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Autore: Bloody_Schutzengel    03/06/2015    2 recensioni
[Primo capitolo della serie: Sotto mille ciliegi]
Anno ****, mese di Agosto, quindicesimo giorno.
Lo stato di Kintou viene stravolto da un violento colpo di stato da parte di estremisti detti Rivoluzionari, che attuano un macabro e violento regime di ferro nella parte orientale del paese. La parte occidentale, invece, è popolata ancora da creature magiche, sacerdotesse e dalla natura. E' chiamata Terra Pura ed è sotto tiro dal generale salito al potere che vuole emulare violentemente i costumi delle popolazioni d'Oltremare, industrializzate e moderne all'esterno ma sanguinose e ingiuste all'interno.
Yoko è una semplice ragazza di Kintou Shuto, la capitale di Kintou Est, che a causa di vari eventi, si troverà ad entrare nell'esercito della morte della città, pur di sfuggire all'esecuzione pubblica. Tra le file, Yoko dovrà affrontare i suoi compagni, tutti uomini, le battaglie, le campagne militari ma soprattutto il vero e proprio generale, del quale è oggetto di desideri perversi e omicidi allo stesso tempo.
Genere: Drammatico, Fantasy, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yuri
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Non-con, Violenza | Contesto: Contesto generale/vago
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• Capitolo 22 •
Spettro nero
 
 

 
…Credimi: qualcosa è cambiato in quel lupo, e sta ancora cambiando…!
 
