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Autore: FCq    26/05/2015    4 recensioni
“Tu sei...”, urlai contro Edward, seduto sul bordo del letto, lo sguardo chino a terra e le mani dietro la nuca.
Mi fissò.
“Tu sei... un idiota. Tu sei incomprensibile e lunatico...
______________
“Perché non capisci”, sussurrò.
“Cosa? Cosa dovrei capire?”.
“Che ho sbagliato. Ho sbagliato tutto”.
“Cosa vuoi da me Edward?”, gli chiesi, .
“Io non voglio niente da te...”, mi rispose. L'intensità nella sua voce solleticò ogni nervo del mio corpo. Con lo stesso vigore mi strinse il viso fra le mani.
“Io non voglio niente da te”, ripeté, “io voglio te”.
Allora si avventò sulle mie labbra.
Genere: Azione, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan | Coppie: Bella/Edward
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: New Moon
Capitoli:
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Buonasera! Come ho scritto in una recensione, questo è un capitolo "prologo", dà avvio a una nuova "era" della storia. Ho notato che tutti, almeno nelle recensioni, avete provato moltaaa pena per Tanya soprattutto e per Enrique, ma potreste cambiare idea, almeno su uno dei due.... nei prossimi cap. In questo capitolo ho utilizzato due pov... Vorrei ringraziare come sempre chi lascia un commento o chi legge e basta. Fatevi sentire, perché mi riempite di gioiai : ) Per rivedere Enrique dovrete aspettare ancora un paio di capitoli... chissà se indovinate a chi mi sono ispirata per il suo asptto... non è difficile...

8) Il calore dell'adulterio

Edward

Quella mattina, il suo corpo caldo e morbido rannicchiato contro il mio fianco e la pioggia che batteva leggera sul vetro, realizzai di essere un adultero. Dimentico del tempo, le accarezzavo il volto con la punta delle dita, quasi temessi di turbare il suo sonno o la notte, incoraggiandola a lasciare il passo all'alba. Sapevo ciò che avrei dovuto provare, vergogna e rimorso, ma, col suo respiro sulla pelle e il suo profumo nelle narici, con il ricordo della notte appena trascorsa a ossessionarmi la mente e il desiderio di lei, non ancora quietato, a torturarmi il corpo, non riuscivo a sentire che sollievo. Il perenne nodo in gola, dovuto alla sensazione che tutto andasse nel verso sbagliato, stanotte si era sciolto e io avevo ripreso a respirare, dopo mesi. Un po' com'era accaduto quella prima volta, nell'aula di biologia.

Stare con lei era stato così semplice, era sembrato così giusto, nonostante il timore che potesse essere infastidita dal freddo della mia pelle o che potessi nuocerle, in qualche modo. Le lasciai un bacio in frante, stringendola contro il mio petto, geloso persino dell'aria che le sfiorava la pelle e le baciava le labbra. Come avrei potuto fingere che quella notte non fosse mai esistita? Come avrei sopportato di guardarla ogni giorno senza poterla toccare, senza fare parte della sua vita? Mi mancava parlarle, ridere senza doverci punzecchiare.

Mi ero chiesto per ore, non appena il sonno l'ebbe portata lontano da me, cosa significasse quella notte. Mi amava ancora? Mi aveva perdonato? Le sue parole, prima che la interrompessi, sembravano cariche di rabbia nei miei confronti. Se le avessi spiegato le miei ragioni, puerili, piene di bugie, che avevo capito essere scuse per la mia paura, se avessi ammesso le mie colpe, sarebbe bastato? E Tanya? Avevo tradito la sua fiducia, la mia parola, le avrei spezzato il cuore, ma ciò che temevo più di ogni altra cosa erano le conseguenze sulla sua mente instabile. La sua dipendenza nei miei confronti mi spaventava a morte. Mi alzai a malincuore, perdendo qualche istante ad osservarla, così piccola in quel letto così grande. Mi infilai i jeans, raccogliendo il resto degli indumenti sparsi per la stanza. Piegai i suoi jeans e la T-shirt, riponendoli accanto a lei. Mi accostai alla finestra, in ascolto, assicurandomi di non percepire pensieri o intenzioni moleste nei paraggi.

Diluviava. Strinsi i pugni. Se ripensavo alle sue ferite, ai suoi occhi agghiacciati dal terrore, al suo corpo spossato dalla fatica, mi sentivo lacerato da una rabbia cieca. Non tolleravo, e d'altronde non lo avevo mai accettato, che lei soffrisse, qualsiasi fosse la causa e la ragione. Le abitudini sono dure a morire, pensai sorridendo. Mi avvicinai al letto, chinandomi al suo capezzale, sfiorandole le labbra e la vidi, la piccola fede d'oro giallo, simbolo del mio impegno, del mio legame con Tanya. Le avevo chiesto di sceglierle, le fedi, sapevo che lo avrebbe apprezzato. Certamente mi stava aspettando, preoccupata, gelosa, inconsapevole che avevo trascorso la notte più bella della mia vita... con un'altra donna. Poco importava che fosse lei, l'unica donna che avrei mai potuto amare, l'unica che avrei mai potuto desiderare.

