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Autore: Uccellino Assurdo    31/05/2015    2 recensioni
Trieste ha una scontrosa / grazia. Se piace, / è come un ragazzaccio aspro e vorace, / con gli occhi azzurri e/ mani troppo grandi / per regalare un fiore; /come un amore / con gelosia. (Umberto Saba, Trieste)
Trieste, 1914. Nella città "crocevia di popoli e di culture" per eccellenza la storia dei due fratelli Vargas, Romano ed Alice, che vedono la loro vita sconvolta dall'avvento della Grande Guerra e dell' amore...
Nota: presente Fem/Italia del Nord
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Germania/Ludwig, Nord Italia/Feliciano Vargas, Spagna/Antonio Fernandez Carriedo, Sud Italia/Lovino Vargas, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Se un giorno tornerò

voglio che tu mi dia un ciclamino

colto o a Percedol o a Slivia.

S’è di marzo appena o febbraio

una primula pallida tenuta in seno a scaldare.

Se torno nel pieno dell’inverno

il fiore del tuo sorriso.

Ma se non torno, un ricordo

d’amore soltanto e presto dimentica,

senza rimpianto.

(Anonimo soldato triestino)

Antonio rincorse Romano, che correva a perdifiato, fino a quando non lo perse di vista; lo ritrovò dopo un po’ sotto il porticato di una chiesa vicino alla Piazza, seduto sulle scalinate, mentre le ultime gocce di pioggia spandevano pigramente dai cornicioni. Teneva le braccia sulle ginocchia e aveva ancora gli occhi rossi.

«Mi ha mentito per tutto questo tempo», disse appena vide arrivare Antonio, «con un tedesco…è impossibile, un tedesco! Mia sorella…», e si morse ancora le labbra.

Antonio si sedette vicino a lui. «Ci tieni ad Alice?»

«Ovviamente»

«E allora non vuoi che lei sia felice?»

«Cosa c’entra questo?», chiese.

«C’entra, perché stare con lui è la sua felicità»

Romano rivide la scena che si era presentata poco prima di fronte ai suoi occhi. La felicità di Alice poteva mai risultargli più lontana ed incomprensibile? «Non un tedesco…o un austriaco, non quelli che…» e si interruppe.

«Quale problema dovrebbe esserci?», chiese l’amico.

«Mio padre», iniziò allora Romano, «era un irredentista». Questa parola Antonio l’aveva già sentita, più di una volta; serpeggiava nei locali frequentati dagli universitari e dai borghesi, qualche volta aveva sentito parlare di questi gruppi di triestini convinti nell’italianità della loro città a discapito di tutto, e, pur non essendo direttamente coinvolto, condivideva il loro punto di vista.

Romano continuò: «Ricordo che da piccoli a casa, ci parlava sempre, ci diceva che un giorno l’ Italia sarebbe stata davvero unita e anche Trieste ne avrebbe fatto parte. Diceva che dovevamo considerarci italiani e lui avrebbe combattuto per darci la possibilità di dirci tali! Anche mia madre, ascoltandolo, sorrideva; forse pensava alla sua terra lontana che un giorno avrebbe voluto rivedere, il suo assolato sud, che aveva lasciato per seguire mio padre. E poi…poi un giorno degli uomini bussarono a casa e vidi mia madre scoppiare in lacrime invocando il suo nome; il governo austriaco aveva scoperto le macchinazioni che mio padre ed i suoi compagni stavano orchestrando contro l’Impero, erano stati catturati e condannati a morte. Nessuno di noi ebbe il tempo di salutarlo per l’ultima volta, di poterlo per l’ultima volta abbracciare. Non ci diedero neanche la possibilità di piangere sulla sua tomba: il corpo di un traditore dell’impero non è degno neanche delle ultime esequie. Credo che il suo corpo sia stato gettato in qualche fossa comune, insieme ai cadaveri dei compagni uccisi con lui quel giorno. L’ho spesso sognato: nei miei sogni guardava con sguardo fermo e chiaro il plotone di esecuzione che stava per scaricargli addosso i fucili, gridando fieramente che Trieste era italiana; forse è morto davvero così.

Giurai di proteggere per sempre mia madre ed Alice, come una volta mi aveva fatto promettere lui, forse pensando al pericolo che correva. Ma non ce l’ho fatta. La mamma non si riprese più. Rimaneva giornate intere a piangere sola, nella sua stanza, non sorrideva più, non parlava più, era come se un abisso profondo di disperazione l’avesse risucchiata…noi avevamo perso un padre, ma lei aveva perso la parte più profonda della sua anima, che non avrebbe mai più potuto riavere. Sì ammalò e in poco tempo morì.

