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Autore: Helena Kanbara    02/06/2015    3 recensioni
Sono stata una bambina ubbidiente per ben sedici anni, poi ho smesso improvvisamente di eseguire gli ordini del “mondo” e mio padre ha cominciato a chiedersi dove avesse sbagliato con me. Ecco perché sono qui in isolamento, insieme ai delinquenti. Ecco perché passo le mie giornate sola in questa schifosissima cella ad aspettare il mio diciottesimo compleanno per essere giustiziata. Perché non ho voluto seguire gli ordini. Sapete cosa penso? La vita sull’Arca fa schifo. E preferirei di gran lunga la morte.
Genere: Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: John Murphy, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'The heart wants what it wants'
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10.   WHAT HAVE YOU DONE?
 
 
I have been waiting for someone like you, but now you are slipping away.
Why does Fate make us suffer?
There’s a curse between us: between me and you.
What have you done?
 
Non stava succedendo davvero. No. Non a me. Perché, poi? Ciò che le mie iridi assonnate registravano non aveva un briciolo di senso. Era tutto frutto della mia fantasia distorta. Un sogno. Un incubo. Non di certo la realtà.
John Murphy non era lì di fronte a me – per quanto la cosa, in fondo, mi sarebbe piaciuta. Non aveva il viso incrostato dal sangue di ferite che non sapevo chi gli avesse inferto, le braccia tumefatte e la maglia ridotta a brandelli. No. Era fuori nel bosco, lì da qualche parte, lontano da me ma comunque al sicuro. Se la sarebbe cavata. Sapevo che ne fosse in grado.
Mi aveva promesso che sarebbe tornato, ma non in quelle condizioni. Non faceva parte del patto. Non… Non ero pronta ad una cosa del genere. E non lo sarei dovuta essere, mi ripetei, perché tanto era tutto frutto di un bruttissimo sogno dal quale mi sarei svegliata di lì a breve.
Ma i minuti passavano e nulla cambiava, me ne resi conto dopo davvero troppo tempo, quando le gambe già cominciavano a dolermi per aver mantenuto la stessa posizione troppo a lungo. Non mi ero ancora svegliata. E non mi sarei svegliata. Perché sveglia lo ero già. E stavo vivendo il mio incubo peggiore.
Cercando – quasi inutilmente – di trattenere un forte gemito, mi coprii le labbra con le mani e cercai in tutti i modi di ricacciare indietro le lacrime. Piangere in quel momento non sarebbe servito a nulla. Mi avrebbe solo resa ancor più stanca e stremata, e quella era l’ultima cosa della quale avessi bisogno in quel momento. Al contrario, mi servivano forza e coraggio a volontà. E subito feci di tutto per cercarne dentro di me almeno un pochino. Alla fine, il massimo che riuscii a fare fu muovere dei passi traballanti nella direzione di Murphy. Gli ero più vicina sempre più, e fu solo quando me ne resi conto che qualcosa si accese dentro me in via definitiva. Percorsi i pochi metri che ancora ci separavano quasi correndo, risparmiandomi una caduta penosa solo perché finii a scivolare sul pavimento della navicella nella quale avevano portato John.
L’avevano trovato quella sera stessa fuori dal recinto e la voce s’era sparsa subito: sebbene nessuno si fosse preoccupato di avvisarmi, avevo saputo tutto velocemente e – incredula – avevo dovuto correre a controllare. Quando mi ritrovai col viso ad una spanna da quello di John, quasi sentii un moto di rimpianto accendersi dentro me. Avrei dato qualunque cosa per non dover vivere quella scena.
“Cosa”, pigolai, la voce ridotta ad un singulto, incapace di procedere oltre se non dopo infiniti sforzi. “Cosa ti hanno fatto?”.
Dopo aver posto quella domanda mi sentii infinitamente stupida. Ciò che gli avevano fatto era evidente, dunque perché me n’ero uscita con quella domanda scontata? Perché non ero in grado di dire nient’altro? Sembrò chiederselo anche Murphy, mentre in silenzio mi riservava nient’altro che un’occhiata inespressiva. Non aveva intenzione di rispondermi, e lo capii solo quando dopo diversi minuti – dopo diverse mie domande – mi resi conto del fatto che nulla, assolutamente nulla, fosse cambiato.
“John”, lo chiamai allora, nella voce una nota di dolore e disperazione tanto forte che per un attimo sussultai, imitata da John che si ritrasse velocemente dal mio tocco sul suo braccio. Cercai di non prendermela. “Devi parlarmi”.
Ma a niente servirono le mie preghiere, silenziose e non. Non mi avrebbe detto nulla. Non si sarebbe lasciato toccare, nemmeno da me. E in fondo non potevo dargli torto. Aveva bisogno del suo spazio. E fui pronta a lasciarglielo, almeno finché Bellamy non ci raggiunse a passo spedito, seguito da Clarke e Finn.
“Tutti, tranne Derek e Connor, fuori”, sibilò, raggiungendo me e Murphy nel fondo della stanza. Tutti ubbidirono senza farselo ripetere due volte. Tranne me. Bellamy mi notò solo quando il mio corpo gli impedì di avvicinarsi a John in modo pericoloso. “Fuori”.
