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Autore: flyingangel    07/01/2009    0 recensioni
Una ragazza viene morsa da un vampiro, ma lei non sa chi è finchè... dall'idea di un contest.
Genere: Sovrannaturale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Salve a tutti, partecipando ad un contest su epf, il morso di un vampiro,
ho scritto questa one-shot... se a qualcuno piacerà, sarò molto contenta ^_^
Buona lettura ^_^



Il morso di un vampiro - The bite of a vampire



I passi si dispersero veloci, quasi come se fosse possibile immergerli e cancellarli nella foschia. Mi avviai verso
l’uscita dell’edificio e rabbrividii al contatto col freddo di quella sera, contro la mia pelle. Indossai subito il cappotto e
nascosi le braccia nude. Avevo appena fatto un esame del sangue nell’ospedale della mia insulsa città, un antro sperduto nell’America del nord. Sospirai e contorsi la bocca, ripensando al fatto che fossi stata con tanti malati in una sala d’attesa per più di tre ore. Ero svenuta il giorno prima, pesavo poco, e dovevano controllare che non avessi niente di anomalo.
I miei passi si dispersero ancora nel vento freddo che mi schiaffeggiava, graffiandomi. Mi strinsi di più nel cappotto e
aumentai il passo, arrivando alla mia auto parcheggiata. Notai che il parcheggio era ancora quasi pieno. Quanta gente stava male. Entrai nell’auto e mi misi la cintura. Avviai il motore e presi un altro respiro, l’atmosfera era nebbiosa e tetra.
«Maledizione», bofonchiai, quando notai quanto poco si vedesse la strada.
Spinsi forte sul pedale, per non perdere la concentrazione e arrivai di lì a poco davanti a casa mia. Posteggiai l’auto nel garage laterale rispetto all’entrata di casa. Scesi dall’auto e richiusi il garage, un altro sbuffo all’aria troppo pungente, e poi entrai in casa.
Andai in cucina e aprii il frigorifero per trovare qualcosa di commestibile da infilare sotto ai denti, e li affondai su una ciambella, rimasta lì da chissà quanti giorni. Però era buona. Poi presi del latte e ne bevvi un po’ dal cartoccio, facendo attenzione a non sporcare. Non avevo voglia, a quell’ora, di mettermi anche a pulire.
I miei genitori, ricordai, dormivano già da un po’ nel loro letto. Sapevano che sarei andata all’ospedale, e gli avevo detto
che mia zia mi avrebbe riaccompagnato. In realtà, non volevo troppi problemi. Ero adulta, quasi diciannove anni, e potevo benissimo cavarmela da sola; in fondo era solo un controllo per la mia corporatura.
Trangugiai altro latte, poi lo lasciai nel frigorifero e salii le scale, per entrare in camera mia e buttarmi sul letto. La luna era una falce velata, quella notte. Controllai l’ora: le dieci.
Sospirai, e chiusi gli occhi, addormentandomi su un fianco, dolcemente.

Un suono fastidioso risvegliò i miei sensi e la mia attenzione: cavoli, era già mattina. Bofonchiai qualcosa di incomprensibile, poi misi una mano a tacere la sveglia e mi alzai riluttante, spostando metà coperte a terra.
Mi girò lievemente la testa e ricordai l’esame della scorsa sera, battei le palpebre cercando di ravviarmi la concentrazione, e poi mi misi le pantofole, diretta al piano inferiore.
In cucina, vidi i miei fare già colazione. «Ciao» li salutai, facendomi spazio nel tavolo e cominciando ad imburrare un toast.
«Tutto bene ieri?» mi chiese mia madre, i capelli scuri e gli occhi verdi, scrutandomi. Annuii.
Diedi un’occhiata anche a mio padre, e poi li salutai, diretta a scuola.
Guardai l’orologio al mio polso, erano le otto. Mi affrettai verso l’ingresso e girai l’angolo, pronta per la mia prima lezione. Presi posto in un banco nel bel mezzo dell’aula e attesi il professore. Riposi i miei libri sul banco e guardai quello che avrei dovuto studiare il giorno prima.
Salutai con un cenno del capo il mio miglior amico Vetrès, mentre raggiungeva il banco accanto al mio.
Era sempre stato un tipo strano, ma non nel senso cattivo del termine, nel senso che era davvero sempre troppo buono e per i fatti suoi, per poter prestare attenzione alle persone attorno a lui. Ma non potevo dargli torto: le persone che ci circondavano non erano della sua stessa sensibilità.

«Hai studiato?» soppesai le lettere, muovendo la bocca e cercando di parlare sottovoce.
Lui mi guardò un attimo e poi fece di sì con la testa. Gli sorrisi, e tornai col viso puntato alla cattedra.

