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Autore: Asuna_Yuuki    14/06/2015    2 recensioni
"I Ragnarǫk indicano, nella mitologia norrena, la battaglia finale tra le potenze della luce e dell'ordine e quelle delle tenebre e del caos, in seguito alla quale l'intero mondo verrà distrutto e quindi rigenerato."
Come potete ben immaginare, la storia sarà basata sulla mitologia nordica, in particolare quella vichinga. Mi sono documentata prima di iniziare a scrivere, ma naturalmente non sarà perfettamente coerente con la vera e propria tradizione scandinava.
La storia è incentrata sulle vicende di Rena, una giovane elfa delle tenebre, che dopo un gesto eroico verrà esiliata dal suo regno di origine e si ritroverà obbligata a iniziare una nuova vita, o meglio, a sopravvivere nel regno dei suoi nemici: gli elfi della luce. L'esilio di Rena si rivelerà in realtà una fortuna inaspettata per tutti e nove i mondi, in quanto detentrice di un oscuro segreto, di cui sono al corrente solo gli abitanti della sua terra e altri popoli altrettanto malvagi e subdoli, che si ritroveranno allo stesso tempo ingannatori ed ingannati.
Nella speranza che la storia vi piaccia, vi auguro una buona lettura!
Genere: Azione, Fantasy, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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6.
 
Dopo aver passato con Adrian tre giorni, la sua compagnia non si rivelò affatto malvagia: mi spiegò qualcosa riguardo i Liosalfar e dissipò i miei numerosi dubbi con le sue risposte esaustive. Tra le tante tematiche di cui trattò, quella che mi interessò di più fu senz’altro la distinzione in “razze”, non presente all’interno del nostro popolo. I Liosalfar si dividevano in elfi delle stelle, elfi silvani e mezz’elfi. Gli elfi delle stelle, perlopiù di sangue nobile, erano capaci di controllare e leggere le menti altrui. Gli elfi silvani non possedevano particolari poteri, se non generalmente un grande coraggio e abilità in battaglia. I mezz’elfi non disponevano di capacità caratteristiche, ma alcuni di loro padroneggiavano il potere della telepatia.
 
-Immagino che quindi la maggior parte delle guardie siano degli elfi silvani.- commentai, ricevendo come risposta da lui un cenno di assenso col capo. Abbozzai un sorriso, nascondendo la fronte tra le ginocchia che in quell’ultimo periodo ero solita richiamare al petto quando mi sedevo, abituandomi ogni volta di più alla posizione insolita. 
 
Nonostante si fosse rivelato estremamente disponibile nei miei confronti, un dubbio continuava ad attanagliarmi, ma non credevo che avrei in ogni caso avuto il coraggio di esprimerlo: cos’era successo un anno prima di talmente grave da fargli perdere il lume della ragione prima della strage? Il fluire dei miei pensieri venne interrotto dall’usuale ingresso della guardia di turno, incaricata di servirci i tre semplici pasti giornalieri. Sia io che il mio compagno di cella ci voltammo di scatto al suo ingresso e non appena riconobbi il carceriere che quel giorno ci era stato assegnato, mi lasciai sfuggire un sorrisetto divertito.
 
-Guarda un po’ chi è tornato. E’ proprio “cammina in silenzio, Dokkalfar”.- dissi, osservando prima l’elfo che aveva fatto il suo ingresso nella stanza e poi il contenuto del vassoio che portava. Non feci nemmeno in tempo a distinguere le pietanze offerte, che l’uomo sollevò l’oggetto in modo che non mi fosse possibile vedere ciò che vi era appoggiato sopra.
 
-Vedo che durante questi tre giorni nelle segrete non hai ancora imparato le buone maniere, Dokkalfar.-replicò l’elfo, ponendo il vassoio sul tavolino ligneo addossato alla parete opposta a quella contro la quale ero appoggiata con la schiena. 
 
Posai le mani contro al muro e con una spinta delle braccia mi rimisi in piedi, ripulendo i pantaloni dalla polvere. A quel punto mi avvicinai a lui compiendo passi lenti, inarcando nel frattempo entrambe le sopracciglia con tono di sfida: -E tu non hai ancora perso quell’inflessione dispregiativa.-
 
Quando gli fui abbastanza vicino, lui percorse la mia figura minuta con lo sguardo, arricciando il naso con un’espressione quasi schifata. Cercai di capire il perché di tanto sdegno, mentre Adrian si accingeva ad avvicinare due sgangherate sedie di legno al tavolino in modo che potessimo mangiare. La guardia non sembrava avere intenzione di andarsene, anzi, rimase a lungo in piedi contro il muro, con le braccia incrociate all’altezza del petto e una gamba piegata. Un ciuffo di capelli biondi gli ricadeva sulla fronte chiara, leggermente corrugata e gli occhi azzurri erano appena visibili a causa della smorfia in cui aveva contratto il volto.
 
-Cos’è quella faccia?- chiesi, sedendomi su una delle due sedie con cautela, per evitare di romperla: non aveva per nulla un aspetto stabile.
 
-Hai un pessimo odore.- fu la sua sincera risposta, accompagnata da un gesto della mano davanti al proprio naso, come se volesse scacciare il fetore per evitare di inalarlo.
 
Adrian rimase in silenzio tutto il tempo, con il viso costretto in un’espressione che segnalava sommo astio. La sua affermazione mi fece istintivamente avvicinare il dorso della mano alle narici per verificare la veridicità delle sue parole e dovetti a malincuore ammettere che aveva ragione.
 
-Non sono di certo io ad aver stabilito le condizioni igieniche di questo posto. Se il mio odore ti reca disturbo, potresti sempre chiedere al re di concedermi un bagno caldo.- risposi, girando la minestra fumante che ci era stata servita per pranzo. Le pietanze assaggiate in quei tre giorni erano ottime, specialmente le minestre dal gusto speziato e particolare. La guardia emise una risatina forzata, distogliendo lo sguardo da me e dal mio compagno che stavamo in quel momento cominciando a mangiare. Era la prima sentinella in tre giorni a fermarsi nella cella durante il pasto e sperai vivamente che quella sarebbe stata l’unica volta.
 
-Non so, vuoi unirti a noi?- sbottò a un certo punto Adrian, dando volontariamente un colpo piuttosto forte col palmo della mano sulla propria coscia in modo da provocare una sorta di schiocco –Per quale motivo ci stai osservando in quel modo?-
 
La guardia non batté ciglio e alzò le spalle con noncuranza, iniziando a osservare le proprie mani ricoperte dalla cotta di maglia e successivamente la parete di fronte a sè. Il silenzio che cadde fu spezzato solo dal rumore tintinnante del cucchiaio che Adrian, sempre in maniera volontaria, aveva lasciato cadere nella scodella. A quel punto mi girai verso di lui, notando che stava stringendo le mani a pugno con così tanta forza da far diventare bianche le proprie nocche. Stavo per suggerire alla guardia di lasciare la cella per evitare di disintegrare l’ultima briciola di autocontrollo di cui Adrian disponeva, ma a quanto pare aveva già capito l’antifona da sé.
 
-Ricordati che ti tengo d’occhio..- iniziò la guardia, lasciando intenzionalmente cadere le proprie parole mentre si dirigeva verso l’uscita della cella e, una volta richiusa la porta a chiave terminò la frase, accompagnando le proprie parole con uno sguardo così freddo da far raggelare il sangue: -..Rena.-
   
 
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