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Autore: Bloody_Schutzengel    29/05/2015    2 recensioni
[Primo capitolo della serie: Sotto mille ciliegi]
Anno ****, mese di Agosto, quindicesimo giorno.
Lo stato di Kintou viene stravolto da un violento colpo di stato da parte di estremisti detti Rivoluzionari, che attuano un macabro e violento regime di ferro nella parte orientale del paese. La parte occidentale, invece, è popolata ancora da creature magiche, sacerdotesse e dalla natura. E' chiamata Terra Pura ed è sotto tiro dal generale salito al potere che vuole emulare violentemente i costumi delle popolazioni d'Oltremare, industrializzate e moderne all'esterno ma sanguinose e ingiuste all'interno.
Yoko è una semplice ragazza di Kintou Shuto, la capitale di Kintou Est, che a causa di vari eventi, si troverà ad entrare nell'esercito della morte della città, pur di sfuggire all'esecuzione pubblica. Tra le file, Yoko dovrà affrontare i suoi compagni, tutti uomini, le battaglie, le campagne militari ma soprattutto il vero e proprio generale, del quale è oggetto di desideri perversi e omicidi allo stesso tempo.
Genere: Drammatico, Fantasy, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yuri
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Non-con, Violenza | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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• Capitolo 20 •
Foresta di libri
 
 

 

La penna scorreva morbida e tranquilla su quel delicato foglio di carta, tracciando eleganti tratti d’inchiostro che costituivano la sua firma, il suo nome: Liang Tian. Due ideogrammi tracciati in corsivo, ma perfettamente leggibili, scritti alla fine di uno dei tanti documenti che aspettavano quella penna lì sulla scrivania, in pila, in attesa di essere firmati. Erano richieste dei cittadini, modifiche alle leggi, approvazioni e disapprovazioni di meccanismi che a lui sembravano così distanti ed insensati. I lunghi capelli castani, cadevano morbidi sulla divisa che era obbligato ad indossare, una volta prese le veci del generale, che era partito col suo altro vice in battaglia. I vice erano due, stranamente, e lui era quello ufficiale, sin da sempre, al contrario di Heizo.
Bussarono alla porta educatamente, senza fare fracasso. Lo scricchiolio dell’alto portone della stanza che si apriva, non distrasse Liang Tian dal suo lavoro.
“Avanti.” Si limitò a dire, dolce e pacato, con la sua naturale compostezza e la sua voce morbida come una leggera brezza primaverile.
“Vice generale Liang Tian, signore.” Il soldato si inchinò con rispetto, aspettando che l’altro si fosse alzato e rivolto verso di lui per ritornare in posizione eretta. L’uomo lasciò il suo lavoro per qualche secondo, girandosi verso il subordinato con fare calmo ma serio al tempo stesso.
“Non c’è bisogno.” rispose a quell’inchino rispettoso e profondo, facendo sì che il soldato lo guardasse in faccia per parlare, a qualche metro di distanza da lui.
“Le pattuglie hanno trovato una famiglia che praticava culti proibiti dal regime nella propria dimora, signore. C’è bisogno della sua presenza alla cerimonia della ghigliottina, signore.” Riferì il soldato, mentre sul viso dell’altro non comparvero né rughe d’espressione né segni di fastidio. Sembrava totalmente asettico, troppo flemmatico. “Aspetto i vostri ordini, signore.”
Quello ancora non rispose, inespressivo all’interno, ma con un caos di pensieri all’interno.
Liang Tian non era mai stato un tipo violento, intriso di rancore e apatico. Era nato in un piccolo paesino della Terra Rossa, vicino al mare ma anche alla campagna. Vicino, per così dire: delle ore di viaggio ci volevano sempre per arrivare alla costa, ma relativamente all’immenso territorio di quel paese ricco e che stava crescendo pian piano, era un tratto che si percorreva in un batter d’occhio. Nel suo piccolo paesino, o villaggio addirittura, per mantenere buoni rapporti tra i pochi abitanti che ci vivevano, si cercava sempre di agire con la massima gentilezza, di predicare non-violenza ovunque si andasse e di evitare tensioni. Era cresciuto in un tal clima, quello che ora sostituiva il terribile generale e capo di Kintou Shuto, da non concepire neanche per scherzo l’idea della ghigliottina pubblica. Ma era ancora troppo presto: lontano dagli occhi, lontano dal cuore.
“Signor Liang Tian, signore?” Richiamò la sua attenzione il soldato, al che lui alzò lo sguardo serio e rilassato.
“Eseguite quanto dovete senza il mio ausilio: gli impegni dello stato sono fin troppi per essere trascurati proprio ora. Ora vai.” Con un gesto elegante ed apparentemente tranquillo, il suo braccio licenziò il soldato, come un’ala che veniva spiegata solennemente. Una volta che il subordinato uscì, lui si sedette di nuovo alla sua scrivania e tentò di non pensare a quella povera famiglia che aveva appena condannato a morte. E cosa fare, allora? Non era quello il luogo né il momento giusto per predicare non-violenza. Le mani corsero stizzite al volto, stringendolo con rabbia, lasciando segni rossi su tutta quella pelle delicata come ceramica, mai intaccata da una ruga. Come un attacco di follia, le dita del vice generale, ancora una volta, dopo tanto tempo, ricominciarono a graffiarsi le tempie con le unghie robuste e lunghe, permettendo alle lacrime nere di rancore di riscaldargli le guance. Grugniti e singhiozzi riempirono il silenzio della stanza: il sottofondo perfetto per l’infantile scena di un coccodrillo che prima mangia i propri figli e poi piange. Però, al contrario del coccodrillo, Liang Tian non poteva scegliere: se voleva davvero portare al termine il compito che si era prefissato fin dal principio, non poteva morire. Non allora.
Si alzò dalla scrivania e si diresse verso una delle poche e grandi finestre del palazzo, che affacciava per un tratto sulla ghigliottina pubblica: aveva appena mandato a morte una donna, un uomo, due bambini ed una neonata… Quanto ancora queste barbarie sarebbero continuate in quel modo? Appena la lama della macchina di morte si lasciò cadere sul collo morbido di una delle vittime, la donna stavolta, il vice generale chiuse gli occhi, lasciando che le lacrime di rimpianto cadessero sulla moquette rossa della sua stanza.
Appena l’esecuzione finì, era ancora in quella stanza, seduto alla scrivania a firmare passivamente documenti, segnato da ciò che aveva visto persino con gli occhi chiusi. I suoi occhi non vedevano più parole, ma lettere messe lì a caso, senza senso, senza un significato. L’inchiostro? Cos’era l’inchiostro? Quella cosa nera che colorava la sua firma una volta che la penna toccava il foglio: cos’era? Non l’avrebbe sopportato a lungo. La sua prima condanna a morte per qualcun altro aveva rischiato di essere la sua. Una morte lenta ed agonizzante per non aver sopportato la vista di qualcuno di innocente che veniva ucciso in quel modo, davanti a tutti, tra i volti impassibili ed a volte anche divertiti dei soldati delle pattuglie. Era insopportabile.
Prima che il fastidioso fischio di follia si facesse più forte pensando a quanto accaduto, Liang Tian decise di prendersi un momento di riflessione, di pensare ad altro e di uscire, respirare la torbida aria di Kintou Shuto che l’avrebbe distratto, anche solo per poco. S’alzò d dove era seduto e guardando a terra, la sua mente divenne lo scenario di lunghi ricordi.
 
