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Autore: chicca2501    06/06/2015    4 recensioni
Paring: Leonetta, Diecesca, Naxi e Fedemilla.
Dal testo: "Era una brutta giornata, brutta ma adatta a quello che stava per accadere. Le nuvole grigie nascondevano il cielo e il sole, mentre le tenebre stavano cominciando a invadere la pianura ghiacciata.
Tra gli spuntoni di roccia calcarea e di detriti inumiditi dal ghiaccio, la folla si stava accalcando verso un piccolo palchetto di legno fatto alla bell’e meglio che si reggeva a stento.
Sopra quella piattaforma c’era una ragazza slanciata, dal fisico magro e dai capelli lunghi e rossi e con gli occhi castani, i quali scrutavano tutte quelle persone ammassate lì solo per vedere lei, la grande Camilla Torres. "
Un'isola perduta in un mondo caratterizzato da guerre e carestie.
Un popolo magico in attesa di essere liberato.
Un capo dei ribelli pronto a tutto.
Quattro ragazzi diversi, ma uniti da un grande potere.
Amori che superano ogni confine del tempo e dello spazio.
I quattro elementi faranno tremare il suolo.
Acqua, fuoco, terra e aria si dovran temere!
C'è una terra da salvare,
Una battaglia da affrontare.
And I'LL WIN!
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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~~14

Tradimento

Correva. Non sapeva dove, ma correva. I piedi si muovevano con una velocità innata, le gambe lo sorreggevano, animate dalla paura. Continuava a scappare verso una meta indefinita, sconosciuta. L’importante era scappare da Lei. Un sole bruciante guardava impassibile la sua corsa verso la salvezza. Il sudore scendeva copiosamente lungo la fronte, fino a sfiorare la bocca, piccole gocce d’acqua che somigliavano a lacrime, e forse lo erano, poiché gli occhi gli pizzicavano fastidiosamente; purtroppo, quello non era il suo problema maggiore.
Raggiunse una duna di sabbia fine e biancastra e, per la prima volta da quando aveva iniziato quell’improponibile maratona della morte, si accorse che, di quella sabbia, era ricoperto tutto il territorio circostante. Quest’ultimo era privo di vegetazione, il suolo arso dal sole che non sembrava tramontare mai.
Si sedette pesantemente, provocandosi un leggere dolore al fondoschiena quando venne a contatto con quella superficie bollente. Trasalì, ma si costrinse a sdraiare e a riposare. Si tolse il leggero mantello color del sangue e lo stese a terra, per poi piombarci sopra. Cercò di chiudere gli occhi, ma era tutto inutile: nonostante le sue gambe urlassero di dolore e il suo corpo reclamasse riposo, la sua mente era lucida e attiva.
Pensò a tutta la strada che aveva fatto per arrivare fin lì e a quanta gliene rimaneva; sospirò, affranto: si era scelto lui quella vita da fuggitivo, non gli altri, e lui stesso ne doveva pagare il prezzo.
Si mise a sedere, contraddicendo a tutte le imposizioni delle sue membra e alzò lo sguardo a quel cielo immenso, di un azzurro abbagliante, neanche una nuvola osava solcarlo.
Ma, all’improvviso, qualcosa cambiò: un’ombra nera iniziò a protrarsi sopra di lui, oscurando il cielo e i suoi colori abbacinanti. Lo aveva trovato. Provò a scappare, ma era tutto inutile, lo aveva raggiunto. Urlò mentre l’ombra lo ghermiva.

