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Autore: hijabitaliangirl    26/05/2015    0 recensioni
La nostra protagonista ed io narrante è Qamar, una sedicenne velata di origini arabe che vive in un Paese non musulmano, ragazza con un grande amore per le parole ma non una sola anima con cui volerle condividere; una maturità ed intelligenza fuori dal comune, ma un'altrettanto profonda repulsione verso il cambiamento.
Una storia di crescita, nel corso della quale Qamar sarà costretta a capire che vita e cambiamento sono parole intrecciate e inscindibili, e che cambiare significa necessariamente accettare di dover soffrire.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Nota: Sì, c'è scritto nel titolo: è un'anteprima. E' incompleto. E' solo per dimostrare che sto effettivamente scrivendo qualcosa.

Ancora non l'ho editato, perciò aspettatevi il peggio, come l'uso eccessivo di patate ed altri ortaggi, alberi genealogici abnormi, e pignoleria sulle K e le Q. Io v'ho avvertiti.
 
# # #
 
Capitolo 1 Era il dodici giugno, e l'appiccicosità del caldo afoso era piacevolmente contrastata dalla brezza leggera, e il sole alto in cielo dipinto sullo sfondo ceruleo avrebbe messo chiunque di buon umore; e gli studenti della scuola statale di ***, io compresa, erano grati per tutto ciò.
 
L'ultimo giorno di terza liceo potevo scegliere se andare a casa alle 10:30, oppure rimanere a scuola fino alle due del pomeriggio per godermi il concerto di qualche band abbastanza squallida della zona, salire sul palco per un "bel" karaoke, partecipare poi ai tornei di calcio e pallavolo (ovviamente quelli di pallacanestro erano solo per maschi), ed infine attingere dall'esiguo buffet di cibo spazzatura. Feci in modo di salutare tutti e sparire dalla circolazione prima del karaoke, al che il prof di filosofia, vedendomi già con un piede fuori dal cancello, mi domandò curioso: - Già vai via?
 
Mi girai con una mano a riparare gli occhi dal sole, e quasi mi venne da rispondere con un freddo "assolutamente"; ma era il mio prof preferito, ed era stato lui ad organizzare la giornata, perciò mi morsi la lingua. - E' che devo proprio scappare! Parto domani presto e ancora devo fare le valigie, - buttai lì, sorridente, senza smettere di camminare all'indietro. Il venticello mi faceva andare il velo sulla faccia, impacciandomi il sorriso.
Il prof annuì comprensivo. - Oh, capisco! Allora buone vacanze, ci vediamo a ottobre! -. Agitammo entrambi una mano per salutare, dopodiché mi girai di scatto, pronunciando un mezzo "arrivederci" che sicuramente non avrà sentito, e mi diressi di corsa verso casa.
 
Avevo mentito, è vero, e non si fa, okay... ma era una mezza bugia bianca. Per cui non era nemmeno una bugia. Infatti avevo davvero sentito (origliato accidentalmente) i miei discutere di vacanza, partenze, mare, montagna, Marocco e Italia negli ultimi giorni, e se fossi rientrata in quel momento, cosa che non si aspettavano, magari avrei scoperto di che si trattava. Quindi, me la potete far passare. Dopo aver trascorso la scorsa estate chiusa in casa dei nonni e degli zii, tra sbaciucchi di parenti sconosciuti e cuginetti strillanti - come se già non ne avessi abbastanza a casa mia -, fremevo dalla voglia di andarmene per queste vacanze. Dopo dieci minuti buoni di corsetta allentai il passo per prendere fiato e scossi la testa, come per scollarmi di dosso quei ricordi poco piacevoli, e cominciai a fantasticare sulle possibili mete che i miei potevano aver scelto.
 
Prima di aprire la porta di casa inspirai ed espirai profondamente per mascherare il fiatone, poi girai lentamente la maniglia. Dovevo riprendere con lo sport, ero una mezzacalzetta che faticava a corricchiare un quarto d'ora. Posai lo zaino a terra e, chiudendo piano la porta d'ingresso dietro di me, tesi le orecchie: non sentii voci. Si udiva soltanto un lieve rumore di piatti e posate sovrastato da quello della televisione provenire dalla cucina, in cui probabilmente si trovavano mamma e Amina. Entrandovi, trovai mia madre già intenta a scegliere cosa preparare per pranzo (ed erano le 11!), mentre mia sorella maggiore sistemava pigramente i piatti dalla lavastoviglie alla credenza, distratta di tanto in tanto dalla TV.
 
- Salam 'alaykum, - dissi in un soffio.
 
- Tesoro, - si girò mamma. - Wa 'alaykum salam. Come mai già a casa? - chiese con tono dolce, chiudendo il freezer. Io feci spallucce. - Non c'era nulla da fare. Le mie compagne... cioè, quelle di loro che sopporto, se ne erano quasi tutte andate in ogni caso. - Mamma annuì e si avvicinò per darmi un bacio veloce sulla guancia. - E poi non mi andava di stare per il cavolo di concerto. - Mamma sorrise con approvazione e mi sfiorò la guancia con tenerezza.
 
- Salam Qamar, - mi salutò assente Amina voltandosi appena per un attimo, troppo presa da qualche sitcom.
 
- Salam, - risposi togliendomi le spille dal velo e poggiandole sul tavolino azzurro. Ricordava in modo inquietante quello di un qualche videogioco a cui giocavo sempre con mio fratello da piccola. - Oggi non c'è Yusuf?
 
