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Autore: inkdropsintherain    31/05/2015    1 recensioni
Elizabeth Miller è la proprietaria del Blue Moon, caffetteria di una piccola cittadina del Kent, e oltre a desiderare che finalmente nevichi a Tunbridge Wells, non ha un preciso progetto per il futuro. Abbandonata da sua madre ha imparato in fretta cosa significa crescere e adesso non riesce proprio a legarsi agli altri. Almeno questo è ciò che ha creduto fino adesso ma, un ex fidanzato troppo insistente, può essere la molla che innesca un nuovo processo fino al raggiungimento di un sentimento che Liz credeva di non essere in grado di provare...
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago
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Vorrei costruire un pupazzo di neve. Sapete, quelli con una carota al posto del naso e la sciarpa rossa. A voi non piacciono i pupazzi di neve? Rendono l’inverno più inverno perché se non c’è neve qual è il motivo di tanto freddo?

Anche se in realtà so come andrà a finire. Il povero pupazzo potrebbe venir fuori anche paraplegico. Non sono il genere di persona che presta attenzione a qualcosa oltre il tempo massimo. Non sono così fedele. Perdo interesse molto in fretta. Questo spiega perché da piccola amavo i Backstreet Boys e adesso non riesco a ricordare nessuna delle loro canzoni. Oppure erano i Take That? Cambio telefono non appena esce il nuovo modello. Non mi affeziono alle cose – che perdo costantemente – e nemmeno alle persone.

Le piante che ho comprato sono morte di siccità e il pesce rosso che ho lasciato galleggiare a pancia in su qualche volta mi perseguita in sogno. Ho il terrore di prendere un cane!

Una volta ci ho pure provato, facendomi scudo con il senso di responsabilità ma quello è scappato perché avevo dimenticato la porta aperta e, anche se l’ho cercato per una settimana poi mi sono arresa. Mi piace pensare che abbia trovato un padrone con più senso di responsabilità e una soglia di attenzione discreta.

Ho una cane di peluche adesso. Non abbaia molto e non sporca in giro. Penso di esserci affezionata perché lo lascio dormire con me ogni notte. Si chiama Peluche – non sono in grado di dare nomi alle cose – e mi piace. Per ora siamo amici poi vediamo come andranno le cose in futuro.

«Peluche ha fatto il bravo?» chiedo a Jenny mentre entro in caffetteria. Saluto Carol e Mike seduti al tavolo centrale di fronte alla vetrata.

«Ha fatto un po’ di storie quando sei uscita ma poi si è calmato» risponde sorridendo. No, non mi sta prendendo in giro. È mia sorella e mi conosce. Sa che questa è una terapia per farmi guarire. Se riesco a conservare il mio interesse per Peluche tutto l’anno sono pronta a diventare una persona vera.

«Povero il mio cucciolo» gli faccio una carezza e me lo porto dietro il bancone.

«Come procede il tuo esperimento?» s’informa Carol sorseggiando il suo cappuccino decaffeinato.

«Per ora sono passati tre mesi e non è ancora scappato» dico seria.

«I cani sono fedeli» aggiunge Mike, suo marito.

«Hai ragione. Sono io a non esserlo» rifletto.

«Nemmeno molti uomini!» sbotta mia sorella. Le sue relazioni amorose non sono mai andate come sperava e l’ultimo ragazzo l’ha tradita con il suo migliore amico. Prendo Peluche e lo poso accanto a lei. Quando lo stringo o semplicemente lo guardo mi sento meglio così penso che possa avere lo stesso effetto anche su di lei.

La campanella della porta tintinna sospinta da Patty, proprietaria del negozio di scarpe all'angolo. Il corpo esile è avvolto dal cappotto scuro che fa risaltare i suoi capelli brizzolati tagliati cortissimi. È una bella donna intelligente e mi sono sempre chiesta perché non si sia mai sposata. Ogni tanto penso che potrebbe essere la compagna ideale per mio padre ma loro continuano a dire di essere solo amici e che i giovani non dovrebbero interessarsi alle questioni degli adulti.

«Buon pomeriggio Patty» la salutiamo io e Jenny con un sorriso ampio. Lei ricambia sedendosi al tavolo uno, quello piccolo, accanto alla cassa, dove mi trovo io ora. Guarda Peluche per qualche secondo e poi me.

«Dovresti prendere un cane vero. Dov’è il fidanzato di plastica?» storce la bocca e apre la prima pagina del giornale.

