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Autore: Bolide Everdeen    09/06/2015    3 recensioni
[Storia interattiva-Tributi al completo]
C'è una nazione, Panem.
C'è un anniversario, il cinquecentesimo della creazione di questo stato.
C'è un nuovo presidente, Coriolanus Snow.
C'è un'edizione speciale degli Hunger Games.
Ci sono ventiquattro tributi.
Ci sarà solo un sopravvissuto.
***
Dal primo capitolo:
"Ma Panem è simile ad un'enorme arena.
Non si può fuggire.
Solo combattere, o morire.
A voi la scelta."
Genere: Azione, Drammatico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Altri tributi, Caesar Flickerman, Presidente Snow
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie '500 - Behind the scenes'
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Capitolo XVIII

La speranza

Distretto 7, Milton Marvin

Era seduto, con una pietra a separarlo dal terreno, gli occhi rivolti verso il cielo.

Quale speranza c'era, ormai? Scrutava alla sua ricerca, la pregava di apparire, ma la detestava, perché non riusciva a sentirla. Tutte le devastazioni subite negli scorsi giorni, interne o esterne, avevano aspirato ogni suo spirito brillante di speranza, e l'avevano rimpiazzata con un'angoscia nefasta.

Ogni sospiro di vento, ogni goccia di pioggia, ogni sorriso ricordato, era solo una minuscola goccia in quell'enorme pattume.

Non sapeva cosa provare, in quel momento. Tentava di riflettere, ma i pensieri diventavano solo un brusio accalcato, consigli di entità sconosciute, i complimenti dei suoi demoni, grida di spavento.

Scrutava, in cerca di speranza. Alla fine, il cielo parlò.

 

Distretto 9, Athena Rainway

«Complimenti, tributi. Siete i finalisti dell'edizione del 500 degli Hunger Games. È Claudius Templesmith che vi parla, per darvi una piacevole sorpresa.»

Athena quella notte non era riuscita a dormire, come sembravano testimoniare i suoi occhi, straordinariamente pesanti, e la sua mente, annebbiata dai sintomi della feroce febbre che la scuoteva dal giorno prima. Era ancora sdraiata, ritentando di trovare quel pericoloso conforto, ma le parole di Templesmith improvvisamente si proclamarono ordine del giorno. E anche lei ne era succube.

Il cielo ricominciò a tuonare:«Ognuno di voi ha un disperato bisogno di un oggetto. Noi sappiamo cosa sia, e sappiamo anche come lo potete trovare. Recatevi al festino organizzato alla Cornucopia questo pomeriggio, dove troverete tutto il necessario. Siete tutti cortesemente invitati. A questo pomeriggio, tributi.»

Sarebbe dovuto accadere, prima o poi, soprattutto quando la vittoria alitava sulle spalle dei contendenti a quel modo. Ma Athena non lo aveva previsto; lei, accurata conoscitrice delle tattiche degli Strateghi per attirare l'attenzione, si era logorata nella sua malattia.

La malattia. La parola lampeggiò nella mente, e si attaccò fortemente all'idea del festino, affezionandosi alla visione di una medicina.

Una parte di lei non voleva andare alla Cornucopia. Sapeva che la capitale si stava predisponendo per attuare la sua esecuzione, ed offrirgli quella soddisfazione non aveva scelte.

I brividi la percorrevano, mentre la febbre vorticava in ogni membra del suo corpo. In fondo, era essa a comandare.

Aveva alternative?

 

Distretto 9, Andrea White

Quella mattina il suo risveglio era stato ornato da un sorriso inaspettato sul suo volto, determinato dalla consapevolezza di aver raggiunto il fatidico giorno.

Perciò, si era svegliato. Aveva mangiato, bevuto, effettuato le normali azioni che contrassegnavano ogni mattina, ma capitanate dall'idea della vittoria. Era stranamente sicuro di sé e dei suoi avversari; ovvero, della debolezza dei suoi avversari. Non aveva concorrenti, in pratica. L'arena era sua.

Quando arrivò l'avviso, non poté che lasciarsi andare ad una vigorosa risata, che turbò il cielo almeno quanto l'intervento di Templesmith. Così, stavano veramente lottando sui limiti. L'intera Capitol City era radunata attorno a qualunque elemento trasmettesse i loro conflitti, trepidando per quel pomeriggio. Anche lui, dopotutto, palpitava per lo stesso evento. Ma il sangue circolava in una vena di pura malvagità.

Il pomeriggio calò, assieme al sole. Le sue armi erano affilate, come la sua mente; il suo sangue non sarebbe sfuggito a quella occasione.