Indurii la mascella, sostenendo il suo sguardo scuro e infastidito. Se credeva di impaurirmi così si sbagliava di grosso. Quasi non battei ciglio, incrociando le braccia al petto prima di alzarmi a fronteggiarlo. Non avevo paura.
“Non ci penso proprio”.
“Kane”. Bellamy mosse l’ennesimo passo nella mia direzione.
“Lasciala stare”. Ma Clarke lo fermò prima che fosse troppo tardi, afferrandogli un braccio e riportandolo indietro, più vicino a sé.
“Dice di essere stato coi Terrestri”.
Derek, uno dei ragazzi che insieme ad Octavia aveva trovato Murphy, mise fine a quel momento di imbarazzo e tensione rompendo il silenzio pesante che era calato a farci compagnia. Indicò John col fucile che stringeva tra le mani ed io ritornai ad inginocchiarmi di fronte a lui com’ero stata finché non era arrivato Bellamy, salvo scoprire poi che evitasse il mio sguardo come la peste.
“L’abbiamo visto mentre cercava di intrufolarsi nel campo”. Quella volta fu Connor a parlare.
Ma secondo John non stava dicendo la verità. Tanto che lo vidi e lo sentii muoversi impercettibilmente nel suo angolino, respirando a fatica prima che dicesse: “Non mi stavo intrufolando. Stavo scappando dai Terrestri” sempre senza mai guardarmi, nemmeno per sbaglio.
A quella rivelazione, comunque, Bellamy si sentì in dovere di riprendere parola.
“Qualcuno ha visto dei Terrestri?”.
Sia Connor che Derek scossero la testa in sincrono.
“Be’, allora…”. Non gli lasciai il tempo di completare la sua frase.
Mi voltai a fronteggiarlo più velocemente della luce, rimettendomi in piedi seppur con molti sforzi, di modo che ci fosse il mio corpo nella traiettoria del suo fucile prima ancora di quello di Murphy. Non gli avrei permesso di ucciderlo. Non così e non in quel momento. Né mai.
“Bellamy, fermo!”. Ancora una volta ci fu bisogno dell’intervento di Clarke, spaventata dal vedere che Bellamy non sembrava intenzionato – di nuovo – a tirarsi indietro. Nemmeno se questo avrebbe significato doversi scontrare con me.
“Oh, andiamo”, borbottò Bellamy, togliendomi il fucile di dosso solo di fronte al richiamo di Clarke. Si voltò a guardarla con aria spazientita, mentre io cercavo inutilmente di trattenere un sospiro di sollievo. Per un attimo avevo temuto che mi sparasse. E conoscendolo, non me ne sarei stupita più di tanto. “Avevamo deciso che se fosse tornato l’avremmo ucciso!”.
“Pensaci bene”, prese parola Finn, interrompendolo. “Se davvero è stato coi Terrestri potrebbe sapere cose utili”.
Ma Bellamy si dimostrò ancora una volta irremovibile.
“Non ci servono le sue informazioni. Lo abbiamo impiccato, esiliato… e ora lo uccidiamo”, borbottò, deciso a non farsi indietro. Io e Finn eravamo dello stesso avviso, però, e Bellamy lo scoprì a sue spese. “Levatevi di mezzo”.
“No, Finn ha ragione”, mormorò Clarke, sorpassandoci tutti velocemente prima di inginocchiarsi di fronte a John.
La guardai col cuore in gola mentre lo esaminava, temendo il peggio anche se non avrei voluto.
“Col cazzo che ha ragione, Clarke! Pensa a Charlotte!”.
Quel nome urlato le fece girare di scatto la testa nella direzione di Bellamy, che subito si zittì, come se avesse visto nel suo sguardo azzurro un segnale troppo forte da ignorare.
“Ci sto pensando”, soffiò amareggiata, prima di voltarsi a guardare John. “Ma ciò che le è successo è tanto colpa sua quanto nostra”.
Quell’ultima frase mi fece sobbalzare, enormemente colpita anche se non avrei voluto. Clarke stava – finalmente – ammettendo le sue colpe? Non riuscivo a crederci, tanto che per più di un attimo mi mancò il respiro. Ma la mia mente fu subito distolta da quei pensieri quando la Griffin riprese parola.
“Non sta mentendo. Gli hanno staccato le unghie”, mormorò con aria quasi assorta, mentre un groppo di lacrime mi opprimeva la gola e cercavo invano di trattenerle mordendomi a sangue le labbra. “Lo hanno torturato”.
Mi scappò un gemito e Finn lo sentì distintamente, tanto che bloccò a metà la battuta cattiva che stava riservando a Bellamy. Piena di vergogna, mi coprii le labbra con le mani e poi spazzai via tutte le lacrime sfuggite al mio controllo quasi di ferro.
“Cosa hai detto di noi ai Terrestri?”.
Quella domanda mi distrasse tanto dai miei piagnistei che per poco non mi riscoprii grata a Bellamy per averla posta. Non gli riservai nemmeno mezzo sguardo, comunque, cercando nuovamente la figura di Murphy mentre già smaniavo per una sua risposta. Sapevo che dalle sue parole dipendesse il destino di noi tutti. E sapevo anche che ciò che avrei sentito non mi sarebbe piaciuto affatto; lo capii quando, dopo quelli che mi erano sembrati secoli, gli occhi azzurri di Murphy cercarono nuovamente i miei.
“Tutto…”, lo sentii che sussurrava a fatica, mentre mi pareva che il mondo stesse per crollarmi addosso.
 
