesse toccarmi – aveva paura di invadere il mio spazio, e faceva bene – ma che non c'era altro modo perché potesse spiegarsi meglio. Era a disagio anche lui.
Sbuffai, cercando di sistemare i fianchi come li voleva lui. Non so se feci la mossa giusta, fatto sta che lasciò perdere.
“Mantieni la posizione”, ordinò, di nuovo apparentemente tranquillo. “Mira”.
Ancora feci come mi chiedeva. Puntai col fucile alla lattina che avrei dovuto colpire e quando ebbi una visuale sull'oggetto, mi venne quasi spontaneo tremare. Penso che se fossi stata sola l'avrei fatto. Era tutto così serio. E io ero così poco pronta.
Fin da bambina avevo desiderato essere parte delle Guardie dell'Arca. Mia madre era stata una di loro, e sebbene non l'avessi mai conosciuta né sapessi che tipo di persona fosse, io avevo saputo fin da subito di voler diventare come lei. Ecco perché mi ero iscritta all'Accademia non appena ne avevo avuto occasione, seguendo i corsi con diligenza e riscoprendomi giorno dopo giorno più convinta del mio progetto. Il mio era un desiderio che però, a causa della mia condanna, non aveva mai trovato realizzazione. La mia frequentazione dei corsi per diventare Guardia si era interrotta al Livello Accademico I, quello destinato alle lezioni di combattimento corpo a corpo e agli insegnamenti di Ingegneria Meccanica, Gestionale e Fisica Applicata.
Perché mi fosse permesso di stringere tra le mani un'arma da fuoco ne sarebbe dovuto passare di tempo. Avrei dovuto quanto minimo compiere la maggiore età. Questo sull'Arca, però. Non sulla Terra, dove una guerra stava fiorendo. Proprio quando io ero meno pronta per affrontarla.
Ero ancora così piccola. Lo eravamo tutti.
“Brayden?”. Ancora una volta, Bellamy interruppe il flusso dei miei pensieri.
Sobbalzando vistosamente, mi affrettai a guardarlo. Non so cosa di preciso lesse nei miei occhi, fatto sta che assunse un'espressione che mi sembrò vagamente preoccupata.
“Se non te la senti possiamo rimandare”.
Deglutii, distogliendo velocemente lo sguardo dal suo viso. Aveva capito. Che imbarazzo.
“I Terrestri non rimanderanno”, mormorai, fingendo – come al solito – che non fosse nulla. “Voglio sapermi difendere”.
Non ci fu bisogno di aggiungere nient'altro: ritornai in posizione e Bellamy non ebbe da ridire. Stavo facendo tutto per il meglio, tanto che semplicemente si limitò ad incoraggiarmi un'ultima volta prima che agissi.
“Spara”, disse, ed io feci come mi chiedeva.
Con l'arma puntata sulla lattina che intendevo colpire, premetti il dito sul grilletto e osservai il proiettile fare centro quasi col cuore in gola. Non appena vidi la lattina capitombolare al suolo, provai l'improvvisa voglia di urlare. C'ero riuscita. Era andata molto meglio di quanto mi aspettassi. Tanto che sorrisi ampiamente, sentendomi scorrere nelle vene una forza del tutto nuova e piacevole. Lo stringere un'arma tra le mani si stava rivelando molto meglio di quanto credessi. All'improvviso mi sentivo invincibile.
Quando tornai a guardare Bellamy, lo trovai intento a ricambiare il mio largo sorriso.

 
 
Il primo ottobre di ogni anno l'Arca intera si riunisce per festeggiare il Giorno dell'Unità, o meglio il giorno in cui le dodici Nazioni hanno finalmente messo da parte l'orgoglio e l'egoismo per riunirsi e cercare di sopravvivere tutti insieme, formando così l'Arca – il posto dove sono nata. Il posto dove sono nati tutti, qui.
Penso che se ancora quel giorno non avessimo avuto contatti con la Stazione, non ci sarebbe stato alcun tipo di festeggiamento. Penso che a malapena ci saremmo resi conto del fatto che fosse il primo ottobre.