Fu il primo ad arrivare. Tre zaini giacevano su un banco; afferrò il suo, per illudere di aver già lasciato quel posto. Si riparò dietro alla Cornucopia, ed attese fino a quando non sarebbe stato l'unico presente.

 

Athena

Alla fine, era stato il freddo a conquistarla, ad armarla per raggiungere quella che sarebbe stata la sua tomba o la sua scala verso la vittoria. Stringeva la sua falce, l'unica cosa che si era trattenuta dall'inizio alla fine dei suoi giochi. La sua unica compagna in quel momento. Avrebbe quasi desiderato parole di conforto da lei, sussurri in cui affermava che tutto andava bene, qualche bugia per rinfrancarle il cuore. Sì, erano proprio le bugie ciò di cui necessitava in quell'istante.

Gli Strateghi avevano steso un impercettibile tappeto rosso sul suo cammino, spalancando tutte le mura che segregavano i cerchi l'uno dall'altro. Ora, l'arena pareva spenta, emanare un debole ronzio attutito dalle vite di tutti coloro che in quel posto avevano scisso la loro anima dal loro corpo, trascinando con essi l'attività del territorio. Era finita in questo modo. E in poco tempo, sarebbe stato il più totale silenzio.

Era arrivata, ed emanò un sospiro di sollievo risparmiato quando notò due zaini di eguale dimensione, uno color ocra ed un altro verde. Avvicinandosi, poté scandire con la vista i numeri “7” e “9”. Perciò, Andrea era già stato lì. Non c'era nulla da temere. Questa bugia si manifestò quasi con sincerità nelle sue orecchie.

Tentò di impostare la maggiore velocità consentita dalle sue gambe, risparmiando la corsa che l'avrebbe potuta far fallire al suolo per un qualunque inciampo inatteso. Questo voltando in una continua azione di controllo la testa, gli occhi spalancati nella ricerca di qualche colpa del paesaggio. Ma non trovò, né udì nulla.

Afferrò in un infinito alone di indifferenza lo zaino ocra con la mano libera, e poi tentò di ritrarsi. Però la risposta del destino fu un colpo nelle spalle.

Gridò, istintivamente, e poi si ritrovò a sorreggersi con le mani occupate, il volto a pochi centimetri dal suolo. L'avevano trovata. Non importava chi, ma era diventato l'avversario contro cui combattere.

Lasciò lo zaino sul prato e si raddrizzò. La prima cosa che notò girandosi fu il ghigno splendente di Andrea.

 

Andrea

La sua prima preda era la sua compagna di distretto, la rossa. Ricavando dati dalla sua personale esperienza, l'aveva classificata come il tributo ancora in vita più pericoloso, per una scintilla di determinazione nei suoi occhi non indifferente. Le aveva riconosciuto un coraggio anticonformista, che anche adesso brillava, mentre lo fronteggiava affidandosi alla sua falce. Su due piedi, le apparve leggermente patetica. Almeno sotto la sua morsa.

«Che i giochi abbiano fine, Rainway» le annunciò, riproponendo quella frase che tanto aveva perseguitato la sua mente nell'ultima giornata. E prima che lei si potesse sbloccare, ghiacciata chissà da quale sensazione, si gettò su di lei accasciandola al suolo, lui seduto sopra al suo copro. Ora il suo sguardo non sembrava contenere più la sua forza. C'era anche un terrore glaciale.

Lei reagì scalciando con il tratto delle gambe ancora utilizzabile, tracciando disperate traiettorie che s'indirizzavano alla sua schiena. Andrea sussultava, ma reprimeva gli stimoli con facilità. Il dolore, una lieve puntina con sfumature di un rosso tenue, si manifestò dopo che l'insistenza della ragazza fu accuratamente constata.

Intanto, lui la puniva con pugni: pugni permessi solo dalla mano destra, perché con la sinistra sedava il braccio della rossa che reggeva l'arma; rabbiosi, vibranti, l'apice del suo sfogo. Non era una vittima piacevole, la ragazza. Non emetteva richiami di pietà, non si lamentava, non protestava. Era di un'insopportabile resistenza da cui scaturiva solo ira.