 
Le ruote delle carrozze che scorrazzavano per i viali poco affollati di Kintou Shuto facevano da sottofondo al suo arrivo nella città, assieme al debole brusio dei cittadini che potevano permettersi di vagare lì in giro. I lunghi capelli bruni vennero subito intaccati dall’aria malata e tossica di quel centro di odio ed insana rivoluzione. Camminò con passo svelto e composto verso la strada che gli indicarono essere quella diretta al palazzo del governo, che quel giorno sarebbe stato lo scenario sanguinolento di un colpo di stato. Man mano che i mezzi di trasporto e i cittadini erranti per quelle strade ciottolose diminuirono, Liang Tian si confuse tra quelli che stavano sotto la dimora dell’imperatore aspettando che gli incaricati del suo omicidio uscissero. Si tolse il cappello che aveva, raccolse i suoi capelli in un batuffolo castano e li nascose sotto il copricapo, facendo attenzione che ciuffi chiari uscissero sul suo volto. Con questo stratagemma avrebbe evitato di essere immerso nel catrame e di perdere quel raro segno distintivo: nella sua regione, era pieno di persone dai capelli neri, il suo pigmento color legno scuro era una delle cose che, a quanto si diceva nel villaggio, lo rendevano speciale, oltre che per le sue qualità pacifiche e simili agli altri abitanti.
Un conato di vomito raggiunse Liang Tian una volta che vide il corpo dell’Imperatore senza testa essere sollevato davanti alla folla. Fu molto faticoso trattenere le lacrime, soprattutto sapendo che l’avrebbero fatto risultare molto sospetto da chi, invece, stava applaudendo a quell’atto macabro ed insensato. Dopo i soldati che uscirono da quel palazzo imperiale macchiato di sangue, si intravidero due figure: una dai capelli lunghi e neri, dai riflessi verdastri come le foglie scure del sottobosco, mentre l’altro dai capelli corti, l’atteggiamento succube ma sollevato allo stesso tempo.
“Oggi, tra di voi, sceglierò il mio vice generale, in nome del regime!” Annunciò il tale coi capelli verdastri, causando applausi e grida di malata gioia tra la folla, in cui Liang Tian si sentiva spiccare fin troppo. Gli occhi di quel demonio esile e delicato come una falce di uno shinigami1 vagavano tra quel groviglio di mani in festa e sorrisi insensati, mentre il ragazzo lo cercava con tutto sé stesso, allo stesso modo in cui aveva cercato di portare al termine il progetto per la distruzione di tutto quel tumore maligno che stava affliggendo Kintou. Quando, al posto degli occhi, il ragazzo vide due bagliori neri, due abissi che brillarono in un istante, al contatto col suo sguardo, capì che era stato fortunato. “Tu! Sarai il mio vice generale ufficiale. Scelto tra coloro che applaudono a questa nuova vita, a questo nuovo inizio per Kintou Shuto, tu sarai colui di cui avrò più fiducia e colui nelle cui mai riporrò il mio potere in mia assenza.” Lo invitò a salire sulle scale del palazzo, mentre la folla gli apriva un varco quasi solenne per potergli far raggiungere quelle scale intaccate dall’odio e dalla follia. A  Testa alta, col cuore trafitto da mille e più frecce, piegò le deboli ginocchia davanti al generale: “Scelto dal destino, non secondo i vizi di qualcuno, così come vuole il cielo, ti nomino mio vice generale a vita.”
“Liang Tian, a suo servizio, mio generale.”
 