«Questo è un training per capire se sono pronta... al cane intendo» sottolineo.

«Hai intenzione di sposare un cane?» ribatte senza sollevare la testa.

«Tu e mio padre dovreste smetterla di parlare di me quando non ci sono» sospiro divertita. Mi avvicino al macinacaffè e ne faccio scendere uno slot sulla bocchetta che poi inserisco nella macchina del caffè.

«Mi serve pur qualcosa su cui spettegolare. Dopo il ragazzo di tua sorella che è scappato con il mio commesso ho bisogno di qualcosa per riempire le giornate» sospira inconsolabile.

«Patty! Come puoi essere così insensibile?» frigna Jenny sbattendo sulla piastra un panino innocente.

«Ti avevo detto che era una femminuccia ma tu dicevi che era solo particolarmente sensibile» solleva un sopracciglio guardandola attraverso gli occhiali abbassati sul naso.

«Che mi dici di Julio? Il tuo commesso? Tu lo sapevi che era gay?» solleva il mento in segno di sfida.

«L'unica a non saperlo eri tu, tesoro» gira pagina.

«Davvero?» mi guarda in cerca di conferma e io annuisco imbarazzata. Anche io le avevo espresso le mie idee riguardo gli atteggiamenti dei due ragazzi ma lei diceva che andava tutto bene.

«E dire che era stato lui a suggerirmi di mettermi in proprio e aprire una caffetteria» sospira.

«Almeno questa è andata bene» la incoraggio mentre poggio il white coffee accanto a Patty. Ho voluto seguire mia sorella in questa storia della caffetteria, circa tre anni fa, e sembra funzionare. Viviamo a Tunbridge Wells, nel Kent, da sempre e tutti quelli che ci conoscono fin da piccole sono diventati nostri clienti. Tutte le mattine fanno colazione e mangiano le nostre insalate e i nostri panini. Mi piace quest'atmosfera calda e famigliare. È intensa come il profumo del caffè. Non che mi piaccia il caffè in realtà – a parte quello istantaneo ma è un segreto per tutti –, non mi piacciono le cose amare.

Dicono che le persone cui piacciono le cose dolci sono più predisposte a innamorarsi e, considerando la quantità di cioccolata che ingurgito, dovrei esserlo perennemente. La verità è un’altra. Ho avuto anche io qualche interesse per quello o l'altro ragazzo ma il massimo di una mia relazione è stato quattro mesi. Dite che sono un caso disperato?

Alle sette meno un quarto chiudo la caffetteria dopo essermi accertata di aver spento tutte le luci e aver effettuato correttamente tutti i riti prima della chiusura. Tiro su il colletto della giacca e infilo la cuffietta di lana che mi ha regalato mia sorella. In realtà sono stata io a lavorare la lana con i ferri ma lei mi ha regalato proprio quella del colore che volevo. Non è dolce?

Ricambio il saluto di Jackson che sventola la mano dalla vetrina di McColl's e mi avvio verso casa col sole ormai tramontato e i lampioni che allungano la mia ombra sull'asfalto. Cerco di ricordare se devo acquistare qualcosa al Morrisons e infilo gli auricolari per isolarmi dal silenzio. Ci sono molte cose che non mi piacciono, sono un tipo difficile, e tra queste c'è anche il non sentire alcun rumore. Certo sporadicamente passa qualche macchina che mi illumina con gli abbaglianti come se volesse mandare segnali in codice a qualche ufo di passaggio ma, con questo freddo, non molta gente si avventura fuori casa. Siamo a gennaio, il periodo più morto dell'anno e le previsioni del tempo hanno detto che avrebbe nevicato. La temperatura continua ad abbassarsi ma nemmeno un misero fiocco di neve si è fatto vedere.

Proseguo lentamente ascoltando la musica a tutto volume nelle mie orecchie. Qualche volta canticchio e ancheggio a tempo immaginando di avere una chitarra elettrica ma la verità è che non so suonarla.

«Credi nel potere dell'amore eterno?» canto con convinzione seguendo Michael Learns nella sua Eternal Love. Mi piace questa canzone. Parla di un amore che non esiste, quello eterno intendo, però la canzone è così bella che anche se non credo ad una sola parola di quello che dice a volte penso che per qualcuno potrebbe succedere. Per inciso, quel qualcuno non sono io e non lo sarò mai.