Amina non parve sentirmi, ma rimase invece con gli occhi appiccicati al televisore, smangiucchiandosi le unghie nevroticamente. Aveva 21 anni ed era la seconda più grande delle mie sorelle, dopo Inaya, che ne aveva 26 ed ormai non viveva più con noi da quando io avevo finito le medie. Da due mesi Amina era fidanzata con un ragazzetto marocchino di nome Yusuf (o "Youcef", come pretendeva d'essere chiamato), che aveva tre anni in più di lei ma ne dimostrava dieci di meno. I miei sentimenti verso di lui rasentavano l'odio.
 
- Ooooi! -. Le diedi un colpetto sulla spalla, il che risultò in un suo schiocco di lingua, indubbiamente scocciata dal mio tocco. - Che vuoi?
 
- Scusami sai, ma la curiosità era troppo forte. Ero in dubbio se fossi entrata in una trance mistica o se il jinn che è in te si fosse finalmente deciso a venir fuori.
 
- Se festeggiassimo i compleanni, ti regalerei un dizionario delle battute.
 
Alzai le mani sarcasticamente in segno di resa. - Ha fatto lei, la battutona. - Con la coda dell'occhio vidi mamma lanciarci un'occhiata di traverso mentre lavava i piatti. Mia sorella roteò gli occhi, la mascella serrata in evidente fastidio. - Puoi anche toglierti il velo, Youcef oggi non c'è. - E prima ancora di finire la frase si era già voltata di nuovo verso la TV. Diceva il suo nome così - con quell'accento strano, un po' alla "francese", perché lui lo parlava... un francese-fuffa forse, ma pur sempre francese era, in qualche modo - perché sapeva che mi dava fastidio.

Sollevai le sopracciglia, non nascondendo la mia sorpresa mentre mi sfilavo il velo e lasciavo cadere i capelli in una lunga cascata dietro la schiena.
Diedi un'occhiata al tavolo: era pieno di utensili, stoviglie, spezie, qualche verdura, e cianfrusaglie varie. Ringraziai in silenzio Dio che non ci fosse Youcef, e che di conseguenza per una volta c'era Amina ad aiutare mamma.
 
In mezzo a quel caos pescai un gambo di sedano dal tagliere, poi mi appoggiai al frigo per guardare meglio mia sorella, mentre lei m'ignorava a braccia conserte davanti allo schermo. I suoi capelli castani dai riflessi rossi - rimasugli di una vecchia tinta con l'henné - erano legati come sempre a caso in uno chignon spettinato. Sulla fronte, dei ricciolini ribelli, più scuri, non volendo essere raccolti erano rimasti fuori, solleticandole le guance e il collo che per colore e lucentezza ricordavano l'ambra.
 
- Come mai? - chiesi sarcastica, mordendo con gusto il sedano. Anche questo le dava fastidio, faceva rumore.
 
- Così. Non siamo marito e moglie. Non è che deve venire qui tutti i giorni.
 
Alzai un sopracciglio. - Che risposta telegrafica. Te l'ho detto, io, che lavorare troppo accelera il processo della menopausa.
 
Okay, forse stavo calcando un po' troppo la mano. Effettivamente, sapevo di essere fastidiosa come una zanzara in una notte d'agosto quando facevo così, ma questo trattamento speciale lo riservavo solo per lei. Eppure, Amina aveva risposto in modo... strano. Non che fossi affezionata a Youcef-Yusuf in alcun modo, e in ogni caso, come aveva detto lei, non erano sposati. Eppure
 
Che loro due si siano...?
 
- Qamar, togli hijab e spille da qua, - mi chiese mamma nella nostra lingua natia. Obbedii, senza staccare gli occhi di dosso da Amina. Sapevo che sentiva il mio sguardo sulla sua nuca, eppure non si voleva smuovere da lì davanti, se non per allungare il braccio verso il bicchierino di tè. Cominciarono a frullarmi in testa domande su domande, ed iniziai a sentire un vago senso di colpa formarsi nella pancia...
 
- Qamar!
 
Mi voltai verso la voce maschile che mi aveva chiamato. Alla mia destra, dall'altra parte del piccolo corridoio che collegava la cucina alle altre stanze, intravidi la facciona tonda di mio padre che faceva capolino dal soggiorno. Era seduto sulla sua poltrona a leggere il giornale, con la solita TV accesa di sottofondo; così, a uffa. Mi sorrise e fece un cenno con la mano per salutarmi.
 
Gli andai incontro per salutarlo. - Salam 'alaykum ba'. - Se possibile, allargò ancora di più il suo sorriso. - Tutto bene oggi a scuola?
 
Posai un bacetto sulla sua guancia. - Sì, al hamduliLlah. - Sorrisi appena e lui non smise di ricambiare il gesto, guardandomi negli occhi. - Come mai sei già qui?

Le sue sopracciglia si aggrottarono appena. - Oh?
 
- Dico, come mai non sei a lavoro.
 
Papà rifletté per un attimo. Sembrava stranamente allegro. - Ah. Anche tu dovresti essere a scuola, no?
 
- Oggi era l'ultimo giorno, non è che ci fosse granché da fare.
 
- Ah. Capisco. - Mi carezzò il braccio e mi fece un largo sorriso, quasi buffo, forse un po' strano, ispezionando a fondo i miei occhi. La corta barba, un tempo color pece, ora qua e là sembrava spruzzata di neve e andava sempre più ingrigendo. - Anche per me oggi non c'era nulla da fare in ufficio.