“Bella”, la chiamai, accarezzandole i capelli, ma ritraendo subito le mani per non essere tentato dalla dolcezza del suo corpo e per non doverla sfiorare con il freddo del metallo che indossavo.

“Bella”, la chiamai ancora. Lei sollevò lentamente le palpebre, le lunghe ciglia a carezzarle le guance e il viso contratto, un po' arrabbiato, come se l'avessi appena strappata da un bel sogno. Le accarezzai la tempia, in prossimità di una piccola cicatrice rossastra. Non doveva essere questa, la sua prima volta. Non in una casa sconosciuta, in un letto altrui, dopo essere scampata alla morte, con la fretta di fuggire, con un uomo già sposato... Ma non potevo negare di essere stato rincuorato... di più soddisfatto... elettrizzato dall'idea che lei era ancora mia. Come se le avrei mai permesso di appartenere a qualcun altro...

Mi vergognai di quei pensieri e ringraziai che fossero solo miei.

Mia. Un tantino riduttivo per descrivere il senso di totale appartenenza che provavo nei suoi confronti, come fosse una parte del mio corpo, un'estensione della mia pelle, un pezzo del mio cuore: quello che ancora batteva.

Si alzò di scatto, rannicchiando le ginocchia al petto e trascinando con sé il lenzuolo che avevo recuperato da un pacco, per coprirla in modo tale che non prendesse freddo. I suoi occhi mi fissarono, scavando nelle miei iridi e nella mia testa, come potesse leggermi nel pensiero. Fossi stato umano sarei arrossito.

“Dobbiamo tornare”, le dissi.

Non accennava a muoversi. Aspettava che io parlassi, che dicessi ciò che avrei voluto dire, ciò che le avrei detto in altre circostanze, senza la fede a pesarmi sul dito.

Dopo qualche istante i suoi occhi si raffreddarono, annuì impercettibilmente, afferrò i vestiti e scese dal letto. Mi scostai per darle modo di passare. Si allontanò di qualche passo, poi esitò e tornò indietro. La vidi portare le mani all'orlo della mia t-shirt che le avevo fatto indossare quella notte e sfilarla.

Mi mancò il respiro, il palato arido di veleno, sgranai gli occhi per imprimere ogni particolare del suo corpo nudo e stabilire se fosse cambiato qualcosa in lei, da quella notte.

“Grazie”, mi disse, porgendomi la maglia che afferrai con più forza del necessario.

Poi si allontanò, nuda; i miei occhi la seguirono e la indagarono fin quando non scomparve in bagno.

Era solo più bella.

E io solo un idiota.

Indossai la maglia, che profumava intensamente di lei. Raccattai le nostre cose e scesi in garage, dove fortunatamente si trovava una vecchia Toyota. Dopo essere riuscito a metterla in moto la parcheggiai nel vialetto e tornai in camera.

Lei era lì, seduta sul letto a gambe accavallate, un po' curva, con le mani immerse fra i capelli, si portava nervosamente la stessa ciocca dietro l'orecchio che continuava a ricaderle sul viso. Mi avvicinai, senza riflettere, accovacciandomi di fronte a lei così che fossimo alla stessa altezza, agganciandole la ciocca e accostandomi alla sua guancia, per saggiare l'odore della sua pelle.

“Sai di me”, le dissi.

Bella appoggiò la fronte alla mia, ad occhi chiusi, strofinando la sua pelle contro la mia pelle e circondandomi il collo con le braccia. Fece scorrere le dita sulle mie spalle, poi sugli avambracci e infine le mani, le stesse con cui l'avevo accarezzata. Nel momento in cui incontrò l'ostacolo della fede aprì gli occhi, contrasse il volto e si rigirò la mia mano sinistra fra le sue.

“Perché?”, mi chiese e questa volta mi fissò dritto negli occhi.

“Se te lo dicessi, mi odieresti. E in ogni caso, non cambierebbe niente”, le risposi debolmente.

“Tu mi hai...”, iniziò.

“Presa”, conclusi per lei.

Arrossì, ma ribatté: “Sì, presa. E' questo è tutto ciò che riesci a dirmi? Cosa significa che non cambierebbe niente? Cosa dovrebbe cambiare? Lascia decidere a me se ti odierei”.

“Cosa...”, iniziai.

“Smettila”, urlò e si allontanò di scatto da me, come se le avessi dato una scossa.