 

Milton

L'unico oggetto superstite dell'incendio del pomeriggio precedente era il suo coltello. L'aveva recuperato dal carbone, a differenza delle provviste di cibo ed acqua, che si erano mischiate al bottino delle fiamme. Si erano spente solo per un improvviso temporale, con quel retrogusto artificiale che colpiva ogni evento dell'arena, il quale aveva annullato tutto. Lui si era salvato dal fuoco scappando in una zona dove esso temeva di spingersi, lasciandolo solo con i suoi dubbi, con i suoi rimorsi. E, quando tutto fu quieto ed incomprensibile, ritornò al punto in cui Emilie era morta, non trovando niente. Niente tranne quell'arma, stranamente ripulita con attenzione dalla furia della pioggia. Milton aveva notato che non era affatto quella originaria, ma un rafforzamento simile, con un'aura di terrore che solo le armi più efficaci potevano emettere. E lui l'aveva accettata, come un messaggio del cielo. L'unico messaggio che il cielo gli avesse mai spedito.

Aveva paura delle lame, almeno fuori dall'arena. Ma lì dentro si erano rivelate vitali, in qualche modo. Come se una persona si potesse valutare da quale arma avesse, che dalla sua capacità. E quel coltello lo rendeva, in qualche modo, più potente.

Si avvicinava alla Cornucopia armato solo di quello, non comprendendo neanche i motivi che l'avevano spinto ad aderire al festino. In realtà, sapeva inconsciamente di dipendere dalla fame che già aveva conosciuto ed adesso gravava pericolosamente sulla sua testa. Ogni volta in cui lo stomaco sbadigliava, lui aumentava la velocità del passo.

E finalmente, raggiunge la postazione del festino, tremando all'idea di poter incontrare qualcuno. Scorse con velocità il paesaggio, e si arrestò alla vista di una figura china su un'altra.

Perciò, non era il primo. Ed era condannato, in qualche modo. La prima reazione fu il sudore, che colava e gli ustionava la fronte. La seconda, la curiosità. E riconobbe come l'aggressore il ragazzo del 9, Andrea, il più inquietante concorrente dell'intera edizione.

Non giungeva alcun urlo, solo uno strano silenzio manifestante un qualche preludio di morte. Cosa era successo alla ragazza che subiva? Non poteva essere morta, avrebbe avvertito il segnale. Era svenuta? Forse. Ma in questo caso, perché continuare la sua sofferenza con colpi ancora più intensi?

Lo notava. Andrea si applicava con una violenza inaudita ed indescrivibile alla sua nemica, dosando la sua rabbia con urla eccitate. Milton fu quasi disgustato da quel comportamento, ma non notò questo sentimento. Il suo cuore era troppo impegnato a contrarsi in modo discontinuo.

Si avvicinò, con la cautela dei terrorizzati. Non capì neanche il motivo del suo gesto, ma si ritrovò alla schiena dell'avversario, a ragionare sulla sua situazione, ad osservare la malvagità dei suoi colpi.

Era giusto?

Affatto. Non riusciva a comprendere cosa fosse accaduto alla ragazza, ma non sprecò un momento per scagliare una coltellata alla scatenata figura ricurva.

 

Andrea avvertì qualcosa al fianco, come una striscia di una lama, un graffio imprevisto quanto fastidioso. Il fastidio era solo derivato dall'interromperlo nella sua opera. E nessuno avrebbe dovuto separarlo e privarlo della sua carne fresca.

Perciò, balzò in piedi, senza neanche preoccuparsi di concludere la vita della ragazza. Non sapeva a che limiti fosse giunta, ma lei si ostinava a rimirare il mondo, a contrarre le labbra, a non pregarlo. Che stupida renitenza al piacere. Sperò di trovare nell'altro un avversario più degno dei suoi colpi, più labile.

Come sospettava, stava fronteggiando il fragile ragazzo del 7.«Molto divertente, ragazzino. La prossima volta, gioca per bene» annunciò, avanzando verso la sua figura disertrice alla punizione. No, non andava affatto bene. Con uno scatto, Andrea riuscì a tirare un pugno sulla faccia del ragazzo.

Si raccapricciò su stesso, crollò al terreno, con una mano posta sulla guancia come se questa tendesse ad abbandonarlo da un momento all'altro. Gridò, anche, intensamente, la protesta di un piccolo bambino. E infatti lui era questo. Prima che si potesse riabilitare, prima che potesse divenire ancora un nemico abile al combattimento, Andrea lo frenò con un calciò allo stomaco.

«Sai una cosa, Andrea? Per me, chi non gioca per bene qui sei tu.» Lo disse con uno spasimo, afferrando la sua vita racchiusa nel suo ventre, con la voce insicura e tremante, come il suo corpo, come il suo volto che si stava dipingendo di rosso. E se ne pentì un momento dopo, con un'espressione improvvisamente languida, anche senza l'azione di Andrea.