 
 
Arrivata in camera mia, al secondo piano, senza nemmeno guardare gettai sul letto l'abaya azzurrina che avevo messo a scuola. Tirai fuori dall'armadio un'altra abaya, più leggera e semplice, tutta nera. Una delle mie preferite. Di lato, all'altezza del ginocchio o poco più sotto, aveva un piccolo spacco che lasciava intravedere la sottogonna turchese, mentre lungo i bordi era decorata finemente con piccole perline che brillavano alla luce del sole. In passato era stata di Amina, quell'abaya, ma siccome lei è sempre stata una spilungona e nel giro di cinque anni era cresciuta di una decina di centimetri, quando per lei è diventata troppo corta me ne sono giustamente appropriata io. Io, con i miei 167 centimetri.
 
Mi ero aspettata di trovare tutti i miei fratelli, sorelle, cugini, zii e ziette riuniti attorno al tavolo in sala da pranzo, a discutere amabilmente di ferie e biglietti aerei, e ad un certo punto sarei arrivata io e mi avrebbero tutti spiegato verso quale meravigliosa meta saremmo stati tutti diretti quell'estate - perché era impensabile che tutti e cinquecento i membri della famiglia si dividessero anche solo per le vacanze. Trovare la sala vuota e ognuno dei miei parenti in una stanza diversa, invece che in una sola a parlare a voce troppo alta e fare caos in generale, mi dispiacque per la prima volta nella mia vita e probabilmente l'ultima. Ma poco male: non è che rimpiangessi di essermene andata da scuola.
 
Aprii un cassetto del mio grande armadio in legno e frugai tra gli hijab. Ne scovai uno che somigliava alla nuance della sottoveste, lo osservai e li confrontai soddisfatta, e me lo sistemai in testa con delle spille lunghe e grosse ed una semplice fascetta nera, per evitare ogni fuoriuscita di capelli.
 
Un ultimo sorriso allo specchio e, trovato lo skateboard sotto al letto, mi buttai lo zaino dell'Eastpack (rigorosamente nero) sulla spalla sinistra e uscii dalla porta. No, aspettate: prima cambiai spalla e mi assicurai di avere le mie splendide Vans tarocche ben allacciate, il collo non al vento, i jeans che tenevo sotto il vestito tirati per bene giù, oltre la caviglia, tenuti fermamente dai calzini (un po' antiestetico, ma non mi importava). Dopo tre anni di esperienza sulle quattro rotelline conoscevo i trucchi del mestiere per non ritrovarsi un palmo di capelli fuori dal velo, o la 'awrah scoperta.
 
- Dove vai, signorina? -. Una mano mi afferrò improvvisamente la spalla per fermarmi, facendomi trasalire e sbilanciare all'indietro.
 
- Zakariyya, ma sei cretino?
 
- Wa 'alaykum salam. - Alzò un angolo della bocca in un mezzo sorrisetto. Io per tutta risposta mi misi a braccia conserte. - Aiutami a fare una cosa.
 
- Che domanda...
 
- Ma mi stai a sentire?
 
- No.
 
Roteò gli occhi e strinse le labbra. - Non sei nella posizione di trattarmi così.
 
- E tu da quando lo saresti?
 
- Da quando nacqui quasi dieci anni prima che tu venissi anche solo concepita.
 
Evitai di rispondergli, ma stavolta fui io ad alzare gli occhi al cielo e sbuffare. Zakariyya era mio fratello maggiore, il più grande della parte maschile della mia famiglia coi suoi 24 anni, e secondo il teorema di Pitagora, ovviamente il più sbruffone. - Senti, ignorerò la tua ultima frase e me ne andrò come se nulla fosse successo. Ok?
 
- "Senti", dammi un attimo una mano e la facciamo finita.
 
Tenni gli occhi fissi nei suoi, poi li abbassai alle sue braccia incrociate e li alzai di nuovo, per mettere in evidenza che, in tutta risposta, non avevo intenzione di dis-incrociare le mie. - Spicciati.
 
Lo seguii in camera sua. Notai che sulla porta aveva appeso un grosso cartello giallo con la scritta "WRONG WAY". Hm, molto spiritoso. Stava ancora attraversando la fase "sono un adolescente ribelle e coatto". Da 10 anni. E ne aveva 25.
 
Zakariyya si fece strada tra il casino della sua stanza per raggiungere la scrivania e cercare qualcosa nei cassetti. Come al solito, in quei dieci metri quadrati scarsi era impossibile scorgere un solo centimetro che non fosse in disordine: lì dentro erano ammucchiati così tanti oggetti che c'era da chiedersi se in quella stanza ci vivessero cinque persone, più una scimmia. Le coperte sul letto "rifatto" erano ammucchiate alla bell'e meglio, con le lenzuola storte, ma nessuna traccia di un cuscino. Accanto c'era un comodino con una abat-jour, dei quadernini, mille fogli, penne, scatole di Moment vuote, un mucchietto di monete spicce e addirittura un pomello; lì sopra un armadio, appeso al muro s'intende, con un'anta mezza aperta da cui penzolava una gamba di un paio di jeans, lasciando intravedere un ammasso di vestiti (sporchi, puliti, poco importava) appallottolati e buttati a caso. Inorridita, lasciai scorrere lo sguardo sul pavimento, quella povera moquette marroncina che un tempo era stata grigia che faceva da sfondo a una discarica di biancheria, jeans, Vans e cartacce varie.
 
La ricomparsa improvvisa di Zakariyya mi svegliò, non senza farmi trasalire. Teneva dal filo il caricatore del suo portatile, che mi penzolava davanti agli occhi. Dal caricatore uscivano tanti filetti gialli, come se l'altro cavo fosse stato strappato o tagliato con violenza, ma non avevo idea di come fosse successo (e non m'interessava chiederlo).
 