 
Uno strano odore riportò l’uomo al mondo reale, mentre stava scendendo la possente scalinata cremisi del salone. Un odore aspro, ferroso, non ben definito. Era putrido, disgustoso e faceva quasi vomitare. Un odore forte e macabro che sembrava provenisse da qualcosa andato a male, in via di decomposizione. Sangue. Era forse un cadavere? Liang Tian ebbe un sussulto al cuore al solo pensiero di trovare un altro morto davanti ai suoi occhi, subito dopo aver assistito quasi ad un omicidio vero e proprio. La cosa strana era che non c’era nessun cadavere nei paraggi.
Che la carne nella dispensa fosse stata per andare a male? Impossibile: c’era abbastanza sale da mantenere il poco cibo che l’esercito non aveva portato in battaglia con sé. Per sicurezza, scese rapidamente le scale e si diresse verso le dispense del palazzo. Non fu, però una brezza di vento venuta da qualche finestra spalancata (d’altronde inesistente) a far rabbrividire il vice generale ufficiale, bensì, qualcuno.
 
“Speriamo che sia qui. Yoko, mi senti? Riesci a sentirmi?”
 
Tohma volò in fretta e furia come vento di tempesta attraverso Liang Tian, passandogli attraverso facendolo rabbrividire, per poi salire per la scalinata ed oltrepassare ogni porta che lo divideva dalla stanza di Yoko. Il palazzo era strano: c’erano pochissimi elementi e poi non c’era l’ombra né del generale e ne di Heizo, ma solo del vice Liang Tian. Come mai? Che fosse successo qualcosa di importante mentre si trasformava in un fantasma? I capelli neri di Tohma, della stessa consistenza del fumo, ritornarono al proprio posto dopo la corsa fatta per raggiungere la stanza dell’amica: non c’era nessuno. Com’era possibile? I suoi occhi sgranati, convinti di aver dimenticato qualcosa di importante, fissarono per qualche secondo il vuoto, per poi dirigersi oltre la porta del bagno. Una volta attraversata anche quella, Tohma si fece sempre più sconfortato: che Hatori avesse avuto ragione? Che Yoko fosse morta? In effetti la sua stanza era spoglia, come nuova. Dove poteva essere? Sparì immediatamente da quella stanza come il fumo di un sigaro che si disperde nell’aria. Vagò per le altre stanze per far in fretta e cercare indizi. Notò che ogni dimora era vuota, come una camera d’hotel pronta ad essere abitata. Distratto, si ritrovò in un salone enorme con una scrivania e delle pile di documenti firmati e non che volarono via come lui trapassò la porta. Fermandosi, lembi della sua persona spettrale continuavano ad ondeggiare nell’aria, come gas. Si avvicinò lento ai fogli volanti, in modo da non farli disperdere per tutta la stanza, non potendo afferrarli. Si affacciò ad uno di loro, tentando di prenderlo tra le dita inutilmente, dato che trapassarono la carta e lesse: il generale aveva dato il suo potere politico a Liang Tian per il periodo di battaglia. Come aveva potuto dimenticarlo… Alle porte dell’inverno sarebbero partiti per una spedizione nella Terra Pura. Anche lui aveva sopportato anni di addestramento per quella spedizione… Sapeva dove andare. Una volta ritornato nei pressi delle scale del salone del palazzo, un odore aspro e disgustoso penetrò le sue narici…
 
 
Il sottobosco scricchiolava dolcemente sotto gli stivali di Yoko, mentre esplorava quello che poteva della Terra Pura. Quegli alberi le davano sempre di più la sensazione di essere vicina ad uno dei nove paradisi e, stavolta, non ne ebbe paura. Si sentì leggera, libera, guidata quasi dal canto della foresta, mentre il paesaggio iniziò a variare dopo il primo miglio: il sentiero d’erba diventava più impervio e ciottoloso, più misto e colorato di grigio per via delle piccole pietre, mentre la luce riusciva a filtrare sempre di meno tra la fitta boscaglia. Si aprivano vari viottoli a destra e sinistra e non sembrò più un vero e proprio sentiero una volta che gli alberi incominciarono ad intralciare il cammino rettilineo di Yoko. Ora per la ragazza era difficile orientarsi: non vedeva più molto chiaramente l’orizzonte tra i lunghi tronchi e la foresta aveva smesso di cantare, una volta che penetrò più nel suo profondo. Si sentì un coltello che stava violando una parte intaccata e ancor più pura della terra stessa di quell’angolo di paradiso.
Dopo qualche miglio, il terreno si fece più duro e scivoloso e Yoko notò che sotto i suoi piedi c’era della roccia grigia, fredda e ricoperta di muschio. Iniziava a sentire piuttosto freddo, senza nemmeno un raggio di sole. Il ticchettio delle lancette dell’orologio da taschino che le aveva donato il generale era l’unica cosa che le stesse tenendo compagnia, mentre faceva attenzione a non scivolare sul terreno roccioso. Perché delle rocce nel sottobosco? Rocce che sembravano massi, come fosse stata una costruzione  sommersa dalla natura. Camminando a testa bassa per vedere dove mettesse i piedi, Yoko notò, dopo qualche centinaia di metri e alla distanza di cinque da lei, una specie di base di un pilastro. Alzò gli occhi al cielo, guardando in alto, sperando che ciò che pensasse fosse vero: un Torii2.
 Era fatto di pietra, alto come un Torii che si rispetti, ricoperto di muschio e con il gakuzuka3 con la tipica iscrizione.