Ma i contatti con l'Arca c'erano, la voce del Cancelliere risuonava forte e chiara attraverso i microfoni – sebbene le immagini fossero di pessima qualità – e i Cento non se l'erano fatto ripetere due volte: era il Giorno dell'Unità sull'Arca e sarebbe stato il Giorno dell'Unità anche sulla Terra.
Non che credessi così tanto in quella ricorrenza: tutta la storia di Shenzhen e Mir che decidono all'improvviso di essere grandi amiche e si vedono poi invidiate dalle altre dieci Nazioni non mi aveva mai convinta. Aveva un che di distorto che mi aveva sempre insospettita. Ma alla fine – che ci credessi o meno – il Giorno dell'Unità era comunque un giorno di festa, e chi ero io per dire di no ad un po' di baldoria? Me ne sarei stata zitta, purché le cose non fossero – come al solito – degenerate. Ero stanca di risolvere i problemi degli altri.
“Ai nostri figli e figlie sulla Terra che stanno ascoltando questo messaggio: ci vedremo presto”.
Quell'annuncio improvviso bloccò la mia camminata con violenza inaudita. Stavo gironzolando per il campo senza nessuna meta precisa e senza prestare attenzione al discorso di Jaha: da che ricordassi, nel Giorno dell'Unità non faceva altro che sciorinare frasette false e senza senso, un mucchio di cose alle quali non prestavo mai attenzione. Ma quell'anno era diverso, era tutto diverso.
“La prima navicella d'Esodo verrà lanciata fra meno di sessanta ore e vi porterà i rinforzi di cui avete bisogno. Perciò tenete duro. Gli aiuti stanno arrivando”.
Sapevo che parte dell'Arca sarebbe arrivata presto, ma non mi aspettavo così presto. Sessanta ore, poco meno di tre giorni. Pochissimo tempo. Soprattutto per me che non ero ancora pronta a rivedere Callie né Vera né... mio padre, pensai col cuore stretto in una morsa, realizzando con immensa sorpresa di come lui fosse apparso sullo sfondo di quelle riprese disturbate proprio nel momento in cui il mio pensiero l'aveva sfiorato.
Non era cambiato per nulla, constatai mentre mi prendevo del tempo per osservarlo meglio. Nonostante non lo vedessi da quelli che mi sembravano secoli, lui era sempre lo stesso. Era lì sull'Arca, partecipava al Giorno dell'Unità – come me – e in poco meno di tre giorni sarebbe stato al mio fianco. Pronto a darmi un aiuto che non ero sicura di volere.
Rimasi preda di pensieri simili per non so quanto tempo, senza muovere un muscolo nemmeno quando mio padre sparì dalla mia visuale. Anche se inconsapevolmente, speravo che riapparisse. Ecco perché me ne rimasi lì a guardare tutto e tutti con un'attenzione nuova e inaspettata, almeno finché non sentii qualcuno sfiorarmi la spalla e la bolla si ruppe all'improvviso.
“Sembri avere disperato bisogno di un drink”.
Era stato Jasper ad avvicinarmi, l'unico abbastanza coraggioso da farlo – da interrompere la mia contemplazione assorta della cerimonia. Lo osservai per un po' confusa, poi – evitando di sembrargli ancor di più una pazza esagitata – cercai di tornare vigile e accettai il bicchiere che mi porgeva. Era colmo di una brodaglia alcolica che tutti definivano come il whiskey magico di Monty. Buttai giù tutto d'un sorso senza farmelo ripetere due volte. A quella mia reazione, Jasper mi sorrise soddisfatto e poi mi rifilò un occhiolino prima di sparire chissà dove.
Per un po' ero riuscita ad ignorare il Giorno dell'Unità come avrei dovuto e voluto, ma allora – di nuovo sola e senza nemmeno un goccio d'alcool – la mia mente fu attratta nuovamente dalla cerimonia in atto sull'Arca, così come i miei occhi chiari che subito corsero al piccolo schermo sul quale intravidi una bambina recitare la storia del Giorno dell'Unità. Il corteo era iniziato.
“Quando tutte le Nazioni furono unite, decisero di chiamarsi...”.
