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Autore: Bolide Everdeen    01/06/2015    2 recensioni
[Storia interattiva-Tributi al completo]
C'è una nazione, Panem.
C'è un anniversario, il cinquecentesimo della creazione di questo stato.
C'è un nuovo presidente, Coriolanus Snow.
C'è un'edizione speciale degli Hunger Games.
Ci sono ventiquattro tributi.
Ci sarà solo un sopravvissuto.
***
Dal primo capitolo:
"Ma Panem è simile ad un'enorme arena.
Non si può fuggire.
Solo combattere, o morire.
A voi la scelta."
Genere: Azione, Drammatico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Altri tributi, Caesar Flickerman, Presidente Snow
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie '500 - Behind the scenes'
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Capitolo XVII

Spiriti

Giorno 8

Distretto 9, Athena Rainway

Il nono cerchio era divenuto la sua casa da tre giorni, ovvero da quando era avvenuto l'omicidio del ragazzo del 10. E non le dispiaceva, come posto. In quella desolazione dorata, in quell'aridità monocroma, c'era una specie di tranquillità di cui sembrava avere un potente bisogno, in quel momento. Aveva bisogno di calma. Perché dei disturbi interni, dei contati di rabbia la assalivano senza alcun riguardo.

Tutto era iniziato dalla notte in cui il sogno del rogo si era manifestato nella sua mente, quando una nuova sensazione le aveva contagiato il corpo: quella di essere un mostro. In qualche modo, i suoi ragionamenti l'avevano spinta a riflettere sul dolore provocato dalla seconda morte del padre, equivalente a quello che quasi sicuramente caratterizzava in quel momento la famiglia di Eaves. Si era accorta che Eaves non era solamente un nemico da sormontare, un altro ostacolo fra lei e la vita, bensì un essere umano, simile a lei. Un essere umano con dei legami con altre persone, la cui felicità dipendeva dal suo sorriso. E lui non poteva più sorridere. Si sentiva un mostro.

Ma non l'aveva mai dimostrato. Si era rassegnata ad un rapido ed efficace pentimento per resistere a quei giorni con una coscienza devastata sulle spalle, si era calata in una sorta di mutismo utile per non sprecare la voce ed aveva deciso di dedicarsi solo alle attività in qualche modo lucrose, come la caccia. Aveva abbastanza provviste, ma essere previdenti era sempre la scelta giusta. E perciò, si trascinava in avanti per sopravvivere, per stringere una pace con se stessa come se questa le potesse portare l'ossigeno stesso. Non piangeva, mai. Era uno sperperio di lacrime che non avrebbe riportato in vita nessuno.

I giorni si solidificavano sulla sua testa, si scordavano quasi di essere trascorsi a causa della noia. Il sostentamento di Athena era prevalentemente formato dalle lunghe spighe di grano presenti in quel campo, che non ricevevano lo stesso disprezzo destinato a loro se lei fosse stata una capitolina. Ormai, dopo un anno di permanenza al nove, ci era avvezza. Tristemente avvezza.

A un punto, durante la mattina, il cielo sopra di lei sembrò lamentarsi di qualche comportamento sconosciuto. No, non era un colpo di cannone. Era qualcosa di più simile a... un tuono. Athena alzò la testa aspettandosi di trovare una sconfinata distesa azzurra, invece non riuscì a scorgere altro che un furioso grigiastro tendente verso il nero ad incombere solamente sul suo disco. Nuvole. Nuvole cariche di pioggia.

E, come conferma, la prima goccia si depositò sul terreno in quel momento. La annotò nella mente, per sicurezza, per far trascorrere il tempo con il conteggio di gocce di pioggia caduta. In quello stesso istante, ne arrivò una seconda. Due. Tre. Quattro. Cinque...

Non riuscì a localizzarle più. Quell'accenno di precipitazioni in un attimo si era trasformato in un temporale senza alcun dominio, a cui si poteva solamente assistere. Ed Athena si ritrovò immersa in dei panni bagnati senza essere mai entrata in nessun lago, solamente per effetto dell'acqua proveniente dalle nuvole. Nel tempo di un'illusione, si accorse di essere in mezzo ad un temporale.