Più pensava a quelle parole, più si sentiva trafitto al cuore con mille e mille aghi appuntiti.
Tohma fluttuava via, dalla parte opposta all’entrata del Tempio, verso l’ignoto bosco. In quel punto, gli alti tronchi d’albero nascevano tutti vicini, tanto da poter impedire ad un essere umano in carne ed ossa di passare loro attraverso. Per lui non c’era problema, essendo uno yurei. Il suo corpo fatto di gas biancastro e trasparente si disperdeva ogni volta che un lungo fusto lo attraversava interamente, per poi ritornare a formare l’immagine del ragazzo. In effetti, era solo un’immagine: non aveva carne, né più un cuore né più un cervello. Gli era rimasta solo la propria anima che si era materializzata in quel vapore morbido e dolce.
Le fiammelle che lo accompagnavano sempre le lasciò accese, per far sì di non essere inghiottito dall’oscurità della notte. Da sotto quelle foltissime chiome verdi scuro, la luna non si poteva vedere: neanche lei poteva fargli da punto di riferimento.
Furioso o frustrato? Non poteva dirlo con certezza. Il solo sapere che Yoko aveva esplicitamente detto di aver fiducia in quel mostro del generale gli faceva credere di avere di nuovo un cuore umano, perché sentiva dolore, cosa che di solito i fantasmi non possono sentire fisicamente. Gli mancava quasi il lancinante fastidio che le sue quarantotto cicatrici gli avevano inflitto fino ad allora. Le aveva portate con tanta fierezza che adesso si sentiva nudo, privo di quel suo marchio distintivo da eroe. Ma, in fin dei conti, più che un eroe, si sarebbe potuto considerare un dabbene, un allocco, una persona troppo buona per reagire davanti a coloro in cui aveva riposto più che la sua fiducia. Li aveva amati, forse, dal primo all’ultimo e di certo amava Yoko come una sorellina minore: non poteva permettere che anche lei si schierasse dalla parte di quelli che l’avevano volutamente abbandonato. Certo: si sentiva totalmente abbandonato, incapace di intendere e di volere. Si sentiva malato, stupido, un buono a nulla. Se Yoko non era pazza, allora perché non riusciva a capire il motivo delle sue buone parole nei confronti di quell’assassino? Quanta frustrazione che gli facevano provare quei pensieri… Quanta frustrazione, guardando a terra…
Improvvisamente, mentre avanzava disperdendo la propria anima tra quegli alberi, Tohma ebbe una sensazione inaspettata: una fitta al petto. Com’era possibile se lui non era altro che un’aura di vapore? Cercò di mantenere la calma e di non andare nel panico, cercando di pensare a ben  altro per distrarsi da quel dolore.
A pensarci bene, perché era uno yurei? Di solito sono anime nere di persone morte contro la propria volontà di morte violenta, assassinate o prima del tempo. Lui aveva chiaramente espresso la sua volontà di morire, una volta capito che non ci sarebbe stata altra soluzione. Quindi che rimpianto aveva ancora per dover continuare a essere nel mondo dei vivi? Forse, il fatto di non aver ucciso il generale una volta che ne ebbe l’occasione, comportandosi da vero stupido, pensò. Se solo gli avesse stretto le mani al collo e fermato quel respiro infernale… Forse, allora, non sarebbe stato lì. Però, non c’era più nulla che potesse fare per poter vedere la luce. Se solo avesse potuto vedere il generale morto, sarebbe andato in paradiso, ma essendo fatto di vapore, non aveva le mani umane per strangolarlo come non aveva fatto. Chiedere l’aiuto di Yoko, ormai, era del tutto inutile: l’aveva trasformata in uno dei suoi cagnolini. Cercò di mordersi la lingua che non aveva, cercando di sentire la sensazione piacevole del dolore che ci si autoinfligge quando si è stanchi di qualcosa, quando la rabbia prende il sopravvento… ma nulla: non poteva più farsi del male. Doveva uccidere il generale, prima che la sua presenza avesse ucciso lui.