Avevo vissuto fino a poco tempo prima, con Alice e i miei genitori, in un mondo fatto di amore. Adesso non provavo altro che odio, rabbia, risentimento: per coloro che avevano ucciso la mia felicità a colpi di fucile, per chi non ci aveva saputo proteggere, ma anche per mio padre, che ci aveva abbandonati, e mia madre a cui, nonostante il bisogno che avevamo di lei, da soli non eravamo bastati.

Ecco perché…non voglio austriaci e tedeschi, non voglio qualcuno che faccia soffrire Alice, non voglio qualcuno che…sta andando a combattere e non si sa se ritornerà mai più, non voglio vedere anche lei annientata come mia madre, non voglio che la porti lontano da me, non voglio…non voglio più rimanere solo!».

L’acquazzone estivo si era placato, lasciando soltanto gli acquitrini delle strade bagnate e un’ aria densa di piccole goccioline di pioggia e profumata di sera.

Antonio ascoltò in silenzio tutto il racconto dell’amico; poi protese la mano verso di lui e lentamente gli accarezzò i capelli. Romano lo lasciò fare, come se in quel momento non aspettasse altro che una mano amica lo carezzasse come da tempo nessuno più faceva. Si sorprese a sentire nel delicato tocco di Antonio, le mani di suo padre, di sua madre, di Alice, di qualche sogno adolescenziale fatto in una notte d’estate. Il contatto con le agili dita del ragazzo, immerse nei suoi capelli, gli diede un languido brivido che lo percorse per tutto il corpo e, non riuscì a capire il perché, gli venne voglia di avvicinarsi di più a lui, di consegnarsi inerme ad un abbraccio di salvezza. Doveva essere l’umidità di quella sera, quell’aria piena di guerra, addii, lacrime e baci. Lentamente poggiò la testa sulla sua spalla.

«Antonio…?», gli chiese.

«Dimmi»

«Torni in Spagna?». L’aveva sentito parlare con Francis e aveva sentito il legittimo consiglio che l’amico gli aveva dato; ma in quella domanda c’era tutto l’accorato bisogno di avere un’ultima àncora di salvezza a cui aggrapparsi.

Ma il ragazzo rispose: «No».

«Perché, brutto idiota? Tornatene a casa…». Antonio ancora aveva le mani sprofondate negli scuri e umidi capelli di Romano e lui, con quella carezza cullante e intossicante che lo stordiva, continuava a ripetere: «Tornatene a casa, tornatene dalla tua famiglia…non hai niente da fare qui, non hai nessuno di cui preoccuparti».

No, non è vero, Antonio, rimani, rimani, rimani con me. Continua a sorridermi e ad essere gentile anche quando faccio lo stronzo, continua a guardarmi e a chiamarmi per nome, continua ad accarezzarmi i capelli per sempre.

«Torna a casa. Ha ragione Francis, questa città sarà messa in ginocchio. Non ho il tempo di preoccuparmi anche per te…».

«Non lo fare. Ma io non me ne andrò».

«Perché, maledizione, perché?!! Non farmi dannare anche tu, con questa tua maledetta testardaggine!».

«Ti amo».

La frase rimase per un attimo sospesa nell’aria umida di goccioline piovane, si conficcò nella mente di Romano e si sciolse con lentezza straziante nel suo cuore. «Ma…che dici?», esclamò incredulo, incapace di articolare una frase logica.

«Quello che ho detto: ti amo. Ti amo da sempre e per sempre, forse ti amavo ancora prima di nascere e probabilmente ti amerò anche dopo la morte».

Romano non seppe dire altro che: «P…perché?»

«Perché così ha voluto Dio».

Dio. La guerra, sua sorella con il tedesco, il racconto dei genitori, le lacrime, la pioggia, il suo ti amo e…Dio. Romano alzò lo sguardo al cielo: «Dio e tutti voi volete farmi uscire di senno, è un complotto contro di me! Si può sapere che hai in mente?!».

Saettò lo sguardo di nuovo verso Antonio, ma non sorrideva. Era serio questa volta, terribilmente serio, e scrutando nella profondità dei suoi occhi Romano riuscì a vedere tutta la verità e l’ intensità di quel sentimento che portava e la fatica con il quale l’aveva espresso. In quegli occhi c’era un’amarezza che mai su di lui aveva visto.