Si svegliò di soprassalto, il sudore che gli ricopriva la fronte e le tempie e uno strano rumore gli ronzava nelle orecchie. Si accorse solo pochi istanti dopo che quel ronzio così irritante proveniva dalla sua sacca buttata in un angolo della tenda, un borsone blu scuro risalente ai tempi della sua vita precedente, quella sulla Terra.
Si alzò con uno scatto e si diresse verso la borsa, aprendola. Dentro c’erano i residui di quello che sarebbe diventato se non l’avessero fatto tornare: libri di scuola pasticciati di disegni, aeroplani di carta, cartacce di gomme da masticare e bigliettini scritti ovunque, c’era pure lo striscione per le partite di pallacanestro della scuola tutto scolorito.
Iniziò a rovistare in mezzo a quel ciarpame, fino a quando non arrivò sul fondo della borsa. Lì, ancora funzionante per miracolo, c’era il suo cellulare e squillava, o meglio, vibrava. La foto della chiamata mostrava una fiamma nera. Sbuffò, cosa volevano adesso, e con riluttanza afferrò l’aggeggio e aprì la chiamata.
- Finalmente hai risposto. - disse una voce cupa e profonda.
- Cosa vuoi? – domandò il ragazzo, la voce annoiata impastata dal sonno.
- Oh, poverino, ho interrotto il tuo dolce sonno? – lo schernì la voce.
- Cosa vuoi? – ripeté l’altro, stanco di quelle battutine. Di solito arrivava al punto velocemente.
- Bene, d’accordo. È ora. – quelle parole furono in grado di risvegliarlo completamente dal suo torpore. Sobbalzò, il suo cuore perse un battito.
- Di già? – chiese, deglutendo rumorosamente.
Sentì il suo interlocutore ridacchiare dall’altra parte del telefono, una risata fredda e ironica che gli fece venire i brividi.
- Mi sto immaginando la tua faccia in questo istante. Questi aggeggi sono comodi ma possono solo far sentire la voce, purtroppo. Cosa c’è, hai paura? – rispose l’uomo.
Quanto avrebbe voluto urlargli che si, aveva paura, aveva una maledettissima paura che lo bloccava e lo stava trascinando in un baratro di orrore senza fine.
Avrebbe voluto sputargli in faccia quanto quei mesi lo avevano cambiato profondamente, trasformandolo in una persona molto migliore di quanto non fosse mai stato, quanti sentimenti contrastanti aveva provato in quelle settimane, quanto dolore e quanta pena aveva dovuto sopportare.
Si immaginò tutta la scena e dentro di sé gongolò di soddisfazione, una soddisfazione che non avrebbe mai provato, perché sapeva cosa c’era in gioco, cosa poteva perdere.
- Oh, ci sei ancora? – la voce lugubre del suo capo lo riportò alla realtà, un mondo dove lui era solo un misero servo.
- Si, si ci sono. Sono ancora un po’ addormentato. – sperò che l’altro non avesse percepito la tensione nel suo tono. – Comunque, no, ovvio che non ho paura. –
- Lo spero. Ricordati che c’è la vita di tuo padre in gioco. Se fallisci, lui muore. Ricordati solo questo. – dette queste ultime tre parole, chiuse la telefonata.
Il ragazzo sentì una lacrima scendergli lungo il viso.

Camilla era ancora seduta a rimuginare sulla sua branda quando il sole fece capolino all’improvviso. Sospirò, prendendosi il viso tra le mani, cercando ancora una volta di trattenere le lacrime di rimpianto che minacciavano di sopraffarla.

*Flashback*
Il dolore la accecava, la stringeva in una morsa ferrea e decisa. Sembrava che la morte stesse per sopraggiungere. Le voci che la chiamavano le sembravano così distanti, irraggiungibili, inafferrabili le parole che le lanciavano.
Doveva solo spingere, respirare profondamente e tutto sarebbe andato a meraviglia, quella tortura avrebbe avuto un senso alla fine.
Dopo un tempo indefinito, un piantò le riempì le orecchie, il suono più puro e più benefico che avesse mai ascoltato. Sorrise fra le lacrime, quello era il miracolo della vita, il suo miracolo.
Le lacrime si intensificarono quando le misero il bambino tra le braccia, una creatura minuscola che la guardava con adorazione, i grandi occhi spalancati a vedere quella che era la sua mamma. Emise un piccolo vagito, scatenando l’ilarità della giovane. Camilla rideva e piangeva insieme, in un miscuglio di emozioni che non avevano niente a che vedere con il dolore che aveva provato poco prima. Quello che sentiva era un minestrone di felicità, sconcertamento, ma soprattutto amore. Continuò a guardare con dolcezza il bambino oscurandone la vista agli altri con la sua chioma rossa. Uno strano lampo passò negli occhi del neonato, così velocemente che la ragazza pensò di averlo sognato, che fosse solo una conseguenza dell’incredulità che era nata in lei a causa dell’avvenimento.
Si sarebbe accorta solo molto tempo dopo che non era così.