- Ho bisogno di ripararlo, - spiegò Zakariyya. - ...Urgentemente. Dai, al ritorno dal tuo solito giretto con lo skate passi da Hicham, che ti costa?
 
- Mi costa che è dall'altra parte della città, - replicai col migliore dei miei sguardi truci.
 
- Hai ragione, questa metropoli in cui vivi... - rispose sarcastico mio fratello, roteando gli occhi. Restai immobile, senza rispondere o staccare gli occhi da lui. - Bene. Ti ricordo che sono stato io a prestarti i soldi per uno skateboard nuovo, quindi in parte quello - e qui lo indicò con gli occhi, lo avevo sempre sottobraccio - è anche mio.
 
- Ehmm, secondo quale logica?
 
- Secondo la logica degli altri trentacinque euro buttati in videogiochi, - ringhiò lui sbattendomi in faccia uno scontrino che aveva tirato fuori dalla tasca dei jeans. Trentacinque euro e novantanove spesi al GameStop. - Degli altri tuoi trentacinque euro.
 
Sbuffai, esaminando ora le sue sopracciglia alzate in atteggiamento di sfida, ora il caricatore nelle sue mani. Non erano troppi, considerato che c'erano giochi che costavano la bellezza di 70-80 euro, ma mamma mi aveva proibito categoricamente di spenderne altri visto che solo il mese prima ne avevo presi almeno una decina. Odiavo essere messa all'angolo in questo modo, col ricatto— ma perché, poi? Non poteva aspettare un altro paio di giorni? Però lo skate mi serviva, e al momento di sicuro non avevo i soldi da restituire a mio fratello. - E, entro quando ti servirebbe?
 
- Meno di subito.
 
- Ovvero?
 
- Stasera.
 
Aggrottai la fronte. - Come mai quest'urgenza? Puoi sempre usare quello di Inaya, ha il tuo stesso modello. - Zakariyya mi guardò in modo strano, forse con un abbozzo di sorriso, ma devo confessare che era controluce e non ci vedevo benissimo. - Just mind your own business e fila. - E senza nemmeno aspettare che uscissi si girò, come se la questione fosse chiusa lì e non ci fosse più niente da dire; dovevo fare quel che mi chiedeva (non che avessi questa vasta scelta, effettivamente). Buttò via col piede delle cianfrusaglie dal pavimento, e accese lo stereo. Le voci melodiose di un coro si diffusero lentamente nell'aria man mano che alzava il volume.
 
 
 
- Mamma... - Mi voltai verso di lei con sguardo implorante, ma già mi stavo tirando su le maniche del vestito. Anche se sapevo già che era inutile.
 
- Qamar, smettila. E aiuta tua madre una volta ogni tanto. - Mamma poggiò sul tavolo davanti a me il sacchetto colmo di patate pronte per essere sbucciate, poi ritornò alla carne, il minaccioso inteneritore in mano.
 
- Ma io ti aiuto! E Zakariyya mi ha chiesto—
 
- Ahh!, Zakariyya! -, e qui cominciò a sferrare colpi alla carne. - "Zakariyya" solo quando ti pare, perché ora ti fa comodo usarlo come scusa per uscire! -. Le sue parole venivano sovrastate dal rumore di quell'aggeggino ogni volta che si scontrava con le bisteccone di vitello.
 
Mi passai il dorso della mano sulla fronte. - Ho capito, ma è il primo giorno d'estate...
 
- Ehh, e allora? Hai tutte le vacanze per riposarti, - continuò mia madre senza smettere di lavorare. - Amina è impegnata, quindi datti una mossa e aiutami a pelare quelle patate.
 
Rassegnata, ubbidii con un sospiro snervato. Ogni patata che prendevo in mano sembrava sempre più brutta di quella di prima.
 
- Come, tu che fai tanto la studiosa... - e lei sapeva che odiavo essere chiamata così - Com'è? "Tua madre, tua madre, tua madre"...
 
- "E tuo padre". Okay!
 
- Ecco, mica dice "tuo fratello".
 
Strinsi le labbra, e scelsi saggiamente di non dir nulla. Mi era venuto un gran mal di testa e... non capivo niente. Avevo mille pensieri nella testa, quando avrei portato il caricatore a riparare, come avrei trovato trentacinque euro, perché Amina era strana, perché quell'urgenza da parte di Zakariyya, "studiosa" dice poi, lo usa a piacere quando le fa comodo - per vantarsi davanti alle amiche, però quando sbaglio!, e le vacanze? Quando me ne avrebbero parlato? I miei occhi erano fissi sulle bucce accanto al tagliere, come se conoscessero tutte le risposte. Rigirai e rigirai le patate tra le mie mani, ma non sembrò aiutare col mal di testa.
 
- Vedo che vale solo per chi ti pare, però.

Sentii il sangue nelle mie vene raggelarsi, spiacevolmente sorpresa nel sentire quelle mie stesse parole uscire dalla mia stessa bocca. Mia madre si fermò di colpo, come congelata, e con la coda dell'occhio la vidi girarsi lentamente. Io tenni lo sguardo basso, sulle mie orribili e silenziose patate, e le sbucciai il più in fretta e vigorosamente possibile cercando di ignorare il nodo in gola. Lei si avvicinò a me, le nostre facce erano vicinissime. Sentii i suoi occhi grigi sul mio collo.
 
- Come?
 