“Smettila di sembrare così... affranto? Tu sei... sposato, Edward. Capisci? Sposato. E dovresti essere innamorato, felice, libero da ogni angoscia e paura. Questo significa amare. E come se non bastasse questo a fare sembrare tutto... ridicolo, hai fatto l'amore con me. Hai tradito tua moglie con me. La stessa ragazza che hai lasciato perché non era quella giusta. Cosa pensavi, Edward?”.

Parlai senza riflettere.

“Se io ti dicessi che erano tutte bugie, quelle nel bosco. Se ti dicessi che non ho smesso neanche per un istante di amarti, di volerti. Se ti dicessi che l'ho fatto per proteggerti da me e tutto ciò che comporta stare con me, ma che ho capito essere soltanto bugie. Perché avevo paura di un'infinità di cose. Se ti dicessi che ho sposato un donna quando non capivo neanche dove mi trovassi o chi fossi, in preda alla disperazione e che non posso lasciarla. Se ti dicessi che vederti con lui mi fa impazzire e che questi ultimi giorni sono stati un inferno. Se ti dicessi che ti ho presa perché ti volevo, non cambierebbe niente”.

Mi accostai a lei, senza sfiorarla neanche per errore, sapevo che non lo avrei sopportato. “Se ti dicessi che ti voglio, anche adesso, non cambierebbe niente”.

“Quello che dici non ha il minimo senso”, sussurrò e sembrò espirare tutta l'aria che aveva in corpo.

“Se ho... afferrato, vorresti farmi credere di avermi lasciato, anche se mi amavi, di aver sposato un'altra donna, di esserci stato a letto per errore. Vuoi farmi credere di avermi distrutta e che io ho sofferto per settimane, mesi interminabili perché tu avevi... paura? Tu sai cosa si prova a vedere l'uomo che ami, che adori, che avevi creduto ti sarebbe stato accanto per l'eternità sparire all'improvviso e poi rivederlo, quando sapevi che non sarebbe mai successo perché se un vampiro non vuole farsi trovare puoi stare sicura che non lo troverai, e vederlo accanto a un'altra donna, sposato. Sposato! Questo è da paura. E solo per errore... e adesso ti permetti di venirmi a dire che sai di aver sbagliato, che vuoi me ma che non puoi cambiare la situazione”.

“Bene, ma lascia che ti dica una cosa, Edward. Anche ammesso che tu voglia cambiarle, le cose, io non sarei disponibile”.

Detto questo, si allontanò di gran carriera.

 

Il viaggio in auto fu silenzioso e spossante. Lei non mi rivolse la parola. Evitava il mio sguardo come si evita la peste.

“Siamo quasi arrivati”, le comunicai.

“Sai cosa odio più di ogni altra cosa di questa storia, a parte l'ovvio?”, mi chiese.

Mi limitai a fissarla.

“Odio che tu abbia deciso per me. Odio che tu non abbia mai preso in seria considerazione il mio amore, il mio desiderio di starti accanto a dispetto di tutto. Odio che tu mi abbia sottovalutato a tal punto”.

Sospirai, preferendo guardare la strada, piuttosto che i suoi occhi delusi. “Io ero pronto a tutto per te, avrei fatto qualsiasi cosa. Avrei sacrificato qualsiasi cosa, anche me stesso. Ma non riuscivo a credere che per te fosse lo stesso. Io so quanto puoi amare, lo vedevo, nei miei confronti e della mia famiglia. Lo vedevo quando accarezzavi i capelli di Alice, come se lei fosse la bambina e non tu. Lo vedevo nella tua calma di fronte all'atteggiamento di Rosalie o al distacco di Jasper e nel tuo sguardo paziente alle battute rozze di Emmett. Lo vedevo ma non riuscivo ad accettarlo. Io non ho sottovalutato te, andando via. Ho sottovalutato me stesso. Perché non pensavo che tu potessi amarmi. Per quanto mi riguardava, ciò che io provavo era più che giustificato nei tuoi confronti ma non viceversa. ”.

Lei mi osservò a lungo, senza parlare.

“Io amavo anche questo di te”, aggiunse, dopo diversi minuti di silenzio, “la tua fragilità. L'ho notata fin dal primo istante che ti ho visto, dietro l'apparente perfezione del tuo viso e il tuo sguardo cupo. Sembravi assente, non badavi a ciò che ti accadeva intorno, ma io ho sempre creduto che non fosse vero. Nei tuoi occhi, e lo si notava soltanto ammesso che si riuscisse a fissarli abbastanza a lungo, c'era una tale vitalità, una luce che illuminava tutto ciò su cui posavi lo sguardo. Sono stati la tristezza e la solitudine ad attrarmi a te, prima ancora che il tuo aspetto o la tua intelligenza. Amavo i tuoi dubbi, le tue incertezze, la tua forza, la tua arroganza. Amavo tutto. Per qualche mese mi sono illusa di poter essere la “cura” a tutti i tuoi... mali e che tu fossi la mia. Ma evidentemente il mio amore non è bastato a cancellarli. Adesso ho deciso di mettere me stessa al primo posto e tentare di guarirmi da sola. Perciò non posso accettare che tu abbia deciso per me. Non posso giustificarlo”.