«Adesso…», pronunciò sommessamente Antonio, «ti…ti faccio schifo?»

Romano scosse lentamente la testa. «No». In un attimo tutti i tasselli presero posto e Romano iniziò a capire molti dei silenzi, delle frasi lasciate a metà, degli sguardi, dei segreti dell’amico. Non voglio che tu sappia cose che ti farebbero allontanare da me…

«È per questo che hai lasciato la Spagna?»

Antonio fece un altro sorriso triste: «Si vergognavano di avere un figlio come me…».

Quindi era questa la verità. Non una famiglia amorevole e felice, non una vita spensierata e semplice, non un sole che lo aveva sempre baciato, regalandogli un sorriso eterno: anche nella primavera del suo cuore si trovava un isola deserta e selvaggia piena di paure, come in tutti.

Romano non tenne il conto del tempo in cui rimasero ancora lì, in silenzio e vicini, senza scambiare una parola, ognuno cercando di penetrare il mistero dell’altro. Quando alzarono il viso stava già iniziando ad albeggiare.

II

Romano sapeva bene dove andare e a chi rivolgersi. Non perse tempo, non c’era tempo; I coscritti triestini già da giorni venivano riuniti nella Caserma Grande, dove affluivano anche gli altri i soldati giuliani, per essere mandati al fronte. Romano non sarebbe riuscito a sfuggire ancora per molto e prima di consegnarsi al suo destino voleva sapere.

La mattina dopo si avviò verso il locale un tempo frequentato dal padre. Non ci entrava dalla morte del genitore e comunque lo aveva accompagnato solo poche volte, ma ricordava perfettamente la strada e il vicolo nel quale, un po’ fuori mano e quasi nascosto, si trovava il piccolo caffè. Era un ambiente piuttosto piccolo ma confortevole, elegante nella sua sobrietà, il genere di posto che si cerca per trovare tranquillità leggendo un giornale; e infatti molti erano gli uomini seduti a sorseggiare liquore o caffè e attenti a leggere le ultime notizie, tanto ancore più importanti proprio per questa città.

Romano si avvicinò al banco. L’ uomo dietro, ormai ingrigito dopo più di tredici anni, lo ricordava, spesso si era intrattenuto a parlare con suo padre; non poteva essere sicuro che anche lui si ricordasse ma ormai doveva tentare il tutto per tutto: era anche possibile che dopo tutti quegli anni quel locale non serbasse alcun ricordo degli ideali passati.

«Buongiorno», fece Romano.

«Buongiorno; cosa prende?», rispose cortese ma sbrigativo l’uomo.

«Un caffè, grazie». Fece finta di guardarsi intorno, poi disse vago: «Questo posto è rimasto esattamente uguale a com’era quando mi ci portava mio padre, lui veniva spesso».

«Ah, allora lo dovrei conoscere, qui i clienti abituali sono pochi e li conosco tutti. Chi è suo padre?».

«Chi era purtroppo. Vargas…».

L’uomo dietro il bancone ebbe un fremito e alzò lo sguardi verso il giovane. «Ma è passato molto tempo da allora e sicuramente non si ricorderà più di lui; e neanche i suoi amici».

«No, no, ragazzo mio. Lo ricordo molto bene tuo padre e ti assicuro che molti clienti del mio locale si ricordano di lui con grande…rispetto». Sembrò fermarsi a riflettere su qualcosa e gettò un’occhiata ai tavoli dove erano seduti i suoi avventori, poi abbassando la voce. «Ma tu, per caso…vorresti fare due chiacchiera con questi amici, vero?».

Romano sorrise soddisfatto: il barista aveva capito tutto, si ricordava della parte attiva avuta da suo padre anni prima e sicuramente i suoi “amici” facevano ancora gruppo in quel locale. Era lì che gli irredentisti di Trieste si incontravano. «Sì!», rispose con convinzione.

«Allora ti consiglio di venire più tardi, la sera verso le dieci, sai… questi amici preferiscono vedersi quando c’è tranquillità e poche persone in giro e sai meglio di me che trovare tranquillità in quest’ultimo periodo a Trieste è sempre più difficile da trovare».

La sera stessa Romano ritornò. Questa volta l’atmosfera era molto più familiare; furono molti quelli che riconobbe, antichi compagni del padre, e loro riconobbero lui perché si fecero avanti tendendo la mano e facendogli posto al tavolo dove sembrava ci fossero discussioni in atto. Li ricordava: quello che si alzò per prima era Alfredo, era un amico di famiglia, qualche volta i suoi lo avevano invitato a cena; quello seduto in fondo era Federico, l’altro era Giordano. Ma c’erano anche ragazzi, persone che Romano non aveva mai visto, anche molto più giovani di lui: studenti, giornalisti, avvocati, scrittori,, ma anche semplici figli del popolo erano riuniti in quella stanza per parlare del destino di Trieste, e adesso c’era anche Romano.