Would you mind if I hurt you?
Understand that I need to.
Wish that I had other choices
than to harm the one I love.
 
“Dovresti…”.
Voltai di scatto la testa nella direzione di Murphy, reattivissima di fronte alle prime parole che mi rivolgeva dopo millenni. Da quando aveva rivelato di averci venduti ai Terrestri non avevo più provato a parlargli né a toccarlo, ma gli ero comunque rimasta vicina, incapace di fare altro. Mi sentivo minuto dopo minuto più stanca e impotente; sebbene lo volessi moltissimo non c’era nulla che potessi fare per aiutare John. Nemmeno cominciare a medicare alla bell’e meglio le sue ferite.
Potevo solo starmene accanto a lui a nascondergli i miei brividi di paura all’idea di un ennesimo attacco – un’altra vendetta – da parte dei Terrestri. Ancora una volta mi dicevo coraggiosa ma non lo ero affatto.
“Dovresti andartene”, completò Murphy dopo un po’, con immensi sforzi e il respiro spezzato.
Non appena finì di parlare mi girai completamente nella sua direzione, portandomi le ginocchia al petto nella speranza di sentirmi almeno un po’ più protetta. Da cosa non lo sapevo ancora.
“Non mi muovo da qui”, mormorai comunque, la voce flebile e la testa che all’improvviso mi girava in un modo che proprio non riuscivo a spiegarmi.
Confusa, mi portai una mano tra i capelli, reggendomi la testa che di colpo mi sentivo pesantissima. Presi un paio di grossi respiri mentre cercavo di dissimulare, chiudendo gli occhi alla ricerca di una calma che stavo perdendo mano a mano mentre mi tiravo i capelli ramati dietro le orecchie.
Un improvviso sussulto mi fece sobbalzare e riaprii gli occhi spaventata, ritrovandomi di fronte lo sguardo sorpreso e quasi… spaventato? di Murphy. Cercai di chiedergli cosa stesse succedendo, mentre lo osservavo allungare una mano nella mia direzione e sentivo l’ansia crescermi dentro sempre più.
“Ti ho detto–”, parlò, anticipandomi, ma prima che potesse completare la sua frase e sfiorarmi la guancia come avrebbe voluto, dovette interrompersi e farsi lontano da me.
Finì a sputare così tanto sangue e così all’improvviso che non potei far altro che sobbalzare, facendomi lontana dal suo corpo alla velocità della luce, anche se ero incapace di camminare e semplicemente mi ridussi a scivolare via, gli occhi inumiditi e le guance già bagnate. Quelle che versai erano però lacrime strane, troppo… dense. Istintivamente mi asciugai le guance con le dita e nel riportarle di fronte ai miei occhi mi venne naturale liberare un urlo spaventato.
Avevo le mani insanguinate. C’era sangue sulle mie mani. Oddio. Stavo piangendo sangue? Perché? Incredula – e speranzosa che fosse tutto un sogno, un’illusione, un’allucinazione – spazzai nuovamente via quelle lacrime strane dalle mie guance. Ma il risultato fu lo stesso, e quando mi sentii sul punto di aprirmi in una lunga sequela di singhiozzi mi riscoprii incapace di fare anche quello. Il mio singulto fu infatti bloccato bruscamente da un groppo in gola che mi fece mancare il respiro finché finalmente non riuscii a liberarmene, rabbrividendo disgustata da tutto il sangue che anch’io finii a sputare sul pavimento metallico della navicella.
“Oh mio Dio”, piagnucolai allora, osservandomi ricoperta di sangue senza che nemmeno sapessi cosa diavolo stesse succedendo.
Non sapevo né quello né cosa avrei dovuto fare di preciso allora, tanto che finii a perdermi completamente finché un paio di passi non mi distrassero dai miei infiniti piagnistei. Era Clarke, e lo scoprii quando i miei occhi appannati inquadrarono la figura di una ragazza dai lunghi capelli biondi e l’aria terrorizzata. Aveva occhi azzurri contornati di rosso e mi si fece vicina mentre tratteneva tremiti. Pensai che mi avrebbe parlato – a me che non sapevo cosa dirle – ma capii che non l’avrebbe fatto quando Murphy attirò la sua attenzione, tossendo violentemente e sputando altro sangue. Mentre Clarke lo raggiungeva per inginocchiarglisi al fianco, gli riservai l’ennesima occhiata dispiaciuta. Non c’era nulla che potessi fare per aiutarlo, e come se non bastasse mi sentivo morire anch’io.
“Murphy, guardami! Devi dirmi esattamente come sei scappato dai Terrestri. Cos’è successo?”.
Di fronte a quell’ordine strillato, John cercò con infiniti sforzi di prendere respiro. Poi provò a parlare, deglutendo lentamente e cercando appoggio su una delle pareti della navicella.
“Non lo so”, cominciò, a voce bassissima, gli occhi socchiusi per la troppa stanchezza. “Mi sono svegliato e si erano scordati di chiudere la mia gabbia. Non c’era nessuno, così sono scappato”.
Sentii scendere l’ennesima lacrima e tirai su col naso, preda di un’improvvisa quanto dolorosa consapevolezza.
“Ti hanno lasciato andare”.
Era evidente, ormai. L’unico a non averlo capito era proprio il diretto interessato. Feci per dire qualcosa, ma l’ennesimo rumore di passi mi interruppe. Clarke distolse lo sguardo dal viso di Murphy e si voltò alle sue spalle.
“Bellamy, sta’ indietro!”, strillò, alzando l’indice nella direzione dell’appena arrivato Blake.
Comprendendo che ci fosse lui alle mie spalle, mi voltai a guardarlo. Non mi resi conto però che così facendo avrei potuto scandalizzarlo: lo capii solo dallo sguardo a metà tra l’inorridito e l’incazzato che mise su nel vedermi ricoperta di sangue in viso e sulle mani. Ero all’improvviso irriconoscibile tanto quanto Murphy – forse anche più. E Bellamy non aveva idea di come fosse potuto succedere.
“COSA HAI FATTO?”, urlò, mentre lo vedevo distogliere lo sguardo dalla mia figura per portarlo su Murphy, sul quale scaraventò tutta la sua rabbia – oltre che la mira del fucile.
Avrei voluto fermarlo, ma non ne avevo la forza. Mentre Clarke saltava in piedi per fronteggiarlo al posto mio, tentai di sciorinare una preghiera, ma inutilmente.
“Bellamy!”. Alla fine, mi limitai a strisciare nuovamente in direzione di Murphy. Mi fermai solo quando non riuscii a coprirlo quasi interamente col mio corpo, inginocchiata esattamente di fronte a lui. Se non potevo proteggerlo a parole allora ci avrebbero pensato i miei fatti. Anche se moribonda, non avrei permesso a Bellamy di fargli del male.
E lui lo capì, perché sotto lo sguardo furibondo di Clarke mise da parte il fucile e la guardò a sua volta, sempre arrabbiato ma già più tranquillo.
“Mi spieghi cosa diavolo succede?”.
Prima di rispondergli, Clarke si limitò a prendere un lungo respiro.
“Sapevamo che i Terrestri si sarebbero vendicati dopo l’attacco del ponte. È Murphy la loro arma”.
Un’arma biologica, realizzai, mentre mi voltavo a guardarlo ancora una volta.
 