“Anche se ti amo, come nessuno ha mai amato qualcun altro”, aggiunse.

Il silenzio ci accompagnò fino in prossimità della villa. Le sue parole impresse a fuoco nella mia mente.

“Ti amo”, le dissi d'un tratto, quando ebbi spento il motore.

Sussultò, chiuse gli occhi e non parlò.

“Ti amo”, ripetei, “Ti amo e non dovrei. Ti amo quanto un padre ama una figlia, un fratello ama una sorella e un marito ama una moglie. Ti amo così tanto che non ho i mezzi per quantificarlo. Così tanto che a volte temo di impazzire, di non poterlo contenere. E più il tempo passa e più ti amo, come se fosse possibile mi innamoro di te ogni giorno di nuovo...”.

“Ma questo non cambia niente”, aggiunse per me.

Non risposi.

Scese dall'auto, sbattendo con forza la portiera. La seguì dopo qualche istante.

Sulla soglia, Esme ci attendeva a braccia aperte. Bella si lasciò stringere, soffocare dall'affetto di mia madre, che mi lanciò uno strano sguardo. Tutto sommato, sembrava sollevata. Subito alle sue spalle, Carlisle ci attendeva ansioso. Mi diede una rapida pacca sulla spalla.

“Devo medicarti”, borbottò fra sé Carlisle. Bella scosse il capo.

“Può aspettare, devo parlare con Alice”, si affrettò a dire Bella.

“Bella, non penso sia una buona idea”, cercò di dissuaderla Carlisle, riservandomi uno sguardo ansioso. Ma lei si era già allontanata, per poi bloccarsi prima di entrare in salotto. La stanza era sottosopra, il divano capovolto, i mobili distrutti, la parete in parte forata, come se qualcuno l'avesse colpita ripetutamente con pugni tanto forti da nuocere al cemento.

Tanya se ne stava in un angolo, rannicchiata, con le ginocchia strette al petto e oscillava avanti e indietro, lo sguardo nero e vitreo. Continuava a picchiare con il pugno chiuso della mano sinistra contro la parete, ma così debolmente da non riuscire a scalfirla, questa volta.

“Ed... Edwa...Ed”, ripeteva.

Poi sollevò gli occhi, puntandoli sul mio volto e i suoi tratti si distesero, sorrise persino, lasciando scivolare il braccio sul pavimento.

“Ed”, sussurrò. Il sollievo nella sua voce mi impietrì, ma soltanto per pochi istanti, fin quando non imposi al mio corpo immobilizzato di muoversi verso di lei. La afferrai saldamente, sollevandola tra le mie braccia.

“Pensavo che non saresti tornato, pensavo che saresti andato via...”.

Con lei, pensò.

“Sono qui”, le dissi, la voce incrinata, lasciandole un bacio fra i capelli. Ignorai i pensieri dei miei familiari, i loro sguardi. Ignorai lei, contro ogni istinto del mio corpo, e presi a salire le scale che conducevano al piano superiore. Mia moglie tra le braccia, che adagiò il capo sul mio petto, inspirando a fondo il mio odore.

“Sai di lei”, disse.

 

Bella

Sono un angelo con un fucile, un fucile, un fucile

Sei un santo o un peccatore?
Se l'amore è uno scontro, io morirò
Col cuore su un grilletto?

Si dice che prima di iniziare una guerra
Dovresti sempre sapere per cosa combatti
Combatterò finché la guerra non sarà vinta
Non mi importa se il cielo non mi riaccoglierà
Voglio vivere, non solo sopravvivere
Stanotte

A volte per vincere devi peccare
Angel with a shotgun

 

 

Lasciai che Carlisle mi medicasse il braccio, applicando svariati punti di sutura. Osservavo le sue mani esperte operare sulla mia pelle, senza riuscire a vederle realmente.

Dal momento in cui avevo aperto gli occhi, quella mattina, incerta se avessi sognato o meno, Edward non aveva fatto altro che ripetere: “Non cambierebbe nulla, in ogni caso”.