Tohma ebbe un nuovo sussulto: qualcosa di nero gli era passato affianco, velocemente, quasi in modo impercettibile, come una folata di vento intossicato.
“Ah!” Sentì subito un dolore inaspettato, una fitta alla testa, seguita da un fischio tanto acuto quanto fastidioso. Dei chiodi gli stavano trapassando il cranio, o almeno quella era la sensazione che provava in quel momento. Cosa significava? Lui non poteva sentire dolore. Gemiti di sofferenza si facevano sempre più forti, sparivano, riapparivano più dolorosi dell’ondata precedente. Sforzandosi di riaprire gli occhi, vide davanti a sé, poco lontano, una figura nera e sfocata: era sicuro che fosse la stessa che l’aveva spaventato poco prima. Era faticoso riuscire a distinguere qualcosa su quella sagoma oscura: riuscì solo a capire che era un fantasma, ma al suo contrario, era un vero e proprio yurei… Man mano che si avvicinava, le fitte aumentavano di intensità e Tohma non poteva fare nulla per alleviarle o scacciarle, perché anche se fossero provenute dalla vicinanza di quell’entità, non aveva la forza di farla sparire. I fischi diventavano sempre più irregolari, ora lievi, ora irrimediabilmente acuti, man mano che Tohma riusciva a distinguere altre forme su quel fantasma. Era un’uniforme da soldato, nera, dai bottoni dorati, proprio come quella che era stato solito indossare. Aveva un cappello altrettanto scuro, come il loro e del suo vecchio esercito era anche uguale la serie di stemmi e distintivi della divisa.
Com’era possibile? Un fantasma di un soldato di Kintou Shuto?
Improvvisamente Tohma cedette e, come fosse stato ancora umano, cadde a terra senza fluttuare. Gli venne istintivo di stringersi i capelli tra le mani fino a volerli strappare, mentre gemiti di un dolore ancora più forte di quello della tortura delle cicatrice si facevano sentire a chilometri di distanza. Lì, tra la fitta boscaglia, un piccolo pezzo di terreno senz’alberi fu il letto di sofferenza del ragazzo raggomitolato in presa a convulsioni, grugniti e lacrime quasi umane. Aprendo gli occhi, vide davanti al suo volto lo stivale fantasma del soldato, poi, alzando lo sguardo, ne vide il volto. Per ciò che poteva riconoscere da quella prospettiva, vide degli occhi neri, dalle pupille rosse, un volto bianco, dei capelli corti che sembravano i suoi e a giudicare dalla sua altezza, sembrava proprio una sua copia…
 
“Non puoi capire! Una ruota di una macchina mi ha schiacciato lo stomaco! Mi sono sentita così! Mi sento così! Non mi toccare. Non farmi del male, ti prego!”
[…]
“L’ultima l’ho voluta ricevere per non farti del male. Se avessi rifiutato avrei dovuto insegnarti le buone maniere, come dice il generale. Dice che per noi sei carne fresca su un piatto d’argento, crede che sia giusto che ogni notte dovremmo approfittarci di te. Io non ho voluto. Non lo farò mai. Sei mia amica e non avrei mai potuto schiacciarti lo stomaco, Yoko. Quindi, credimi. Qui sei in infermeria, ti ci ho portato io, nessuno lo sa, sei al sicuro e non sono stato io a ridurti così. Ti prego credimi…”
[…]
“Sì, ma se non sei stato tu allora chi è stato?”
 