Questo perché il fragoroso rumore di un fulmine impattato con il terreno le si manifestò assieme all'immagine dello stesso, dall'altra parte del disco, separata da lei dai dischi posti in mezzo. Si considerò salva, per un istante, quando avvertì la carica di una seconda saetta. Allora riconobbe il pericolo. Era esattamente nell'occhio del ciclone, e non poteva fare nulla per evitarlo.

Afferrò i suoi averi e, come prima cosa, corse subito verso la porta, trovandola sbarrata. Imprecò rumorosamente, ma la sua frase fu burlata dallo scoppio di un altro tuono. Continuò a correre, in cerca di una meta o di una sconosciuta salvezza, però non ottenne nulla. Si accorse che il fango le impastava le scarpe, e che un lieve strato di acqua si stava creando.

E quanto tempo era passato? Dieci minuti? Il vento iniziò a manifestarsi contro il suo volto, giocando con i suoi capelli, buttandoglieli in faccia o rubandoli dal volto. Il lago per terra accresceva, mentre le prime, sottili spighe di grano cominciavano ad arrendersi all'aria ed a volare via. Athena provò quasi a pregarle di non lasciarla sola, non in quel momento, ma la sua bocca era serrata.

Presto, arrivò anche la grandine. Ed a quel punto Athena dovette seriamente dedicarsi allo studio di un riparo. Come prima reazione, spalancò lo zaino e cercò nella velocità della sopravvivenza il sacco a pelo, tirandolo fuori con uno sguardo speranzoso. I tuoni, i fulmini, la pioggia la stavano detestando. Si rizzò in piedi, quando, a pochi passi, un lampo si frantumò contro il terreno.

Inizialmente, lo notò solamente la sua bocca, che urlò sconsideratamente, facendo vibrare tutte le gocce che lottavano con la terra. Poi realizzò l'accaduto, osservando la presenza ancora fumante di un'ustione sul campo. Quella sarebbe stata lei presto, se non avesse subito cercato un riparo. Allora si riparò nel sacco a pelo, rendendosi conto della stupidità della faccenda: l'acqua sarebbe certamente filtrata, la grandine l'avrebbe tormentata comunque, e se un fulmine l'avesse colpita sarebbe stata carbonizzata irrimediabilmente. L'unica protezione era quella delle orecchie, a causa dei tuoni attutiti. E sudò per il caldo che si manifestava all'interno di quell'involucro, quasi in contrapposizione con i panni umidi. Tremò per i giorni che quel temporale sembrò durare, ma non uscì mai. Ragionò, si chiese il motivo, si crogiolò nella sua paura, ma non uscì mai.

Quando fu sicura che fosse concluso, si liberò di quell'ambiente umido. La prima cosa di cui si accorse fu di aver lasciato lo zaino alla natura, ed infatti quello era volato via, l'aveva lasciata sola. In più, la devastazione compiuta sul terreno era la più totale: nessuna spiga di grano si ergeva come prima. La desolazione aveva condannato anche quel terreno, oltre al suo cuore, quando aveva realizzato una cosa, torturata dalla grandine, accaldata dal sacco a pelo, angosciata per la spietata mancanza di risorse, fiaccata da un nuovo principio di malattia: la capitale voleva farla fuori.

 

Giorno 9

Distretto 3, Emilie Levieva

Si conoscevano da due giorni, eppure fra loro si era sviluppata una complicità che lei avrebbe sempre pensato impossibile. Emilie aveva ammesso al suo interno quanto fosse necessaria per lei, quanto quel conforto fosse caloroso ed affettuoso, di quanto fosse utile nonostante nessuno l'avesse mai richiesto. Anche perché, grazie a Milton, la ragazza non si era lasciata devastare da un sentimento di angustia quando avevano avvistato del fumo all'orizzonte.

Non c'era altra spiegazione che la presenza di un altro campo, altri tributi spiegati contro di loro. Una sensazione si era annidata in Emilie, un sospetto disastroso e vendicativo: ci sarebbero potuti essere il ragazzo del 5 e quella del 12 in quel campo? Si trovavano nel settimo cerchio, e la distanza dal quarto disco in cui si era consumata la più furiosa lotta della sua esperienza era misera. Era possibile che i suoi nemici fossero stanziati lì. Furtivamente, si era avvicinata e, con un carico di attenzione maggiore della volta prima, aveva avvertito fragorosamente, come in un incubo vivido, le voci dei due. E cominciava a desiderare il piano.

