Vorrei
costruire un pupazzo di neve.
Sapete, quelli con una carota al posto del naso e la sciarpa rossa. A
voi non
piacciono i pupazzi di neve? Rendono l’inverno più
inverno perché se non c’è
neve qual è il motivo di tanto freddo?
Anche
se in realtà so come andrà a
finire. Il povero pupazzo potrebbe venir fuori anche paraplegico. Non
sono il
genere di persona che presta attenzione a qualcosa oltre il tempo
massimo. Non
sono così fedele. Perdo interesse molto in fretta. Questo
spiega perché da
piccola amavo i Backstreet Boys e
adesso non riesco a ricordare nessuna delle loro canzoni. Oppure erano
i Take That?
Cambio telefono non appena esce il nuovo modello. Non mi affeziono alle
cose – che perdo costantemente – e nemmeno alle
persone.
Le
piante che ho comprato sono morte di
siccità e il pesce rosso che ho lasciato galleggiare a
pancia in su qualche
volta mi perseguita in sogno. Ho il terrore di prendere un cane!
Una
volta ci ho pure provato, facendomi
scudo con il senso di responsabilità ma quello è
scappato perché avevo
dimenticato la porta aperta e, anche se l’ho cercato per una
settimana poi mi
sono arresa. Mi piace pensare che abbia trovato un padrone con
più senso di
responsabilità e una soglia di attenzione discreta.
Ho
una cane di peluche adesso. Non
abbaia molto e non sporca in giro. Penso di esserci affezionata
perché lo
lascio dormire con me ogni notte. Si chiama Peluche – non
sono in grado di dare
nomi alle cose – e mi piace. Per ora siamo amici poi vediamo
come andranno le
cose in futuro.
«Peluche
ha fatto il bravo?» chiedo a
Jenny mentre entro in caffetteria. Saluto Carol e Mike seduti al tavolo
centrale di fronte alla vetrata.
«Ha
fatto un po’ di storie quando sei
uscita ma poi si è calmato» risponde sorridendo.
No, non mi sta prendendo in
giro. È mia sorella e mi conosce. Sa che questa è
una terapia per farmi
guarire. Se riesco a conservare il mio interesse per Peluche tutto
l’anno sono
pronta a diventare una persona vera.
«Povero
il mio cucciolo» gli faccio una
carezza e me lo porto dietro il bancone.
«Come
procede il tuo esperimento?»
s’informa Carol sorseggiando il suo cappuccino decaffeinato.
«Per
ora sono passati tre mesi e non è
ancora scappato» dico seria.
«I
cani sono fedeli» aggiunge Mike, suo
marito.
«Hai
ragione. Sono io a non esserlo»
rifletto.
«Nemmeno
molti uomini!» sbotta mia
sorella. Le sue relazioni amorose non sono mai andate come sperava e
l’ultimo
ragazzo l’ha tradita con il suo migliore amico. Prendo
Peluche e lo poso
accanto a lei. Quando lo stringo o semplicemente lo guardo mi sento
meglio così
penso che possa avere lo stesso effetto anche su di lei.
La
campanella della porta tintinna
sospinta da Patty, proprietaria del negozio di scarpe all'angolo. Il
corpo
esile è avvolto dal cappotto scuro che fa risaltare i suoi
capelli brizzolati
tagliati cortissimi. È una bella donna intelligente e mi
sono sempre chiesta
perché non si sia mai sposata. Ogni tanto penso che potrebbe
essere la compagna
ideale per mio padre ma loro continuano a dire di essere solo amici e
che i
giovani non dovrebbero interessarsi alle questioni degli adulti.
«Buon
pomeriggio Patty» la salutiamo io
e Jenny con un sorriso ampio. Lei ricambia sedendosi al tavolo uno,
quello
piccolo, accanto alla cassa, dove mi trovo io ora. Guarda Peluche per
qualche
secondo e poi me.
«Dovresti
prendere un cane vero. Dov’è
il fidanzato di plastica?» storce la bocca e apre la prima
pagina del giornale.
«Questo
è un training per capire se
sono pronta... al cane intendo» sottolineo.
«Hai
intenzione di sposare un cane?»
ribatte senza sollevare la testa.
«Tu
e mio padre dovreste smetterla di
parlare di me quando non ci sono» sospiro divertita. Mi
avvicino al macinacaffè
e ne faccio scendere uno slot sulla bocchetta che poi inserisco nella
macchina
del caffè.