Nello stesso momento in cui l’immagine di quella notte, di quella Yoko spaventata che aveva il terrore di lui e che indietreggiava, Tohma  vide, voltandosi, che oltre a quel fantasma, tanti altri uguali stavano avvicinandosi a lui. Tanti, troppi, dieci, dodici, venti. Tante fotocopie nere che sembravano volerlo inghiottire, mentre urlava inutilmente.
“No!” Impossibile rialzarsi: era bloccato a terra, confinato in quella gabbia claustrofobica di alberi. Le sue fiammelle illuminavano i volti di quegli yurei.
Prima che potesse finire di realizzare cosa stesse accadendo, quelle urla vennero soffocate dai fantasmi.
 
 
“Sull’attenti! Alt!” Il comando del generale, imposto a gran voce, era un richiamo a cui i soldato sapevano di dover ubbidire all’istante. Immediatamente si posizionarono in fila, uno di fianco all’altro, uscendo anche dalle tende se necessario: era ora di cena e Yoko non s’era ancora vista.
Un’espressione di sgomento e sconforto apparve sul volto del generale, per poi subito scomparire pur di non dare troppo nell’occhio: ci era abituato a mostrarsi sempre impassibile e asettico, quando non doveva sembrare infuriato e malefico. Con le mani dietro la schiena e i capelli lunghi che svolazzavano davanti al suo copro per via del venticello notturno, guardava i suoi sottoposti disporsi come aveva comandato, per vedere se ci fossero tutti. Sperava che Yoko fosse tra loro, perdendosi con lo sguardo tra le foglie degli alti alberi, illuminate dalle alte lanterne dell’accampamento.
“Cosa state guardando, signor generale?” Heizo apparve improvvisamente dietro le spalle dell’altro, con il solito sguardo senza emozioni, cupo e misterioso.
“La smetti di annusarmi il collo? Che hai?!” Gli ringhiò di tutta risposta il generale, infastidito dall’interruzione del suo momento di riflessione.
“Non dovreste procedere col verificare che tutti i soldati siano qui, generale?” Fece quello, con un tono quasi di sfida che però l’altro non colse.
“Che domanda è questa? E poi si chiama appello, non quello che hai detto tu.” Un ghigno quasi di disgusto comparve sulle sue labbra, congedando il sottoposto per voltarsi verso i propri soldati.  Avanzò verso il primo della fila, per iniziare l’appello. Era un processo noioso, nel quale il generale doveva guardare uno ad uno sottoposti di cui spesso non ricordava neanche il volto. Li ricordava complessivamente, ne ricordava il numero, ma non era capace di farsi venire in mente un volto associato ad un nome. Tohma era sempre stato un eccezione, com’era sempre stata un eccezione chiamarlo per nome e non per cognome. Non si era mai riferito a lui come Shindou, mostrando volutamente una mancanza di rispetto nei suoi confronti. Era sempre stato un debole, un buono, un molle, e per questo, non si meritava il rispetto che invece, almeno un minimo, aveva verso gli altri soldati.
Si sentiva strano, sentiva una presenza oscura, una vibrazione maligna. La sentiva dietro di lui, davanti al proprio corpo, di lato verso i soldati o l’accampamento. Era ovunque. Quel posto era disseminato da quella strana vibrazione negativa… forse che…?
No. Gli youkai non esistono, tantomeno gli yurei e i fantasmi più svariati. Non dovevano esistere, non potevano: non esistevano. Stava divagando. Riaprendo gli occhi di fronte al suo da farsi, il generale notò che era già giunto a metà. Strano: era appena cominciato l’appello… Forse era stato più rapido del solito. Quanti ne aveva contati fino ad allora? Centocinquanta? Era proprio a metà.
Molto strano.
Si mise la mano nella tasca e cercò l’orologio da taschino, dimenticandosi di averlo donato momentaneamente a Yoko, di cui ancora non c’era alcuna traccia. Se non fosse stato proprio il generale, avrebbe iniziato a sudare freddo.
Continuò il controllo, senza lasciare che si dimenticasse di quella sospettosa velocità con cui aveva ispezionato metà del suo esercito. Nel frattempo, Heizo gli stava sempre alle calcagna, quasi azzeccato, col fiato sul suo collo, come per non permettergli di dimenticare che fosse proprio dietro di lui. Ogni tanto gli arrivava una gomitata, un’occhiataccia, un ringhio, ma nessuna di queste infantili manovre lo fecero distanziare di un millimetro. Il generale era sempre più infastidito da quell’atteggiamento misterioso e cupo, come se avesse venduto l’anima al diavolo per qualche ragione. Avrebbe voluto girarsi e spingerlo via con tutte le sue forze, ma la compostezza di un generale non deve essere compromessa, soprattutto davanti ai propri uomini. Quando ebbe finito, gli sembrò che mancassero almeno una ventina di uomini. No, non gli sembrava: venti uomini, Yoko esclusa, mancavano all’appello. Forse non li aveva contati bene? Che ne avesse saltato qualcuno facendosi distrarre da pensieri molli ed inutili? Si guardò indietro, facendo spostare Heizo con un violento strattone, ma tutto ciò che vide, furono gli stessi volti che aveva già contato. Eppure, gliene sembravano di più, quando s’era posizionato vicino il primo della fila. Heizo non sembrava per nulla scomposto.
Cosa diavolo stava succedendo?
Dove sono finiti quei soldati?
Cercò di non mostrarsi infastidito dall’insolita situazione, sapendo che non si trattasse di un evento normale. C’era lo zampino di qualcuno… o qualcosa.