Non se lo sarebbe mai aspettato, nemmeno con la sincerità, nemmeno con la previsione del più qualificato degli astrologi. A dire la verità, non ci avrebbe comunque creduto. Ma non pensò un attimo al significato della frase; continuò con la sua opera, con un piacere immenso di conquistare ancora una volta il ruolo del più forte, fino a quando qualcosa non inforcò la sua mente.

Avrebbe voluto urlare, ma la sua bocca era frenata dalla punta della stessa arma. E quell'estranea nel suo cervello non gli permetteva di riflettere, di voltarsi ad aggiudicarsi l'ultima vendetta, ma solo di crollare al terreno.

Sarebbe dovuto accadere, forse, prima o poi.

Ma non dalle mani di un nemico.

 

Appena Andrea si fu ritratto, Athena aveva conosciuto nuovamente un sentimento alquanto strano, forse inutile, ma che le aveva restituito la vita: la speranza. E un bisogno di rivalsa potente, quasi asfissiante, quasi l'unica cosa di cui necessitava in quel momento. Era destabilizzata, il mondo assumeva un colore brillante ai suoi occhi congestionati, e la sete si acutizzava nella sua gola. Ma si alzò, con l'arma ancora nella mano. Tutto si oscurò per un secondo, poi lo spavento fu ritratto, e qualcosa apparve, la prospettiva di una nuova vittima del suo compagno di distretto. E, all'improvviso, fu la sua falce a suggerire le sue gesta. A suggerire di ucciderlo, senza alcuni rimorsi, senza ripensamenti. D'altronde, lui era un assassino. Chi mai avrebbe potuto piangere la sua sconfitta? I cadaveri della famiglia che fosse lui stesso aveva ammazzato?

No. Si avvicinò, sollevò la sua arma con un peso indicibile e, mentre ogni sua membra del corpo era in combustione, affondò il più pesantemente possibile per assistere alla fine di Andrea.

Non era lucida, ma riconobbe alla perfezione il colpo di cannone che aveva meritato. Respirò, sentendo il merito acuto di quel gesto, ed ebbe voglia di allargare le braccia. Ma crollò in ginocchia prima di poter riuscirci.

E in un attimo, per terra, erano due avversari e un cadavere. E lo spavento si creò solo quando i loro occhi si incrociarono.

 

«È morto» sussurrò Milton, senza neanche accorgersene, scansando con velocità lo sguardo della ragazza. Sapeva che lei se ne fosse accorto, ma doveva manifestare qualcosa, forse addirittura gioia di aver terminato una vita. Non aveva mai desiderato la morte di nessuno, anche avendo ucciso, ma aveva già testimoniato la sua tristezza con lacrime infinite, lacrime per la condizione in cui era stato posto, lacrime per tutte le vittime sue o legate a lui. Eppure, non si sentì triste per Andrea. In quegli occhi azzurri non brillava dell'umanità, del dolore, ma sembrava un manichino della violenza, l'ennesima macchina di Capitol City. Forse non era stato altro che una macchina. Quando questo pensiero si affacciò sulla sua mente, provò pietà per lui. Curioso fu che l'avesse fatto solo per la sua condizione di automa e non di uomo. Appena l'altra estrasse la falce, un fiotto di sangue cominciò a scendere dal terreno, insieme a residui non classificabili. A Milton venne una forte voglia di voltarsi e gettare tutto il suo orrore nel vomito.

Gli aveva parlato, per lasciare le sue ultime parole, il suo ultimo pensiero in caso di morte. L'aveva sentita vicina, la morte. La cosa strana era che la fine della vita si manifestava con l'aumento del battito del cuore, quando questo si sarebbe dovuto frenare, inibendogli ogni azione che gli sarebbe sembrata normale. Ma, ora, era di nuovo tutto identico a prima. Gli pareva non ci fossero neanche i giochi, solo lui e la ragazza. Ma poi si rese conto della sua condizione di avversaria.

Il suo viso brillava di sudore, il suo corpo era tremante sotto ogni azione, ma la peggiore impressione fu data dal viso: pieno di ematomi, di lividi, chiazzato di un colore confuso fra il nero e il cremisi.«Hai bisogno di una mano?» chiese, istintivamente, vedendola in quella debole difficoltà. Riuscì ad attirare il suo sguardo, a confermarlo sul suo corpo, e a sentirle dire:«No. Niente.»

E nel momento in cui questo cadde, la sua voce insistette in una frase che forse lei non avrebbe voluto pronunciare:«Comunque, grazie.»

