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Autore: bellamysguitar    07/06/2015    1 recensioni
Beatrice è una ragazza reputata da molti - persino da se stessa - strana. Vive nel suo stesso anonimato e in quello del suo paesino nel trevigiano. La sua vita è sconsideratamente monotona: oziare sul divano, odiare tutto e tutti e guardare spesso - forse fin troppo - l'intera saga di Fast & Furious caratterizza le sue giornate. Tutto ciò fin quando l'attenzione della sua mente non si focalizza su Nicola, suo vicino di casa nonché ragazzo reputato da lei simile ad un vegetale. Tra chiacchierate imbarazzanti, commenti inadatti e incomprensioni generali i due vivranno delle avventure bizzarre, dettate dalla convinzione di essere, comunque sia, come due linee parallele: irraggiungibili. Potrà sbocciare l'amore tra due persone totalmente diverse, inadatte l'uno per l'altra o sarà un completo, totale disastro?
Genere: Comico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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 Sto gironzolando per i corridoi della mia anonima scuola da almeno cinque minuti. Il motivo di questa mia scappatella è che, visto che ieri non ho avuto la premura né di fare la versione di latino né tanto meno di copiarla, ho preferito uscire "per andare in bagno" al momento della correzione. Il problema è che lo spazio per gironzolare è alquanto ridotto, poiché se mi azzardassi a girare l'angolo di questo corridoio per raggiungere quello principale, il temibile bidello Beppe - sordomuto oltretutto - comincerebbe a urlarmi contro versi minacciosi ed incomprensibili piazzandosi su una faccia cattiva da far invidia a quella di Dwayne Johnson in Fast & Furious. E allora, considerando il fatto che i bagni non godono di un ottimo odore, faccio avanti e indietro per questo minuscolo corridoio finché qualcuno non decide di rispedirmi in classe.
Il latino non è una materia che mi dispiace, nonostante io sia fuori durante la sua ora. E' interessante, e saperlo tradurre mi fa sentire superiore a tutti quelli degli istituti tecnici della città, anche se, considerando la mia popolarità ed il mio essere così socievole, non comporta essere meglio di altri. Non c'è un'anima per il corridoio, e gli unici rumori che si sentono sono 1. i versi di Beppe in lontananza 2. il mio prof di scienze che urla insulti agli studenti in chissà quale povera classe. Sbuffo, i corridoi vuoti sono entusiasmanti quanto il Giro d'Italia. Ed io odio il Giro d'Italia. Non ho nemmeno il tempo di fare due passi avanti che noto Beppe svoltare l'angolo e con il suo sguardo fulminante mi squadra, e dopo due secondi corre verso di me urlando qualcosa di simile a "torrà! torrà!" e muovendo una mano freneticamente nell'aria. Alzo le mani in segno di resa e apro la porta della classe, sperando che la correzione della versione sia conclusa. Appena apro la porta parte uno scricchiolio assordante ed in un nano secondo mi ritrovo ventiquattro paia di occhi puntati contro, compresi quelli dalla professoressa, seduta ad una distanza elevata dalla cattedra, con su degli spessi occhiali per leggere ed il libro di latino in mano. Me ne torno a posto in silenzio, ma non essendo esattamente una persona delicata - senza tanti giri di parole, ho la delicatezza di un elefante -, riesco a dare una botta rumorosa alla mia sedia ed a farla scricchiolare mentre mi siedo sopra ad essa. La mia compagna di banco, Anna - ragazza esplosiva e dai capelli più pazzi dei miei - mi sorride gentilmente, tornando poi a guardare la sua versione immacolata sul suo grande, grandissimo quaderno. 
 
E' forse ora di fare le dovute presentazioni. Mi chiamo Beatrice - esattamente come la ragazza di 1°E linguistico con il burqa -, ed ho la sfortuna di avere sedici anni anziché venti. Non so perché vorrei avere vent'anni, probabilmente perché tutti i ventenni sono tremendamente fighi e con una vita perfetta, a differenza della mia. Punto due, se avessi vent'anni sarei fuori da quest'inferno chiamato liceo classico da un bel pezzo, anche se probabilmente sarei anche all'università. Non so se si è capito, ma oltre ad avere una parlantina fastidiosa e continua, sono una ragazza che prima di ogni cosa si lamenta. Per tutto. La mia vita è un disastro, se questo non si fosse capito. Sono la tipica ragazza dedita alla scuola fino a un certo punto, la tipica ragazza che il sabato vorrebbe uscire, ma alla fine non esce mai. E, ahimè, non per scelta. La mia principale passione è oziare, fare tra il divano e il letto con le cuffie nelle orecchie. E odio chiunque interrompa questo mio sacro rituale quotidiano (cioè tutti). 