“Clarke!”.
Al suono di quella voce, distolsi subito gli occhi dal viso di Murphy per seguire la direzione dalla quale era provenuta. Voltandomi alle mie spalle, l’aria ancora smorta e le dita che stringevano forte la pezza che stavo usando per medicare John alla bell’e meglio mentre Clarke e Bellamy lo tartassavano di domande, vidi proprio chi mi ero aspettata di trovare.
“Finn”, sospirò Clarke, mettendosi in piedi con aria abbattuta per raggiungerlo sulla soglia della navicella. “Non dovresti essere qui”.
“Ho sentito che stavi male”.
Deglutii, con aria quasi colpevole. Non sapevo perché mi sentissi così tutt’a un tratto, fatto sta che sotto lo sguardo scuro e preoccupato di Finn quella scomoda sensazione non fece altro che aumentare. Era in pensiero per me – era evidente – e non avrei mai voluto che succedesse una cosa del genere. Non volevo che mi vedesse ridotta in quello stato pietoso.
“Che cos’è questa roba?”, lo sentii domandare, mentre distoglieva lo sguardo da me per ricercare gli occhi stanchi di Clarke.
“Non lo so. Una specie di febbre emorragica. Dobbiamo solo cercare di non farla diffondere, prima che…”.
Ma quella sua spiegazione incerta venne interrotta dall’improvviso attacco di tosse dal quale fu colpito Derek, tanto forte da fargli avere quasi le convulsioni. Col respiro spezzato lo osservai mentre si dimenava sul pavimento della navicella alla ricerca di un respiro che gli sfuggiva, mentre Clarke gli correva accanto nella speranza di poter fare qualcosa per aiutarlo. Una speranza vana, perché Derek si accasciò definitivamente al suolo dopo un ultimo colpo di tosse che gli fece sputare sangue. E capii subito che per lui fosse finita.
Gli occhi sbarrati e il cuore che mi batteva fortissimo dalla paura, le dita lasciarono scivolare la pezza insanguinata mentre tutto il corpo si tendeva il più lontano possibile da Murphy. Ero in preda alla paura più pura: ero malata anch’io di quella strana febbre, l’avevo vista colpirmi senza poter far nulla per impedirlo e mietere di già una vittima. Fino a quel momento non avevo mai pensato però di poterne morire. Non volevo morire.
“È…”. Bellamy interruppe quel silenzio pesante, muovendo un passo incerto nella direzione di Derek, totalmente incapace di porre la domanda che avrebbe voluto fare.
Prima di rispondergli, Clarke sfiorò con le dita il collo di Derek.
È morto”, annunciò infine, la voce spezzata da un forte singhiozzo.
Non potei far altro che seguirla a ruota, il viso bagnato da lacrime che proprio non ero in grado di fermare mentre traballando mi mettevo in piedi e correvo verso chissà dove. Non m’importava più di nulla, volevo solo stare lontana da quello scenario nefasto. Come se allontanarmi da quella navicella maledetta avrebbe sul serio potuto salvarmi dalla morte.
 