“Shoseki no Mori4
 
 
Alla vista di quell’incisione sulla pietra, Yoko ebbe un sussulto dalla curiosità, sorrise istantaneamente e cercò di avanzare il più in fretta possibile senza scivolare.  Dopo una decina di metri, la ragazza intravide una scalinata di pietre rudimentali e grigie che salivano su una specie di collinetta e che culminavano un altro Torii. Vi si incamminò a passo svelto, premendo bene i piedi a terra e mantenendo l’equilibrio sul piano scivoloso. Scalino dopo scalino, poteva vedere che, alla sua destra o sinistra, c’erano solo tronchi d’alberi, degli stessi alberi che con le loro larghe chiome sempreverdi quasi innaturali coprivano il sole e non permettevano ai suoi raggi di riscaldarla. I suoi stivali non facevano rumore sulla pietra e sentiva ancora solamente le lancette dell’orologio. Lo prese tra le mani, premette il piccolo cilindro metallico a lato  lo aprì: se i suoi calcoli erano giusti a partire dalla ‘x’ con due stanghette dopo, dovevano essere le quattro del pomeriggio: una ‘v’ con una stanghetta prima. Quando era passato tutto quel tempo? Eppure, sembrava che solo un paio d’ore fossero trascorse… Quel posto aveva qualcosa di magico, pensò Yoko. Mentre certi pensieri si facevano vividi nella sua mente, si rese conto di aver raggiunto il secondo Torii, in pietra ricoperta di muschio come il primo e con la stessa iscrizione. All’orizzonte nessun tempio, nessuna scalinata, solo gli alti tronchi degli alberi che continuavano a dominare il paesaggio. Guardando a Terra, Yoko notò una scalinata che andava verso il basso, molto ripida, quasi verticale e dai gradini grossi ma con poco spazio su cui poggiare i piedi. Per quanto fosse curiosa, ebbe timore di scivolare con un passo falso e sbattere la testa in modo letale. Appoggiandosi al pilastro del Torii, la ragazza tentò di allungare il primo piede verso il primo ripido gradino, ma le venne solamente un tuffo al cuore appena quello scivolò in un batter d’occhio sul muschio. In effetti, quel tratto ne era del tutto coperto, pensò: decise di spostarsi dal lato dell’altro pilastro. Ancora, vi si aggrappò, notando che la pietra era più spoglia, se non totalmente deserta di muschio; fece il primo passo e, stavolta, il piede rimase fermo lì sul gradino senza volare in aria facendole prendere un colpo. Ora, però, doveva staccarsi dal pilastro del Torii. Pian piano le sue mani si allontanarono dalla struttura sacra, per galleggiare nell’aria, mentre Yoko aveva il fiato sospeso: anche con la paura di cadere e ruzzolare giù, non si era mai sentita così vicina alla natura, ad uno spettacolo mozzafiato. La scala era quasi interminabile, come un lato di una montagna, scavato all’interno del sottobosco. Era una specie di ripa scoscesa ricoperta di vegetazione e di fili d’erba color della speranza, mentre le chiome degli alberi si facevano sempre più lontane man mano che Yoko scendeva. Cercava di poggiare i piedi sui lati meno muschiosi di ogni gradino, spostandosi anche per un metro più in là per evitare di rischiare di cadere giù. Con calma e molta cautela, si mise anche a contare gli scalini, curiosa di quale numero sarebbe uscito fuori da quel passatempo che s’era trovata, tormentata dal ticchettio delle lancette dell’orologio. Ad ogni passo, la ragazza scorgeva un nuovo ultimo gradino all’orizzonte, sempre più ricoperto di muschio: chissà come avrebbe fatto quando non avrebbe più avuto pietra sotto gli stivali. Fermandosi ogni tanto, osservava davanti a sé quella discesa verso l’ignoto, ma non ne aveva paura: era curiosa di sapere cosa ci fosse di bello alla fine di quel piccolo viaggio, perché sapeva che nella Terra Pura non c’era spazio per immagini orribili e sanguinarie, al contrario di Kintou Shuto. Giunta in prossimità degli ultimi dieci gradoni, Yoko non vide altro che una costruzione in pietra, un muro con dei resti di ciò che un tempo avrebbe dovuto forse essere un tetto di legno. Eppure, le avevano detto che quella terra non era mai stata intaccata. Perché quello che doveva essere un tempio5 era in quello stato? Non sembrava neanche tale da come era ridotto. Da quando era scesa a terra, finalmente, i suoi stivali si immersero nella folta erba non troppo alta, mentre i suoi occhi si alzavano verso quello che era un massiccio e squadrato portone di pietra. Forse… non era un tempio? Quello non poteva essere un portone di un tempio, ma i Torii che c’erano dovevano chiaramente condurre ad un tempio e solamente a quello. Che senso aveva tutto ciò?