I cavi avevano iniziato ad avere un'utilità solamente il giorno prima, in occasione della notte, in cui le stelle non erano sufficienti per portare tranquillità negli animi dei due alleati. E, con il suo materiale che si era rivelato più consistente e esaudiente di un intreccio di fili, aveva generato un minuscolo circuito elettrico per nutrire da una lampadina. Sarebbe riuscita a produrre qualcosa di più letale ed utile?

Ci stava riflettendo. Milton e lei erano scappati dalla postazione degli altri in fretta, in un tumulto di terrore della ragazza, mentre i primi lucidi istinti si scatenavano in lei. E si attuavano nel momento in cui la terra ispirava una strana sicurezza verde, così da scagliarsi sul loro riposo.

Quelle persone l'avevano minacciata di morte. Avevano spazzato via Lynton, solo il secondo giorno, per motivi futili.

Qualche attimo di silenzio aveva poi spaziato verso un'idea di vendetta: e se...

E se avesse generato qualcosa, qualunque cosa, per ripagare la solitudine a cui l'avevano costretta? Non ragionò per tanto tempo. Frugò senza lucidità nella cassa, tirando fuori un minuscolo apparecchietto nero, una specie di neo nelle sue mani. Lo guardò con immensa soddisfazione, alla luce del sole, mentre tutto si solidificava nelle sue intenzioni.

«Cos'è quello?» domandò subito, con un'attitudine curiosa, Milton. Anche lui lo stava rimirando, ed Emilie si affrettò a rispondere:«È un convertitore da energia elettrica ad energia termica. Come una stufa in miniatura. Modificata, può persino produrre un incendio.» Si accorse che la sua voce era affannata nel momento in cui scartava il minuscolo coperchio dell'oggetto e staccava violentemente un minuscolo filo. L'aveva fatto. Ora il neo riportava un serio danneggiamento.

«E quindi...» Milton cercò di elaborare prima traendo pensieri dal terreno, e poi dagli occhi dell'alleata. Un sussulto lo scosse al risultato.«Non vorrai bruciare quelli dell'altro accampamento?»

Per la prima volta, la sua idea fu intristita dalla nota del ragazzo. Giusto, li avrebbe uccisi? Comprendeva la condizione primitiva che l'aveva portata alla vendetta, ma non capì come mai lei si sarebbe dovuta sottomettere a lei. Nonostante ciò, replicò con convinzione:«Ho visto chi sono. E non si sono fatti scrupoli ad uccidere il mio alleato. Saremmo al loro pari, dopotutto.»

Silenzio. Una specie di nodo nella gola di Emilie si sciolse, rivelando dell'acqua condotta agli occhi sotto forma di lacrime, che cercò di reprimere. Milton poi parlò:«Capisco, ma c'è veramente bisogno di ucciderli? L'hai detto anche tu, sono delle persone sgradevoli. E tu vorresti essere al pari loro?»

Come ragionamento era efficace. Il flusso di acqua si dilatò in modo consistente, ma lei tentò ancora di inghiottirlo. Sì, non ne valeva la pena. Non di distruggersi per una rivalsa, per un passato che dopo poco tempo non sarebbe stato più valido oppure sarebbe divenuta un'obbligata esperienza terribile. «Hai ragione.» Lo accettò in questo modo, sedendosi, e lasciando fluire le lacrime.

Milton tentò di consolarla, ma il suo dolore era così interno da non avere neanche una fonte. E perciò, si lasciò andare al pianto, per concludere:«Ci ucciderebbero.»

Il suo alleato squadrò nei suoi occhi. Emilie studiò il riflesso dello suo sguardo in quello di Milton, e lesse una determinazione talmente intima da non essere localizzata neanche dalla sua stessa mente.«Ne sei convinta?» sibilò lui.

Emilie annuì. E tutto iniziò veramente.

In poco tempo, fu fortificato un secondo circuito elettrico, in simbiosi con l'apparecchio danneggiato. Fu condotto con il dovuto consenso della terra di sotterrarlo vicino all'accampamento, per poi fermarsi fino al momento in cui i suoi occupatori avrebbero lasciato libero spazio alla loro condanna.

Arrivò presto. Quando nessuno fu più al campo, Emilie assicurò ad un tronco il congegno. Era pressoché invisibile. Ed estremamente pericoloso.