“Grazie”. Dire “grazie” al proprio nemico poteva parere una condanna, l'affermazione della debolezza. Ma Milton non si creò idee del genere. Con uno sforzo sovrumano, si alzò, si avvicinò a lei e le porse le mano per rimettersi in piedi. E lei l'accettò, dopo aver esaminato il suo sguardo. Forse si era accorta che in quel gesto non si posizionava nessuna strategia.

Erano lì, insieme, faccia a faccia, a riflettere sui loro eventuali gesti. Cosa fare, ora? L'altro meritava la morte? No, lei gli aveva praticamente salvato la vita, non poteva compiere un'azione simile. Ma non voleva neanche morire.

Il loro sguardo era verso il terreno. Milton ebbe l'impressione che stesse annunciando qualche temporale previsto ed irrimediabile.

 

Athena non riusciva a comprendere le intenzioni del ragazzo, ma si rese conto di una cosa, utilizzando forse le sue fonti sotterrate sotto il suo nuovo carattere, che credeva di aver reso solo uno spirito inerte: non era cattivo. Non voleva farle del male. E questo le consentì di percepire ancora più terrore di quella figura apparentemente innocua.

Perché neanche lui sentiva il coraggio di ucciderlo. Eppure, uno dei due sarebbe finito riverso a terra accanto al cadavere di Andrea. Niente da fare. Cercava una via di scampo, ma rimirandosi i piedi non era affatto semplice ricavarne una.

«Allora... cosa facciamo, adesso?» domandò il ragazzo, e lei si ritrovò inevitabilmente ad osservare i suoi occhi. Indietreggiò, come per scampare a quello sguardo, ma non ci riuscì. Mantenne il suo volto corrugato, accigliato, come se ogni tramonto o alba davanti ai suoi occhi potesse essere solo l'ordinario ciclo della natura.

Rifletté un attimo, torturandosi la parte interna della guancia ed assaporando il sapore del sangue fresco che scorreva, per testimoniare il suo nervosismo. Con un sussulto represso, lo trovò ironico. Quante volte l'aveva fatto, fuori da quell'arena, nelle sue vite precedenti? Era un'azione strana, eppure fisiologica, in qualche modo. Inevitabile. Quante cose sembravano esserlo, in quel momento. Poi, porse la più semplice risposta:«Combattiamo.»

Il ragazzo trasalì vistosamente, come se quel gesto avesse potuto annullare le sue ultime parole, quasi chiedesse di ripetere la sua frase per verificare quanto potesse essere veritiera. Ma non c'era nulla da fare, le condizioni erano quelle. L'unica alternativa. La richiesta del mondo.

Athena impugnò con più forza la sua falce ancora sporca, cercando di eliminare i sintomi di quella febbre che la stava trascinando quasi sotto la terra. Il suo volto bruciava ancora dai colpi di Andrea, ma non lo notava. Insieme ad Andrea sembrava essere morto il dolore inflitto. Anche l'altro aveva il volto macchiato da un enorme chiazza rossastra sulla guancia, ma continuava ad allontanarsi da lei, con la schiena curva, quasi non riuscisse a respirare. Forse, fra poco tempo non ci sarebbe seriamente riuscito. Athena fu terrorizzata, per un momento.

Fu lei la prima ad attaccare, correndo, raccogliendo di nuovo tutta la freddezza necessaria per potersi macchiare di un crimine. Ma l'altro la schivò, portandola a fendere il nulla. Si voltò una seconda volta, ritrovando il ragazzo nella postazione originaria di lei. Gli lasciò il potere di attaccare, raccogliendo qualche colpevole coraggio, e corse verso di lei. L'accolse con una falciata sul fianco, che lo fece tentennare verso il terreno. Per un momento, pensò di essere avvantaggiata, di poter vedere ancora il cielo sopra il distretto 9 nelle giornate di sole. Ma poi, si accorse di un dolore acuto alla gamba sinistra.

Si piegò ad osservare, e notò il coltello dell'avversario conficcato nel polpaccio. E, in quel momento, si inginocchiò a constatare il suo male. Doleva sempre di più, gridava, si ribellava. Eppure, c'era. Rimaneva lì, non scompariva. Non era un'illusione.

Lo tirò fuori, con cautela, e, vedendolo segnato dal suo sangue, lo lasciò ricadere spaventata. Il freddo nelle sue membra aumentò, complice il sangue che in quel momento annaffiava l'erba della Cornucopia. No. Era l'unica cosa che riusciva a ripetersi. No, no, no, no.

La sua mente non poteva bastare a mantenere una vita.