“Che strano…” Sussurrò tra sé e sé, per poi avanzare e poggiare la sua mano delicata sul gigante masso squadrato, tentando di spingere con tutto il suo peso l’inusuale portone affinché si fosse aperto. Qualche filo di ragnatela venne spezzato appena quello si mosse di qualche millimetro. Yoko era totalmente rossa in faccia dallo sforzo sovrumano che aveva fatto per smuovere quel quintale di pietra che, essendo già parzialmente aperto, poteva permettere alla ragazza di farsi aprire totalmente, magari facendo leva con qualche bastone robusto. Fu la prima cosa che Yoko pensò, lasciando perdere lo spingere con le proprie mani: si voltò e scavando con le mani tra l’erba alta, senza aver paura di insetti o ragni o persino vermi, sperava che qualcosa di duro e legnoso avesse toccato le sue dita delicate. Dopo qualche minuto, visti i risultati nulli, decise di trovare un’altra soluzione. Si girò verso le scale, risalendo un po’ di gradoni, per arrivare abbastanza vicina alle chiome degli alberi che la sovrastavano. Ricordava che poco dopo l’inizio della discesa, c’era un grande ramo che quasi sorvolava la scalinata, facilmente raggiungibile alzandosi sulle punte. Arrivata nel punto, Yoko si avvicinò al pezzo di legno, facendo attenzione a non scivolare giù e guardandosi spesso i piedi, insicura. Allungò una mano dietro la schiena, l’altra davanti a sé, nella speranza di afferrare quella ragnatela provvista anche di abitante, che era stata allestita da quest’ultimo tra un piccolo ramoscello e il ramo portante. La mano, chiudendosi forte e serrandosi totalmente, schiacciò il povero animale che fino a poco prima stava fissando la mano di Yoko spaventato dall’entità sconosciuta. Lei non ci fece caso più di tanto e tentò di tirare giù il lungo ramo: nulla. Provò ancora, facendo pressione col suo peso riposto nel braccio, ma ancora quel legno non veniva giù. I suoi piedi si mossero un po’ più avanti per permetterle di afferrare meglio ciò che voleva staccare. Fece di nuovo pressione: sentì un “crack”, poi un altro e prima che si rendesse conto che non ne avrebbe voluti sentire più, altri suoni croccanti e staccati seguirono il primo, sempre più forti ed in una frazione di secondo, Yoko cedette sotto il proprio peso, il suo piede scivolò e rotolò per un paio di gradini, prima che con una gamba frenasse la caduta mortale. Col cuore in gola ed il respiro affannato, si rialzò in piedi anche con l’aiuto del bastone, scese giù e si avvicinò al massiccio portone. Il bastone andò dritto tra lo stipite di pietra e il masso squadrato e, poggiando un piede sul muro coperto di muschio e rampicanti, con tutta la sua forza, il portone venne spostato, lasciando spazio ad uno spettacolo inaspettato…
L’interno era buio, senz’altro uno dei luoghi più oscuri che Yoko avesse mai visto, ma questa oscurità era interrotta ogni tanto da raggi di sole che penetravano dal soffitto depredato delle assi di legno. Si potevano vedere, ad intermittenza, delle specie di liane, fili vegetali verdi che pendevano dai pochi assi che erano rimasti, facendo apparire quell’ambiente mistico e intriso di storia.
“Foresta di libri”, diceva l’iscrizione del Torii, eh?
Entrando più nel profondo, avendo paura di profanare un luogo dall’atmosfera quasi sacra, Yoko teneva le spalle strette,  gli occhi erano vigili e i passi meditati, affinché qualche spirito non venisse svegliato. Non sapeva perché, ma si sentiva osservata da qualche anima benevola, da qualche youkai, qualche fantasma gentile o addirittura da qualcuno. C’erano davvero persone, in quella terra tanto meravigliosa? La ragazza alzò lo sguardo, appena un raggio di sole la abbagliò improvvisamente, facendole scoprire l’incredibile spettacolo del tetto distrutto. Un tale sfregio per un tempio, era così inaspettatamente bello da osservare: lo squarcio apriva un buco tra le assi di legno che a loro volta, davano sulle chiome alte, distanti e infinite degli alberi le cui foglie non erano così intricate come quelle degli altri. Spicchi luminosi di luce del tramonto abbagliavano ancora, sì e no, la ragazza che camminava con lo sguardo all’aria, ammirando quella visione celestiale. Era allibita: non aveva mai visto nulla di più unico. Un intreccio di colori, un gioco di luce e buio, bianco, verde, nero… tanti colori, tanta, troppa vita che cominciava, dopo tanto tempo a scorrerle nelle vene.