Sapevo già come quella recita sarebbe finita, ma non ebbi occasione di sentirlo. Non quell'anno.
All'improvviso era tutto nero.

 

 
Circondata da una pozza scarlatta del proprio sangue, i capelli rossi che si confondevano col liquido denso che lei stessa aveva versato, sparsi disordinatamente tutt'intorno alla testa. Così Marcus aveva trovato Alida pochissimi giorni dopo il parto: così l'aveva ridotta. Era stata tutta colpa sua. Tutta colpa sua. Se l'era ripetuto a lungo, fino a crederci, fino a quasi impazzire. Poi aveva capito di non poter perdere la ragione – non anche lui – e la recita era cambiata. Aveva preso a dirsi: “Mi hai costretto tu. Non volevo arrivare a tanto. Non volevo vederti così”. E si era sentito meglio, col tempo. Colpevole – quello sempre – ma non più fuori di sé. Aveva agito per amore, e tanto bastava a fargli sentire la coscienza un po' più leggera – quant'era necessario per andare avanti senza dare di matto a sua volta. Alida aveva tentato di uccidere sua figlia – il frutto del loro amore, la piccoletta dagli occhi lucidi che solo raramente decideva di palesare la sua presenza con versetti e gemiti, preferendo di solito lo sgambettare silenzioso nella culla – e Marcus aveva dovuto denunciarla, aveva dovuto. Andava fatto. Andava fatto. Se l'era ripetuto così tante volte da arrivare ad odiare quei due verbi. Non poteva smettere di pronunciarli, però. Perché quella era la verità. Aveva denunciato Alida per tentato omicidio e non aveva fatto nulla per impedire che la tenessero in isolamento fino al momento del parto. Non voleva che la lanciassero, ma voleva che soffrisse almeno la metà di quanto avrebbe sofferto Brayden se Alida l'avesse privata della vita prima ancora che questa potesse farne esperienza. Voleva punirla e c'era riuscito. I mesi di isolamento erano stati una tortura per Alida. Ma lei era rimasta irremovibile: continuava a chiedere l'aborto ogni volta che poteva, ripeteva che non avrebbe mai accettato la bambina che portava in grembo. Non era fatta per fare la madre, voleva solo servire l'Arca come aveva sempre fatto, e una gravidanza gliel'avrebbe impedito. Era già successo, d'altronde. Era rimasta incinta per la prima volta nel fiore della sua carriera da Guardia e aveva perso il bambino in servizio, in seguito ad un'accesa colluttazione con uno dei tanti criminali dell'Arca. Allora l'aveva capito: avere figli non era per lei. O lavoro o famiglia. Da allora Alida e Marcus non avevano più provato a concepire. Poi però era arrivata Brayden, come nient'altro che un fulmine a ciel sereno, e Alida era crollata nuovamente.
La morte di Vera aveva riportato alla mente di Marcus l'immagine atroce della donna che aveva amato con tutto se stesso durante i suoi ultimi istanti di vita, quando gli aveva detto – prima di esalare il suo ultimo respiro: “Dovrai crescerla da solo”. Parlava di Brayden. Marcus credeva di aver rimosso quel ricordo, di averlo spinto con non troppa fatica nel famoso oblio da difesa che per tanti anni l'aveva fatto tirare avanti quasi come se nulla fosse successo. Ma la morte di sua madre – improvvisa, inaspettata, dolorosa – riportò tutto a galla, mentre l'osservava immobile nella stessa posizione in cui aveva trovato Alida, circondata da una pozza del proprio sangue e coi capelli scompigliati. Le situazioni erano diverse, ma il risultato uguale. Aveva perso un'altra delle donne più importanti della sua vita. Chi gli rimaneva ora che Callie era sparita, Alida morta come Vera e forse anche Brayden?