Accertato che non devo comprare nulla al supermercato grazie ad un messaggio di Jenny che mi ha avvisato di essere andata a fare la spesa e di aver comprato il latte che era finito, mi guardo i piedi decidendo da che parte andare. Faccio un passo verso South Grove ma poi faccio inversione a U verso Soprano per salutare Mark e Sophie.

Ancora mi chiedo perché hanno voluto chiamare Soprano un ristorante di cucina spagnola quando a me questo nome fa venire in mente una serie tv che parla di un boss mafioso italo-americano.

Il locale è pieno, anche se è lunedì ma io ho bisogno di bere una birra e di una faccia amica prima di tornare a casa.

«Come va con il cane?» Sophie mi viene incontro sorridente. Ha in mano due birre fredde che trasudano goccioline. Guardo Peluche stretto sotto il mio braccio e lo poso sul bancone del bar per poi arrampicarmi su uno sgabello. «Potrebbe funzionare. Andiamo d'accordo» sono soddisfatta.

«Lo penso anche io» anche lei non mi sta prendendo in giro. Eravamo compagne di classe alle scuole superiori e poi all'università. Lei mi capisce sempre e non chiede mai. Come quella volta che ho deciso di lasciare la scuola di medicina senza una spiegazione apparente. Mentre tutti chiedevano semplicemente e tentavano di convincermi a cambiare idea lei mi ha trascinata fuori di casa in pigiama, ha comprato una confezione di birre da sei e mi ha fatta ubriacare finché ho vomitato l'anima. Dopotutto è questo il ruolo delle migliori amiche.

«Volevo essere come lei» avevo detto tra un conato e l'altro.

«A me piaci più tu» aveva detto.

«Non sarebbe comunque servito a farla tornare» aggiunsi.

«Puoi provare ad entrare in polizia» avvicinò la lattina di birra alle labbra ma non riuscì a bere perché scoppiò a ridere mentre io facevo altrettanto. Tutti sapevano che avevo voluto frequentare medicina per diventare un medico come mia madre. Da bambina pensavo che i miei genitori fossero una specie di super eroi. Mio padre era il poliziotto che catturava i cattivi e mia madre salvava la vita delle persone. Mi sentivo al sicuro.

Senza chiedermi cosa preferisco fa comparire una bottiglia di Desperado con una fetta di lime che spunta dal collo.

«Bevi. Mi occupo di due tavoli e poi parliamo» esce dal banco senza aspettare risposta.

Dominique, il nuovo barista, mi sorride e io ricambio sollevando la bottiglia e bevendo un sorso. All’angolo della piccola sala due musicisti e una ragazza dalla voce alla Nelly Furtado intrattengono i commensali. Ogni tanto tamburello le dita sul banco a ritmo lasciando andare i pensieri.

«Giornataccia?» chiede lui. Faccio di no con la testa e bevo un altro sorso. Lo guardo con interesse per la prima volta e gli chiedo quanti anni ha. Sembra giovane.

«Ho venticinque anni» sorride vagamente ammiccante.

«Sei fedele?» studio la sua reazione. Tira indietro la testa e deglutisce prima di rispondere. Non sono una di quelle persone che è in grado di decifrare il linguaggio del corpo e nemmeno dopo dieci serie di Lie to Me ne sarei capace perciò aspetto trepidamente la sua risposta.

«Sono stato tradito una volta e non penso sia qualcosa di piacevole!» dice infine.

«Promosso!» lo indico con la bottiglia.

«Vuoi uscire con me?» si sporge attraverso il bancone.

Indietreggio e rido. «Sei troppo piccolo. Il mio tipo ideale deve avere almeno trent’anni» dico seria.

«Troppo piccolo? Quanti anni hai?» è stupito.

«Non si chiede l’età di una signora» fingo di essere imbronciata.

«Ha ventinove anni ma crede di essere giunta al capolinea» interviene Sophie. Poi notando la reazione di Dominique aggiunge: «Lo abbiamo scioccato!».

«Se sei un tipo fedele devi uscire con mia sorella. Sei il suo tipo e avete anche la stessa età» gli spiego.

«Tua sorella?» è visibilmente confuso.

«Alta, carina, capelli biondi e sorriso luminoso. Ti serve il caffè tutte le mattine, come è possibile che tu non ne sia ancora innamorato? Mia sorella è un angelo!» sbotto e mi metto una mano sul cuore per rendere più solenne la frase. Il ragazzo, un po’ imbarazzato, annuisce stupidamente e finge di asciugare il bancone.