«Mi
serve pur qualcosa su cui
spettegolare. Dopo il ragazzo di tua sorella che è scappato
con il mio commesso
ho bisogno di qualcosa per riempire le giornate» sospira
inconsolabile.
«Patty!
Come puoi essere così
insensibile?» frigna Jenny sbattendo sulla piastra un panino
innocente.
«Ti
avevo detto che era una femminuccia
ma tu dicevi che era solo particolarmente sensibile» solleva
un sopracciglio
guardandola attraverso gli occhiali abbassati sul naso.
«Che
mi dici di Julio? Il tuo commesso?
Tu lo sapevi che era gay?» solleva il mento in segno di sfida.
«L'unica
a non saperlo eri tu, tesoro»
gira pagina.
«Davvero?»
mi guarda in cerca di
conferma e io annuisco imbarazzata. Anche io le avevo espresso le mie
idee
riguardo gli atteggiamenti dei due ragazzi ma lei diceva che andava
tutto bene.
«E
dire che era stato lui a suggerirmi
di mettermi in proprio e aprire una caffetteria» sospira.
«Almeno
questa è andata bene» la
incoraggio mentre poggio il white coffee accanto a Patty. Ho voluto
seguire mia
sorella in questa storia della caffetteria, circa tre anni fa, e sembra
funzionare. Viviamo a Tunbridge Wells, nel Kent, da sempre e tutti
quelli che
ci conoscono fin da piccole sono diventati nostri clienti. Tutte le
mattine
fanno colazione e mangiano le nostre insalate e i nostri panini. Mi
piace
quest'atmosfera calda e famigliare. È intensa come il
profumo del caffè. Non
che mi piaccia il caffè in realtà – a
parte quello istantaneo ma è un segreto
per tutti –, non mi piacciono le cose amare.
Dicono
che le persone cui piacciono le
cose dolci sono più predisposte a innamorarsi e,
considerando la quantità di
cioccolata che ingurgito, dovrei esserlo perennemente. La
verità è un’altra. Ho
avuto anche io qualche interesse per quello o l'altro ragazzo ma il
massimo di
una mia relazione è stato quattro mesi. Dite che sono un
caso disperato?
Alle
sette meno un quarto chiudo la
caffetteria dopo essermi accertata di aver spento tutte le luci e aver
effettuato correttamente tutti i riti prima della chiusura. Tiro su il
colletto
della giacca e infilo la cuffietta di lana che mi ha regalato mia
sorella. In
realtà sono stata io a lavorare la lana con i ferri ma lei
mi ha regalato
proprio quella del colore che volevo. Non è dolce?
Ricambio
il saluto di Jackson che
sventola la mano dalla vetrina di McColl's e mi avvio verso casa col
sole ormai
tramontato e i lampioni che allungano la mia ombra sull'asfalto. Cerco
di
ricordare se devo acquistare qualcosa al Morrisons e infilo gli
auricolari per
isolarmi dal silenzio. Ci sono molte cose che non mi piacciono, sono un
tipo
difficile, e tra queste c'è anche il non sentire alcun
rumore. Certo
sporadicamente passa qualche macchina che mi illumina con gli
abbaglianti come
se volesse mandare segnali in codice a qualche ufo di passaggio ma, con
questo
freddo, non molta gente si avventura fuori casa. Siamo a gennaio, il
periodo più
morto dell'anno e le previsioni del tempo hanno detto che avrebbe
nevicato. La
temperatura continua ad abbassarsi ma nemmeno un misero fiocco di neve
si è
fatto vedere.
Proseguo
lentamente ascoltando la
musica a tutto volume nelle mie orecchie. Qualche volta canticchio e
ancheggio
a tempo immaginando di avere una chitarra elettrica ma la
verità è che non so
suonarla.
«Credi
nel potere dell'amore eterno?»
canto con convinzione seguendo Michael Learns nella sua Eternal Love.
Mi piace
questa canzone. Parla di un amore che non esiste, quello eterno
intendo, però
la canzone è così bella che anche se non credo ad
una sola parola di quello che
dice a volte penso che per qualcuno potrebbe succedere. Per inciso,
quel
qualcuno non sono io e non lo sarò mai.
Accertato
che non devo comprare nulla
al supermercato grazie ad un messaggio di Jenny che mi ha avvisato di
essere
andata a fare la spesa e di aver comprato il latte che era finito, mi
guardo i
piedi decidendo da che parte andare. Faccio un passo verso South Grove
ma poi faccio
inversione a U verso Soprano per salutare Mark e Sophie.