Marcus distolse gli occhi dalla figura di sua madre solo quando avvertì un fruscio di vestiti accanto a sé. Guardò alla sua destra e vi trovò Abby; si era inginocchiata accanto a lui e premeva una mano sul collo di Vera. Ingenuamente, sperava di poterla salvare. Era fatta così, lei. Doveva sempre aiutare tutti. Ma quella volta non avrebbe potuto far niente, e cercò di comunicare a Marcus ciò che lui in realtà già sapeva. Lo guardò a lungo con occhi dispiaciuti e un paio di scuse che faticavano a venir fuori, e lui semplicemente ricambiò il suo sguardo mentre realizzava all’improvviso che Abby Griffin era probabilmente l’unica donna che gli era rimasta.
 

 
“Questi ci stracciano”.
Nel baccano di quel pomeriggio, Jasper nemmeno si preoccupò di tenere bassa la voce per nascondere la sua preoccupazione ai nostri avversari. Non si poteva certo dire che i delinquenti non sapessero come divertirsi: avevano tutti e subito saputo approfittare bene del Giorno dell’Unità per darsi alla pazzia gioia con l’alcool e giochi annessi e connessi. Anche Jasper e Monty si erano fatti coinvolgere, e avevano incluso anche me nella loro sfida: si erano formate due squadre da tre per un torneo di birra pong, e chi avrebbe perso tra i due avrebbe dovuto pagare pegno. Io ero finita in squadra con Jasper e Nathan Miller – col quale ricordavo di aver avuto alcuni corsi in comune all’Accademia per diventare Guardia, sull’Arca – mentre Monty era tra i nostri avversari, affiancato da Harper e Monroe. Finché Miller non aveva deciso di abbandonare me e Jasper – traditore – le cose erano andate benino, ma da quando eravamo rimasti in minoranza la situazione stava degenerando. Io non me ne preoccupavo, comunque, pensavo solo a divertirmi e ne approfittavo per buttare giù quanto più alcool potessi. Speravo ingenuamente che questo sarebbe riuscito a farmi dimenticare.
Jasper d’altro canto era ormai sul vertice di un crollo nervoso. Per lui perdere significava dover pagare pegno, e capii da quant’era teso al mio fianco che temeva quella possibilità con tutto se stesso. Conoscendo Monty, non gliel’avrebbe fatta passare liscia tanto facilmente.
“Che vuoi fare?”, gli chiesi quindi, approfittando della momentanea distrazione dei miei avversari per donare un’occhiata anche fin troppo seria a Jasper.
Lui ci pensò su per un po’, stringendosi il labbro inferiore tra i denti con aria pensierosa.
“Ci servono rinforzi”, proclamò infine, cominciando già a farsi lontano dalla superficie in legno che stavamo usando come tavolo improvvisato. “So già a chi chiedere”.
Mi parlò mentre ancora si allontanava dal posto della sfida, lasciandomi sola e confusa a guardarlo mentre si dirigeva chissà dove. Avrebbe abbandonato la partita così, senza dire nulla? Prima che potessi chiederglielo, Harper mi precedette.
“Vi state già arrendendo?”, mormorò, con una punta di malizia che però Jasper non colse.
“Ovviamente no. Ci serve solo un breve time out”. Jasper cercò gli occhi di Monty in attesa della sua approvazione. “Siamo sotto di un giocatore, e pensavo volessi una competizione equa”.
A quella velata frecciatina, Monty non poté far altro che trattenere uno sbuffo infastidito. Alla fine comunque acconsentì, annuendo nella direzione di Jasper che subito riprese a dirigersi ancora non sapevo dove. Ero troppo curiosa di scoprirlo, però, ecco perché lo seguii.
“Scegliete bene il vostro alleato!”, sentii che Monty ci urlava da dietro, trattenendo a stento una risata mentre Monroe e Harper lo imitavano.
Erano convinti di avere la vittoria in pugno, e ridacchiai divertita da quel loro comportamento infantile, ma soprattutto dai continui borbottii che sciorinò Jasper mentre riempiva due bicchieri improvvisati del magico liquore di Monty. Aggrottai le sopracciglia. Voleva bere, quindi? Che ne era del nostro alleato?
Capii che avrei avuto la risposta al mio quesito quando lo vidi continuare a muoversi in direzione di una tenda piuttosto grande, senza però toccare nemmeno un goccio dell’alcool che si era versato. Confusa, continuai a seguirlo. Quando vidi la schiena di Raven dall’interno della tenda, capii subito. Jasper voleva corromperla portandole da bere. Ci mancò poco che non mi coprissi il viso con le mani dall’imbarazzo.