 
“Oh mio Dio!”.
A quelle parole pronunciate da Clarke con un tono di voce a metà tra un’esclamazione colorita e un urlo terrorizzato, sobbalzai vistosamente mentre alla bell’e meglio mi ripulivo il viso dalle lacrime che ormai l’avevano reso un completo disastro. Non so nemmeno perché lo feci – nascondere le mie lacrime, intendo – so solo che non volevo che anche lei mi vedesse così, nonostante fosse una cosa piuttosto normale il pensare che mi disperassi, dato che di lì a poco sarei morta.
“Che ci fai qui?”, mi domandò Clarke quando si fu tranquillizzata un po’, facendomisi vicina con aria incerta.
Non avevo idea di come avesse fatto a trovarmi: credevo di essermi nascosta bene in quell’anfratto isolato della navicella, ma evidentemente mi sbagliavo. Volevo stare lontana da tutto e tutti, ecco perché ero scappata a nascondermi. Volevo passare i miei ultimi attimi di vita a disperarmi per conto mio mentre pensavo – per l’ultima volta – alle cose più disparate. Ero patetica.
“Non voglio morire”.
Non so nemmeno perché glielo dissi, così a cuor leggero. Probabilmente era il pensiero della morte imminente a rendermi così impulsiva: oramai, cos’altro avevo da perdere? Parlai dopo aver riservato a Clarke un lungo sguardo pensieroso, dopo aver osservato la sua figura dal profondo dei miei occhi verdi appannati dalle troppe lacrime. Col tempo avevo smesso di perdere sangue o di sputarne a più non posso, ma continuavo a sentirmi ancora malissimo. E non solo psicologicamente.
Anche Clarke lo capì, perché finalmente mise da parte ogni minima reticenza e mi raggiunse una volta per tutte, inginocchiandosi di fronte a me e allungando una mano nella direzione delle mie guance. Spazzò via con entrambe le mani le lacrime che di nuovo le avevano bagnate completamente senza che potessi impedirlo, cercando di infondermi una sicurezza che ormai non possedevo più solo attraverso un lungo sguardo un po’ dispiaciuto.
“Non morirai, Brayden”, mormorò poi, per niente convincente per quanto lo volesse. La sua voce tremolò ancor più della mia, e tanto bastò a farmi capire che per quanto lo volesse, non era sicura di quanto mi stava dicendo.
Sebbene dopo Derek non fosse morto nessun altro dei Cento, non poteva dire con certezza che le cose sarebbero rimaste immutate ancora a lungo. Non poteva dire che non sarei morta. E cercai subito di dirglielo, ma Clarke me lo impedì.
“Non permetterò che tu muoia senza prima aver fatto di tutto per aiutarti”, quasi borbottò, la voce all’improvviso decisa e lo sguardo convinto come non mai. “Ma per farlo mi serve che tu esca da qui, così posso visitarti”.
Non so ancora come né perché, ma alla fine mi feci convincere. La seguii verso chissà dove e quasi sospirai di sollievo nel vedere che dove mi aveva portata non ci fosse traccia di John. Ancora non ero pronta a stargli accanto, anche se non sapevo spiegarmi perché. Non in quel momento.
Il controllo di Clarke servì a ben poco, ovviamente. Dato che non sapeva di che malattia stessimo soffrendo, per lei c’era poco da curare o da rassicurare. Ma provò comunque a farmi stare un po’ meglio e lo apprezzai moltissimo. Era stata la mia forza, in un certo senso, ed era servita anche agli altri. Li aveva rassicurati nonostante tutto, nonostante si sentisse anche lei male quanto noi e forse pure di più.
Ma alla fine anche Clarke dovette piegarsi a quello strano virus letale, lo capii quando Finn entrò di corsa nella parte di navicella dove mi ero spostata da pochissimo. L’osservai mentre se ne stava svenuta tra le sue braccia, completamente abbandonata a se stessa anche se Octavia tentava in tutti i modi di reggerle la testa. A quel punto la navicella era tanto stipata di ragazzi malaticci che per più di un attimo Finn si guardò intorno alla ricerca di un posto per Clarke. Non sapeva dove avrebbe dovuto lasciarla, e a fornirgli la soluzione a quel quesito fu una delle ultime persone dalle quali avrebbe mai immaginato di ricevere aiuto.
“Può prendere il mio posto”, mormorò Murphy infatti, cedendo la sua brandina senza farselo ripetere due volte.
Finn accettò il suo aiuto senza battere ciglio e Octavia lo seguì a ruota; io invece rimasi a dir poco stupita da quel gesto così carino e così inaspettato, che nell’osservare Murphy farmisi molto più vicino di quant’ero pronta a sopportare in quel momento, mi sentii quasi andare a fuoco. Da che lo conoscessi, mai una volta l’avevo visto comportarsi tanto bene con qualcuno che non fossi io, e quella cosa mi colpì così tanto che addirittura il diretto interessato se ne rese conto. Prima che distogliessi lo sguardo dal suo viso con un diavolo per capello e uno sbuffo infastidito trattenuto a malapena, lo vidi riservarmi un sorrisetto compiaciuto dei suoi. Mi venne subito voglia di prenderlo a schiaffi. Sapeva di avermi stupita e ne era soddisfatto, ma come poteva in un momento del genere fare finta di nulla?
“Devono restare idratati”. La flebile protesta di Clarke mi distolse dai miei pensieri, salvandomi dal baratro di rabbia cieca nel quale stavo per cadere senza via di scampo. “Ti prego, Octavia”.
La piccola Blake riservò a Clarke uno sguardo confuso, almeno finché questa non la pregò ancora una volta di prendersi cura dei malati al posto suo. Di fronte agli occhi imploranti della Griffin, Octavia non poté far altro che cedere.
“D’accordo, ci penso io. Tu però riposa”.
“Ti aiuto”.
Come?
Riportai ancora una volta gli occhi sulla figura di John, solo per ritrovarlo che – come se niente fosse – si metteva in piedi, intenzionato come diceva a dare una mano ad Octavia. Okay. Cosa stava succedendo? Quella malattia l’aveva improvvisamente cambiato? Così, a random? Non che la cosa mi dispiacesse – anzi – ma era così… strano.
Continuai a fare pensieri simili per moltissimo tempo, le ginocchia strette al petto nella speranza di essere e sentirmi più sicura e lo sguardo basso sul pavimento della navicella. Uscii fuori da quella mia trance fitta di pensieri solo quando nella mia visuale entrarono un paio di anfibi che conoscevo fin troppo bene. Trattenendo a stento un sobbalzo sorpreso, sollevai gli occhi per ritrovarmi di fronte proprio Murphy.
Lo vidi porgermi un bicchiere colmo d’acqua, che però non avevo intenzione di accettare. Senza dire una parola, mi limitai a scuotere la testa mentre mi stringevo ancor di più le ginocchia al petto.
“Devi restare idratata”, mormorò John dopo un po’, vagamente spazientito da quel mio rifiuto.
Non capiva ancora le mie ragioni, ma avrei provveduto di lì a breve. Cominciando col ricercare nuovamente i suoi occhi chiarissimi.
“Sto morendo, Murphy”, dissi, e quella frase mi venne fuori molto meno duramente di quanto avessi previsto. Ma in fondo, che senso aveva ormai arrabbiarsi? “Non mi serve acqua. Mi serve un miracolo”.
Il senso di vergogna per ciò che avevo detto arrivò solo dopo, quando smisi di parlare e un silenzio pesante e imbarazzato scese ad avvolgerci. Avevo parlato velocemente, senza pensare ancora una volta e senza mettere un filtro alle mie parole. E di nuovo mi ero resa ridicola, tanto che – piena di vergogna – all’improvviso mi ritrovai incapace di sostenere ancora lo sguardo di John e semplicemente mi limitai ad evitarlo, abbassando la testa con aria sconfitta.
Non potevo vedere il viso di Murphy, ma lo vidi comunque mentre lasciava da parte l’acqua e muoveva l’ennesimo passo nella mia direzione. Eravamo vicinissimi, e lo realizzai pienamente solo quando le sue dita raggiunsero il mio mento per sollevarlo e costringermi a reggere ancora il suo sguardo chiaro.
“Non morirai”, mormorò allora, guardandomi fisso negli occhi. “Non a causa mia”.
Per poco non alzai gli occhi al cielo. Come poteva anche solo pensare che credessi fosse colpa sua?
“Non è colpa tua”, quasi piagnucolai difatti, cercando ancora una volta – inutilmente – di sfuggire al suo sguardo. “Morirò a causa dei Terrestri”.
“No!”.
Non era stato Murphy a contraddirmi. Ma… Octavia, realizzai, voltandomi alla mia destra solo per scoprirla lì vicina a noi. Chissà da quanto.
“La malattia non dura a lungo”, spiegò, raggiungendoci definitivamente e inginocchiandomisi al fianco prima di continuare a parlare. “Non permetterò a nessun altro di morire, mi hai sentita?”.
Di fronte a quella sua domanda decisa non potei far altro che boccheggiare, confusa di fronte agli occhi chiarissimi di Octavia che mi stavano fissando fin quasi nel profondo. Alla fine non potei far altro che arrendermi e distogliere lo sguardo dal suo viso, ritornando però a guardare Murphy. Lo vidi sorridermi, e allora qualcosa si smosse dentro me senza che potessi far nulla per impedirlo.
“È vero. Mi sento già meglio”, confermò, sperando di riuscire a tranquillizzarmi. “Starai bene anche tu”.
Anche se non avrei dovuto, gli credetti. E feci per sorridergli a mia volta – già più sollevata – ma la voce di Octavia me lo impedì.
“Purtroppo non siamo ancora salvi. I Terrestri stanno arrivando”, raccontò, infrangendo il sogno che già – solo un attimo prima – mi era sembrato di vivere. “C’è bisogno che li rallentiamo”.
 