Mi schiarii la voce prima di parlare, per prendere tempo e rimettere a posto le parole che mi giravano e giravano in testa. - Amin, - cominciai. Beh, avevo fatto la frittata oramai. Tanto valeva continuare fino in fondo. - Amina può fare quello che le pare. Potrebbe alzarsi dal divano, scollarsi dallo schermo del cellulare e aiutare anche lei col pranzo. - Passarono alcuni secondi, pesanti, interminabili, in cui gli unici rumori erano quello dell'acqua che bolliva e dello sbucciapatate in azione. Più lento.

- Lei ha ventuno anni, - rispose lentamente, quasi sottovoce, pronunciando ogni lettera con minacciosa autorità, - ed ora è occupata con qualcosa di più importante.
- Io non feci nulla, ma con qualche occhiata di troppo, qualche sbuffo in più, forse inconsciamente avevo lasciato intuire la mia voglia di prendere il muro a pugni. Lei mi fissò per un'eternità, o pochi attimi. I miei occhi non si scollarono dal tagliere per un eguale lasso di tempo.
 
- Porta rispetto.
 
E se ne tornò alla carne.





Tre ore dopo, eravamo ancora a tavola. Saranno state le tre oramai, e non avevamo finito il secondo.

Io, d'altro canto, stavo rannicchiata nella mia sedia nell'angolino, ad una distanza ambigua, il più lontano possibile dal tavolo senza che potesse sembrare che non fossi partecipe al pranzo. Avevo preso pochissimo cibo appositamente per sbrigarmi e poter essere libera il prima possibile, ma in fondo avevo anche poco appetito.

- Ya Qamar, - chiamò ad un certo punto Sarah dalla cucina, e io accorsi. La sua abaya arancione era la prima cosa che si notava entrando nella stanza. Sarah era mia zia, la mia zietta ventisettenne, e anche la mia preferita. Perché era l'unica persona che conoscessi che profumasse naturalmente di fragola, e perché non c'era giorno in cui non fosse allegra e sorridente. - Tieni, - e mise un piattone di pollo alle mandorle nelle mie mani senza nemmeno guardarmi. Spalancai gli occhi, ma mi aveva già dato la schiena, intenta a preparare altro cibo in altri vassoi, e non poté vedere la mia espressione tra l'esterrefatto e il furioso. Mamma, però, sì.

- Allora? Forza, forza, dépêche-toi! - sibilò minacciosa, indicandomi la sala da pranzo con lo straccio che aveva in mano.

- Ma quanto ancora dobbiamo mangiare? -. Alla domanda, mamma mi guardò in modo alquanto eloquente, e mi feci bastare quello come risposta. Tuttavia la mia profonda, urgente, impellente necessità di uscire ed andarmene non poteva essere liquidata così facilmente. Ed io avevo bisogno di andarmene il più lontano possibile; schiarirmi i pensieri da sola. Ora. Dolce suono di rotelline sotto le sneakers, e nient'altro a disturbare le mie orecchie; l'abaya spostata dolcemente dal vento, magari andare al lago per godermi anche la vista nel processo, le cuffie ben fissate alle orecchie, il dolce sole pomeridiano in faccia... e invece no. Dovevo stare lì, a trotterellare tra la cucina e l'enorme tavolo da pranzo, chiusa tra le quattro mura di una casetta minuscola, trasportando piatti e cibo. Metti i piatti, sistema un'altra sedia, prendi il biberon, togli i piatti, metti altri piatti, porta il cucchiaio al bambino, ciao zia che a stento conosco, mangia un boccone, dai che ci sono dei piatti da lavare. Avanti e indietro da farti rimpiangere di avere due gambe. 

Ed ecco che appena riuscii a sedermi, mio padre, tornato dalla moschea, sbucò dalla porta e mi chiese, con un bacio sulla testa: - Qamar, dai da mangiare a tuo cugino, - indicando il mostro mignon al mio stesso tavolo con un gesto del capo. 
Osservai con disprezzo la nuca di Yassin, il quale non ci arrivava nemmeno, al tavolo, ed aveva bisogno di sedersi su due cuscini.
Mi alzai riluttante, e senza fare più di un passo gli buttai davanti del pollo, piegata sul tavolo, facendo attenzione per come potevo a non immergere le maniche del vestito nel sugo mentre prendevo a caso dal grosso piatto di portata.

- Kamar, Kamar, anche io!

Avanti, e indietro...

- Hai otto anni, te lo puoi prendere da sola. Ed è Qamar, non "Kamar". - E mi sedetti senza nemmeno guardarla.
La differenza sarebbe stata minima alle orecchie di un non arabofono, ma si dà il caso che mia sorella Maryam fosse grandicella e parlasse arabo perfettamente, e io sapevo che l'unica ragione per cui non pronunciava bene il mio nome era la pigrizia. Per pura non-voglia. Come in tutto il resto della sua vita, d'altro canto.

Vedendo la sua richiesta ignorata definitivamente, Maryam fece il broncio e si alzò per servirsi da sola. Good girl. - Una certa Maryam ben più famosa di te era poco più grande, radi Allahu 'anha, quando ha avuto un pargolo altrettanto famoso, - aggiunsi con un sorrisetto di scherno, guardandola sottecchi. - 'Alayhi salam. - Ma la sua omonima non ebbe tempo per rispondere che mi chiamarono di nuovo dalla cucina.

- Qamar! Aiutaci un attimo!

Chiusi gli occhi e sospirai, massaggiandomi le tempie con rassegnazione verso il mio destino. - Arrivo, arrivo...