“Ehi! Eccoti qua!”, sentii che trillava nella direzione della Reyes, porgendole da bere. “Ascolta, io e Bray stiamo giocando a birra pong contro Monty e company. So che voi meccanici avete questa coordinazione mano-occhio da paura, perciò…”.
Lo sguardo di Raven si fece sempre più confuso, mentre ascoltava Jasper blaterare cose senza senso e non osava toccare alcool. Allora decisi di intervenire.
“Jasper ti sta praticamente implorando di salvargli il culo. Ha scommesso non so che di imbarazzante con Monty, e non vuole rischiare di perdere in modo vergognoso come già stiamo facendo”.
“Ehi!”, mi rimbeccò Jasper, voltandosi a guardarmi per riservarmi un colpetto sul braccio. “Se stiamo perdendo è anche colpa tua”.
“Stronzo”, bofonchiai, massaggiandomi piano il braccio che mi aveva colpito.
Ci andava giù pesante.
Prima che potessimo finire a litigare, comunque, Raven spezzò la tensione rimettendosi a lavoro come se niente fosse.
“Non posso venire a giocare con voi”, mormorò, prendendo a maneggiare alcuni proiettili mentre io cercavo di capire cosa stava facendo. “Sto controllando la polvere da sparo, così se i Terrestri decideranno di ucciderci tutti, magari prima ne faremo fuori qualcuno noi”.
Non potei che restare colpita da quella sua frase. Ormai tutto ruotava intorno a quello. Si stava preparando una guerra nella quale tutti ci eravamo ritrovati gettati senza nemmeno poterlo decidere. E noi saremmo stati pronti a combatterla? Ne dubitavo.
Il flusso dei miei pensieri negativi fu interrotto da uno schiocco violento che mi fece sobbalzare, subito seguito dall’urlo di Jasper che osservai farsi vicino a Raven.
“Sicura di non volere aiuto nemmeno ora che sei quasi saltata in aria?”.
Fissai Raven in viso, osservando attentamente la sua espressione a metà tra l’afflitto e l’infastidito. Poi la vidi posare sul tavolo da lavoro un proiettile distrutto. Oddio. Era stato quello ad esplodere?
“Sei il migliore meccanico del mondo, okay? Ma qui ci vuole un chimico”, disse Jasper, alzando le mani al cielo per assumere un’aria inoffensiva. Raven gli dedicò un’occhiata scettica. “Come andavi in chimica? Io benissimo”.
Io no, invece. Ero bravissima in fisica e me la cavavo in ingegneria grazie ai miei studi all’Accademia delle Guardie, ma la chimica non ero mai riuscita ad assimilarla bene – per quanto mi piacesse. Tanto che del discorso che mise su Jasper di lì a poco faticai a comprendere anche solo il minimo indispensabile. E a giudicare dall’espressione confusa che si dipinse sul viso di Raven, lei era sulla mia stessa barca. Prima che Jasper potesse rendersene conto, comunque, Bellamy interruppe quel momento che si stava facendo a dir poco imbarazzante.
“Ehi, vieni con me”.
Entrò nella tenda a gran velocità, avvicinandosi a Jasper quanto bastava a consegnargli un fucile. Subito partii sulla difensiva. Cosa stava succedendo? Dove erano diretti? Perché avevano bisogno di armi? E di proiettili, realizzai, osservando Bellamy che faceva per prenderne una buona manciata dal tavolo, senza troppe cerimonie.
“Cosa succede?”, gli domandò però Raven, fermando la sua incetta.
Bellamy nemmeno pensò di mentirle.
“Il tuo ragazzo si comporta da idiota”, disse, guardandola fisso negli occhi.
Poi però si fece lontano da lei, prendendo senza remore i proiettili che Raven gli porgeva, prima di voltarsi a guardarmi.
“Vieni anche tu”, ordinò, con un tono di voce che in un’altra situazione me l’avrebbe fatto odiare e non poco.