«Sei gay?».

«Eh?» solleva il viso di scatto.

«I gay non vanno bene per lei».

«Non sono che io… che io sappia» afferma molto seriamente.

«Bene! Sei un bel ragazzo e mi piaci. Facci un pensiero» mi sporgo per dargli un colpetto sul braccio.

«Eppure in genere reggi bene l’alcol e questa birra ha una gradazione irrisoria» riflette Sophie aggirando il bancone.

«Voglio che mia sorella si innamori di un bravo ragazzo che non scappi con il commesso di Patty o di chiunque altro».

«E tu?» mi indica con il mento.

«Non sono pronta» gli mostro Peluche come se fosse una spiegazione più che ovvia. Lei stappa un’altra Desperado e si siede accanto a me.

«Forse hai solo bisogno della persona giusta. Entrambe avete bisogno della persona giusta».

«Che frase fatta!» mormoro, «Sono io a non essere la persona giusta in questo momento. Forse in nessun momento».

«Stupidaggini! Perché non ti prendi un po’ di tempo per te stessa? Fai qualcosa di nuovo e scopri che tipo di persona sei» m’incoraggia.

«Non puoi dirmelo tu che tipo di persona sono? Mi risparmieresti un sacco di fatica».

«Scegli sempre la via più semplice» rigira la birra tra le mani. Anche se la sua affermazione è piuttosto tagliente lo ha detto con una voce così dolce e materna che non posso avercela con lei. Si chiama sincerità e la apprezzo. Penso che sarà una mamma straordinaria quando deciderà di avere un bambino.

«Avevo bisogno di parlare con te molto più di quanto mi rendessi conto» poggio la testa sulla sua spalla.

«Hai spezzato il cuore di Dominique» la sento sghignazzare divertita.

«Perché?».

«Nutriva un certo interesse nei tuoi confronti» spiega. Sollevo la testa e la guardo dritto in faccia. «Dovrebbe essermi grato, gli ho salvato la vita».

Sophie scoppia a ridere e non posso fare a meno di imitarla. Chiacchieriamo ancora per il tempo di un’altra birra e decido di tornare a casa.

L’aria fredda mi si appiccica addosso scacciando la sensazione di calore che mi avvolgeva poco fa. Non essendo particolarmente freddolosa mi lascio cullare da questa sensazione, come se il freddo fosse capace di scacciare i brutti pensieri e schiarirmi materialmente le idee. Respiro a fondo con gratitudine e soddisfazione. Allargo le braccia per aprire il petto e far entrare più aria possibile nei polmoni. Lascio cadere la testa all’indietro e resto così per un momento. Così concentrata sulla respirazione non mi rendo conto che stavo quasi per cadere all’indietro e vado a urtare un passante che cammina dietro di me.

«Chiedo scusa» dico automaticamente ma quello non risponde e abbassa la testa superandomi.

Mi riprendo e scuoto vigorosamente la testa, «Elizabeth Amanda Miller! Non puoi essere ubriaca dopo solo due birre… o erano tre?» mi rimprovero ma poi ricordo di non aver mangiato niente dalle undici di stamattina. Ero così carica di lavoro che ho dimenticato di mangiare qualcosa nel pomeriggio.

«Forse sei un po’ stordita ragazza» rido. Ma cosa avrò da ridere poi? Mi do qualche schiaffetto con le mani fredde e proseguo verso casa. Sento dei passi dietro di me e così mi fermo fingendo di allacciare una scarpa. Non mi piace avere qualcuno alle spalle, mi fa sentire spiata e mi irrigidisco come Pinocchio. Adesso che ci penso, ultimamente provo spesso questa sensazione, di percepire qualcuno che cammina alle mie spalle. Non saprei come definire la cosa dal momento che le persone camminano continuamente per strada e generalmente non mi infastidiscono. Eppure non è nemmeno questo. Si tratta di qualcosa di diverso. Come se fossi seguita ma il solo esprimere il concetto mi fa sembrare una con manie di persecuzione.

La figura mi sorpassa nell’oscurità e già mi sento meglio. Casa non è lontana, devo solo svoltare l’angolo e percorrere la salita. Ce la posso fare senza collassare sull’asfalto.

Di fronte alla porta di casa tiro un sospiro di sollievo e rido della mia stupidità. Chi mai avrebbe dovuto seguirmi?

   
 
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