 
Dopo un’intera notte passata ad occuparsi dei tanti malati stipati nella navicella che ci aveva portati sulla Terra, Octavia decise di prendersi – solo dopo il mio averla implorata fino allo sfinimento – una strameritata pausa. Era andata via già da un paio d’ore quando le prime luci dell’alba cominciarono a filtrare all’interno della navicella, illuminando lievemente le figure dei Cento che si dividevano tra chi stava già un po’ meglio e chi si era ammalato da pochissimo – come Bellamy.
Dal mio canto, potevo finalmente dirmi guarita, non del tutto ma comunque tanto da sentirmi non più di già con un piede nella fossa. Ero ancora pallidissima e smorta, mi sentivo stanca e infreddolita, ma sapevo che a poco a poco quelle sensazioni orribili mi avrebbero abbandonata come già avevano fatto le perdite di sangue da bocca, naso, occhi e orecchie.
Proprio perché mi sentivo meglio avevo deciso di dare una mano a chiunque ne avesse bisogno, come aveva fatto Octavia fino a poco prima e anche – con mia grande sorpresa – John. Mentre mi facevo vicina a Bellamy, spinta da ancora non so quale impeto preciso, lo osservai di sottecchi, chiedendomi ancora cosa gli fosse successo per cambiarlo tanto. Che il sentirsi vicino alla morte fosse servito da azione scatenante? Non me ne sarei stupita. E nemmeno avevo intenzione di lamentarmi della cosa.
“Ehi”, mormorai all’improvviso, distogliendo la mia attenzione da quei pensieri capaci di distrarmi fin troppo.
Mi feci definitivamente vicina a Bellamy, percorrendo la poca distanza che ancora ci separava a grandi falcate. Si era svegliato da poco da un lungo sonno disturbato, e aveva ancora l’aria di stare parecchio male. Non ne ero sicura però, ecco perché gli chiesi conferma.
“Come stai?”, domandai, inginocchiandomi proprio di fronte a lui.
A quel mio quesito, inizialmente Bellamy rispose con una semplice scrollata di spalle.
“Da schifo”, aggiunse poi, la voce molto più bassa e spezzata del solito.
Non potei far altro che mordermi l’interno guancia, non sapendo di preciso cos’altro avrei dovuto dire. Capivo benissimo come si sentisse in quel momento, ma sapevo bene che lui ne fosse ben consapevole.
“Vedrai che tra poco starai meglio”, dissi dunque dopo un po’, scrollando le spalle mentre cercavo di riservargli un sorriso colmo di nonchalance.
Ovviamente la cosa non mi riuscì bene come avevo sperato. Ero tesa, proprio come sempre quand’ero in compagnia di Bellamy, ma quella volta non potevo evitare di stargli accanto. Con Octavia sparita come Clarke e Murphy che ne sapeva tanto quanto me, Bellamy era l’unico al quale potessi chiedere cosa stesse succedendo. Come ci saremmo preparati all’attacco dei Terrestri? Avevo bisogno di saperlo.
“Allora…”, cominciai quindi, distogliendo lo sguardo dal suo viso pallido, vagamente imbarazzata mentre facevo di tutto per prendere ancora un po’ di tempo. “qual è il piano?”.
Anche se non credevo fosse possibile, Bellamy capì subito a cosa mi riferivo. E non perse tempo a darmi le risposte che cercavo.
“Raven ha costruito una bomba, Finn la piazzerà sul ponte dove Clarke ha incontrato la principessa dei Terrestri e Jasper la farà saltare in aria, cosicché possiamo ritardare il loro arrivo”.
Oh.
Evitai di farmi domande sulla provenienza della bomba e di preoccuparmi troppo di Finn e Jasper. Sapevo potessero farcela, sebbene il compito che era stato assegnato loro fosse tutt’altro che facile. Cercai di mantenere un’espressione neutra e di nascondere la mia preoccupazione a Bellamy mentre annuivo per fargli capire che avessi compreso ciò che mi aveva appena detto, ma nel guardarlo in viso scorsi nella sua espressione qualcosa che avrei preferito non ci fosse. Dubbio.
“Credi che non ce la faranno?”. Aspettai una risposta a quel quesito con la paura che mi attanagliava le viscere.
“Diciamo che non credo ce la faranno”, mormorò alla fine, ma quelle sue parole mi lasciarono così confusa che se ne rese conto anche lui. E subito tentò di spiegarmi cosa intendesse sul serio. “Insomma, c’è la possibilità che falliscano. E dico che non possiamo rischiare di perdere tutti quelli là fuori incapaci di combattere”.
“Quindi che faremo?”.
Bellamy sospirò, distogliendo brevemente lo sguardo dal mio viso pallido e ancora un po’ macchiato di sangue.
“Li facciamo entrare tutti dentro. Se siamo fortunati, i Terrestri crederanno che non siamo qui e decideranno di ritirarsi”.
Convenni tra me e me che non fosse un’idea poi così malvagia. Magari vagamente utopistica, ma potevamo provarci comunque. D’altronde, cos’altro avevamo da perdere?
“Malati è meglio che morti”. Anche se molti potrebbero morire comunque a causa del virus.
Ma preferii non pensarci troppo a lungo.
“Già”, annuì Bellamy.
Non c’era nient’altro da aggiungere, lo compresi subito. Semplicemente lo imitai un’ultima volta prima di mettermi in piedi. Contro ogni aspettativa, prima di andar via gli porsi una mano. Non l’avevo preventivato, e nemmeno Bellamy si aspettava una cosa del genere, tanto che prese a guardarmi come se avesse appena visto un fantasma. Dovetti sforzarmi tantissimo per trattenere una sonora risata.
“Andiamo?”, gli chiesi semplicemente, restando seria come lo richiedeva quella situazione delicata.
Dovevamo portare tutti dentro, no? Bellamy lo capì subito. Accettò la mano che gli porgevo e insieme aiutammo Clarke a mettere in salvo – se così potevamo definire quell’azione – tutti gli altri Cento.
 