Era perentorio e sapeva che non gli avrei detto di no. Non ci provai nemmeno, semplicemente annuii flebilmente e distolsi gli occhi da Bellamy solo quando sentii Raven dire che si univa a noi. Per andare dove, ancora non mi era dato saperlo. Cosa aveva combinato Finn? Sperai niente di irrisolvibile. O pericoloso.
“Procuriamoci delle armi”, proclamò Bellamy, accettando che Raven ci seguisse mentre già si dirigeva all’uscita della tenda.
L’ennesima domanda di Jasper lo lasciò però interdetto sull’uscio.
“Non dovremmo chiamare anche Clarke?”.
Calò subito un silenzio imbarazzato che mi confuse non poco. Aggrottai le sopracciglia, ricambiando lo sguardo perso di Jasper, il quale mi aveva rivolto un silenzioso: “Che ho detto di male, ora?” al quale non seppi rispondere. Toccò a Raven scongelare la situazione.
“Clarke è con Finn”, concluse, dando modo a Bellamy di scappare prima di seguirlo.
Alla fine nella grande tenda rimanemmo solo io e Jasper a fissarci, ancor più confusi di prima. C’eravamo persi qualcosa, ma capimmo subito che non fosse il momento di farsi troppe domande. Era giunta già l’ora di scendere in guerra. Lo realizzai solo allora, accettando senza farmelo ripetere due volte il bicchiere di alcool che mi porgeva Jasper. Ingurgitammo il forte liquido tutto in un sorso, e nell’uscire dalla tenda per raggiungere nuovamente Bellamy e Raven, pregai di nuovo dopo non so quanto tempo affinché tutto andasse bene.
 

 
Quando finalmente ci fermammo, ormai giunti all’alba del mattino dopo, avevo le gambe così dolenti che per poco non mi misi a piangere dalla gioia. C’era poco da essere felici, comunque, ecco perché comunque evitai e mi diedi subito da fare per analizzare la situazione con occhio critico. Non potevo fare a meno di essere nervosa, avevo i nervi a fior di pelle per la paura costante di un attacco inaspettato da parte dei Terrestri e di certo la camminata nei boschi bui alla quale c’eravamo dati con Bellamy, Raven e Jasper non aveva aiutato. Nemmeno stringere il fucile tra le dita riusciva a tranquillizzarmi. E come se non bastasse, a circondarci c’era un’aria tesa e imbarazzata come poche. Ma ovviamente le cose sarebbero peggiorate. Stupidamente ingenua, non avevo tenuto conto del fatto che se qualcosa può andar male, andrà male.
“Oddio”.
Puntai gli occhi su Jasper non appena lo sentii parlare, interrompere quel pesante silenzio che da troppo tempo tutti ci portavamo dietro, pesante come un macigno. Nemmeno c’avevamo provato ad instaurare una conversazione, perché cosa dire mai di adatto in una situazione del genere? Bastavano chiacchiere morte a riempire silenzi mentre si andava in guerra? Immaginavo di no.
Trovai gli occhi nocciola di Jasper fissi su un punto indefinito, e mi venne automatico seguire con bruciante curiosità la traiettoria del suo sguardo. Cosa – o chi – l’aveva agitato tanto da aprire bocca con quella esclamazione trafelata? Non vedevo l’ora di scoprirlo.
Ma ciò che vidi risultò difficile da mandar giù.
“È Octavia, quella?”, soffiai incredula, affilando lo sguardo il più possibile nella speranza che mi stessi sbagliando.
Istintivamente mossi un passo nella sua direzione: volevo guardarla meglio, accertarmi che fosse lei. Ma una mano mi afferrò la spalla e mi sospinse nuovamente indietro, nel posto riparato dagli alberi che c’eravamo guadagnati tutti. Era Bellamy. Lo fissai a lungo nell’attesa che dicesse o facesse qualcosa per giustificare quel suo gesto, ma non arrivò nulla. Se non una piccola sfumatura di delusione sul suo volto spruzzato di lentiggini.
Non era deluso da me. Non mi guardava più, all’improvviso ero invisibile. Bellamy teneva gli occhi puntati su Octavia, e la guardai anch’io mentre… abbracciava il Terrestre fuggitivo? Come, prego?