 
Solo al suono della campanella io mi sento veramente sollevata - di essere ancora viva, intendiamoci. Ma so che il suono della campanella implica un fatto: andare alla stazione degli autobus. La stazione degli autobus - meglio conosciuta come ritrovo per persone strane - è praticamente attaccata alla mia scuola, e perciò i gas di scarico dei mostroni blu arrivano dritti dritti nella finestra della mia classe. Ci sono svariati motivi per cui odio quel posto. Punto uno, c'è gente strana, ma questo l'ho già detto. Punto due, aspettare l'autobus per mezz'ora è logorante. Punto tre, non mi piace fare la lotta per accaparrarmi un posto in autobus. Punto quattro, odio quelli che prendono il mio autobus - tanto per cambiare. 
Sbuffando sonoramente e con lo zaino in spalla mi dirigo con tutta la calma del mondo in stazione, perché in fondo non sarebbe poi così male perdere il bus, ma dubito di riuscire a far mezz'ora e passa di ritardo. Quando arrivo, come al solito, il binario sei è deserto - la mandria di trogloditi ignoranti provenienti dagli istituti tecnici deve percorrere più strada - e mi sistemo buona buona sul marciapiede, cominciando a guardarmi intorno con sospetto. Una grande abbondanza di autisti e controllori si aggira furtivamente tra i binari, a far cosa non si sa. 
Nei dieci minuti seguenti non faccio altro che sbuffare, guardare il cellulare, guardare le persone che mano a mano arrivano e sbuffare ancora. Non c'è nessuno che mi piaccia delle persone che circolano in questa stazione abbandonata da Dio. Soprattutto quelle del mio paese. 
Piano piano la stazione si comincia a riempire con l'avvento delle mandrie di trogloditi, ed i miei nervi ne risentono. Altra cosa che non sopporto è l'alta presenza di gente, che non solo mi provoca una crisi di nervi ma anche una di panico. Mi guardo intorno e casualmente incrocio lo sguardo di una persona - che non mi sta molto simpatica, oltretutto. 
- Ciao! 
dice quest'ultimo sorridente, ed io rispondo piantandomi in faccia un sorriso falso da far invidia alle più grandi attrici hollywoodiane. 
Codesto - che è anche l'unica persona che mi saluta, perché io di mio non saluto nessuno - è il mio vicino di casa e nonostante si atteggi da tipico ragazzo della porta accanto "carino e coccoloso", a me ricorda più che altro una pianta da giardino: alto, magro e apparentemente senza sentimenti. Non fraintendetemi, non penso che sia uno col cuore di ghiaccio, ma non spiccica parola nemmeno a pagarlo oro. A dir la verità nessuno della sua famiglia parla molto. Ma lui è proprio un'esagerazione! 
Mi passa accanto seguito dalla sua schiera di amiche fidate e, per qualche secondo, lo seguo con lo sguardo. Si dirigono verso la sala d'aspetto interna della stazione, quella sottospecie di stanzetta in cui si trovano interi agglomerati di uffici, bar e toilette non molto pulite. Il compagno di mia madre adora in un modo sconsiderato quel ragazzo. Dice continuamente che l'ha visto crescere, che è un bravissimo ragazzo, che da piccolo era malato e quindi veniva evitato dalle ragazze e lui, povero Cristo, ci stava tanto male. Pensate un po', io non sto male - non ho l'ebola! - eppure vengo evitata da tutti lo stesso. Bello, eh? 