Non era affatto sicura che funzionasse. Però ci sperava. La sua cordialità si era dissipata nella crudeltà di quel posto e furono solamente le ultime, deboli coscienze a ribadirle le sue azioni. Non le considerò. Doveva. In qualche modo. Altrimenti si sarebbe fratturata come porcellana.

I due assassini avevano lasciato lì i loro zaini. Una mossa ardita, incompresa, forse una fatale distrazione. Emilie pensò se raccoglierli, poi ricacciò l'idea. Si sarebbero accorti subito che qualcosa era sbiadito, se avessero notato l'assenza delle loro borse.

Il richiamo. Emilie camuffò in un cespuglio, in modo che comunque mantenesse il suo mestiere, un'altra minuscola macchinetta, adatta al compito di distorcere i rumori della foresta ed amplificarli fino a creare terrore. Fino a richiamare i due nemici. Fino a farli tornare alla loro base.

Fino ad attirarli in una trappola.

 

Distretto 12, Savannah Sparks

Non avrebbe voluto spostarsi. Però la loro recita aveva necessità di nuovi sfondi, di nuove minuscole tenerezze, di nuove gabbie per i capitolini per costringerli a compatirli. E ritrovarono questo nella caccia. Julian avrebbe insegnato alla compagna di menzogne a catturare una preda, così da originare scene inedite e ancora più efficaci. Savannah sapeva che quel bosco nascondeva grandi dosi di divertimento, da non eludere e non scartare. In più, era un modo per farsi piacere dal pubblico. Non osava immaginare cosa sarebbe accaduto però se entrambi fossero rimasti vivi, sul finale, davanti allo schermo. Quando tutto si sarebbe dissipato, quando non sarebbe esistito alcun motivo per accarezzarsi e si sarebbero moltiplicati quelli per pugnalarsi. La risposta affidata dalla sua mente era semplice: lo uccideremmo. No, sembrava non crearsi così tanti scrupoli, all'apparenza. Ma non realizzava la faccenda. Non la sentiva, non la comprendeva. Ed allora non poteva temere seriamente quella situazione.

Ad un punto, il territorio dietro le loro spalle gracchiò, tradendoli mentre loro si accostavano alla fabbricazione di una trappola. E li ammutolì, cercando il terrore negli occhi dell'altro per non sentirsi impotenti. Continuava, non temeva la loro reazione. E, in questo modo, li intimoriva ancora di più.

«Viene dal campo.» Julian non si preoccupò di realizzare la presenza di rumore, probabilmente ci era già arrivato al suo interno. Si alzò con cautela, e chiese con una ritrovata, fittizia premura alla compagna:«Tutto bene?»

Lei era sempre appollaiata sul terreno.«Be'... sì. Non so cosa succede là, però.» Lanciò un'occhiata inquietata a dove avevano dimenticato i loro zaini. Si erano semplicemente prestati alla loro imprudenza, credendo di essere talmente potenti e talmente isolati da trascinarsi dietro solo delle necessità. Semplicemente perché la loro pigrizia li aveva battuti; dopotutto avevano una gran quantità di risorse e servirsi di tutte quelle era semplicemente esagerato, per andare a caccia pochi metri più in là.

E lei non sapeva. Sinceramente, e sospettava, e aveva paura. E voleva tornare. Non furono necessarie parole, era l'intento di entrambi. Nella sua immersione nel personaggio, Julian la confortò con una gelida e convincente stretta di mano, da lei ricambiata con una curiosità non collegata totalmente con la recitazione. Sì. Era curiosità. Cosa c'era da temere? Avevano combattuto con altri, un altro scontro non sarebbe stato poi così inaspettato.

Già. Avevano combattuto con altri. Ma erano i primi giorni, i livelli erano aumentati, si erano votati alla violenza. E rimanevano i Favoriti. E su di loro...

Dopo un poco, Savannah sorrise. No, li avrebbe affrontati. Non aveva paura di loro.

Arrivarono al loro luogo, trovandolo vuoto come un tradimento. Il rumore rombava, sempre, persisteva, faceva credere loro di essere reale, come se non avesse considerato il loro raggiungimento, la loro scoperta. Ma era vano. Credeva di spaventare, e...