“Oh…”, mugolò Jasper con un’improvvisa aria da cagnolino bastonato.
La sua reazione mi diede la spiacevole conferma del fatto che no, ancora una volta non stavo avendo delle allucinazioni. Era tutto vero. Dolorosamente vero.
“Ora si spiega come ha fatto a scappare”, scherzò Raven, ma la sua ilarità durò poco.
Vidi anche la sua espressione indurirsi all’improvviso e poi incrinarsi, macchiata da un’ombra di dispiacere impossibile da nascondere. Rivolsi di nuovo lo sguardo alla scena che mi si presentava al di là del ponte, ed ebbi la risposta alle mie domande nell’osservare le mani di Finn e Clarke strette l’una nell’altra.
Un altro importante tassello si aggiunse al puzzle. Prima che me ne potessi rendere conto, ero circondata da cuori infranti. E io…
Uno spostamento d’aria improvviso mi salvò dal baratro di pensieri dolorosi nel quale ero già pronta a cadere. Era stato Bellamy. Aveva assunto una posizione di difesa e puntato il fucile contro Lincoln.
“Bellamy”. Non potei che richiamare il suo nome con voce già strozzata dalla paura che potesse fare una cazzata.
Per fortuna Raven mi venne in aiuto. Non credevo che da sola sarei riuscita a tranquillizzarlo.
“Guarda là”, ordinò, indicandogli il ponte.
Ci diedi subito un’occhiata anch’io, e dopo qualche secondo tre figure a cavallo si palesarono di fronte ai miei occhi sgranati. Erano completamente vestiti di nero; due uomini ed una donna. Ed erano…
Armati”, finii quel pensiero a voce alta, quasi senza rendermene conto, quasi ringhiando.
Solo Bellamy mi sentì.
“Lo siamo anche noi”, mi tranquillizzò, voltandosi brevemente a guardarmi prima di spostare la mira sui nuovi arrivati.
Lo imitai senza farmelo ripetere due volte. Ma allora, sebbene fossi convinta del fatto che qualcosa sarebbe successo di lì a poco, la situazione si congelò tanto che mi sentii ancor più tesa di prima.
Grazie al mirino del fucile riuscivo a tenere bene d’occhio la situazione: Clarke era di fronte alla donna scesa da cavallo e sembravano intente a parlare, con aria seria e distaccata. L’espressione della donna non era cambiata di una virgola da quando Clarke l’aveva raggiunta, e il tempo mi sembrò all’improvviso non passare più.
“Quanto ci mettono?”, sussurrai, ponendo quella domanda a nemmeno sapevo io chi.
Raven – forse preoccupata dal mio tono spazientito – imitò me e Bellamy e si servì del mirino per osservare meglio la situazione.
“La principessa dei Terrestri sembra incazzata”, disse infine, guardandosi intorno.
Bellamy non le restituì lo sguardo, gli occhi ancora fissi su Clarke.
“È l’effetto che fa la nostra principessa”.
Non ebbi tempo di stupirmi per quella frase. Jasper scattò subito sulla difensiva e attirò l’attenzione di tutti su di sé.
“Così non va bene”, borbottò, la mira puntata nel fitto degli alberi opposti al ponte occupato dai nostri compagni e dai Terrestri.
“Cosa succede?”.
Ci sono dei Terrestri tra gli alberi.
Rabbrividii, mentre il terrore prendeva possesso di Bellamy e Raven – che provarono però a nascondere la cosa con scarsi risultati – e passava a fare visita anche a me, che subito cercai una conferma alle parole di Jasper controllando gli alberi alla ricerca di presenze nemiche. Che però non riuscii a trovare. E paradossalmente, la cosa non mi tranquillizzò. Anzi.
“Stanno per sparare! Clarke, scappa!”.
Fu il finimondo.
Jasper uscì fuori dal nascondiglio all’improvviso, sparando il primo di una lunga serie di colpi mentre ancora urlava a Clarke di scappare. Diventò tutto un insieme confuso di rumori e mi persi un momento, chiedendomi a chi avrei dovuto prestare attenzione. Chi avrei dovuto difendere? Per chi dovevo combattere?