*Fine Flashback*

Camilla scosse la testa, non doveva lasciarsi trasportare da quei ricordi, soprattutto se le ricordavano quel periodo. Ora aveva una missione da compiere, molto più importante della sua felicità, era a rischio la vita di Atlantide e dei suoi abitanti, doveva pensare alla salvezza della sua gente e a nient’altro. Continuò a ripeterselo mentre si spogliava e si infilava nuovi abiti, pronta per una nuova giornata di cammino e di pericoli. Ormai, però, ci aveva fatto l’abitudine, era da tanti anni che lavorava come capo dei ribelli.
Alzò di poco il lembo della tenda e vide che il sole non si era ancora alzato del tutto, aveva ancora circa un’ora prima che tutti si svegliassero.
Aprì la grossa cassaforte e cercò qualcosa su cui potesse disegnare, o, almeno, scarabocchiare qualcosa, aveva bisogno di attività. Trovò un blocco da disegno utilizzato solo in parte e, dopo aver riguardato tutte le opere che erano racchiuse lì dentro, si mise al lavoro.
La matita scorreva veloce sul foglio, mentre i suoi pensieri e le sue emozioni prendevano forma. Quando ebbe finito, contemplò il disegno: aveva rappresentato un demone.

La mattina arrivò improvvisa e, soprattutto, indesiderata. Maxi si alzò, la bocca impastata e i capelli scompigliati, sbadigliando rumorosamente.
Si girò su un fianco della branda, e sorrise quando trovò Nata vicino a lui, ancora nel mondo dei sogni. La ragazza respirava piano, come se potesse essere sgridata anche solo per quello, la schiena nuda che si alzava e si abbassava al ritmo delle sue inspirazioni.
Si avvicinò ancora di più e le accarezzò i folti capelli scuri, giocando con i suoi folti ricci, ricordando nel mentre la notte appena passata.
Dopo aver discusso con Camilla si era precipitato subito da lei, in cerca di conforto e si era gettato sulle sue labbra senza pensarci, corrisposto subito dalla ragazza. Erano rimasti avvinghiati finché non era giunto quello scocciatore di Diego, che, a quanto pare, era in vena di fare battutine, cosa che aveva fatto arrabbiare incredibilmente Maxi, che stava per mettergli le mani addosso.
Solo quando Nata gli aveva chiesto di andarsene si era congedato, ma era tornato poco dopo, trovandola intenta a chiacchierare con Diego. Quest’ultimo sembrava sull’orlo di una crisi di pianto, gli occhi erano rossi e lucidi, le mani tremavano.
Vedendo le condizioni del suo amico, aveva aspettato che uscisse con l’intento di chiedergli una spiegazione appena uscito, ma, quando lui aveva varcato la soglia della tenda con sguardo affranto e sofferente, si era trattenuto, gli era mancato il coraggio.
Poi era entrato, aveva trovato Nata e, beh, era successo. Inaspettatamente, da un bacio dolce e appena accennato erano passati a una passione bruciante che divorava i loro corpi e, senza nemmeno accorgersene si erano ritrovati avvinghiati sulla branda ad amarsi.
Il sorriso del ragazzo si aprì ancora di più e lo spinse ad affondare anche la faccia tra la chioma della fidanzata, sussurrandole dolcemente: - Ti amo. –
Mentre diceva quelle dolci parole non si era accorto di qualcuno che, silenziosamente, si avvicinava al lui, in mano una spada sguainata.
L’arma calò con un colpo netto sul ragazzo, che precipitò in un’oscurità infinita.