Tic Tac

Era come un catenaccio che teneva legato un uccello al suolo impedendogli di volare. Lei era vincolata da quell’orologio: doveva tornare all’orario prestabilito dal generale. Doveva. Era una palla da carcerato attaccata alla nuda caviglia del suo piede, dalla quale poteva benissimo liberarsi, perché l’unica chiave che ne avrebbe aperta la serratura era nelle sue mani: la sua propria volontà. Yoko però, non accennò a volersi liberare di quella sottospecie di regalo, se così poteva chiamarlo. Lo prese in mano, fissandolo: non poteva buttarlo via, le era impedito da qualcosa che non sapeva nemmeno lei cosa fosse. Sapeva solo che era forte, più forte di lei e che non l’avrebbe fatta riuscire a liberarsi facilmente di quello che era sempre stato suo nemico.
Un rumore.
Più che altro era stato un fruscio, come del vento che s’era infiltrato tra quelle mura di pietra. Yoko cominciò a sentire freddo. Si incamminò ancora verso l’interno del “Tempio”, verso sinistra, camminando alla ceca tra i raggi di sole che pian piano cominciarono ad illuminare dei mobili di legno: erano scaffali, pieni di libri e pergamene. Avvicinandosi con calma, Yoko notò che alcuni d essi erano malandati, un po’ strappati e malridotti, ma altri erano in ottime condizioni. Tutta quella carta era molto ingiallita: chissà da quanto tempo era lì, pensò, affascinata. Provò a toccarne uno, ma ebbe un leggero sussulto quando un insetto ne attraversò le pagina prima che le sue dita potessero entrare a contatto con la carta polverosa. Continuò ad avanzare con la mano, quando sentì una sferzata di vento, non troppo violenta. Si girò: non c’era nessuno. Non aveva troppa paura, sicura che gli youkai l’avrebbero protetta, così si decise a prendere un libro tra le mani. La copertina era sbiadita, verde scura, di pelle. Era piena di polvere, che venne soffiata via dal leggero fiato di Yoko, che fece lo stesso appena aprì la prima pagina del volume. La scritta in ideogrammi era poco leggibile, tanto da non farle capire cosa stesse scritto. Voltò pagina: lo stesso. Girò allora tanti fogli di carta, uno dopo l’altro, nella speranza di trovare un tratto leggibile di quel librone che la incuriosiva tanto, finché, non trovò un piccolo brano quasi al centro del libro, perfettamente intatto, ma incompleto, dato che la pagina era mezza strappata.
Lesse:
 
Il mattino del quindici agosto dell’anno ****, un gruppo di uomini con degli strani vestiti, spalancano le porte del palazzo dell’Imperatore. La gente si riversa nelle strade: chi non sa è incuriosito, chi non sa ha il terrore in corpo. Dal grande portone, escono uomini vestiti con colori cupi, spenti e tristi, tutti uguali, in fila per venti, come un esercito, una macchina da guerra. Davanti a tutto, nel luttuoso silenzio generale, gioiosamente il loro shogun solleva il corpo dell’Imperatore privo della testa: quella giace tra le mani dei soldati fidati del generale, che la scherniscono e la deridono. 
Il gallo ha cantato: l’imperatore è rovesciato. 
Passano dieci primavere, tristi, silenziose, indifferenti: uno stato senza Imperatore, un popolo senza guida e delle anime senza sostegno. 
Il palazzo dell’imperatore diventa grigio, verdastro. L’amaranto macchia  le strade e le mani dei ribelli, sguazzano del cremisi. ‘Rivolta’ sembra la parola chiave di tale periodo: i vestiti colorati e decorati con fiori di ciliegio sono motivo di scherno, così come le giacche grigie e i colletti neri sono marchio di potere e simbolo del giusto. 
Gli alberi stanno morendo, petali rosa si tingono di grigio e galleggiano negli acquitrini neri come il cielo intossicato. Odore di polvere, di fuoco, di morte e di fumo impregnano ogni cosa: i bambini hanno dimenticato come piangere per la tristezza, perché ora piangono a comando. Mille e più morti viventi, senza cuore e senza anima, camminano con alcuna meta per le strade di ciottoli rettangolari ed ordinati: le scarpe non fanno rumore come i tacchi di legno.
Il rosso è solo sangue, non più colore di ponti, di vesti, non è più colore sacro e fortunato. Il rosa non è più colore di pelle, né colore di alcun albero: è tutto cenere, tutto polvere, tutto fumo. Non si riesce a respirare.
La mano dei lavoratori si muove sempre allo stesso modo, dietro un fiume di gomma che scorre sempre con la stessa velocità. Su questo galleggia del ferro arrugginito, degli oggetti strani: il lavoratore li salda insieme, senza sapere più il proprio nome.
Strani sassi quadrati messi uno sopra all’altro hanno creato quelle che quelli chiamano case, ma dentro sono spoglie, uguali, senz’anima e senza l’amore tipico di casa propria. 
Le cappelle, i templi e i cimiteri sono ridotti a cenere. Questa galleggia sul lago di lacrime dei credenti che piangono i loro antenati andati in fumo per la pazzia dei rivoluzionari.
La Vita, se così si può chiamare, scorre piano, lenta, piatta, sotto il cielo sporco.
Lo shogun e le sue truppe programmano, scrivono, salgono e  scendono le scale pelose del palazzo del governo e pattugliano ogni vicolo in cerca di coloro che non vogliono piegarsi al regime. Questi vengono repressi nel sangue davanti a volti di donne, uomini, bambini, anziani. Il loro collo si poggia sulla macchina di morte, una corda viene lasciata e la testa rotola giù per le scale del supplizio.
Bandiere di soli raggianti rossi sventolano su ogni strada: sono arrivati i Rivoluzionari.
La terra ad ovest non è stata ancora raggiunta: lì vivono creature pure, magiche e benevole, ragion per cui è stata chiamata Terra Pura. Ci sono boschi, montagne laghi e fiumi pacifici e colorati. Il colore rosso è ancora colore sacro. Ci sono poche persone, ma si nascondono per non essere viste dagli occhi volanti del regime che vuole tagliare loro la testa. Oltre i ponti che sorvolano le cascate, oltre i santuari che fungono da vedette lungo tutta la montagna verticale, nell’abisso della foresta silenziosa, v’ è nascosto un Tempio. Qui giace la sacerdotessa ****, che protegge la sua terra dal fumo di morte del regime di Kintou Est. 
Lo shogun non è soddisfatto, ha sete di conquista, ha sete di morte, non si fermerà fino a che **** non sarà sepolta sotto le macerie del suo tempio e le sue creature non si confondano con le nubi cupe del cielo di Kintou Shuto.
 