- Vieni, toh, tieni! - Mia zia mi venì incontro sulla porta e mi diede (molta) altra roba da mettere a tavola. Contribuì generosamente anche Amina, che mi mise in braccio anche una bottiglia di Fanta e una di limonata che riuscii a tenere abilmente nella piega del gomito. Volevo chiedere se ci fosse da nutrire un esercito o piuttosto una mandria, giusto per regolarmi, ma dato il peso delle vivande decisi che era meglio rimandare. Feci per girarmi, ma ci mancò poco che il mio viso si scontrasse con quello di Ibrahim (mio fratello di latte, aveva la mia stessa età), che aveva deciso di dirigersi verso la cucina proprio in quel preciso istante, facendomi quasi rovesciare sul pregiato tappeto rosso una quantità industriale di riso.

Non ne sono certa, ma penso di averlo ucciso con un'occhiata. Lui subito alzò le mani per difendersi dalle mie parole. - Tu—!

- Scusa, non ho fatto apposta!

- Invece di stare lì tipo stoccafisso, aiutami, disgraziato—

- QAMAR! Ma questo ti ho insegnato io? Io...! - mi sgridò mia madre, ma zia Sarah la interruppe prima che potesse iniziare con la filippica. In tono non meno isterico, ma perlomeno la interruppe. - Dai, dai!, che arriva gente ora!

Per la terza volta in meno di mezz'ora, sgranai gli occhi. Mamma e zia se ne tornarono di là assieme ad Ibrahim, e per qualche motivo anche Amira era sbucata da dietro la schiena di quest'ultimo, Amira che coi suoi quindici anni non muoveva nemmeno il mignolo per aiutare in casa, e—

- Arriva... gente? - dissi lentamente, quasi un bisbiglio per nascondere la rabbia, rivolgendo lo sguardo ad Amina, che alzò per un secondo lo sguardo dallo smartphone. Posai piano tutto ciò che mi avevano lasciato in braccio, quasi come per sottolineare quanto sforzo ci stessi mettendo per mantenere la calma.

Così ogni. Santo. Giorno.


E pensai che, forse, una situazione peggio esasperante non poteva esserci, non l'ultimo giorno di scuola, non il primo d'estate, e mi consolai nel pensiero; certo. Attimi dopo vidi Amira sbucare dalla cucina, una merendina alla bocca e i pattini a rotelle viola in spalla.

Il mio cervello in quell'istante si rifiutò di proseguire. Andò in fumo. Mia sorella stava uscendo a farsi un giro coi pattini. Stava uscendo. Stava uscendo! E come mi guardò con quel sorriso inconsapevole, salutando con la mano sull'uscio della porta prima di chiuderla dietro di sé—!

All'improvviso sentii il rumore di una macchina che parcheggiava davanti a casa nostra, e altrettanto improvvisamente rammentai che stava per arrivare gente (e ciò comprendeva maschi, anche), e che io ero lì, con l'abaya aperta, i pantaloncini al ginocchio e i capelli al vento. Istintivamente, mi passai una mano nei capelli in segno di estremo stress. Udii delle voci maschili provenienti dal cortile avvicinarsi pericolosamente alla casa, assieme al suono dei passi sul viottolo - mentre Amira era andata via, senza nemmeno aspettare gli ospiti per salutarli, e se io ci avessi anche solo pensato avrei ricevuto un sonoro schiaffo sulla guancia, "maleducata!". Avevo un nodo enorme nella gola secca, le guance in fiamme e il cuore che batteva forte, risuonandomi nelle orecchie. Mamma e papà l'avevano lasciata fare. L'avevano lasciata uscire! Lei che non faceva niente, la cucciola, mentre io sgobbavo peggio di un muratore ogni santo giorno—

Qualcuno bussò alla porta.

Miseria, basta, basta, prendi il velo e vai in cucina!

Mi fiondai verso la porta e me la chiusi frettolosamente dietro alle spalle un attimo prima che entrassero (e la maleducata sarei io, non quelli che entrano senza permesso). Inspirai profondamente preparando un sospiro, mi guardai i piedi e mi accorsi che non avevo la ciabatta destra. Non può essere...

Affondai la faccia nella mano con un sonoro ciaf, utilizzando tutto l'ossigeno destinato al sospiro per un lamento esasperato. No, non importava. Non faceva nulla. Perché, perché ogni volta che avevamo ospiti nemmeno mia mamma si degnava di avvertirmi con un minimo di anticipo che sarebbero arrivati uomini? Strinsi le labbra e chiusi gli occhi, sistemandomi in testa un velo che avevo trovato lì con una spilletta. Era matematico, io ero sempre l'ultima a sapere.

- Assalam 'alaykum! - Era un collega di papà. Ringraziai Dio di aver avuto il buon senso di rifugiarmi in cucina in tempo.

- Wa 'alaykum salam, ya Rachid! Come stai? - rispose mio padre, e sentii la sedia spostarsi mentre si alzava. Si sentiva il suo sorriso dal tono di voce.

- AlhamduliLlah, alhamduliLlah, tu?

- Qamar! - Trasalii girandomi di scatto, e grazie a Dio non avevo una spilla tra le labbra, o l'avrei ingoiata. Stavolta il sibilo veniva da dietro le mie spalle. Mi misi una mano sul cuore come per evitare che uscisse dal petto.

- Ya Allah, Amina...