Ludmilla si infilò il pugnale nella cintura, cauta. Forse era solo la sua immaginazione, frutto del suo inconscio ancora scombussolato dal recente incontro con gli spiriti. La visione che aveva avuto l’aveva sconvolta: come poteva aver visto suo padre? Lei lo odiava, e la sua morte era stata solo un sollievo, come se un macigno che le gravasse sul petto da molti anni fosse finalmente stato spostato. Sapeva di essere crudele e non le importava, quell’uomo la meritava completamente.
Solo un’ombra scura e veloce riuscì a distoglierla dai suoi pensieri; furtivamente, fece alcuni passi all’indietro, guardandosi intorno.
All’improvviso, sentì una mano forte e salda che le teneva la spalla in una morse di ferro. Con un’incredibile prontezza di riflessi, si voltò, il pugnale alla mano.
Davanti a lei si stagliava una figura alta e incappucciata, così che era impossibile vederne il volto, ed era altrettanto difficile dedurne il sesso poiché un lungo mantello allacciato sul petto da una spilla verde smeraldo ne copriva le forme.
Cercò di riportare alla mente tutte le nozioni sul combattimento corpo a corpo che le aveva impartito Camilla in persona, e affondò.
Il colpo venne parato con facilità, e lei fu costretta a indietreggiare; posizionò la gamba destra poco più avanti di quella sinistra e piegò il braccio, mettendosi in posizione difensiva. Sperò che la finta avesse funzionato quando si getto sull’avversario, al quale bastò spostarsi di lato e muovere leggermente il grosso spadone che aveva in mano per schivarla.
La bionda perse l’equilibrio e cadde a terra. Si alzò subito dopo con un balzo, il corpo sporco di terra, ma per il resto illesa.
Soffiò contro l’avversario come un gatto, sentendo una forte energia scorrere forte dentro di lei. Il sangue prese fuoco e il fuoco di cui era padrona la avvolse. Sorrise, colui che aveva pensato di poterla fare franca non aveva capito che si stava solo riscaldando. Era pericoloso usare i poteri all’inizio, ma bastava qualche colpo per far incanalare tutta la forza magica che aveva. Distese le braccia in avanti, e dalle sue mani partì una palla di fuoco, la quale raggiunse velocemente l’avversario. Ma, con grande sorpresa di Ludmilla, lo sconosciuto respinse l’incantesimo con uno scudo protettivo che lo circondò appena lui alzò una mano.
- Chi sei? – urlò a quel punto la ragazza, impaurita. L’altro rimase in silenzio, fissandola, il corpo in posizione di difesa.
- Cosa c’è, hai paura di mostrarmi il tuo volto? – ricevette in risposta un risolino divertito, acuto, che le fece sospettare che si trattasse di una donna.
All’improvviso, da sopra la spalla dell’avversaria scorse qualcuno che si avvicinava e le faceva un segno: era Federico. Trattenne a stento un sospiro di sollievo, ma capì dal cenno che il ragazzo le aveva fatto che doveva distrarre la combattente di fronte a lei. Non sarebbe stato facile, anzi, tutt’altro. Sbuffò lievemente e strinse la mano sull’elsa del coltello.
- Bene, a quanto pare mi trovi divertente, eh? Io, al contrario, trovo buffo che una persona così astuta e così capace con la spada non dovrebbe terrorizzarsi all’idea di far vedere il suo volto ad una ragazzina. – era sempre stata brava con i discorsi, la sua lingua lunga le aveva portato guai, certo, ma anche soddisfazioni, e voleva che quell’episodio rientrasse in quest’ultimo gruppo. Continuò a parlare, chiacchierare per altri due minuti, mentre si chiedeva dove diavolo fosse finito Federico. Notò che l’altra più lei parlava, più si chiudeva in un ostinato silenzio, anche se la bionda riusciva a intravedere il sorrisetto sarcastico che la insultava più di quanto facesse lei con le parole.
Finalmente vide l’alto ciuffo del ragazzo spuntare dietro la sconosciuta, in mano un bastone di legno. Ludmilla trattenne un’imprecazione, cosa diavolo aveva in mente? Perché non aveva recuperato una spada? Intese i piani dell’amico solo quando lui li mise in atto: alzò l’arma e colpì la nuca. La colpita si accasciò senza un lamento, e mostrò finalmente il suo corpo: era una donna bionda di circa quarant’anni, alta e di corporatura abbastanza robusta, vestita con abiti semplici ma raffinati; alla cintura porta un sacchetto di pelle che rifulgeva di una forte luce vermiglia.
A Ludmilla venne un colpo quando abbassò il cappuccio e ne scoprì il volto. Riuscì a mormorare solo una parola: - Madre. –

