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Autore: Tota22    14/06/2015    2 recensioni
Una panchina verde e scrostata in un parco giochi di periferia testimonia l'incontro tra due sconosciuti. Nonostante abbiano in comune ben poco, i due ragazzi si ritrovano a intraprendere un viaggio che ha come complice la notte. Il sorgere del sole è il traguardo della gara, la sfida è vivere come se fosse l'ultima notte sotto il tetto del mondo. Sarà l'alba a decidere se sciogliere o saldare per sempre un legame inaspettato.
[Momentaneamente sospesa]
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Capitolo 4

Libera?

Al


-  Che. Diavolo. Mi. E'. Preso. -

Cinque parole continuavano a rincorrersi nella mentre di Al. Un quarantacinque giri inceppato, sempre sullo stesso motivetto.

Da quando la ragazza aveva fatto la sua offerta, e "Oliviero detto Oliver" l'aveva accettata, erano rimasti immobili, seduti sulla panchina, senza più fumare. Zitti.

Al percepiva il silenzio imbarazzante, denso, pregno di aspettativa e dubbi. Qualche volta aveva visto i lineamenti di Oliver contrarsi, come se volesse parlare, ma la bocca, le guance, la pelle, le ossa e i muscoli gli impedivano di far emergere la voce dalla cavità della gola, sigillando le labbra in una smorfia.

- Che diavolo mi è preso? -

Si chiese ancora una volta Al, mentre valutava razionalmente lo slancio che, pochi minuti prima, l'aveva portata ad esporsi con un perfetto sconosciuto ed addirittura ad offrire il proprio aiuto.

L'aveva fatto per pietà? Forse, anche se non le andava di rimuginarci troppo.

Per noia? Altamente probabile.

Perché si sentiva attratta da quello sconosciuto? Diamine... non l'avrebbe mai ammesso.
 
Mentre il silenzio inzuppava l'aria attorno a loro, Al valutava la sua stupidità.
Per quanto ne sapeva di quel ragazzo poteva essere un serial killer in cerca di una vittima, Jack lo squartatore due la vendetta, un commerciante di organi, un narcotrafficante con la camicia firmata...

 - Ma cosa vai a pensare? Idiota! -  si rimproverò di nuovo tra sé e sbatté il palmo aperto della mano sulla fronte, emettendo un suono secco.

Il rumore di pelle contro pelle fece riemergere Oliver dai suoi pensieri, annodati come la pastasciutta lasciata raffreddare per ore in un piatto, senza un filo d'olio. Fu allora che Al si decise a parlare:

-  Che c'è... sei diventato timido?  -

- No... Forse sì. Non lo so. -

Respiro profondo.

- Non so da dove cominciare a parlare di questa cosa... è stato troppo improvviso. Se ripenso a qualche mese fa era tutto normale. Adesso mi sembra di essere stato catapultato in un mondo parallelo in cui va tutto storto. Un incubo senza risveglio.

Hai presente quando sogni di essere in un corridoio buio e dietro di te senti, lo sai, che c'è qualcuno che vuole farti del male?  Allora inizi a correre più forte che puoi, ma le tue gambe diventano molli, ti sembra di muoverti nella melassa. Vedi una porta di fronte a te, la luce dietro di essa. Una sottile lama bianca che passa attraverso la serratura, ma anche se corri non si avvicina mai e dita fredde ti accarezzano i polpacci e le spalle e tu hai paura.
 Poi però ti svegli, no? Ti svegli ed è tutto a posto. I muri della tua stanza sono sempre lì, sei nel tuo letto, sei a casa.

Io a casa non ci sono mai tornato. Sono intrappolato in questa realtà così assurda, ribaltata... -

Al osservò Oliver prendersi la testa tra le mani e chiudere gli occhi. La ragazza sentiva i suoi soliti pensieri caustici, cinici, menefreghisti, strizzarsi in un piccolo nodo e nascondersi in un angolo remoto del suo essere, lasciando il vuoto.

Uno spazio libero da riempire con nuovi pensieri, parole ancora troppo acerbe per essere pronunciate. Doveva confortarlo? Dirgli che sarebbe andato tutto bene? Non le andava di dire bugie. Avrebbe dovuto dirgli che lo capiva? Non era vero neanche quello.

- Non dici niente? -

Così presa dai suoi pensieri, Al non si era accorta che Oliver aspettava che ribattesse.

- Ti ho detto che ti avrei ascoltato, ma ciò non implica che debba risponderti. -

Oliver sbuffò irritato.

- Comodo in questo modo per te. Se è così potevo parlare anche con il muro di casa. O con il mio cane. Mi puzza di scusa perché non sai cosa dire. -

Azzeccato.