“Ora di cena. Muoversi!” ordinò loro, senza alzare troppo il volume della voce. Non si accorse di dare troppo nell’occhio, agendo in quel modo. Il vice gli si avvicinò velocemente ma anche con fare calmo e vago, il che non fece che irritare ulteriormente il suo superiore.
“Mi è sembrato che mancasse qualcuno, dico bene, signor generale, signore?”
“Cosa…” Non era proprio lui quello che era il più calmo di tutti? Non ci sarebbe cascato. “Se ti riferisci a quella ragazzina, le ho ordinato di andare in ricognizione nella foresta. Ora, sparisci.” Si voltò dall’altro lato, pur di non incrociare lo sguardo del sottoposto, ma una volta riaperti gli occhi per guardare per terra, si ritrovò le pupille nere e cupe di Heizo che fissavano le sue. Ebbe un sussulto.
“Come mai non è ancora tornata, signor generale?” Fece lui, vago, come per prenderlo in giro. L’altro assottigliò gli occhi.
“Non sono affari che ti-“
“E come mai avete permesso che andasse da sola? Non è poco prudente aggirarsi da soli nella foresta?” Lo interruppe.
“Proprio perché è un luogo pericoloso ce l’ho mandata da sola. Sei idiota o non hai capito che voglio che passi il peggio, Heizo?!” Gli ringhiò in tutta risposta, scostandolo via con rabbia.
“Ne siete proprio sicuro?” Quelle parole gli penetrarono il petto, mentre sgranò gli occhi, consapevole, purtroppo, che Heizo, forse, aveva già capito tutto.
Forse i soldati erano andati ad acciuffare la ragazza per ucciderla e disperderne i resti nella foresta? Avrebbe tanto voluto sembrare impassibili, lasciando che tutto accadesse come avrebbe dovuto, lasciandola morire senza far nulla. Ne avrebbe voluto avere il coraggio, ma purtroppo, com’egli stesso aveva detto tempo prima, con Yoko, perdeva il coraggio di uccidere. Ma gliel’avrebbe fatta pagare per averlo fatto preoccupare e per essersi quasi chiamata contro una squadra di soldati assetati del suo sangue.
Aspetta… Cosa stava pensando? Era preoccupato per quella ragazzina? Ma chi gliel’aveva fatto venire in mente? Cosa poteva importargli di quell’inutile sedicenne, diciassettenne, quanti anni aveva…
Mentre continuava a scacciare questi pensieri strani, uno dopo l’altro, man mano che gli si ripresentavano, aprì gli occhi e da lontano riconobbe una sagoma che si dirigeva verso l’accampamento. Digrignò i denti e, non importandosene di dar troppo nell’occhio, vi corse contro.
Le suole degli stivali calpestavano velocemente il secco sottobosco, facendo scricchiolare rametti e foglie secche. L’erba morbida emette il solito rumore sordo di quando la si schiaccia, una volta sotto i passi del generale, i cui capelli volano all’indietro, facendosi trasportare dal vento dovuto alla corse. Il fiato è poco, comincia a respirare pesantemente col naso, per non sembrare un cane, fino a fermarsi di botto davanti alla ragazza. Lei lo guarda con occhi sconvolti, chiedendosi come mai avesse un’aria così agitata, ma ebbe come risposta nient’altro che un sonoro e violento schiaffo che la fece cadere a terra. Non urlò, ma emise semplicemente un gemito, sotto gli occhi furiosi del generale. Dalla sua tasca cadde l’orologio da taschino che le era stato donato, aprendosi e mostrando l’ora sul quadrante lindo dai numeri strani. Con un movimento repentino e di stizza, l’altro si piegò sulle proprie gambe, lo raccolse e tornò in piedi senza perdere l’equilibrio. Nel prelevare il piccolo oggetto da terra, un po’ di polvere era volata sul volto di Yoko, trasportata dalla lunga catenella d’oro. Una volta riuscita ad alzarsi, la ragazza vide davanti a sé, ad un palmo del suo naso, quell’orologio, ma prima che potesse capire perché quello glielo stesse facendo osservare da tanto vicino, all’oggettino si sostituì il volto iracondo del generale. Gli occhi erano assottigliati, le ciglia curve e l’espressione aggrottata, in tutta la sua rabbia.
“Sai che ore sono?! Lo sai?!” Le ringhiò in faccia. Di certo quel comportamento non era a favore della tesi di Yoko che voleva dimostrare “l’innocenza” di quell’individuo.
“Io-“ Prima che potesse rispondere, le arrivò un altro schiaffo, dalla parte opposta, ma stavolta non cadde a terra. “Ma voi avete-“
“Quanto tempo avevi intenzione di andare a zonzo nel bosco? Eh?! Se vuoi suicidarti, almeno avvertimi, incosciente!” Yoko era confusa…
Un momento. Che gliene importava del fatto che sarebbe potuta morire o meno? Questo pensiero fece di colpo aprire gli occhi alla ragazza, che affrontò quella situazione in modo diverso.
“Di cosa avevate paura, signor generale…?” Sussurrò innocentemente. Quello la guardò con la medesima espressione, senza cambiare di una virgola. Appena spalancò la bocca per urlarle ancora qualcosa, una strana sensazione di consapevolezza lo trattenne dall’investila con ulteriori parole affilate come lame. Intanto, Yoko aveva le braccia davanti al visto, pronta ad un altro schiaffo che non arrivò.
“L’appuntamento di stasera alla stessa ora è ancora valido. Ti spiegherò ciò che devi sapere e nulla di più.” Il generale le prese un polso, non importandosene se l’avesse fatta male o meno e la trascinò all’accampamento a passi grandi e veloci.
Yoko sorrise: intanto, non le aveva risposto.
 