Peccato fosse solo un frammento, un frammento sopravvissuto ad una strage, da quanto era scritto.
Gli occhi di Yoko rimasero persi nel vuoto, quasi senza vita, incantati da quel brano letto che le aveva portato alla mente immagini di morte, di stragi, di guerra e di volti segnati da urla straziate. Quelle urla, penetranti e simili a stridii, le facevano male alle orecchie, la facevano sentire in una bolla riempita di quei fastidiosi rumori che la costringevano a strizzare forte gli occhi. Pian piano, come se fosse stata nel centro di una morsa dentata, Yoko chiuse ili libro, cercò di metterlo a posto, di non pensarci, ma una volta riposto sul suo scaffale polveroso, uno stridio dall’interno le pugnalò le orecchie. Sembrava così reale, come provocato da due pezzi di metallo che venivano sfregati con potenza. Le mani corsero alle orecchie, gli occhi si serrarono sempre più ermeticamente, finché non potette sentire altro che urla, grida, pianti e suppliche, rumori di bombe, del ringhiare dei soldati e dell’abbaiare degli ordini impartiti. Una lacrima di dolore si fece strada, lentamente, sulla sua guancia. Venne sommersa da quell’abisso di sofferenza.
“Yoko!”
 
Una voce?
 
Improvvisamente gli stridii finirono, cessarono come scacciati da una folata di vento decisa e pura. In effetti, poteva sentire dell’aria in movimento che le abbracciava tutto il corpo, come se avesse qualcosa sulle spalle, una coperta morbida e leggera, confortante. Una voce: sì, l’aveva sentita appena allora. Una voce familiare, conosciuta, forse fin troppo, tanto da farla illudere che chi avesse parlato fosse lì. In effetti…
Gli occhi di Yoko si aprirono pian piano, riconoscendo che ciò che riusciva a vedere non era più nero, ma grigio, come se un lenzuolo sottile anche mezzo millimetro, trasparente quasi e bianco, avesse coperto i suoi occhi. Stava guardando attraverso qualcosa, attraverso un vetro un po’ troppo opaco, polveroso, ma quel vetro, non poteva toccarlo: se ne rese conto appena portò la sua mano davanti a sé e tutto ciò con cui entrò in contatto fu l’aria.
“Yoko! Che ci fai qui?!” La ragazza, stavolta, ebbe un sussulto a quell’eco, pensando di star diventando pazza. Subito i suoi piedi si mossero automaticamente all’indietro, compiendo due o tre passi veloci, mentre alzava a poco a poco lo sguardo e, finalmente, vedendolo, la sua bocca si aprì da sola.
“Non è possibile…”
“Yoko, sono io, Tohma!”
Avrebbe voluto abbracciarlo, per verificare che non fosse vero. In effetti, era totalmente bianco, trasparente, fatto di vapore, forse. L’unica cosa colorata erano i suoi capelli, sempre neri, illuminati d’azzurro dalle fiammelle che lo circondavano: tipico degli yurei. Lui, però, stranamente, non aveva quella benda triangolare sulla fronte, ma indossava comunque uno yukata6 bianco senza decorazioni. Al contrario di quanto avrebbe voluto il ragazzo, Yoko cominciò a piangere, lasciando che le lacrime tanto trattenute per sembrare più forte potessero dimostrare all’amico che, sì: le era mancato, forse troppo.
La ragazza corse verso la figura che vedeva davanti a sé, stendendo le braccia aperte per un enorme abbraccio, ma, quando arrivò vicino all’amico, in lacrime, strinse nient’altro che aria. Dall’esterno si poteva vedere solamente una ragazza che si stringeva da sola ed una figura spettrale, biancastra che le passava attraverso. Anche se aveva letteralmente il viso nel suo petto, Yoko non riusciva a sentire alcun battito.
“Tohma!” singhiozzava, cercando di non piangere tanto rumorosamente da sembrare una bambina immatura, anche se sapeva che davanti al suo migliore amico, poteva farlo.
“Non piangere, ti supplico…” Iniziò a fare il ragazzo, quasi in panico, come se fosse stato per succedere qualcosa di terribile. La reazione quasi da bambino di Tohma, fece ridere Yoko, che iniziò ad asciugarsi le lacrime per lasciar più spazio alle risate, vedendo l’amico in difficoltà, con le braccia protese davanti al corpo e gli occhi spalancati.