E il suo torto non era enorme. Quel fantasma alitava sui loro colli, e non li vedevano. Non aveva neanche trafugato gli zaini, li aveva graziati di tutto il loro bottino. Per quale motivo?

Incontrò gli occhi di Julian, senza riuscire a leggerli. Ma comprendeva il pericolo celato da quel vuoto. Il vuoto era sempre il posto in cui il pericolo si dilatava, in cui conquistava tutto il territorio, lo rendeva suo e condannava ogni invasore. Alla fine, erano loro gli invasori.

«Prendiamo la roba ed andiamo via» si decise Julian, avventandosi verso gli zaini. Ed allora il tradimento arrivò.

Era una folata di vento accompagnata dall'esplosione di una fiamma, capace da estirpare ad entrambi un urlo. Eccola, possente, vibrante, condannante; pronta a devastarli. Qualcuno aveva calato su di loro una trappola, con tutte quelle attrezzature invisibili e distruttive. Un'umiliazione totale. Un'umiliazione che adesso stava ustionando Julian.

Fu un attimo. Il fuoco lo inghiottì come se non fosse mai esistito, inghiottì lui, i viveri, il territorio circostante, come se fosse stata l'unica cosa esistita lì. Sembrava il camino di casa sua amplificato fino a livelli inspiegabili: una possente lingua che esalava un rigo di fumo grigiastro, indeciso e debole, il contrario del suo enorme generatore rosso, arancione, giallo, di così tanti colori da non averne uno in definitivo. Da amplificare la sua potenza. Vibrava, ed avanzava contro di lei.

Un colpo di cannone la riportò alla realtà. Julian... pensò un attimo, ricordandosi di aver avuto un alleato. Julian è morto. E no, in quel momento non era realmente mai esistito. Era lei a dover continuare a vivere, a combattere. A scappare subito da quel luogo, altrimenti le fiamme l'avrebbero presto raggiunta.

In un impeto d'impulsività, fuggì insieme al vento verso dove era arrivata, con il fuoco in una faticosa espansione. Poi, nella sua sconvolta corsa, si accorse di essere ancora un essere umano, di stringere un'arma in mano, e di poter ragionare.

L'incendio si sarebbe propagato nella direzione del vento, quella che lei stava seguendo. Perciò, non doveva continuare da quel lato, bensì aggirarlo. Era probabile anche che i suoi nemici, i piromani, alloggiassero vicino all'albero. E lei aveva il suo machete. Non era male, come prospettiva.

Non capì come mai stesse pensando a dei nemici. Solo lo sentiva, sentiva la loro presenza. E sentiva la sua vendetta.

Perciò, con una traiettoria circolare, si allontanò dall'incendio, disperdendo la vista fra gli alberi, intravedendo la maledizione luminosa, non perdendo mai l'avvertimento del fumo. Corse fino a renderlo un ricordo, fino a sentire delle voci.

Loro. Savannah si fece più sicura sul machete. Si aggiornavano sulle loro condizioni, con voce affannata, come se credessero i pericoli conclusi. Illusi. Si avvicinò, sinuosamente silenziosa, cercando di comprendere chi fosse. E ritrovò la maledetta schiena della ragazza del 3. Ancora lei, la tormentava lasciandola sola, scappando quando si ritrovava davanti alle sue responsabilità. Questa volta, non l'avrebbe passata liscia.

Si caricò. Raccolse tutta la sua furia, tutte le sue condanne, fu pronta con pochi determinanti respiri. E poi, si scagliò in direzione della nemica, piantandole sulla testa con un grido di rivalsa la lama. Non ci furono gridi di protesta, addii al mondo, ma solo un colpo di cannone; lei cadde subito, arrendendosi alla potenza della vendetta. Il suo cranio aperto sanguinava mostrando i segni di quella che era stata un odio e si era congedata nella morte. Ora era solo sangue, sparso ovunque, schizzato fino alla foglie degli alberi così da grondare, a fertilizzare il terreno, a segnalare la sua lama, a macchiarle i vestiti. Che schifo, pensò Savannah a quest'ultimo avvertimento. Qualche pezzo di cervello s'intravedeva, condannato sul terreno. Una cupa soddisfazione, quasi scavata dal rimorso, si avventò in lei.