 
Riaprì gli occhi con la stessa calma di chi si sveglia sapendo di ritrovarsi a casa sua, nel proprio letto. Nulla era cambiato: il legno della stiva della barca era sempre lo stesso, le scatole delle provviste sempre uguali e ancora nessuna traccia di Tohma. Hatori cominciò a pensare che non sarebbe tornato mai più da lui. Non che gli desse fastidio o gli mettesse troppa malinconia nel cuore, ma a volte aver qualcuno con cui parlare fa davvero miracoli, specialmente quando si è soli su una barca comandata da due uomini che vorrebbero potersi liberare di te al più presto. Perché non era ancora stato ucciso? Se l’era già chiesto, forse… Stava diventando matto. Non aveva quasi più la cognizione del tempo. Si svegliava, si addormentava, pensava a Yoko e Tohma e guardava davanti a sé. Quella situazione durava da ben cinque notti. Poteva capire se fosse giorno o se ci fosse la luna dagli spiragli di luce che entravano o meno dalle piccole fessure sul telone della stiva. Avrebbe potuto perforarlo, uccidere i due conducenti e poi… poi fare cosa? Era legato, innanzitutto, e poi non avrebbe avuto un briciolo di idea sulla rotta che stavano tenendo quei due.
Era snervante sapere che la propria vita dipendeva dal proprio nemico. Se solo avesse potuto trovare qualcosa nelle provviste…  Ormai era talmente esausto ed annoiato da quella situazione statica che non aveva più la forza di mangiare. Non metteva qualcosa sotto i denti da almeno un giorno e non gli era mai venuto in mente fino ad allora di rovistare per qualche coltellino o qualche cosa per tagliare via le corde.
Preso da un improvviso brivido d’adrenalina ed avventura, il ragazzo tentò di muoversi verso le provviste, dal lato opposto della barca. Si spingeva in avanti muovendosi col torace e tirando il proprio peso in avanti con la forza delle gambe e dei piedi. Sembrava uno di quei vermiciattoli che s’insinuano nel morbido terreno delle coltivazioni o che si trovano nei frutti.
Intanto, i due conducenti della barca, non badarono al movimento che avvertivano provenire da sotto il telone bianco, perché non potevano uccidere il loro prigioniero andando contro gli ordini del generale.
Ma la fame era tanta, troppa. Delle semplici casse di cibo erano troppo poche per tutti e tre, decisamente. Pur non essendo abituati a mangiare porzioni enormi di cibo, è pur vero che l’occasione ha sempre fatto l’uomo ladro e di conseguenza assassino. Perché limitarsi a quel poco che potevano ricavare dividendo le provviste per tre, se potevano sbarazzarsi di quel ragazzo delle cui condizioni il generale non aveva modo di avere notizie? Sarebbe bastato strangolare il prigioniero, fare dietro front e ritornare a Kintou Shuto, parlare col generale e riferirgli che il ragazzo stesse bene. Peccato che non ci avessero pensato prima: non erano abituati a pensare, ma ad agire secondo il pensiero degli altri, tanto da non capire che, pur ammazzando quell’ostaggio, si sarebbero complicati la vita, compiendo un’ulteriore viaggio di ritorno senza motivo.
Ma la fame era tanta…
Hatori sapeva per esperienza personale che la Terra Rossa distava cinque notti di navigazione da Kintou, ragion per cui sarebbero arrivati tra non più di un paio d’ore, sebbene in lontananza non si intravedeva alcuna scogliera. Ragionando, quella era la stessa rotta che aveva sempre percorso dalla sua città fino a dove era diretto e sapeva come continuare quel breve tratto di viaggio. Arrivato in prossimità delle casse delle provviste, pensò ad un modo per farsi strada attraverso quei due o tre contenitori di legno. Cercò di infilare in piede tra una scatola e l’altra, per fare leva e scostarle almeno di qualche centimetro. Lo sforzo fu enorme, dovendo contare solo sui muscoli delle gambe e della caviglia, dato che non poteva aiutarsi con le mani. A poco a poco, il legno delle casse strisciò su quello del fondo della barca, creando quel piacevole suono di salvezza che lo fece sorridere: un sorriso convinto, d’incoraggiamento, forte e deciso. Una volta aperto un varco abbastanza grande tra le scatole, decise di infilarvisi con le gambe, per osservare tutto ciò che c’era: dietro quelle casse poteva vedere ben poco, a causa dello spazio poco illuminato. Guardando sopra di