Mi strinsi nel cappotto, per sentire di meno il freddo, invano. Raggiunsi la mia auto e tornai a casa: un toccasana dopo un intensa mattinata di lezioni a scuola. «Ciao» salutai mia madre, intenta a finire di preparare il pranzo, in cucina.
Lei alzò lo sguardo verso di me e sorrise.
Passai il pomeriggio a leggere e ad ascoltare musica nella mia camera, e per una parte della giornata mi misi pure a studiare. Ma dopo un po’, la voglia di fare qualcos’altro mi prese, e non potei reprimerla così facilmente, così mi avviai di fuori. Il vento era come uno schiaffo sulla mia pelle sensibile, ma cercai di camminare senza badarci troppo, in fondo sarebbe
stata solamente mezz’ora o giù di lì.
Ricevetti uno squillo sul cellulare, infatti mi vibrò e aprii lo sportello. Corrugai lo sguardo, quando vidi che era Vetrès.
Mi chiesi che cosa volesse, ma mi piaceva troppo la sua compagnia per lamentarmi. Mi vibrò di nuovo il cellulare e controllai. Mi era arrivato un messaggio, Vetrès diceva che mi voleva bene. Guardai un po’ sorpresa lo schermo del cellulare.
Anch’io, pensai. Poi scossi la testa, sbuffando al freddo che mi gelava il viso e il naso. Infilai le mani in tasca e proseguii la mia camminata. Quell’assoluto relax mi ci voleva proprio, se non altro potevo dire che mi godevo il paesaggio invernale, la neve, gli abeti, le luci di Natale, la brina sui rami, il gelo sui profili delle case e della natura.
Ripensai a Vetrès e ai suoi occhi glaciali, simili a quelli del colore di quel paesaggio, ai suoi capelli biondo spento, così irreali, ma così fantastici. Ripensai al suo sguardo, sempre privo di emozioni, cupo, ma sorridente quando gli piacevano le mie battute assurde. Al suo modo di gesticolare quando si trovava in imbarazzo, al fatto che arrossisse se qualcuno lo prendeva in contropiede su una situazione che per lui importava, al suo corpo sempre rigido, che pareva ammorbidirsi quando lo abbracciavo.
Soffiai una nuvoletta gelata, e voltai la testa a destra, scrutando i vialetti che si disperdevano fino ad arrivare alle case di quell’insulsa cittadina. Era tutto lì il paese, quattro case in croce, cioè non proprio quattro, ma il numero definitivo non si distanziava di molto.
Sbuffai, vedendo quella tiepida desolazione nella nebbia che stava progredendo e mi offuscava gli occhi. La mia passeggiata finì di lì a poco, e mi riscaldai nella mia camera tutta la sera, davanti alla televisione. Prima di addormentarmi, detti uno sguardo alla finestra e alla solita luna che troneggiava in cielo. Chiusi gli occhi.