Alzò gli occhi e trovò un'altra figura sconvolta: era probabilmente il suo alleato, un ragazzino dai capelli rossi di cui non ricordava la provenienza. Quell'anno ce n'erano vari. Nel suo turbamento sarebbe potuto essere innocuo, ma una forza spingeva Savannah ad attaccare anche lui. Uno in meno, no? La finale si avvicinava, e lei non poteva lasciarsi andare alla pietà.

Il ragazzo si risvegliò quando Savannah caricò con un grido, trovando solamente l'aria e facendo ricadere il machete sulla terra violentemente. Non c'era più, si era discostato. Furiosamente, si raddrizzò, guardandosi attorno. E vide la sua figura in corsa nella direzione del fuoco.

Era pazzo o stupido? In ogni caso, lei lo inseguì. Non era il degno modo di scomparire, lei gli avrebbe dedicato la giusta morte.

Arrivò al punto in cui non lo trovò più, e l'unica alternativa fu squadrare il vuoto circostante, trovare i suoi tradimenti prima che si potessero ripercuotere su di lei.

C'era l'aria. Non era male, come sensazione, accompagnata da quel caldo e quell'accenno di fumo che s'infiltrava nelle narici. Non era poi così dissimile dall'odore casalingo del carbone, la confortava. Quasi aveva voglia di allargare le braccia, e godersi le fiamme. Ma aveva un nemico da localizzare. Perciò, si osservava intorno. Senza trovare soluzioni.

Improvvisamente, qualcosa si scagliò contro di lei dall'alto, dolorosamente, una fitta improvvisa. Riportò la sua mano al cranio, localizzando del sangue. Era stato talmente forte?

Però, era ancora viva, era ancora capace di sconfiggere quell'altro. Non sospettò chi fosse il colpevole, ma si mosse in altre direzioni, verso altre speranze. E qualcuno bussò sulla sua mente una seconda volta, in modo più forte. Ed un'altra ancora. Solo al terzo colpo comprese l'arma del delitto: pigne. Pigne cresciute sugli alberi, forse pronte a suicidarsi impattando con il terreno tutte in quel momento per una casualità, o forse...

Il ragazzo del 7. Fu tentata di ridere, quando si accorse della stupidaggine della sua cecità, come spesso le accadeva. Com'era semplice! Il ragazzo del 7 si era arrampicato sugli alberi e da lì la stava condannando. Quei suoi pensieri erano di una nebbiosa vacuità, come se lentamente la stessero abbandonando, come il sangue che le solcava il collo. Tutto sembrava non avere più senso. Si meravigliava del fuoco, tenendosi a distanza di sicurezza, ma aveva smesso di cercare.

Si presentavano ancora i lamenti dagli alberi, le vendette del ragazzo del 7, e le gambe di Savannah iniziavano a piegarsi sopra il suo peso. A non sorreggerla più, come il graduale silenzio della sua mente, sempre più potente; gridava sempre più forte le sue intenzioni. Gridava che la stava perdendo, senza alcuna riserva. Gridava che stava cadendo in ginocchi sul suolo.

Era terrificante. Non aveva una sosta, e si era trasformata in una ripetizione, in una sottospecie di morte. Voleva urlare che bastava così, che quasi era già morta, senza essere consapevole di dire una bugia o meno. Non camminava in più, si era inginocchiata, mentre la sua mente si ribellava perché l'avversario avrebbe potuto mirare meglio.

Sangue. Alla fine lo sentiva dappertutto, sulle mani, sulla nuca, sul collo, sugli occhi. No, non sugli occhi. Voleva ancora vedere il fuoco. Voleva vedere il fuoco da sdraiata, mentre tutto intorno a lei era conquistato dal silenzio, una specie di calma, anche nei suoi pensieri.

E la sua visuale era sempre più nera. Alla fine, il fuoco fu un punto, e dopo un ricordo. Poi, non sentì più nulla.

 

Distretto 9, Andrea White

Un altro colpo di cannone. Andrea non poté evitare di sorridere; quell'esperienza si stava volgendo verso la fine, verso le spettacolari scintille conclusive. Avrebbero dovuto scannarsi, per stupire, la più cruda delle sentenze si sarebbe presentata come un ordine sulle loro teste. E lui avrebbe soddisfatto i bisogni sanguinari di Capitol City, per una necessità impellente proveniente dalla sua bocca che più dalla sua voglia di vita. Perché di voglia di vita sembrava non possederne.