Fino a qualche istante fa, prima di assistere indirettamente alla furia di Tanya nello scempio del salotto o di osservare lo stato di panico e isteria in cui versava, avrei detto che mentiva, mosso dai sensi di colpa. Ma in quell'istante, mentre Tanya si aggrappava alle sue spalle forti, affondando il volto nel solco del suo petto, gran parte dei tasselli del puzzle si unirono, disegnando un'immagine precisa. Le sue parole, su quanto non potessero cambiare le cose, pur volendo, trovavano una collocazione. Lasciare Tanya avrebbe significato distruggerla e per quanto potessi odiarla, perché aveva preso ciò che era mio, non avrei augurato a nessuno di vivere la mia stessa esperienza, di patire il mio stesso dolore. In più, capivo che Edward non avrebbe mai perdonato se stesso se le fosse capitato qualcosa a causa sua. Perché si sentiva responsabile per lei, lo leggevo nel suo sguardo apprensivo, lo capivo dal destino a cui si stava condannando: trascorrere l'eternità con una donna che non amava.

Amava me.

Parole alle quali, in quel momento, non riuscivo ad assegnare il giusto peso. Parole che non riuscivo ad accettare. In realtà, ero posteggiata in una sorta di limbo, in attesa di metabolizzare la notte appena trascorsa e tutto ciò che ne era conseguito. In dubbio persino su cosa avrei dovuto provare: sollievo, perché lui mi amava e continuava a stare con Tanya soltanto perché obbligato, oppure un'infinita tristezza per la stessa ragione? Se avevo costruito degli argini molto alti per impedire alla diga dei miei pensieri di straripare, non potevo vietare al mio corpo di ricordare le sensazioni provate quella notte. Un piacere così intenso che non pensavo potesse esistere, né tanto meno che si potesse provarlo sulla propria pelle, un sollievo tale, come se avessi ripreso a bere e a mangiare dopo settimane trascorse senza, come se avessi smesso di trascinarmi il peso del mondo sulle spalle. Finalmente tutto andava per il verso giusto. In più le sue parole, le poche che mi aveva rivolto quella notte che non fossero gemiti o profondi ringhi gutturali, sarebbero bastate a far impazzire qualsiasi donna, altrettanto le sue mani, straordinariamente tenaci e delicate. Un piccolo focolaio si accese nel mio petto al pensiero che non ero stata io, la prima donna che aveva amato in quel modo.

“Ecco fatto”, disse Carlisle, riponendo i suoi strumenti nella valigetta di cuoio. “Abbiamo finito”.

“Grazie”, dissi, riabbassandomi la manica della maglia.

“Una volta non riuscivi mai a guardare, mentre ti medicavo”, sospirò Carlisle, senza voltarsi a guardarmi e continuando a rovistare nella sua valigetta.

“Le cose sono cambiate da allora”.

Carlisle sorrise e questa volta mi rivolse uno sguardo che avevo imparato a riconoscere negli occhi di mio padre: orgoglio.

“Sai sono stati giorni orribili, ho temuto, lo abbiamo temuto tutti, di non poterti riabbracciare. Sei stata molto brava”, mi disse, accarezzandomi i capelli. A quel gesto il fiume straripò oltre gli argini e iniziai a piangere e singhiozzare istericamente, abbandonandomi tra le braccia di Carlisle che mi strinse forte a sé.

“Sei al sicuro. Adesso sei al sicuro”.

“Non l'ho salvata, Carlisle. E' morta al mio posto... avrei dovuto... ma non potevo, capisci? Non avevo altra scelta, non c'era modo di uscire. Tutte quelle persone, non sono stata in grado di aiutarli. Troppo debole... debole. Non avevo la forza di aiutarli. Non ho mai la forza. Temevo... temevo che sarei morta in quel sudiciume”.

“Sei al sicuro – ripeté. E capita... di non avere la forza.”, mi disse.

“Tu l'avresti avuta. Voi saresti riusciti a salvarli”, mormorai, dopo aver versato ogni lacrima del mio corpo.

“Nel mio lavoro, nel nostro lavoro, tutto ciò che stai sentendo è all'ordine del giorno. A volte non basta avere sensi sviluppati, né una conoscenza centenaria per salvare una persona. E sono sempre bambini, piccoli, belli e innocenti. Non posso impedire a un cancro di andare in metastasi, né a un organo di cedere durante un trapianto, eppure continuo a fare il mio lavoro. Continuo ad andare avanti. A volte non si può fare davvero altro”.

“Andare avanti”, mormorai, smettendo di stringere tra le dita la sua camicia, zuppa delle mie lacrime e asciugandomi il volto con la manica.

“Andare avanti anche se tutto va a rotoli. E questa la scelta giusta?”.

“Sì. E' questa la scelta giusta. Ciò che importa è che tu non perda te stessa. Devi aver chiaro chi sei o chi vuoi essere, ad ogni scelta che compi”.

“Io voglio essere forte, Carlisle”.

“Lo sei già, ma non lo vedi. Nessun altro essere umano avrebbe fatto ciò che hai fatto tu. Hai dimostrato coraggio, astuzia”.