- Datti una mossa e vai a salutare. - Amina non sentì nessuna risposta dalla mia bocca, ma era implicito che dovessi darle retta. Mi sbrigai a fissare il velo alla bell'e meglio (disfacendolo altre tre volte perché le spille continuavano a cadermi — nemmeno loro avevano pietà di me), presi il vassoio col tè che mia zia mi aveva gentilmente indicato e mi avviai di là. Girai la testa per guardare Amina, con una mano già sulla porta mezza aperta. Stava piegata sul cellulare, i pollici che saltellavano da un tastino all'altro. Evidentemente percepì il mio sguardo, perché alzò la testa con un sospiro scocciato. -Ora vengo ad aiutarti. Fila!

- Assalam 'alaykum, - salutai con un gran sorriso entrando nella sala da pranzo col piede sinistro.

- Wa 'alaykum salam, - risposero assieme Rachid e una donna che non avevo mai visto. Sua moglie, supposi. Appoggiati vassoio e bicchierini vari, mi avvicinai per salutarla con due baci sulla guancia. - Tutto bene? Piacere, - dissi senza aspettare risposta, - mi chiamo Qamar.

Ricevetti un sorriso luminoso in risposta. Il colorato velo a fiorellini che portava le si addiceva e lo faceva sembrare ancora più brillante. Sembrava giovane, avrà avuto 25 anni. - AlhamduliLlah, e tu? - chiese per gentilezza, parlandomi in arabo. - Piacere mio, Zaynab!

Zaynab. Le si addiceva anche quello. - Come stai? Tutto bene? - domandai rivolgendomi a suo marito dopo un breve sorriso verso Zaynab. Sembrava molto più anziano di lei.

- AlhamduliLlah tutto bene, cara! - furono le sue parole, le quali mi fecero pensare che nessuno gli aveva mai dato tutta quella confidenza, ma quel che accadde dopo mi lasciò tra l'inorridito e il basito.
Lui mi porse la mano. Aveva allungato il braccio e aperto sicuro il palmo, pronto a ricevere il mio in risposta. Io la guardai, immobile, un sorriso sfumato ancora sulle labbra. Aveva le dita grosse e un po' rovinate, la pelle naturalmente scura quanto gli occhi. Probabilmente era maghrebino. I miei occhi facevano avanti e indietro tra i suoi e la sua mano, senza muovere null'altro.

- Qamar?

Mi voltai nel modo più naturale possibile, sebbene irrigidita, alla sinistra del mio interlocutore. A chiamarmi era stata mia madre, che due sedie più in là aveva assistito a tutta la scenetta, con quel tono di falsa calma che faceva intendere che sotto sotto mi avrebbe volentieri dato un coppino. - Non saluti?

- Ho già salutato, - risposi con tono serio ed asciutto. Rachid stava con la mano ancora a mezz'aria, e mi fissava dalla sua sedia, un'espressione stupidamente cortese sul viso.

- Ti ha porto la mano, - continuò mia madre coi denti quasi serrati. - Qamar.

- Ho detto che ho già salutato, - ribadii con un sorrisetto tirato, - e non stringo la mano agli uomini.

Sentii la stanza diventare improvvisamente gelida e gli occhi di tutti posarsi su di me. Anche quelli di Amina e Ibrahim, che osservavano dall'uscio della porta. Anche quelli enormi e timidi di Zaynab. Continuai tuttavia a fissare senza un'espressione in particolare mamma, che però non si mosse, e non aprì nemmeno bocca. Sollevai dunque le sopracciglia, aspettando la reazione, ma non ci fu. Non subito, forse, ma sapevo che stava per arrivare. Rachid, intanto, aveva abbassato lentamente il braccio e si era voltato verso la moglie con sguardo confuso e quasi colpevole.

Mamma fu la prima a interrompere lo sguardo, sistemandosi lentamente nella sedia per tornare al suo bicchiere di tè.
Mi sistemai un angolino del velo, lì sul mento. C'era un'aria così pesante che si sarebbe potuta affettare col coltello da burro. Feci per andarmene alla mia sedia per dimenticare i recenti accadimenti e proseguire con l'interminabile pasto, quando un qualcosa di piccolo e vivace si scontrò violentemente contro il mio ginocchio.

Abbassai la testa per capire che cosa fosse. Mi ritrovai un altro paio di occhioni neri come il carbone a fissare i miei. Non mi mossi neanche, eppure lo scricciolo mulatto dai capelli scuri ai miei piedi allargò ancora di più gli occhi già enormi e lucidi, e le guance si contrassero in una smorfia. Chiaro presagio di pianto isterico. Zaynab accorse prontamente e sollevò da sotto le ascelle il bambino, che avrà avuto non più di due anni e stava già con la bocca spalancata a gridare come un ossesso. - Safi, safi, Bushra, non è successo nulla, - e gli diede un bacio sulla fronte, un gentile e ritmico pat-pat sulle spallucce. Bushra. Aspetta, "Bushra"? Era una bambina?

In quella, un improvviso e acuto - Haaaaa! - trapanò i timpani a tutti i presenti, costringendoli a tapparsi le orecchie con le mani. Proveniva da un altro bambino, quattro anni massimo, con in mano un trattore giocattolo appartenente a Yassin — o forse era una femmina, mannaggia se dovevo cambiarmi gli occhiali, ma in ogni caso non sopportavo i bambini e quello gridava davvero forte e senza una ragione, e la TV faceva troppo rumore, e l'altra che piangeva -- mentre mio cugino cercava di strappargli di mano il giocattolino con tutte le sue forze. Alla fine le sue manine scivolarono via dalla plastica gialla del trattore e il nuovo intruso ottenne di tenere il giocattolo, continuando tuttavia a piangere come se lo stessero spellando vivo.

- Qamar (che Dio ce la mandi buona), datti una svegliata e occupatene tu!