 
Nessuno l’avrebbe mai creduto possibile, ma Jasper ce l’ha fatta. Finn ce l’ha fatta. Raven ce l’ha fatta. Ne sono usciti tutti vincenti. Be’, tranne i quattordici ragazzi stroncati dal virus che Murphy ha condotto qui al campo. Ma forse è meglio non pensare a loro. Non c’è nulla che io possa fare per riportarli indietro: nemmeno struggersi di dolore per loro aiuterà. Semplicemente mi farà stare male, e non voglio. Non più.
Jasper ce l’ha fatta grazie all’aiuto di Monty. Li ho visti tornare insieme al campo con l’aria di due che si sentivano i padroni del mondo – e a ragione – e mi sono sentita fiera di loro, oltre che stupidamente invidiosa dell’amicizia che li lega. Adesso comunque è tutto abbastanza tranquillo: siamo salvi dai Terrestri almeno per un altro po’ e chi stava ancora male a causa del virus sta cominciando a riprendersi pian piano, proprio come Raven. Clarke l’ha visitata poco fa e mi ha riferito solo buone notizie. Grazie a Dio.
L’ho vista sorridere a Finn con una nota d’amarezza che avrebbe preferito nascondergli, ho visto lui ricambiarla prima di riportare la sua attenzione ad un’esausta Raven e ancora ho visto Clarke sorridere a Murphy. Lui è stato meraviglioso. Da quando ha preso a sentirsi meglio non si è fermato un attimo e ha fatto di tutto per aiutare chiunque, me compresa. Me per prima. Ancora non so come la cosa dovrebbe farmi sentire esattamente, e sinceramente sono troppo stanca per pensarci. Ho solo bisogno di dormi
Ehi”.
Chiusi l’agenda con uno scatto, senza preoccuparmi della penna che vi rimase incastrata nel mezzo. Oddio, che spavento. Il cuore mi batteva a mille nella cassa toracica mentre cercavo di riprendermi un po’ prima di voltare il capo a destra, direzione dalla quale era provenuta quella voce che conoscevo già fin troppo bene.
“Come stai?”.
Completamente tranquillo – proprio come se non avesse appena rischiato di farmi morire d’infarto – John mi si sedette al fianco, mentre io tentavo in tutti i modi di non chiedermi se avesse sbirciato il mio diario. Preferivo non saperlo, davvero. Il solo pensiero mi faceva arrossire fino alla punta dei capelli.
“Sto bene. Anche se sono stanchissima”, risposi, cercando in tutti i modi di distrarmi.
“Dovresti dormire un po’”.
Annuii.
“Anche tu”.
Cadde il silenzio, e finii semplicemente per posare la testa sulla spalla di Murphy. Ero stanchissima, sì, ma anche tranquilla. Avremmo superato anche quel giorno e lo stavo realizzando a pieno solo in quel momento.
“Siamo sopravvissuti”, mormorai con ancora un pizzico di incredulità nella voce, traducendo quel mio pensiero a voce alta.
Sentii John sorridere, poi annuire e infine lasciarmi un bacio tra i capelli. Istintivamente chiusi gli occhi, rilassata come quasi mai prima d’allora.
“Già”.
La sua voce è l’ultima cosa che ricordo di aver sentito prima di sprofondare in un tranquillo sonno senza sogni. 