“Per gran parte della mia vita ho creduto che chiunque altro avrebbe fatto meglio di me, fosse stato al mio posto. E' sempre così. L'ho creduto con mia madre, quando ero troppo piccola, impotente e pensavo che un'altra bambina avrebbe saputo aiutarla. L'ho creduto con Charlie, quando ogni estate ero costretta a lasciarlo per tornare da Reneé e pensavo che chiunque altro avrebbe trovato un modo per non renderlo triste. E l'ho creduto con Edward, quando mi ha lasciato e ho pensato che un'altra donna avrebbe saputo renderlo felice. Sarei ingiusta se l'ho incolpassi di tutto. Non era l'unico ad aver paura. Io non ho avuto il minimo dubbio sulle sue parole, mentre le pronunciava. Nonostante i miei occhi mi dicessero il contrario, gli ho permesso di andare via. La colpa è anche mia Carlisle. Non voglio più essere debole”.

“Lo conosci meglio di chiunque altro. Persino meglio di me”, disse, dopo un minuto buono di silenzio.

A questo non obiettai.

“E' in meno di un anno, mentre io ho tentato per un secolo di capirlo e ancora oggi alcune sue scelte non riesco a condividerle. Non a tutti è concesso di avere ciò che voi avete, l'essere l'uno per l'altra. Hai lasciato che i tuoi preconcetti ti offuscassero la capacità di giudizio. Tu sapevi quanto ti amava, quanto tutti noi ti amassimo e il fatto di non sentirti mai abbastanza, qualsiasi sia il ruolo che ricopri, ti ha rovinato. Perché non hai lottato. Capisci che per essere un buon medico non basta avere delle conoscenze? Quando una vita dipende dalle tue scelte, dal tuo operato, devi essere sicura di saper fare ciò che fai. Non puoi permetterti di non considerarti adatta. Non puoi pensare che un qualsiasi altro medico avrebbe fatto meglio di te. Perché tu sei lì, in quella sala operatoria. Tu hai il bisturi in mano, non un altro”.

“Non posso esitare”, dissi.

“No, non puoi. Non devi, non ne hai motivo. Capisco che tutto ciò che hai dovuto affrontare ti abbia condizionata, ma se avessi combattuto per il ruolo che ti spettava, al fianco di Edward, ora non saremmo a questo punto, probabilmente” mi fece notare.

“Anche se dissuadere Edward da un suo proposito, non è certo facile”.

“Mi ha rovinato...”.

“Tempo”, mi disse

“Grazie, Carlisle. Adiamo da Alice”.

…....................................

 

Quando ritornammo in salotto, i Cullen stavano parlottando fra di loro.

“Tanya?”, stava chiedendo Esme.

“Di sopra”, rispose Edward, che mi dava le spalle. Sembrava angosciato. Carlisle mi strinse leggermente il braccio, a livello della ferita, dandomi sollievo con il suo tocco gelido.

Alice mi strinse una mano fra le sue, trascinandomi sul divanetto a due posti al suo fianco. Emmett si accovacciò di fronte a me.

“Sembri tutta intera, sorella. Alice ci ha raccontato che hai fatto faville, letteralmente”. Gli diedi una pacca sulla guancia.

“Mi saresti servito in questi giorni”, gli dissi.

Il viso di Emmett si scurì, solo per un istante, per ritornare allegro subito dopo. “Mi rifarò”, promise.

“Te la senti di raccontarci cosa è successo?”, mi chiese Alice.

“Non pensavo avrebbe rischiato tanto”, sussurrai, mentre Edward, e lo percepì più che udirlo realmente, occupava il posto di fronte a me, seppur a debita distanza.

“Non gli importava di essere visto, affatto. Ha corso per ore, la maggior parte del tempo l'ho trascorso priva di sensi, per via della botta in testa. Poi siamo arrivati al casolare. Erano dieci, undici o forse di più. La maggior parte di loro era controllata, posata, a eccezione di quattro. Sembravano indemoniati, assetati all'inverosimile. Neonati. O almeno così li ha chiamati. Mi ha allontanata e mi ha condotta in una stanza, un seminterrato”.

Tremai non abbastanza impercettibilmente perché i vampiri non lo notassero. Alice allacciò la sua mano alla mia con ancor più forza. Strinsi i denti, metaforicamente.