Violetta smise di camminare appena spuntò il sole; i piedi le dolevano e le palpebre erano pesanti, ma non le importava. Ormai poco aveva importanza dopo quelle parole brucianti che le aveva rivolto Leon. Quando le aveva pronunciate aveva pensato che fosse uno scherzo ma la sincerità disarmante presente negli occhi smeraldo del ragazzo le avevano tolto dalla mente quell’insulso pensiero.
Quella rivelazione la stava facendo soffrire: come aveva potuto farle questo? Era solo un codardo, un bastardo che scappava via dai suoi sentimenti e si nascondeva dietro ad una sporca scusa che sapeva tanto di menzogna.
Aveva trattenuto le lacrime e la delusione, lei non era una ragazza frignona, no, per niente; lei era una combattente, una dei Quattro e non poteva farsi abbattere da uno stupido ragazzo, anche se le faceva battere il cuore all’impazzata con un solo sguardo e la faceva sciogliere con uno di quei suoi stupendi sorrisi.
Quando era uscita, non si era resa conto di dove stava andando, erano le gambe a guidare, la mente era altrove. Solo quando il rosa e l’oro dell’aurora iniziarono a farsi strada nel cielo si rese conto di dove era: davanti alla tenda di Francesca.
Sorrise flebilmente davanti a quella coincidenza, aveva stretto una grande amicizia con l’italiana, e non le sembrava così strano che avesse finito per andare da lei.
Si avvicinò all’uscio e scostò lievemente il tessuto spesso, sbirciando dentro. La mora era di spalle, intenta a rovistare in una grossa borsa di pelle.
- È permesso? – chiese, facendo voltare di scatto la Cauviglia, che sospirò di sollievo appena la vide. Violetta notò la tristezza del suo volto, e probabilmente Francesca notò la sua, poiché si mise a scrutarla con preoccupazione.
- Che cos’hai? – domandarono entrambe, sorprendentemente all’unisono, ridendo sommessamente subito dopo.
- Problemi di cuore. – rispose la biondina, sbuffando. – E credo che per te sia lo stesso. – l’altra annuì, arrossendo leggermente.
Entrambe si sedettero, e iniziarono a chiacchierare. Le complicazioni sembrarono svanire in quei minuti, dove c’erano solo loro, due amiche che si confidavano.
Ma, mentre per Violetta non era poi così strano avere una persona a te amica con cui parlare, per Francesca era una cosa del tutto nuova: lei non aveva mai avuto amiche fino a quel momento, suo fratello era l’unica persona che c’era sempre stato, e con lui non si era mai potuta aprire completamente.
Scoprì, invece, di avere un’affinità particolare con l’argentina, una ragazza completamente diversa da lei, ma con cui si sentiva libera di dire tutte le preoccupazioni, i pensieri, i sentimenti, senza alcun timore.
- Quindi ti piace Diego. – constatò Violetta all’improvviso.
- Beh… un po’. – confermò l’altra, arrossendo violentemente.
- Un po’? – la biondina alzò un sopracciglio.
- Ok. Mi piace da impazzire. – Francesca si stupì delle sue stesse parole: mai aveva ammesso quello che provava per Diego a voce alta, anche se lo aveva sempre saputo.
- Ti avverto: è un bastardo. – si raccomandò Violetta.
Francesca ridacchiò tristemente: - Si, questo lo avevo capito. Tu lo conosci bene: perché si comporta così? – chiese all’improvviso.
La Castillo fu contenta di quella domanda, tantissime ragazze gliel’avevano fatta, in cerca di un modo per conquistare il cuore di quel ragazzo tenebroso; era sempre stata fiera di essere la migliore amica di uno dei più popolari della scuola, e, soprattutto, di essere l’unica che non gli sbavava dietro.
- Beh, se devo essere sincera… - non riuscì a terminare la frase. Entrambe videro dei soldati equipaggiati alla perfezione irrompere nella tenda. Non riuscirono nemmeno a combattere: due di loro le bloccarono e, con un movimento fulmineo, misero loro un sacco in testa e legarono loro le mani. Infine le portarono fuori, mentre le ragazze si dibattevano furiosamente nel vano tentativo di liberarsi.