Ancora
mi chiedo perché hanno voluto
chiamare Soprano un ristorante di cucina spagnola quando a me questo
nome fa
venire in mente una serie tv che parla di un boss mafioso
italo-americano.
Il
locale è pieno, anche se è lunedì ma
io ho bisogno di bere una birra e di una faccia amica prima di tornare
a casa.
«Come
va con il cane?» Sophie mi viene
incontro sorridente. Ha in mano due birre fredde che trasudano
goccioline.
Guardo Peluche stretto sotto il mio braccio e lo poso sul bancone del
bar per
poi arrampicarmi su uno sgabello. «Potrebbe funzionare.
Andiamo d'accordo» sono
soddisfatta.
«Lo
penso anche io» anche lei non mi
sta prendendo in giro. Eravamo compagne di classe alle scuole superiori
e poi
all'università. Lei mi capisce sempre e non chiede mai. Come
quella volta che
ho deciso di lasciare la scuola di medicina senza una spiegazione
apparente.
Mentre tutti chiedevano semplicemente e tentavano di convincermi a
cambiare
idea lei mi ha trascinata fuori di casa in pigiama, ha comprato una
confezione
di birre da sei e mi ha fatta ubriacare finché ho vomitato
l'anima. Dopotutto è
questo il ruolo delle migliori amiche.
«Volevo
essere come lei» avevo detto
tra un conato e l'altro.
«A
me piaci più tu» aveva detto.
«Non
sarebbe comunque servito a farla
tornare» aggiunsi.
«Puoi
provare ad entrare in polizia»
avvicinò la lattina di birra alle labbra ma non
riuscì a bere perché scoppiò a
ridere mentre io facevo altrettanto. Tutti sapevano che avevo voluto
frequentare medicina per diventare un medico come mia madre. Da bambina
pensavo
che i miei genitori fossero una specie di super eroi. Mio padre era il
poliziotto che catturava i cattivi e mia madre salvava la vita delle
persone.
Mi sentivo al sicuro.
Senza
chiedermi cosa preferisco fa
comparire una bottiglia di Desperado con una fetta di lime che spunta
dal
collo.
«Bevi.
Mi occupo di due tavoli e poi
parliamo» esce dal banco senza aspettare risposta.
Dominique,
il nuovo barista, mi sorride
e io ricambio sollevando la bottiglia e bevendo un sorso.
All’angolo della
piccola sala due musicisti e una ragazza dalla voce alla Nelly Furtado
intrattengono i commensali. Ogni tanto tamburello le dita sul banco a
ritmo
lasciando andare i pensieri.
«Giornataccia?»
chiede lui. Faccio di
no con la testa e bevo un altro sorso. Lo guardo con interesse per la
prima
volta e gli chiedo quanti anni ha. Sembra giovane.
«Ho
venticinque anni» sorride vagamente
ammiccante.
«Sei
fedele?» studio la sua reazione.
Tira indietro la testa e deglutisce prima di rispondere. Non sono una
di quelle
persone che è in grado di decifrare il linguaggio del corpo
e nemmeno dopo
dieci serie di Lie to Me ne sarei
capace perciò aspetto trepidamente la sua risposta.
«Sono
stato tradito una volta e non
penso sia qualcosa di piacevole!» dice infine.
«Promosso!»
lo indico con la bottiglia.
«Vuoi uscire con me?» si sporge attraverso il bancone.
Indietreggio e rido. «Sei troppo piccolo. Il mio tipo
ideale deve avere almeno trent’anni» dico seria.
«Troppo
piccolo? Quanti anni hai?» è
stupito.
«Non
si chiede l’età di una signora»
fingo di essere imbronciata.
«Ha
ventinove anni ma crede di essere
giunta al capolinea» interviene Sophie. Poi notando la
reazione di Dominique
aggiunge: «Lo abbiamo scioccato!».
«Se
sei un tipo fedele devi uscire con
mia sorella. Sei il suo tipo e avete anche la stessa
età» gli spiego.
«Tua
sorella?» è visibilmente confuso.
«Alta,
carina, capelli biondi e sorriso
luminoso. Ti serve il caffè tutte le mattine, come
è possibile che tu non ne
sia ancora innamorato? Mia sorella è un angelo!»
sbotto e mi metto una mano sul
cuore per rendere più solenne la frase. Il ragazzo, un
po’ imbarazzato,
annuisce stupidamente e finge di asciugare il bancone.
«Sei
gay?».
«Eh?»
solleva il viso di scatto.