“Eravamo in sedici. Tutti molto giovani, sotto i trent'anni. Li affamavano e li assetavano per settimane. Anche se non capisco la ragione. Ma so per certo che li trasformavano. Ogni tanto, qualcuno scompariva... Durante il giorno si sentivano strani rumori, si allenavano nello spiazzale di fronte all'edificio. La stanza era immersa nel buio ma ne sono certa. Durante la notte la maggior parte di loro usciva. Un uomo, John, era lì da molto tempo, ha tentato di uccidersi mordendosi la lingua. Ho provato a salvarlo, per quanto mi fosse possibile, ma non ho potuto far niente. Michael ci ha trascinati al piano superiore e l'ha... E' stato a quel punto che mi ha parlato di lei, Victoria. Però, sono state le sue parole a colpirmi. Ha detto che capiva perché Victoria avesse voluto uccidermi e perché non vedeva l'ora di liberarsi di me, l'indomani. Ha parlato al passato, capite? Come se adesso le sue intenzioni fossero cambiate. In realtà, Michael avrebbe potuto uccidermi in qualsiasi momento, ma non l'ha mai fatto. Lui voleva che io vivessi e non perché fosse Victoria a uccidermi. Ne sono certa. Altrimenti avrebbe potuto affamarmi, come ha fatto con gli altri, anziché offrirmi la colazione. Io non ero una prigioniera, ero un ospite”.

“Cosa poteva volere Victoria da te, se non ucciderti per vendetta?”, mi chiese Alice.

“Non lo so”.

“Hai parlato di... neonati?”. Mi voltai in direzione di Jasper, che aveva mosso qualche passo nella mia direzione, il volto contratto.

“Sei certa che si trattasse di neonati, Bella?”, mi chiese.

Annuì.

“Come hai fatto a...”. Jasper si fermò prima di concludere la frase.

“Sopravvivere? Scappare?”.

“Mi ha aiutata, uno di loro. Una neonata”.

“E' impossibile. I neonati sono feroci, incontrollabili, selvaggi, assetati di sangue. Lo so, li ho addestrati e combattuti per anni”, ringhiò Jasper. Ricongiunsi i pezzi mancanti del puzzle. Esward mi aveva raccontato che Jasper era stato un soldato, in entrambi i mondi in cui aveva vissuto.

“Lo era, Jasper. Ma è stata abbastanza lucida da decidere di aiutarmi. Non sarei qui, altrimenti”.

Jasper non replicò.

“Allora sono felice di essermi sbagliato, in questo caso”, mi rispose, un po' impacciato.

Sorrisi. Sorrisi veramente, dopo giorni.

“Che differenza fa se si tratta di neonati o di normali vampiri?”, gli chiesi.

“I neonati non sono soltanto indomabili, sono anche molto forti. Nel nostro primo anno di vita lo siamo tutti. Più forti persino di Emmett”.

Il sottoscritto sbuffò. “Vorrei vedere”, borbottò.

“Victoria sta trasformando esseri umani in nuovi vampiri, ciò vuol dire che ha bisogno di forza e per una qualche ragione a noi sconosciuta vuole Bella”, concluse.

“Penso che li selezionassero”.

“Cosa?”, mi chiese Alice.

“Gli umani. Credo che li affamassero e li assetassero per testare la loro resistenza. Quando Michael ha ucciso John, ricordo di avergli sentito dire che pensava avrebbe resistito di più. Ma non avevo collegato prima”.

“Ha bisogno di forza, ma anche di talento”, constatò Jasper.

“Pensate che potrebbe voler attaccare...”.

“Noi?”, concluse per me.

“Ma ti vuole viva”.

“Ma vuole Edward morto. E aveva già pianificato che mi avrebbe rapita. Vuole voi. Lei vuole voi”.

I miei occhi lo reclamarono, per quanto tentassi di impedirlo. Edward mi stava osservando a sua volta, i gomiti sulle ginocchia e il mento adagiato sulle nocche.

“Che vengano”, esordì Emmett, battendo il pugno chiuso contro il palmo della sua mano sinistra.

Lo fissai inquieta.

“Siete in inferiorità numerica”.

“Siamo migliori di loro, in forza e strategia”.

“Sono molto forti Emmett, alcuni di loro sono dotati, come voi”.

“Chi?”, mi chiese Jasper.

“Michael... lui è in grado di percepire i desideri altrui e renderli concreti. Sebbene si tratti di un'illusione è molto reale e confonde facilmente”.

“Avrei voluto cedere, nel bosco”, sussurrai, ricordando quell'istante in cui avevo realmente creduto che i miei desideri si stessero concretizzando, per poi ritrovarmi in mano nient'altro che fumo.

Il ricordo di quel momento ne risvegliò un altro, di pari intensità.

Alzai lo sguardo su Edward.

“Ho ucciso... Io credo di aver ucciso un vampiro”, balbettai.

Edward mi rivolse uno sguardo esitante, come se faticasse a trovare un senso in ciò che stava ricordando. Con quanto era accaduto quella notte, avevamo entrambi dimenticato quel particolare sconcertante. Arrossì lievemente, ma a Edward non sfuggì, lo capì dal suo sguardo fattosi d'improvviso intenso.

“In che senso?”, chiese Emmett.

Edward rispose per me.

“Lo ha... incenerito”. Sei paia di occhi dorati si fissarono sul mi volto.