Ammirò la sua opera con un misto di tristezza e orrore. Come poteva essere stata abbindolata in quel modo così barbaro? Si era innamorata, ecco cos’era successo; l’amore era stata la causa della sua rovina e della sua disperazione. Emise un gemito, cercando di combattere quei ricordi così dolorosi, provando a relegarli in un lontano cassetto della mente, come aveva fatto per quattro anni. Ma, adesso che aveva incontrato i suoi fantasmi, non poteva non riflettere sulla sua situazione disastrosa.
Due mani sui suoi occhi la distrassero. – Chi sono? – chiese una voce maschile. Camilla sbuffò e gli tirò una gomitata, facendogli scappare un gemito, che le fece scappare un sorriso, che Leon ricambiò prontamente.
- Ehi. – lo salutò.
- Ciao. – la sua voce sembrava strana, distante.
- Perché sei qui? – gli chiese.
- Semplicemente per vedere come stavi. Mi sei sembrata scossa ieri. – la rossa abbassò la testa, ripensando a quello che gli aveva detto il giorno prima.
- Scusa per aver urlato in quel modo ieri a te e a Maxi. Ero solo, come hai detto tu, scossa. – notò che il ragazzo, dopo che disse quelle parole, assunse un’espressione spaesata, quasi non sapesse di cosa stava parlando. Ma durò un attimo, poiché subito dopo la abbracciò, sussurrandole: - Non importa, tutto passato. –
Camilla affondò il volto nell’incavo del collo di lui, inspirando il suo profumo di cannella e… un attimo, ma Leon non profumava di cannella, lui aveva un odore più fresco e selvatico, vista la sua natura.
Scostò violentemente il corpo che ingombrava su di lei, ricevendosi in cambio un’occhiata sorpresa e preoccupata al tempo stesso.
La ragazza scattò in piedi, sibilando: - Tu non sei Leon. –
- Ma come? – ribatté l’altro – Non mi riconosci? Io sono Leon, il tuo migliore amico, il mezzo satiro. - disse queste ultime due parole con un tale disprezzo che il capo dei ribelli capì immediatamente chi era.
- Mostra immediatamente il tuo volto! – ordinò ugualmente, sperando di sbagliarsi anche se sapeva che questo era impossibile.
- Come vuoi. Solo, quello che vedrai non so se ti piacerà, sai la bellezza è una questione di gusti, e tu non hai buon gusto, Cami. – detto questo, una nube violacea avvolse Leon, e Camilla si ritrovò davanti colui che sperava non fosse.
- Tu. – soffiò.
L’altro alzò le spalle. – È la vita, Cami. –
- Smettila di chiamarmi Cami. -
- Scusa tesoro, ma adesso è meglio che collabori. È la cosa migliore: sei sola e disarmata. – nel mentre che constatava questo fatto, accarezzava con lentezza il pomo del grosso spadone che portava alla cintura, come a rimarcare il concetto.
- Lotterò con le unghie e con i denti. Tu sai che ne sono capace. –
Il ragazzo ridacchiò e disse: - Ok, allora se non vieni con le buone, verrai con le cattive. – la colpì allo sterno con un calcio, facendola indietreggiare. Convinto della vittoria, si slanciò in avanti, ma la rossa gli diede un calcio negli stinchi che gli provocò una acuta fitta di dolore; sguainò la spada, e la sicurezza dell’altra vacillò. La spada era dietro il suo avversario non c’era modo di raggiungerla. Ma non poteva arrendersi, non ancora. Vide uno dei pali che sorreggevano la tenda: se si fosse aggrappata ad uno di essi, avrebbe potuto prendere lo slancio per saltare e raggiungere la sua arma. Provò a metterlo in atto, salì sul palo e si mise in posizione, mentre l’altro continuava a fissarla, a metà tra il divertito e l’annoiato. Ma, probabilmente, non aveva capito cos’aveva intenzione di fare, e anche se lo avesse fatto non aveva altra scelta. Con un balzo si lanciò in avanti, la spada che si avvicinava, un lieve sorriso che le attraversava il volto e poi… un tonfo sordo con cui cadeva a terra. In un batter d’occhio si ritrovò il ragazzo sopra, che le puntava un ginocchio contro la schiena.
- Adesso tu verrai con me, siamo intesi? – sibilò, alzandola in piedi. La portò fino ad un carro dove c’era un manipolo di soldati che sorvegliavano due figure incappucciate. Il suo aggressore fece un cenno ai compagni, salì sul posto del guidatore e partì.