Non aveva senso. Cosa significava vivere? Svegliarsi la mattina, camminare, trovarsi un'occupazione per smaltire il tempo in attesa della morte e compiangersi quando quella alitava sul proprio corpo. Era un'azione futile, predisposta per un animale stupido quale l'uomo, che non s'interrogava sull'utilità di vivere, ma seguiva accanitamente sbavando tutto ciò che veniva comunemente considerato “bello”. “Bello”, “ricco”, fino a tramutarsi in vanamente fondamentale. Questo era il principale motivo per il quale Andrea disprezzava gli umani, la loro politica, la loro filosofia, e per cui odiava anche se stesso, in fondo.

Aveva già progettato la sua mente, per un dolore inflitto da solo, atroce e soddisfacente. Niente sarebbe stato migliore nella sua intera vita che morire; la sua maggiore vincita. In più, compiendo il suo funebre riscatto fuori dall'arena, in diretta nazionale, mostrando veramente cosa fosse il sangue a quello sciame di sudditi della vanità durante l'intervista finale si sarebbe colmato dei suoi bisogni in modo così profondo da lasciare il segno persino dopo la sua morte. In lui, nel mondo. Non voleva insegnare a nessuno, ma solo librarsi verso il futuro migliore: il niente.

Era quasi finita, perciò. La sua esperienza per sfogare la sua rabbia prima della fine, per non morire senza aver mai manifestato i suoi bisogni fisiologici: mangiare, dormire, bere, uccidere. Dopotutto, era stato progettato anche quello, no? Gli era piaciuto, l'aveva apprezzato, ma riconosceva di bramare la conclusione.

Si trovava ancora presso la Cornucopia, la sua ultima casa, l'ultimo posto che l'aveva visto rilassatamente solo. E adesso aveva deciso di separarsene, di allontanarsi da lei per offrire agli Strateghi di predisporla per la sua vittoria.

Avrebbe vinto, ne era certo. Chi era rimasto, oltre a lui? Due persone. Il fragile bambino del 7 e l'ostinata ragazzina del 9. Nessuno dei due era al suo pari. Nessuno dei due.

Era pronto per distruggerli.

Si armò delle necessità, un minimo di cibo, un minimo di acqua, un minimo di armi. Tutto ciò che il suo corpo esigeva, per bruciare gli ultimi respiri.

Rimirò l'enorme dimora argentea, allontanandosi. I fiori che nessuno aveva pulito, il clima di festa abbandonata da nove giorni che giaceva lì.

Le porte si aprirono con un sussulto, quasi lo avessero avvistato. In un attimo, Andrea notò che quest'azione era comune a tutte le mura. Niente più li divideva. L'apocalisse sembrava annunciarsi così.

Andrea sorrise e si precipitò nel primo cerchio. Che i giochi abbiano fine, al più presto possibile.

 

Spazio autrice

Sarò breve. Basta dire che questo è il terzultimo capitolo di 500, e nel prossimo avremo un vincitore. Da qui, è semplice dedurre la lunghezza del diciottesimo e penultimo capitolo di 500: sarà interminabile. Cercherò di essere coincisa, ma le lacrime sulla tastiera allungheranno tutto.

Perché siamo alla fine, e questo mi fa stare abbastanza male. Questa storia lascerà dentro di me un vuoto enorme; sarò colmata da qualcosa, ma privata di altro. Cavolo.

Allora, brevemente, visione dei POV:

Athena Rainway: alla fine, l'ho spostata l'ottavo giorno. Qualcosa doveva succedere, no?

Emilie Levieva: è un POV di preludio di tutto quello che accadrà dopo, una spiegazione. Spero non sia stato troppo noioso.

Savannah Sparks: e con due pagine e un terzo di lunghezza, Savannah Sparks per ora si aggiudica il primato di POV più lungo di 500! Sempre per ora. Come sarà strutturato il prossimo capitolo? Sorpresa.

Andrea White: forse questo è il POV più corto, invece. È essenziale, per annunciare la fine. E spero di essersi riuscita.

I ringraziamenti andranno nell'ultimo capitolo, anche se vorrei iniziarli qui. Fate conto che ci siano.

Alla prossima,

Bolide

 
  
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