 

La ragazza era lì, a commiserarsi della sua ferita, con la sua solita automaticità che a Milton era parsa tanto fragile. Si trovava a pochi metri da lei, riverso, mentre un rivolo di sangue scendeva dal fianco, consentendogli comunque di spostarsi. Era un vantaggio consistente. Una specie di voce cavernosa al suo interno si manifestò, esortandolo a dimenticare ogni pietà: Fallo. È questo il momento adatto.

Si alzò, mosso ancora dalla carica nefasta di quella voce. Quando fu arrivato presso di lei, riconquistò il suo coltello, e cominciò a studiare il metodo per porre fine a quella coraggiosa vita. E, mentre osservava, la ragazza lo scrutava con attenzione. La voce iniziò ad affievolirsi, a cambiare il suo testo, a piangere.

Eppure, la sormontò. Si piegò verso di lei, con una cautela non dedicabile ad un avversario, e cominciò ad impugnare la lama come se fosse una proposta. Ma la morte non è proponibile. Non alle persone innocenti, come lei pareva essere. Una sorta di regalo, l'unico inaccettabile.

Respirò profondamente, per ritrovare se stesso, forse richiamare l'esortazione. Ritornò solamente il suo terrore per le armi di quel taglio, e non si capacitò di tenerne in mano una. No, doveva lanciarla via. Ma non poteva. Avrebbe potuto ferirlo.

«Non posso» sussurrò, mentre riponeva con cautela il coltello a terra. Lo annunciava a quel volto indifferente, quasi risoluto all'idea di andarsene. Come se avesse realizzato un male peggiore, un fulmine che l'avrebbe afflitta se solo fosse uscita viva da quel luogo. Lei annuì, ma non si mostrò entusiasta, bensì il suo corpo riportava una malinconia tangibile. Non conosceva la sua storia, neanche la sospettava, però non riuscì a non provare pietà per lei. Rimase lì, quasi con la voglia di prestarle un conforto. Non voleva ancora incrinare la situazione. Si ricordò che quella doveva essere la sua nemica.

L'unica cosa che per qualche secondo esistette fu il silenzio. Silenzio nei loro occhi, nelle loro mani, nel cielo, nei capitolini che li esortavano con la mente a combattere. Avrebbe dovuto trovare un altro metodo, qualcosa per finire. Ma, se non riusciva a condannare la ragazza, come avrebbero potuto decidere chi dei due si sarebbe sollevato da quel terreno? Valutò anche l'opzione di condannare la sua debolezza con uno suicidio, ma subito la rifiutò. Se lo aspettava, dopotutto. No, non aveva ragioni per uccidersi, se non eludere l'obbligo di raggiungere un accordo.

Avevano solo un metodo, per far toccare la vera terra ad uno dei due: lasciare al caso la decisione. D'altronde, chi erano loro due per giudicare chi avrebbe dovuto vivere e chi sarebbe dovuto morire?

Una fitta colse Milton nel pieno della sua riflessione. L'aveva fatto, una volta. Privare una persona dello sguardo. Che senso aveva avuto, però? Quasi si era sentito obbligato; non era stata una scelta, ma un ordine sussurrato e gridato al suo orecchio, sempre da quel tono cavernoso. Se ne sarebbe andato, una volta fuori dall'arena?

Avrebbe avuto la possibilità di affrontarlo?

No. Non erano le cose su cui riflettere. Afferrò lo zaino, alla ricerca di un opuscolo dove leggere il loro futuro, ed esaminò il contenuto. Il fianco ancora gli fiammeggiava per la ferita, che aveva avuto la sua unica forza nel farlo cadere, assieme alla faccia. Sembrava... lievitata. Aver acquistato i lineamenti di un altro. E forse, questo era accaduto.

All'interno dello zaino c'era una scarna bottiglietta d'acqua e un paio di strisce di carne essiccata, il minimo indispensabile per avere l'energia di uccidere una persona. Non esitò a inghiottire una delle due strisce con un abbondante sorso. Nel rimettere a posto la bottiglia, la sua mano incontrò qualcosa di doloroso: riuscì a tirare fuori due minuscoli coltellini da intaglio, affilati e levigati. Ne aveva visti di simili, però mai così splendenti. Erano quasi una contraddizione, in quel posto. Niente sembrava splendere. Niente splendeva.

E, a quel punto, ebbe l'idea. La ragazza era rimasta lì, a contemplare il suo polpaccio, senza il coraggio di alzarsi, ad elaborare un piano. Un piano per cosa? Milton non riusciva ad immaginarlo. Si chinò ad accanto a lei, ed iniziò a declamare, dolcemente, quasi cercando di donare un conforto:«Senti... ho trovato due coltelli nel mio zaino.»