lui, allungò una mano sul soffitto, capendo che riusciva ancora a toccare il telone che ora era un po’ più distante, ma non troppo per impedirgli di bucarlo. Portò indietro la mano chiusa a pugno e lasciò che perforasse il telone malandato e scucito. Sfortunatamente, nessun raggio di luce pervenne dalla fessura: avrebbe dovuto capirlo prima… Sopra di lui, dedusse, doveva esserci la cabina del timone, dov’erano i suoi due imminenti carnefici, anche se lui era ancora ignaro che fossero tali. Si arrangiò a cercare alla cieca qualcosa coi piedi, senza ver paura di tagliarsi o ferirsi, sebbene fossero indispensabili per un lungo viaggio. Tastava assi di legno, polvere, granuli di segatura, mentre andando più avanti, ma ancora nulla di affilato si presentò. Cercò per degli altri minuti, fino a giungere alla conclusione che lì non ci fosse nulla di utile. Lo sconforto non riuscì ad abbattere Hatori che trovò subito un altro modo per tagliare le corde. Strisciò all’indietro fino ad arrivare vicino lo spigolo di una cassa chiusa. Coi denti afferrò il coperchio e lo spinse via, mostrando l’appuntito spigolo della scatola. Senza perdere l’equilibrio, si mise in ginocchio, si girò ed alzandosi con le gambe, fece sì che le corde toccassero proprio lo spigolo di legno poco levigato, per poi andare su e giù con le braccia. Sentiva che man mano la stopposa stoffa di ciò che gli legava i polsi sgretolarsi ed erodersi a contatto con il bordo della cassa. Sentiva la stretta meno forte, che si allentava man  mano finché non avvertì che un laccio venne completamente tagliato. Questo diede maggior convinzione ad Hatori, che continuò a liberarsi di quelle corde il più velocemente possibile, finché non si ruppero tutte. Come ogni persona avrebbe fatto, il ragazzo aprì e chiuse le mani davanti a sé per far circolare meglio il sangue dei polsi tenuto bloccato, fece muovere le articolazioni e, stavolta toccando le assi di legno coi polpastrelli, tentò di alzarsi un po’.
Ora gli serviva un’arma.
Purtroppo non aveva trovato nulla per terra, quindi decise di rovistare tra le provviste approfittandosene anche per mangiare qualcosa, essendo stato a stomaco vuoto per un bel po’. Afferrò della carne essiccata e la portò alla bocca divorandola nel modo meno educato possibile, mentre con la mano libera rovistava ancora e ancora nella speranza di trovare almeno un coltellino. Toccando ancora e ancora, tastando sempre di più, la sua mano venne a contatto con qualcosa di umido e freddo. Sembrava ferro, ma non riusciva a vedere. Ferro bagnato di qualcosa di freddo e viscoso. Scoprì essere una katana corta, come un pugnale, una volta tirata fuori dalla cassa, ma scoprì anche che era sporca di sangue rappreso e secco. Il bagnato derivava dal ghiaccio e dai liquidi del grasso che colavano dagli alimenti non conservati bene.
Perché un pugnale insanguinato avrebbe dovuto trovarsi lì?
Era lungo poco più che due volte la sua mano aperta, sottile, di metallo chiaro quasi bianco e dall’impugnatura nera e rossa. Un’arma elegante per un omicidio importante, pensò. Non si fece distrarre più di tanto dalla stupenda scoperta, ingurgitando altra carne secca. Immediatamente si diresse dove aveva parlato con Tohma tempo prima e, prendendo un lungo respiro di preparazione, squarciò col pugnale il telone della barca.
I soldati capirono subito che Hatori era evaso, sentendo il rumore della stoffa cerata che si squarciava. Si voltarono entrambi, ma solo uno scese i due gradini di legno della cabina del timone per affrontare il ragazzo. Questo non venne colto alla sprovvista: subito, con un movimento rapido e ben pensato, lo prese ai fianchi saldamente mentre stava per sfoderare la katana e lo buttò in acqua, per impedirgli di completare il movimento. Venne ferito leggermente al braccio dalla lama della spada, ma la ferita non fu a tal punto grave da impedirgli di avanzare. Balzò sulla piattaforma di legno prima della cabina, notando il soldato in difficoltà al timone. Per fortuna il mare era calmo, così da permettere ad Hatori di uccidere il conducente. Il piccolo pugnale roteò leggermente nella mano del ragazzo che poi, impugnandolo forte, trafisse al cuore il soldato che non ebbe il tempo di difendersi. Per sicurezza, Hatori