«Marta, sveglia!» urlò mia madre, dal pian terreno. Mi svegliai di soprassalto, per colpa sua, non tanto perché aveva urlato, ma perché aveva interrotto il mio benevolo sogno, che mi permetteva di essere meno antipatica durante tutto il giorno.
Scostai le pesanti coperte e scesi le scale di legno, scricchiolanti.
«Eccomi, mamma» borbottai, un po’ delusa dal fatto che mi avesse interrotto sul più bello: una creatura affascinante e molto sexy stava cercando di afferrarmi per i fianchi, inducendomi a ballare con lui. E aveva pure un mantello nero.
Sorrisi beata, un po’ da stupida a dir la verità, e scossi la testa, amaramente.
«Allora, ci aiuti con i regali?» chiese mia madre, sistemando la mia colazione in un piatto.
La guardai, corrugando le sopracciglia. «Come?».
«Oh, avanti. Ci aiuti a comprare i regali? Ne abbiamo un bel po’… per tutti i parenti» continuò lei.
Le gettai ancora un’occhiata. «Ah, sì certo» mormorai, più soprappensiero che altro.
Lei annuì. «Tieni, mangia finché è caldo».
Durante tutto il pomeriggio andammo per negozi a scegliere cosa regalare ai parenti, fu un bello spasso. Per i miei zii che avevano i gusti illimitati provare a scegliere qualcosa di decente, non era affatto semplice. Per i miei nonni che di gusti
non ne avevano granché, si rivelava altrettanto complicato. Ma alla fine, era bello perdersi tra quelle luci e quei colori, per un momento dimenticarsi di tutto, come se fossi entrata in un altro mondo solo fatto di bei pensieri.
La sera arrivò, e con lei la stanchezza. Ma mi ero ripromessa di uscire, di raggiungere il centro di quell’insulso e piccolo
antro di mondo che era il mio paese e di entrare nel bar. Si erano fatte le otto, e dopo aver mangiato, decisi di prepararmi. Ci misi più di mezz’ora a scegliere che cosa dovevo mettermi; si vedeva troppo che non uscivo mai.
Optai per un top che non risaltasse troppo la mia figura, sì ero piuttosto timida, e per dei jeans non troppo attillati, sì non volevo essere troppo appariscente, soprattutto di notte.
Il bar distava circa cinque minuti da casa mia, e la via non era troppo illuminata; comunque, di solito non si aggiravano tipi loschi e potevo restare tranquilla. Mi sistemai il giubbotto, quando uscii e sentivo i miei passi come unico rumore nella strada.
Il silenzio era ingombrante, avrei voluto scacciarlo via, ma non era possibile, d’altronde mancava poco, era questione di minuti. L’oscurità però, mi faceva paura. La paragonavo ad una lama sottile e lucida, che tagliava in superficie e poi più a fondo. Non ero mai sicura al buio.
Infilai le mani in tasca e svoltai l’angolo, ero ormai arrivata. Tirai un sospiro di sollievo, e sentii il freddo pungermi le labbra.
«Ehi!», urlò una voce. Mi voltai allarmata, non sapendo da chi provenisse. Non c’era nessuno.
«Chi è?», dissi, stringendomi di più nel cappotto.
Mi voltai di nuovo, ma non c’era nessuno. Presi a camminare più velocemente, caspita mancava così poco per arrivare al bar…
«Fermati», mi disse  la stessa voce in lontananza.
«Ma… cosa?», non capivo più dove guardare, per individuare quella persona. Era senza dubbio una voce maschile. E non era vicina a me, almeno io non lo vedevo. Il respiro si faceva più incessante, lo sentivo contro la mia sciarpa, tentava di arrivare all’aria e non farmi soffocare.
Tirai un sospiro, cercando di mantenere il controllo. Al diavolo! Ero troppo agitata, ripresi a fare pochi passi veloci, finché
non venni trattenuta da un corpo gelido.
Il terrore si impossessò di me, incauto e selvaggio. Lo sentii per tutto il mio corpo, smorzarmi i battiti del cuore.
Mi bloccai, anzi fui bloccata. Mi tremò il petto, lui teneva la sua mano pallida sul mio cuore, mentre questo cercava di esplodere.
«Chi sei?», urlai terrorizzata. «Ti prego lasciami!». La saliva mi si fermò in gola, come se fosse stata congelata.
Un attimo. Lo sentii chiaramente, come se lo potessi toccare, un attimo di esitazione in lui, non sapevo perché. Ma non avvertii il suo respiro su di me, seppure sentivo il peso della sua testa sopra la mia.
«Marta…», lo sentii pronunciare. Sgranai gli occhi, trattenendo il fiato. Come faceva a sapere il mio nome?
La sua voce era quasi un sussurro tetro, pareva modificata, non mi raggiungeva nitida all’orecchio, ma roca. Vidi la sua
mano insinuarsi sulla mia bocca. «Per favore, non fiatare», mi disse, mentre già il mio respiro se ne andava tremolante nel minuscolo spazio tra le sue dita gelate.
«Chi sei? Chi…», la mia voce venne spazzata via in un attimo. Lui si allungò verso il mio collo, e sentii che appoggiava le sue labbra fredde sulla mia pelle al vento. Mi spostò il colletto del cappotto, e i capelli e un brivido mi percorse la schiena. Leccò la mia pelle, quale che fosse un dolce, e poi con bramosia, sentii che me la morse. Gemetti di dolore. Il morso si faceva più forte, e andava più in profondità. Mi accorsi del mio sangue. Il mio sangue stava fuoriuscendo, penetrato dai suoi denti aguzzi e duri. Il male che mi faceva ad un certo punto non lo sentii più. Urlai, un urlo secco e scarno. Affondò ancora di più i suoi denti contro di me, e mi sentii affondare dentro di lui. Poi più nulla, l’urlo mi si smorzò nel petto.
«Come sei buona…», sembrò fermarsi un attimo, per leccarsi le labbra. Non mi ero ancora potuta voltare a guardarlo in faccia. Il dolore che sentivo nel punto in cui mi aveva morso pungeva ininterrottamente, come la frenesia delle luci psichedeliche.
«Perdonami Marta, ma non sono in me. Avevo troppa fame», al suono di quelle parole, sentivo che stavo per svenire…
«Vetrès?», mormorai, affievolendomi tra le sue braccia.




Ringraziamenti:


grazie mille blackout per averla letta e averla apprezzata! mi fa davvero piacere che ti sia piaciuta, e sì la trama non è molto completa... mi piaceva però il personaggio di Vetrès >.< grazie anche per aver trovato l'errore ^_-, non me ne sarei accorta facilmente! ^_^

  
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