 
Circa mezz'ora dopo mi ritrovo cercando di attraversare la strada dietro ad almeno cinque persone, poiché sono appena scesa dal mostro vivente chiamato "autobus". Il bus di Ponte di Piave è sempre, costantemente, pieno. Ciò che non capisco è per quale strano motivo la mattina abbiamo a disposizione tre autobus per ricoprire la stessa zona - e sono tutti alla stessa ora - mentre al ritorno ce n'è solo uno, sempre pieno. Tanto per cambiare oggi sono stata in piedi, a farmi sballottare da una parte all'altra, dopo ogni curva. Attualmente, invece, sto cercando di non morire. E solo dopo aver raggiunto il marciapiede mi sento al sicuro. Sbuffo, perché è ciò che so fare meglio ultimamente e prendo a camminare lentamente, con la mia solita calma, in fondo chi ha fretta di tornare a casa? Nel bel mezzo della mia lentezza mi accorgo che manca qualcosa: le mie cuffie. Le cerco, in entrambe le tasche, ma di loro non c'è alcuna traccia. Sto per entrare nel panico quando una voce più o meno conosciuta mi dice "guarda che ti sono cadute queste", ed una mano compare davanti ai miei occhi tenendo in pugno le mie cuffiette bianche. Mi volto ed incontro la faccia sorridente di Nicola. Sarebbe il mio vicino, quello di prima. Ha un nome. Nicola. Ed ha anche dei bellissimi occhi. Sbatto le ciglia tre, quattro, cinque volte senza spiccicare parola. Ecco, questa volta sembro io l'asociale. Ma forse, e dico forse, un po' lo sono. 
 - Grazie - rispondo, cercando di sorride gentilmente e, come sempre, non mi riesce. 
Gli strappo le mie bambine letteralmente dalle mani con forse troppa forza, e, continuando a tenere gli occhi spalancati per chissà quale strano motivo, me le ficco nella tasca del giubbotto. 
Con mia grande sorpresa, nel momento esatto in cui riprendo a camminare, noto che il caro e vecchio e silenziosissimo Nicola non si allontana da me, ed io mi ritrovo a scrutarlo schifata, perché 1. mi sta camminando accanto, 2. cammina più veloce di me. 
- Hai delle gambe sproporzionatamente lunghe - mi ritrovo a dirgli, in un momento di assoluto squilibrio mentale, trovando improvvisamente le sue gambe lunghe quanto tutto il mio corpo più interessanti della sua faccia. 
E ride. Beh, dire che ride è un po' un eufemismo perché, ripeto, questo ragazzo non è in grado di provare delle emozioni, tranne quelle che provano le piante come lui - cioè, alcuna emozione. 
- Beh sì, effettivamente sono un po' lunghe - ehi amico, è tutto ciò che riesci a dire?, vorrei dirgli, ma poi realizzo che non è proprio il caso di prendermi tali confidenze con un tipo che non ha confidenza con nessuno eccetto i suoi amichetti immaginari. 
Poi, silenzio. Nessuno dice niente, e la situazione si sta facendo più imbarazzante del dovuto. Una persona razionale e senza problemi mentali a questo punto si allontanerebbe senza dare troppo nell'occhio e saluterebbe gentilmente la persona al suo fianco, ma una psicopatica come me, andiamo a sottolineare la parola psicopatica, si ritrova ovviamente a fissarlo ed alla fine se ne esce con: - hai tagliato i capelli? 
Nicola, dal canto suo, mi punta lo sguardo addosso e inizialmente non dice nulla. Gli occhiali da vista gli sono leggermente scivolati giù per il naso e la montatura scura va a coprirgli leggermente gli occhi verdi. Guardare lui negli occhi, come qualsiasi altra persona, mi reca ansia e quindi mi trovo costretta a spostare il mio sguardo altrove, ma la scelta di puntarlo sulle sue labbra non si rivela affatto saggia. 
- Sì, li ho tagliati - risponde, cercando di risultare più gentile che scocciato. 
- Trovo che ti stessero meglio prima. Insomma, un po' più lunghi - ecco, questa è decisamente una cosa che dovevo evitare di dire. 
Mentre la mia mente vaga altrove e cerca di comandare al resto del corpo di darsela a gambe il più velocemente possibile, lui continua a scrutarmi, ed il suo livello di "scocciatezza" sembra essere salito alle stelle. Ecco, devo imparare a non cercare di avere una conversazione con un vicino-pianta. 
- No, a me piacciono più così - contento tu, contenti tutti. E questa volta, con una scusa abbastanza banale, mi allontano sul serio da lui, raggiungendo la porta del condominio in pochi secondi. Quella situazione stava diventando insopportabile. 
Faccio le scale di corsa, e solo mentre arrivo al primo piano riesco a notare una cosa: le mani mi tremano. Spaventata a morte e pensando di avere chissà quale malattia, faccio l'ultimo piano di scale e, dopo esser entrata in casa la prima cosa che dico a mia mamma è: - mi sa che ho il Parkinson. In tutta risposta lei mi manda al paese dei balocchi. 
  
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