“E come?”.

“Io non... io non lo so. Ho sentito il fuoco sotto la pelle, nella ossa e poi è esploso dal mio corpo”.

“Mai sentito nulla del genere”, commentò Emmett.

“Carlisle”, chiese Edward.

Carlisle scosse il capo, in evidente difficoltà.

“Potrebbe essere un dono”, propose, “come leggere il pensiero o controllare l'umore, o meglio ancora vedere il futuro. Alice aveva visioni già da umana”.

“Un dono”, mormorai.

“Devi insegnarmi come usarlo”, dissi, alzandomi di scatto e fronteggiando Jasper.

“Io non...”.

“Tu sei un soldato. Chi meglio di te potrebbe addestrarmi?”.

“Addestrarti?”, ringhiò Edward. “Ed esattamente in quale battaglia pensi di dover combattere?”.

“Qualunque battaglia mi capiterà”.

“E' pericoloso, qui non parliamo di leggere nel pensiero. Vuoi letteralmente giocare con il fuoco”.

“E' un rischio che sono disposta a correre e poi immagina se riuscissi a controllarlo. Saprei proteggere me stessa da chiunque, vampiri inclusi”.

Edward esitò. Quella prospettiva, la mia protezione, lo avrebbe fatto capitolare.

Mi rivolsi nuovamente a Jasper. “Jazz... aiutami, da sola non saprei cosa fare. Inoltre sono stufa di essere sempre così impreparata e inetta. Capisco che contro dei vampiri potrei fare poco o niente, ma voglio essere... voglio essere più forte”.

“Bella, io posso addestrarti... posso renderti fisicamente più forte, ma non posso aiutarti a sviluppare il tuo dono. Non ho avuto bisogno di imparare a gestire il controllo dell'umore, per me era così naturale, spontaneo, non saprei davvero cosa fare per te. Persino Edward sarebbe impotente, perché controllare una capacità a livello mentale è differente dal farlo a livello fisico. E se tu hai incenerito un vampiro senza alzare un dito di certo non si tratta di un'illusione”.

“Devo imparare. Devo imparare come utilizzarlo, Jasper”, lo pregai.

“Io non...”.

“Io posso esserti d'aiuto”.

Volsi lo sguardo in direzione di quella voce nota, più di quanto avrei desiderato che lo fosse.

Tanya scendeva con eleganza, noncuranza, quasi come se non vedesse la devastazione di cui era stata responsabile. Il mio intero corpo si irrigidì. Una nuova e più feroce ostilità si era radicata in me. Sragionavo.

Sentì caldo, molto caldo.

Tanya mi rivolse uno sguardo diverso da qualsiasi altra occhiata mi avesse regalato in quelle settimane. Uno sguardo che conoscevo bene, instabile, inquieto e fragile: lo sguardo di mia madre. Che tante volte le avevo visto da bambina. Tremai.

“Ho aiutato mia sorella Kate a sviluppare il suo dono. Produce una corrente elettrica su tutta la pelle. Ti consiglio di non toccarla, quando non vuole essere toccata. In più, qualche decennio fa, Eleazar ha scoperto che ero in grado di produrre... gas. Un gas nocivo con una composizione chimica simile all'antrace e al polonio... dalla pelle. Il gas danneggia soprattutto gli umani ma ha effetti anche sui vampiri, la pelle che entra in contatto con la sostanza viene degradata così profondamente che neppure il veleno riesce a porvi rimedio. Sto ancora mettendolo appunto...”.

“Diciamo che un qualsiasi essere umano riuscirebbe a fare il giro della casa due volte prima che il tuo gas inizi a diffondersi...”, ribatté acidamente Rosalie.

“Ma so come fare”, continuò Tanya, ignorando Rosalie. “Naturalmente i risultati dipendono dalla pratica, dall'impegno e dalle capacità individuali. Potrei aiutarti, se lo desideri”.

Tanya si stava offrendo di aiutarmi? Mi chiesi quale potesse essere il suo scopo. Non certo la benevolenza nei miei confronti, supponevo che l'ostilità fosse reciproca. Ma allora? Lo cercai, nonostante non dovessi farlo. Non con lei lì. Ma lo cercai lo stesso.

Cosa devo fare? Gli chiesi con lo sguardo, in modo tale che soltanto lui capisse.

Sono qui, comunque. Mi rispose.

“Voglio che tu lo faccia. Aiutami”, sospirai.

Un voce contrariata urlò nella mia testa: l'orgoglio, che si opponeva strenuamente a che io le concedessi di fare qualcosa per me. Di avere a che fare con me. Chiederle aiuto accese in me un altro focolaio, provai la stessa sensazione del vampiro nel bosco. Mi sentì amorfa, inconsistente. Come se il suo sorriso estatico mi avesse ridotto in cenere.

 
  
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