 

_______________________________
 

Ringraziamenti
Alle due nuove lettrici 
CarolineF e ange, che hanno speso un po' del loro tempo per recensire la mia storiella senza pretese. E a MysteriousLabyrinth che mi sostiene sempre. 

Note
Lo so che avevo detto che avrei aggiornato il 10, ma ho finito il capitolo molto prima e mi sono chiesta: "Perché farvi aspettare?". Prima finisco questa storia e meglio è, non so se si è capito. Insomma, ho la Maturità di mezzo e le bambine di danza alle quali faccio da babysitter, e la tesina da preparare, i programmi da ripetere, un'altra storia alla quale dare attenzioni... Sono incasinatissima! E ho paura di non poter aggiornare LIALG regolarmente come vorrei. Indi per cui, ogni volta che ci saranno capitoli pronti li posterò. L'undicesimo dovrebbe arrivare il 17 giugno, ma farò di tutto per finirlo e postarlo prima (il 17 è il giorno della prima prova, per chi non lo sapesse, e non vi assicuro che in quel periodo sarò tranquilla e spensierata come lo sono ora - che riesco a conciliare scrittura, ripetizioni e "lavoro" come se niente fosse). Quindi nulla, non vi prometto niente se non capitoli ogni volta che posso (ho ripetuto lo stesso concetto un miliardo di volte, sto impazzendo. Scusatemi).
Poi niente, spero che questo possa piacervi tanto da lasciarmi un commentino-ino-ino e ci vediamo al prossimo. Posso dirvi solo: brace yourselves, the worst is yet to come.

P.S.
Nel prossimo capitolo saprete finalmente perché è stata incarcerata Brayden.

   
 
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