«I
gay non vanno bene per lei».
«Non
sono che io… che io sappia»
afferma molto seriamente.
«Bene!
Sei un bel ragazzo e mi piaci.
Facci un pensiero» mi sporgo per dargli un colpetto sul
braccio.
«Eppure
in genere reggi bene l’alcol e
questa birra ha una gradazione irrisoria» riflette Sophie
aggirando il bancone.
«Voglio
che mia sorella si innamori di
un bravo ragazzo che non scappi con il commesso di Patty o di chiunque
altro».
«E
tu?» mi indica con il mento.
«Non
sono pronta» gli mostro Peluche
come se fosse una spiegazione più che ovvia. Lei stappa
un’altra Desperado e si
siede accanto a me.
«Forse
hai solo bisogno della persona
giusta. Entrambe avete bisogno della persona giusta».
«Che
frase fatta!» mormoro, «Sono io a
non essere la persona giusta in questo momento. Forse in nessun
momento».
«Stupidaggini!
Perché non ti prendi un
po’ di tempo per te stessa? Fai qualcosa di nuovo e scopri
che tipo di persona
sei» m’incoraggia.
«Non
puoi dirmelo tu che tipo di
persona sono? Mi risparmieresti un sacco di fatica».
«Scegli
sempre la via più semplice»
rigira la birra tra le mani. Anche se la sua affermazione è
piuttosto tagliente
lo ha detto con una voce così dolce e materna che non posso
avercela con lei.
Si chiama sincerità e la apprezzo. Penso che sarà
una mamma straordinaria
quando deciderà di avere un bambino.
«Avevo
bisogno di parlare con te molto
più di quanto mi rendessi conto» poggio la testa
sulla sua spalla.
«Hai
spezzato il cuore di Dominique» la
sento sghignazzare divertita.
«Perché?».
«Nutriva
un certo interesse nei tuoi
confronti» spiega. Sollevo la testa e la guardo dritto in
faccia. «Dovrebbe
essermi grato, gli ho salvato la vita».
Sophie
scoppia a ridere e non posso
fare a meno di imitarla. Chiacchieriamo ancora per il tempo di
un’altra birra e
decido di tornare a casa.
L’aria
fredda mi si appiccica addosso
scacciando la sensazione di calore che mi avvolgeva poco fa. Non
essendo
particolarmente freddolosa mi lascio cullare da questa sensazione, come
se il
freddo fosse capace di scacciare i brutti pensieri e schiarirmi
materialmente
le idee. Respiro a fondo con gratitudine e soddisfazione. Allargo le
braccia
per aprire il petto e far entrare più aria possibile nei
polmoni. Lascio cadere
la testa all’indietro e resto così per un momento.
Così concentrata sulla
respirazione non mi rendo conto che stavo quasi per cadere
all’indietro e vado
a urtare un passante che cammina dietro di me.
«Chiedo
scusa» dico automaticamente ma
quello non risponde e abbassa la testa superandomi.
Mi
riprendo e scuoto vigorosamente la
testa, «Elizabeth Amanda Miller! Non puoi essere ubriaca dopo
solo due birre… o erano tre?» mi
rimprovero ma poi ricordo di non aver mangiato niente dalle undici di
stamattina. Ero così carica di lavoro che ho dimenticato di
mangiare qualcosa
nel pomeriggio.
«Forse
sei un po’ stordita ragazza»
rido. Ma cosa avrò da ridere poi? Mi do qualche schiaffetto
con le mani fredde
e proseguo verso casa. Sento dei passi dietro di me e così
mi fermo fingendo di
allacciare una scarpa. Non mi piace avere qualcuno alle spalle, mi fa
sentire
spiata e mi irrigidisco come Pinocchio. Adesso che ci penso,
ultimamente provo
spesso questa sensazione, di percepire qualcuno che cammina alle mie
spalle.
Non saprei come definire la cosa dal momento che le persone camminano
continuamente per strada e generalmente non mi infastidiscono. Eppure
non è
nemmeno questo. Si tratta di qualcosa di diverso. Come se fossi seguita
ma il
solo esprimere il concetto mi fa sembrare una con manie di
persecuzione.
La
figura mi sorpassa nell’oscurità e
già mi sento meglio. Casa non è lontana, devo
solo svoltare l’angolo e
percorrere la salita. Ce la posso fare senza collassare
sull’asfalto.
Di
fronte alla porta di casa tiro un
sospiro di sollievo e rido della mia stupidità. Chi mai
avrebbe dovuto
seguirmi?