lo pugnalò altre due volte, al collo e al fegato: i punti da cui sarebbe sgorgato più sangue. Il tempo di voltarsi e l’altro soldato stava già avvicinandosi a lui, bagnato fradicio. Il ragazzo sperò che scivolasse sulla cerca, ma ciò stranamente non accadde e dovette affrontare una katana solo con un pugnale. Senza perdersi d’animo, si gettò sul nemico, evitando il primo fendente abbassandosi, ma il suo peso fece cedere il vecchio telone, facendo sprofondare Hatori nella stiva, assieme al soldato. Quest’ultimo si sistemò il cappello e si pulì col dorso della mano del sangue derivato dal taglio che s’era fatto con la katana, cadendo. La barca s’era mossa parecchio, sbandando a destra e sinistra tanto da far ricadere a terra sia l’uno che l’altro. Prima che il suo nemico potesse rialzarsi, Hatori gattonò fino a lui e con un movimento repentino gli tagliò i polpacci, non permettendogli più di alzarsi. Mentre l’urlo di dolore del soldato non fece tardi ad arrivare, le sue braccia volarono dietro la sua testa, stringendo tra le mani la katana sopra il capo di Tori. Il ragazzo attese che la spada cominciò a venir giù, perché farla tornare indietro sarebbe costata una grande fatica al soldato, quindi rotolò verso destra, lasciando che l’arma colpisse proprio il suo stinco, peggiorando la sua situazione. Un altro grido di rabbia misto a sofferenza solcò le acque di quel mare calmo, mentre Hatori non si fece pregare due volte prima di piantare il pugnale nel collo del nemico, poi al suo fegato, poi al suo cuore, facendo tingere tutta la barca di cremisi, elegante cremisi simbolo di buon auspicio della Terra Rossa. Dopo aver rimosso la piccola katana dal corpo del soldato, gli sequestrò l’arma, le mise entrambe da parte e, prendendo in braccio l’uomo ormai quasi morto, lo buttò in mare, in modo che nessuno l’avesse più trovato. Lo stesso fece con l’altro, prendendo anche la sua spada, dopodiché si mise al timone e lasciò che le poche onde lo conducessero alla grande scogliera che già vedeva in lontananza, mezza coperta dalla nebbia ed imponente: quella Terra gli era proprio mancata.
Improvvisamente, alzando gli occhi al cielo per guardare in che condizioni fosse, un foglio di giornale interruppe quella visione bianca e monotona di quel malinconico paesaggio, atterrando sulla barca di Hatori. Il poco vento era abbastanza forte da farlo muovere ancora e farlo cadere in acqua, ma il ragazzo subito lasciò il timone per tentare di salvarlo. Aveva sempre avuto un debole per giornali, libri e qualunque cosa potesse contribuire ad informarlo, a fargli leggere qualcosa di nuovo o vecchio. O prese tra le mani e vide che era in buono stato: sorrise dolcemente davanti a quel pezzo di carta stampata che nemmeno Yoko avrebbe capito come potesse fare per renderlo tanto felice. Si pulì gli occhi con la mano, dopo essersela sciacquata nell’acqua di mare e lesse. Improvvisamente la sua espressione passò dalla più beata alla più inquieta ed allarmata: quel giornale, non portava una buona novella. Era il giornale di Kintou Shuto, giunto fino alle coste della Terra Rossa e, stavolta, non raccontava di una semplice condanna alla ghigliottina qualunque.
 
Mistero e sangue a Kintou Shuto: nel palazzo del governo, cadaveri e sangue.
 
Continuò a leggere il sottotitolo.
 
Nei meandri della dimora del temuto generale, una montagna di cadaveri squarciati e dilaniati di soldati. Il vice generale Liang Tian: “Solo un demone può averlo fatto.”
 

 


 
• Note dell’autrice 
 
 
Eccomi con il nuovo capitolo! La storia procede a gonfie vele! Sono fiera di me stessa, devo dire, anche se il capitolo mi ha lasciato un po’ troppo a bocca asciutta per quanto riguarda il generale all’accampamento… Rimedierò col prossimo! Non mi stancherò mai di ripetermi dicendovi “grazie” per seguire la mia storia! A proposito, ho aggiunto nell’introduzione la nota:
[Fa parte della serie: Sotto mille ciliegi] come spero avrete notato.
In effetti, la storia è già programmata per un bel pezzo e penso di dividerla in più di un capitolo. Spero non vi dispiaccia e che continuerete a leggere “ Sotto mille ciliegi”! Al prossimo capitolo!
 
-Bloody Schutzengel
 
 
   
 
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