«Ti aspettavamo, sapevamo che un giorno ti avremmo avuto dei nostri», disse Alfredo, «scorre in te il sangue di tuo padre. Noi non dimentichiamo i nostri compagni, diamo onore al loro sacrificio e li additiamo come esempio ai più giovani: non c’è nessuno qui che non morirebbe volentieri gridando il suo amore per l’Italia, come fece Vargas».

Romano non aveva voglia né tempo di perdersi in discorsi idealistici e politici. «Io sono qui perché voglio sapere cosa devo fare. Non voglio combattere per gli Austriaci».

Prese parola uno dei più anziani, che fino a quel momento non aveva parlato: «La situazione è questa: l’Italia non si è sentita il dovere di intervenire in questa guerra, come hanno fatti altri alleati dell’ Austria. Questo perché la Triplice Alleanza tecnicamente è un patto difensivo e non a scopi offensivi, quindi l’Italia ne ha approfittato per rendersi neutrale, tuttavia…»

«Tuttavia alcuni di noi ritengono che sia opportuno e ci siano le possibilità, che l’Italia entro qualche mese entri in guerra».

Romano trasalì. «L’Italia potrebbe entrare in guerra a fianco dell’Austria?»

«Non necessariamente», riprese il più anziano, «per come sono messe le cose l’ideale sarebbe che si trovasse un compromesso con in Paesi dell’Intesa, potrebbe essere il pretesto per avere liberi alcuni territori italiani da troppo tempo in mano a stranieri. Fra cui, naturalmente, Trieste».

Romano era sempre più confuso: «Ma io, ora come ora cosa dovrei fare? Il Reggimento di triestini verrà mandato a combattere sui Carpazi, stanno già mobilitando le truppe!».

Fu Alfredo a parlare. «Lascia Trieste il più presto possibile, massimo un paio di giorni, e cerca riparo in Italia. Tieni anche in considerazione che purtroppo le autorità austriache sanno che sei figlio di un irredentista, con tutto ciò che ne può conseguire».

«Io non voglio scappare!!»

«Non scapperai. Aspetterai. Con le pressioni che il governo italiano sta subendo dai vari gruppi di interventisti sarà questione di mesi. Combatterai, come combatteremo tutti, ma sarà dalla parte della nostra patria. Moriremo, ma moriremo da italiani. Ora come ora l’unica cosa che possiamo augurarti è questa».

Riparo in Italia. Ma dove? Tutta la sua vita era sempre stata a Trieste. E Alice? Quell’incontro invece di chiarirgli le idee le aveva solo confuse ulteriormente.

«Ragazzo, decidi tu cosa sia meglio per te e chi ti sta accanto», gli disse paternamente Alfredo, mettendogli le mani sulle spalle. «Hai il completo appoggio di tutto il gruppo e il nostro aiuto, per quanto te ne possiamo offrire. Purtroppo per adesso non possiamo che aspettare dove ci trascinerà la corrente della Storia».

III

Non si erano più parlati da quella notte tanto breve quanto piena di rivelazioni, e ancora Romano faceva fatica a stargli vicino senza sentire un malessere e quasi senso di colpa verso di lui, anche se non sapeva da dove provenisse. Tuttavia era davvero l’unico a poterlo aiutare.

«Antonio, devo chiederti una cosa».

«Dimmi».

«È vero quello che mi hai detto la scorsa notte?».

«Assolutamente sì», disse fermo e risoluto. Romano arrossì. «Mi dispiace ma, io non…».

«Lo so. Tranquillo, lo so. Non mi aspetto nulla da te, solo che non riuscivo più a starti vicino senza dirti quello che provo…non voglio niente di ciò che tu non mi puoi dare».

Romano era sempre più imbarazzato e in colpa. «Lo so che sono un egoista a chiederti questo ma, se è vero quello che mi hai detto, faresti una cosa per me? Sarebbe davvero l’unico modo per dimostrarmi il tuo…affetto».

«Ti darei la mia vita mille volte; cosa vuoi che faccia?»

Quel maledetto bastardo, che continuava a dire quelle cose con tutta la naturalezza del mondo, quella voce, quegli occhi…lo facevano sentire ancora più in colpa. «Ti prego…», balbettò, «torna in Spagna!»