Qualcosa s'impresse nella sua bocca; un nodo secco, da non consentire più il discorso.«Allora?» domandò lei, in un tono grigio, piatto. Se avesse parlato guardando negli occhi Milton, osservò lui, non sarebbe stato affatto così.

«Tiriamo, in contemporanea. È un'idea stupida, lo so... ma è per avere un vincitore.» Appena la sua bocca fu sigillata, si accorse di quanto poco fosse efficace il suo discorso. Attese, aspettò quasi che l'altra lo uccidesse in quel momento. Per questo, si ritrasse. Che senso aveva la fiducia, in quell'istante?

Lei tentò di avere un suggerimento dal paesaggio, squadrandolo. Milton attese, fino a quando lei non concluse:«Va bene. Facciamolo.»

 

Athena si era ripromessa di aggredire l'avversario nel momento in cui si fosse avvicinato, cercando di interpretare il suo sguardo come una minaccia. Ma non riusciva a mentire a se stessa. Alla fine, le sue braccia erano rimaste inerti a consolare la gamba. Non si era capacitata di come quel coltello si fosse incastrato nel polpaccio, ma c'era, e gridava senza sosta. Il suo pianto era infrenabile, almeno nella sua gola, eppure non provava qualcosa definibile rancore verso l'altro. Per un motivo preciso: anche lei aveva fatto lo stesso. Lo aveva ferito senza ritegno, cosa che sembrava impossibile scorgere nell'arena.

Osservava il cielo. Perché doveva morire obbligata a guardare la sfera fittizia dei giochi? Quanta gente era stata condannata, prima. Quando era una capitolina, non l'aveva mai considerata. Quando era una capitolina, la vita aveva un significato molto più colorato di allora.

Quando era una capitolina... perciò, non era più una capitolina? Era divenuta una normale cittadina dei distretti, con unico nemico Capitol City? Sì. Ed anche in quel momento, probabilmente, stavano soffiando sul suo collo al fine di farle errare il colpo. Perché lasciarla vincere, se l'avevano spedita lì per condannarla? Si sarebbero ripromessi fuori dell'arena. Ed allora, le speranze non sarebbero state sensate.

Non l'accettava. Altrimenti, non avrebbe sperato di vincere. Ventiquattro vittime su ventiquattro sarebbe stato uno spreco terrificante, ma lei si affidava a qualche forza invisibile per non sentirsi già un cadavere posto nella bara dagli Strateghi. Ci credeva, forse. Una credenza che la stava portando ora a posizionarsi all'estremità della Cornucopia, zoppicante, sorretta dal braccio del ragazzo, camminando verso il luogo dove avrebbe preso la mira. Athena non si era sbigottita quando lui le aveva porto un aiuto, alzandola in piedi per una seconda volta. Quasi, ci era abituata.

Quando furono arrivati, l'altro la lasciò, e lei si dovette affidare a tutto il suo coraggio per non cadere. Si stava reggendo solamente sulla gamba destra, ma non era un problema. L'avrebbero guarita, quando avrebbe vinto.

Se avrebbe vinto.

Il rosso le sorrise, le porse il coltello e la lasciò.

Quell'immagine sarebbe stata per sempre in lei, o in lei prima della morte.

 

In un impeto, Milton aveva trascinato la ragazza fino al punto che lui avrebbe considerato giusto per affrontarsi, l'estremo della Cornucopia. Lui si posizionò al corrispondente dall'altra parte, studiò la situazione, e poi avvertì il vuoto. Cosa sarebbe stato, dopo? C'era un'altra vita? C'era una possibilità di affrontarla?

Qualcosa mancava. Qualcosa per consolidare quell'esperienza, qualcosa da sostituire nella sua mente, qualcosa per rendere quella giornata amara con un sorriso. D'altronde, aveva sorriso, no? Era per donare coraggio, più che altro, non eccessivamente spontanea. Ma anche il volto dell'altra, inconsciamente, gli aveva risposto. Che nome avrebbe avuto quel volto?

«Posso chiederti una cosa?» domandò, strillando per una distanza immaginaria, quando furono pronti all'ultimo atto. Lei annuì, indaffarata sulla sua gamba, sofferente, un'anima nera che le turbava vistosamente la figura.

«Come ti chiami?» continuò. Sarebbe dovuto essere l'inizio, invece era la fine. Ma gli sembrava che il ciclo non sarebbe stato completo, senza.

Vedeva il suo volto. Lo vide mentre rispondeva:«Athena.» I capelli lo nascosero un momento, e in quello dopo lo notò un'altra ed ultima volta mentre replicava:«E tu?»