- Amina, tu non mi parlare così che non sei nessuno per—

- Qamar, dài retta a tua sorella e calmala!

- E' un maschio, credo...

- Qamar!

Mi piegai istantaneamente sulle ginocchia senza protestare oltre, avvicinandomi al dolce pargolo che ora mi fissava con un pugnetto sull'occhio e un peluche (così malconcio e rammendato che Dio solo sa cos'aveva dovuto passare quel povero orsetto) nell'altra manina. Osservandolo da vicino tirai indovinare che fosse un maschietto: aveva indosso le stesse scarpette da ginnastica di Yassin e un paio di calzoncini da bambino. Ma per quel che vale, visto che da piccoli sono sempre orchetti frignanti tutti somiglianti tra loro.

- E tu chi sei?

Nessuna risposta, solo un broncio e un paio di occhioni plumbei. Ritentiamo.

- Come ti chiami?

- Amin, - rispose sottovoce dopo un po'.

- Amin, - ripetei con una specie di sorriso storto e forzato. Sua sorella intanto si stava calmando, ma sentivo ancora dei lamenti di sottofondo. C'era da piangere così tanto per essersi scontrata con la mia gamba? - Amin, vieni, vuoi che ti regalo io un bel gioco? Ancora più bello, - continuai col tono più convincente possibile. Mi alzai appena, con la schiena comunque piegata per mantenermi al suo livello, e gli porsi invitante la mano. Ti prego, ti PREGO dammi retta.

Lui la esaminò a lungo, la considerò ispezionandola con gli occhioni, considerò per altrettanto tempo la proposta, ed infine guardò dall'altra parte, verso Yassin, che intanto si era avvicinato per guardare il suo rivale in faccia.

Sentii zia chiamare dalla cucina. - Qualcuno mi aiuta con gli spiedini?

- Qamar. - disse Amina, come per ricordami un compito che dava per scontato svolgessi io.

- Dio mio, ma non puoi andare tu una volta ogni tanto? Piuttosto sprecati e chiama quell'altra, Inaya, che sta di sopra a farsi i cavoli suoi.

Mia sorella sgranò gli occhi, mandandomi un non-verbale "ma sei scimunita?". Probabilmente non lo disse solo perché c'erano ospiti, e perché nel cortile stava parcheggiando un'altra macchina e l'ultima cosa di cui avevamo bisogno era litigare. Era anche grossa come macchina, dal rumore che faceva contro la terra e i ciottolini del viale. - Prova a farteli un po' tu, gli affari tuoi. Stiamo entrambe facendo cose più importanti, e tu, visto che dovresti iniziare a responsabilizzarti un po', vedi di non protestare e fare quello che ti dicono i più grandi--

- Qualcunooo?! Sarah chiama Terra?

- Arrivo! E, Amina— - Bum. Qualcosa o, peggio, qualcuno era caduto per terra o, peggio, si era scontrato con il mobile, o peggio del peggio, contro la televisione. La seconda cosa che sentii fu un altro, acutissimo - Haaaa! -, ma nonostante la mia preoccupazione non potei controllare se stavolta Amin stesse effettivamente venendo spellato vivo, perché per la seconda volta qualcosa si imbatté nelle mie gambe (Yassin, stavolta: sentì i suoi capelli a spazzola pungerle la coscia), ma l'impatto fu più violento, facendomi cadere miseramente sul tavolo. Una scena tragi-comico-drammatica. Le conseguenze, tra tutte le salse, salsine, bicchieri, bevande, stuzzichini, pietanze e piatti vari che io, Amina, mia madre e Sarah avevamo impiegato ore a preparare, le potete facilmente immaginare.

- Ma cosa fai?! Sei impazzita?

Avrei volentieri urlato e pianto fino a perdere la voce, ma ero troppo occupata a capire se quel che avevo nell'occhio era riso o verdura per occuparmi delle urla insensate di mia madre. Sempre che fosse mia madre. Nelle orecchie il sangue mi pulsava assordante, e la testa era lì lì sul punto di scoppiare, contribuendo dunque ad aumentare il disordine.

- Qamar! Ti sei fatta male? - (Una voce maschile: papà.)

- Oddio, Qamar, mi spiace tanto! - (Stavolta era Zaynab, forse.)

- Qamar, verresti gentilmente ad aiutarmi magari entro l'ora di cena?! - (Questo veniva dalla cucina.)

Cercai di aprire l'occhio sinistro, quello senza salsa, e constatai con una smorfia che la mano sinistra era bene affondata nell'hummus, mentre il gomito destro era immersa in un piatto di riso e carne ancora caldi. Avevo anche rovesciato dei bicchieri, ovviamente, e sentivo il fianco dell'abaya (la mia preferita) completamente zuppo; il che era fantastico, perché se fosse stata Pepsi non avrei nemmeno voluto pensare a che conseguenze avrebbe avuto sul tessuto.

Dlin-dlon! Toc toc! Chi sarà? Ma altri ospiti naturalmente!

Mia mamma gemette con un - Oh, Dio! - di profondo sconforto, facendosi strada tra il groviglio di sedie e gambe per aiutarmi a scendere e spingermi in tutta fretta nella cucina. - Alzati! Su, alzati! - fu quindi il suo tenero incoraggiamento, accompagnata da gesti enfatici che esprimevano tutta la sua stizza e il suo imbarazzo. Con ogni probabilità avevo un aspetto veramente rivoltante, non riuscivo a capire cosa stesse succedendo e avevo qualcosa conficcato nella schiena, ma qualcuna mi rifilò comunque tra le braccia un bambino urlante.













   
 
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