“Ho finito…” Si sforzò per sorridere, pur di non far dispiacere ancor di più l’altro, che ricambiò quel sorriso tanto dolce. Inutilmente, quello tentò di accarezzarle la guancia, ma tutto ciò che lei sentì fu un soffio sulla pelle. “Non puoi immaginare quanto io sia contenta di vederti.” Chiuse gli occhi e iniziò a sorridere sempre di più, senza rendersene conto, con la voce impastata da pianto. “Io… Mi sei mancato tantissimo… Tori me l’aveva detto che ti avrei rivisto. Come yurei, ma ti avrei rivisto… eccoti qui, io non ci credo…” Le mancava qualcosa. Le mancava la carne, i vestiti, il calore di un abbraccio che l’avrebbe fatta calmare improvvisamente. Le mancava troppo il contatto fisico, quella dimostrazione d’affetto che non poteva essere espressa in altro modo se non con un abbraccio, ma tentò di non pensarci.
“Ah, tuo cugino… eh?” Le sorrise dolcemente. “Lo stanno portando in una barca verso la Terra Rossa: è vivo, non preoccuparti. Piuttosto, mi dici che ci fai qui? Non dovresti essere qui.” Le fece, serio e preoccupato allo stesso tempo. La ragazza rimase sorpresa.
“Come… io stavo solo andando in giro…”
“Stai scappando, per caso? Dov’è il generale? L’accampamento?” Incominciò a domandarle a raffica.
“Io non…” Non riusciva a rispondere: troppe cose, troppi pensieri tutti insieme. E poi… l’orologio… Il generale! Doveva ritornare al più presto: si guardò intorno, agitandosi.
“Yoko: calmati.” Tentò di afferrarla per le spalle, inutilmente. “Che ci fai qui, prima di tutto?”
“Perché non dovrei essere qui? E’ solo un vecchio tempio di pietra abbandonato e pieno di libri…” rispose agitata.
“Questo non è un vecchio tempio di pietra, Yoko. Questo è il Tempio della Letteratura della Terra Pura.”
 

 

 
 
• Note dell’autrice 
 
 
 
Lo so che forse vi aspettavate di più dal capitolo, ma volevo dedicarmi più con calma a Tohma e Yoko in una buona parte del prossimo, in cui vedremo anche il generale che ci è tanto mancato in questo capitolo, vero? Parlando per me, mi è mancato :c
Spero che non vi abbia deluso facendovi aspettare così tanto ma da oggi vado in vacanza così avrò più tempo per voi e per la storia e-
  • E PER ME! Of course.
Ma anche no, Fred. Ma anche no.
 
  1. Quanti di voi guardano gli anime o leggono manga?? Perché se è così avrete già incontrato questo termine (andiamo: Bleach!): significa “Dio della morte”, sarebbe la versione nipponica del cupo mietitore, detto molto approssimativamente.
  2. Formato da “Tori” che in giapponese vuol dire “uccello” e da “i”, esistere, questo è il portale che si costruisce all’inizio delle vie per i templi e delle cappelle shintoiste. Probabilmente, dati i significati delle due parole che compongono il suo nome, si dice sia nato per aver a che fare con questi animali volanti. Proprio per la funzione di questo “portale”, Yoko trova strano che quello che ci sia dopo non appaia come un tempio.
  3. E’ una parte del Torii: esso è formato da due travi che sono unite da un elemento (il gakuzuka, appunto) su cui campeggiano delle iscrizioni che possono apparire anche sui pilastri del Torii (detti “hashira”).
  4. Come il nome del capitolo, “Foresta di Libri.”
  5. Proprio per la funzione di questo “portale” (Torii), Yoko trova strano che quello che ci sia dopo non appaia come un tempio.
  6. Un tipo di kimono più informale e più leggero. Questo indumento estivo, simile in tutto e per tutto ad un generico kimono, viene indossato soprattutto alle feste bon e agli spettacoli pirotecnici e festival con fuochi d’artificio.
 
Cosa vi posso dire? Spero che mi recensiate e che non mi ucciderete per il ritardo, vi voglio bene, lo sapete! ^^” Al prossimo capitolo!
-Bloody Schutzengel

 
  
   
 
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