Antonio scosse la testa: «Non ti lascio».

«Torna…».

«No».

«Ascoltami…»

«Non ti lascerò mai da solo!»

«Ti prego, torna…», disse esasperato, «… e porta con te Alice!»

IV

La stazione di Trieste era piena di gente, i treni carichi. Era soprattutto gente che tornava nel proprio paese o cercava un rifugio per sfuggire alla guerra, ma molti, soprattutto i giovani venivano rimandati indietro e si sapeva che, tempo qualche giorno, Trieste avrebbe definitivamente tagliato la linea ferroviaria che collegava la città al resto d’Italia.

I tre ragazzi erano arrivati la mattina presto, Alice e Antonio avanti e Romano dietro, ad occhi bassi.

Alice aveva passato le ultime notti a piangere, il capo abbassato celava ancora i suoi occhi rossi ma limpidi e schietti come sempre. Ludwig non aveva voluto che venisse a salutarlo il giorno della partenza, voleva che il loro saluto fosse racchiuso nella promessa di quel loro ultimo bacio; per quanto riguarda Romano non era riuscita a rivolgergli più la paura. Sapeva che anche il fratello dentro di sé. Per motivi diversi, soffriva quanto stava soffrendo lei, ma invece di lenire reciprocamente quel dolore, come fecero alla morte dei genitori, ognuno lo teneva racchiuso dentro il proprio cuore come un orrendo tesoro.

«Vedrai, ti piacerà la Spagna», cercava di farle coraggio Antonio. « In questa stagione i campi sembrano d’oro e il sole più brillante che mai; i miei fratelli si affezioneranno a te e i miei genitori ti tratteranno come una figlia. Troverai tanta gente che ti vuole bene!». Ma sapeva che qualsiasi parola avesse detto, niente sarebbe bastato per calmare la sua anima e distoglierla dal suo pensiero fisso, né avrebbe potuto mai darle torto. E per quanto riguardava lui: tornare in Spagna dopo più di sei anni. Non aveva avuto ancora il tempo di pesare l’ idea.

Il fischio del treno li portò dolorosamente alla realtà: il momento dell’addio era giunto anche per loro.

Se ne stanno andando, se ne stanno andando tutti, Questi sono gli ultimi attimi che passo con loro e non ho il coraggio di guardarli, non ho il coraggio di dire niente di quello che dovrei dire, neanche una parola , pensava Romano.

Salì Antonio portando su le valigie e aiutò poi Alice. Da là sopra la ragazza gettò un ultimo sguardo al fratello, iniettato di lacrime. «Romano, perdonami», disse singhiozzando e catapultandosi fuori dal vagone fra le braccia del fratello, «io ti voglio bene, ma vogli anche bene a Ludwig. Vorrei che alla fine di questo incubo potessimo ritrovarci tutti insieme e vivere felici per sempre. Non voglio che non torniate più da me! Promettimelo! Promettimi che ritorneremo tutti insieme!».

«Te lo prometto!», disse e la strinse forte come se stessero per portargliela via. E non avrebbe più potuto dire altro; stava davvero salutando la sorella per sempre?

«Mi prenderò cura di lei». Antonio alle spalle della ragazza lo guardava con sguardo tenero e rassicurante. Di certo con lui sarebbe stata al sicuro e infine era davvero solo quello il modi di provargli il suo amore.

«Lo so. Grazie. E addio».

«Arrivederci, Romanito», sorrise dolcemente Antonio. Né una stretta di mano, né una pacca, né un abbraccio amichevole. Solo il suo sorriso, delicato e galleggiante nel vuoto come una carezza.

E per la prima volta, nonostante tutto, rispose a quel sorriso.

L’aria si congelò intorno a loro, le porte delle carrozze vennero chiuse e il treno iniziò a muoversi. «Ci rivedremo tutti! Ci rivedremo a casa, a Trieste!», gridava dal finestrino Alice, «Non dimenticarti che me l’hai promesso!»

«Stai tranquilla!», gridò di rimando Romano, «saremo tutti felici!», ma il treno era già lontano all’orizzonte; correndo si portava via le persone che più amava.

Portandosi una mano al petto toccò la croce che gli aveva regalato, in una serena giornata di sole fra i campi fioriti, in un tempo che non sembrava più reale, Antonio. Così proteggerà la tua felicità!

La strinse nel pugno. «Questa volta sono rimasto completamente solo».

   
 
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