«Milton. Sono Milton» si presentò. Forse, anche lei aveva la sua sensazione. Forse, l'avrebbe avuta fuori, o non l'avrebbe più avuta...

Non sapeva. Non sapeva, semplicemente. C'era solo da continuare, per sapere.

Avrebbe voluto piangere. Ne sentiva il bisogno, ma sarebbe stata l'estrema perdita di tempo. Doveva cominciare.

«Va bene. Al tre. Uno, due... e tre.»

 

Una figura fra le due cadde, mentre l'altra serrava gli occhi, attendendo la morte o la vita.

Un colpo di cannone scoppiò. Ancora non comprendeva. Ancora non valeva la pena di consolidare la conoscenza della terra con lo sguardo. E si sentì capace di aprire gli occhi solo quando una voce quasi ultraterrena annunciò:«Signore e signori, vi presento Milton Marvin, il vincitore dell'edizione del 500 degli Hunger Games.»

 

Spazio autrice

L'ho fatto.

Ecco, signore e signori, vi presento l'ultimo capitolo (prima dell'epilogo) di “500”, fan fiction interattiva su Hunger Games. E, di ventiquattro, ne è rimasto veramente uno. A dire la verità, spero di no, perché non è veramente così.

Un poco di tutti i personaggi è rimasto dentro il mio cuore, sia il suo nome, sia la sua storia, sia anche il suo aspetto fisico. Ma tutti, dal distretto 1 al 12 e viceversa, rimarranno nella mia memoria per tanto tempo. Perché mi hanno concesso di narrare una storia, una storia in cui non sarei riuscita a creare e raccontare ventiquattro personaggi bene quanto con il vostro aiuto.

Alcune schede erano più scarne, altre dettagliate (persino di due pagine, con una storia dove emergeva la passione degli autori per i loro personaggi), ma presto ho imparato a scrivere senza di loro. È probabile che il risultato non sia così soddisfacente, e perciò mi scuso, però sentivo che i personaggi erano penetrati al mio interno ed avrei potuto narrarli anche così.

Perciò, mi sento in dovere di ringraziare fortemente ogni singola persona che ha scritto almeno una parola di quelle schede, che ha creato i ventiquattro tributi dell'edizione del 500 e di conseguenza questa storia. Così, grazie a So I could be lovely, Kauhsen, la ladra di libri, Blue Tokage, Claireroxy, Life before his eyes, Kingyo, Adorable Bunny, Ellie, Deadbyapril, Everdeeninfire, Colpa delle stelle, Misa_Amane96, quindici, La_Sniffa_libri, _Windurin_, Gwoww e Chair98love. Scusate se ho sbagliato a scrivere qualche nome (non tutti sono semplici), se qualcuno è cambiato ed io non ero aggiornata; vi ringrazio tutti allo stesso modo.

E ringrazio anche coloro che mi hanno seguito e dato consiglio in questo viaggio con le recensioni (spero di non aver fatto errori di battitura troppo numerosi, a questo proposito, nel testo). Qualcuno in particolar modo, ma mi sembrerebbe di privilegiare qualcuno al posto di altri, che forse hanno avuto meno voglia o meno tempo per scrivere un commento. Vorrei ringraziare soprattutto chi non partecipava all'interattiva ma si è lasciato coinvolgere dalla curiosità e chi, nonostante il ritardo, c'è stato sempre. Comunque, quando parlavo di “qualcuno in particolar modo” negli autori mi riferivo in particolare a Claireroxy, Smely_and_Gwoww, It's Ellie, quindici, i brevi commenti di riddlesdiaryx e qualcuno che sicuramente mi dimentico. Scusate se non ho resistito.

Non saprei cosa dire, sul vincitore. Per me, conta esattamente come gli altri, solo che... ha vinto. O meglio, è sopravvissuto. E sarà lui a parlare nel prossimo capitolo, nella sua sofferenza e compassione da tributo, per le sue vittime e le sue alleanze perse. E ci sarà anche qualche precisazione sugli altri.

Mi sto sicuramente dimenticando qualcosa, ma sono quaranta minuti che mi sto dedicando a questo finale di storia.

Diamine. Piango.

Questo spazio autrice è lungo quasi una pagina.

Meglio che eviti di allagare il computer. Alla prossima...

Ho trovato il metodo migliore per farlo, sob.

Vostra,

Bolide

P.S.= oggi ho notato che il primo capitolo ha ricevuto 999 visualizzazioni. Forse arriviamo a 1000...

  
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