Non seppero per quanto tempo rimasero così, incappucciate e con un bavaglio sopra la bocca, che insudiciava loro il viso con la sua sporcizia.
Sapevano solo che le avevano portato su un carro, o almeno pensavano che quel mezzo che le stava trasportando lo fosse. Sentivano i soldati che si muovevano, ma per il resto stavano in silenzio, non un suono usciva dalle loro bocche. Rispetto ai guerrieri dei ribelli, quelli erano delle mummie.
Mummie che sanno fare dei nodi degni di un marinaio, però constatò con rabbia Violetta, agitando le braccia per cercare di smuovere le corde che le attorcigliavano le mani.
Capivano entrambe anche che c’era qualcun altro con loro, qualcuno che era stato portato lì sopra come loro. Se solo ci avessero potuto parlare, o anche solo vederlo.
Improvvisamente, le fecero scendere, ma solo loro due, l’altro prigioniero venne lasciato lì. Mani d’acciaio le afferrarono e, con una delicatezza pari a quella di un orso grizzly arrabbiato, le condussero verso un luogo indefinito.
Finalmente, dopo qualche minuto, arrivarono; tolsero loro i sacchi dalla testa e i bavagli dalla bocca e se ne andarono, lasciandole sole. Si trovavano in una tenda nera completamente coperta di mobili di fattura pregiata e monili di incredibile valore li ricoprivano. Su un lato dell’abitacolo vi era un lungo tavolo sopra il quale c’erano alcune ampolle contenente qualche liquido luccicante come un diamante che le abbagliò.
- Come stai? – domandò Francesca dopo qualche attimo di ammirazione.
- Meglio di quanto immagini. Tu invece? –
- Sono sopravvissuta a trattamenti peggiori. – sbuffò l’italiana.
- Riusciremo ad uscire di qui. – ringhiò Violetta, stringendo le labbra.
- Credo che questo non sia possibile. – una voce profonda e roboante le fece voltare di scatto. Dal fondo scuro della tenda arrivò un uomo nerboruto e muscoloso, i capelli neri tagliati corti e gli occhi dello stesso colore e inespressivi.
La bionda deglutì e per poco non svenne dalla sorpresa: - Papà. – mormorò.
L’uomo scoppiò in una grassa risata. – Io non sono tuo padre. – le rivelò. – Gli assomiglio però, vero? – aggiunse con un ghigno.
- Come è possibile? – sussurrò la ragazza.
- È una lunga storia, mia cara Violetta, e te la racconterò a tempo debito. Ora però mi presento: sono Carlos, mie belle fanciulle, capo dei Sarchatan. – accompagnò le sue parole da un inchino ironico.
La Castillo avrebbe preso a schiaffi quella faccia se non avesse avuto le mani legate e se quello non fosse stato anche il viso di suo padre.
- Chissà perché, avevamo intuito chi sei. Ora però piantala con questi stupidi giochetti e vai al sodo. – Violetta si voltò verso una Francesca con le labbra contratte e le sopracciglia inarcate all’ingiù, dandole un’aria crudele e determinata che sorprese l’amica.
- Calma, Francesca, non c’è bisogno di arrabbiarsi. Hai un bel caratterino, non come mia avevano raccontato. – a quelle parole la mora si ritrasse di un centimetro.
- E chi te lo avrebbe raccontato? –
Carlos si portò una mano alla bocca, fingendo sconvolgimento. – Cielo. – mormorò – Mi stavo quasi dimenticando di presentarvi un’altra persona, o meglio ripresentarvela. Vieni avanti. – detto questo fece un gesto con la mano.
Dall’oscurità uscì Diego.

Angolo dell’autrice: Salut, mis friends. Piaciuto il giochino con le lingue? No, credo di no. Sono ancora più in ritardo dell’altra volta, ma mi giustifico dicendo che è la fine dell’anno, che sono stata sommersa da verifiche e che il mio tempo libero lo passavo spaparanzata sul divano con gli auricolari o con un libro.
Poi c’è stata anche la mancanza di ispirazione, e io non voglio scrivere un capitolo senza spunto e, soprattutto, non volevo scrivere questo capitolo senza spunto.
Vi è piaciuta la rivelazione? Era piuttosto ovvia, no, qualcuno (speriamo non tutti) lo aveva pure già capito. Anche perché è quasi sempre il ruolo del nostro caro amico spagnolo, quello del cattivo. E adesso, cosa succederà dopo questo? Lo scoprirete nel prossimo capitolo (che arriverà un po’ prima). Spero che il capitolo vi sia piaciuto, accetto anche critiche e consigli.
Un bacione da Chicca2501.

   
 
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