Quando vidi Bellamy proteggere Clarke ebbi la risposta. Mi feci forza quanto bastava per riprendere in mano il fucile con presa salda e lo puntai negli alberi, contro i Terrestri che ora si palesavano senza più alcuna remora. Ne colpii un bel po’ mentre pregavo come mai avevo fatto prima di non uscirne ferita; avevo paura, e mai come allora mi sentii attaccata alla vita che sull’Arca avevo sempre denigrato. Non volevo morire. Non volevo che nessuno dei miei compagni morisse. Dovevo fare di tutto per proteggerli. Ma prima ancora che me ne potessi sul serio rendere conto, avevo finito le munizioni. Ero semplicemente una pedina immobile nel campo di guerra, inerme di fronte ai colpi degli avversari. E cosa potevo fare per salvarmi se non scappare? Non fui l’unica a battere in ritirata: quella alla quale ci eravamo avviati all’improvviso era una guerra che ancora non eravamo pronti a combattere. Lo capii pienamente mentre correvo a perdifiato tra i boschi, cercando di non inciampare fatalmente in qualunque ostacolo che mi avrebbe allontanata ulteriormente dalla meta – il campo. Avrei voluto pensare a quest’ultimo come a casa mia, come ad un luogo dove mi sarei sentita protetta da tutto e tutti. Ma non ci riuscii. Sapevo che mai più, in nessun luogo e con nessuno dei Cento, sarei stata al sicuro.
Io, John, Finn, Jasper… Ci eravamo tutti sbagliati. Non c’era più salvezza
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Ringraziamenti
A trashprincess, che trova sempre un po' di tempo per recensire i miei capitoli.

P.S.
Adoro il tuo nuovo nickname.

Note
La citazione ad inizio capitolo non so di chi sia, l'ho trovata in un fanvid su Agents of S.H.I.E.L.D. e ho pensato che ci fosse davvero poco di più azzeccato di questo. Come non inserirla?
... posso dirlo che questo capitolo mi piace? No, perché lo dico. Mi piace davvero. Ci sono Bellamy e Brayden che mi fanno letteralmente sciogliere il cuore (e che stanno facendo pace a poco a poco, amorini), Jasper che è un dolcino assoluto e i Kabby che volente o nolente s'infilano nei capitoli anche quando non vorrei. Boh, spero possa piacere anche a voi leggere di questo alternativo Giorno dell'Unità.
Poi. Per il fatto delle Guardie e dell'Accademia mi sono ispirata ancora una volta a Kass Morgan e al libro di The 100; sebbene quest'ultima non nomini mai una vera e propria accademia, a me è piaciuto pensare che sull'Arca ce ne fosse comunque una, divisa in livelli di apprendimento e quant'altro. Brayden è ancora piccola, ecco perché ho immaginato che i suoi studi fossero stati interrotti al livello I. Anyway. Quando parla di Guardie, Kass Morgan accenna ad una élite di queste ultime composta da guardie che sono specializzate anche in Ingegneria e che dunque sono capaci anche di occuparsi di molte delle riparazioni dell'Arca. Ho preso in prestito questo dettaglio, da come avrete potuto capire, rivelandovi gli studi che Brayden ha compiuto di Ingegneria Gestionale e Meccanica (inoltre: la Morgan non parla di Fisica, ma come potevo io non inserirla? Passatemi quest'ennesima licenza).

Infine. se qualcosa può andar male, andrà male è riportata in corsivo perché è il primo assioma della Legge di Murphy che... potevo mai NON inserire?
... ora credo di aver detto proprio tutto. Spero di essermi spiegata bene; comunque per qualsiasi cosa potete scrivermi (i miei contatti sono ovunque, ormai lo sapete). Al prossimo capitolo, che arriverà TRA DUE SETTIMANE (il 10 giugno), come già sapete. Spero di riuscire ad uscirne viva, è il capitolo in cui torna Murphy ed io non sono pronta. Nemmeno Brayden lo è.

   
 
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