- No, piuttosto non ho abbastanza elementi per costruire una risposta. Soprattutto non so se ti è utile una mia risposta. Come posso capirti, se neanche lontanamente so cosa si prova? -

La risata amara di Oliver si sparpagliò nella notte,  onda disordinata nell'aria buia.

- "Elementi "... mi stai trattando come caso clinico? Scusa, ma questa parola mi ricorda gli ultimi due mesi di inferno che ho passato in ospedale...
... vuoi davvero sapere come mi sento? Ho paura. -

Al lo sapeva. Aveva riconosciuto subito il terrore che lo accompagnava, dal momento in cui si era seduto a fianco a lei mezz'ora prima.  La sua paura era un fantasma ancorato a lui; un amico immaginario al quale si vuole dire addio, ma che continua a tenerti la mano.

- Ho paura di svegliarmi una mattina e di non potermi più alzare dal letto da solo.

Ho paura di dover abbandonare il mio lavoro.

Ho paura di dover dipendere dagli altri, che sia per mangiare o persino per pisciare.

Ho paura di costringere gli altri ad occuparsi di me.

Ho paura che i miei genitori abbiano paura di quello che potrei diventare. Dovrei essere io a prendermi cura di loro ora, non il contrario. -

Una costellazione di lacrime era rimasta intrappolata nelle ciglia di Oliver, sarebbe bastato chiudere le palpebre e la gravità le avrebbe richiamate a terra.  

- Mi sembra di avere un cronometro impostato con il conto alla rovescia, nascosto dentro di me, che ticchetta come la sveglia di Capitan Uncino.  Ogni giorno lascio indietro un pezzo di me che viene distrutto per sempre. Quello che ho imparato da tutta la vita, gesti e movimenti naturali e automatici diventeranno per il mio corpo un linguaggio impossibile da capire.-

Strisce salate tracciavano mappe sconosciute sulla faccia del ragazzo. Al sentiva la voce di lui arrochirsi e impregnarsi di pianto.

- Ho paura di diventare un guscio, un involucro immobile e muto della mia coscienza. Quanto tempo ci vorrà? Quanti anni prima di rimanere isolato da tutto? -

Oliver spezzò il flusso di lacrime, stropicciando gli occhi, e si schiarì la voce.

- Io non so se riesco a vivere così, non so se riesco a sopportarlo. Fino a che punto mi sentirò ancora una persona a tutti gli effetti? Fino a che punto la mia vita sarà degna di essere chiamata tale?-

Al si sentiva sprofondare, quei pensieri erano troppo grandi per lei.

Rinchiusa nella sua caverna di diffidenza, non aveva mai lasciato la mente spaziare oltre la routine logorante della vita quotidiana.

Alzarsi, andare al lavoro, mangiare, lavorare ancora, tornare a casa sulle proprie gambe, dormire. Aveva disprezzato, in tutti quegli anni da quando era adulta, la monotonia della sua esistenza senza riuscire ad uscirne, senza cambiare abitudini, sempre sola.

Ora che Oliver l'aveva costretta a pensare alla vita, nella sua definizione più semplice, il pulsare del sangue nelle vene, il contrarsi dei polmoni, il movimento dei muscoli, si era resa conto come questa fosse data per scontata.

Un debole senso di vergogna la punse.

Le sembrò di aver fatto un torto a se stessa nel lasciarsi vivere così,  ogni volta che aveva rifiutato la mano di qualcuno per paura, ogni volta che si era privata di un gesto umano.

Lei che per anni aveva desiderato l'isolamento, rinchiusa nei confini del proprio essere, così libera ma desiderosa di prigionia, si trovava davanti qualcuno che era destinato a vedersi scivolare la propria libertà, la propria umanità, tra le dita.

La testa di Al era un gomitolo disordinato di pensieri. Ad un tratto qualcosa si distinse in quell'ammasso confuso. Un'idea piccola, luminosa. Al non conosceva le parole giuste per esprimerla, quindi decise di prenderle in prestito da qualcun'altro.

- Sai, una volta ho letto un racconto... -


 
 
N/a
Ciao!
Arrivati a questo punto della storia ritengo necessario fare delle precisazioni. Come avrete notato, ho deciso di trattare un tema rischioso e delicato che è quello della SLA.
Grazie ad alcuni fenomeni virali come l'Ice Bucket Challenge, pellicole cinematografiche come "La teoria del Tutto"  e campagne di sensibilizzazione, si è più consapevoli dell'esistenza di questa patologia.
Purtroppo ancora non se ne conoscono né le cause né una cura, solo la possibilità di rallentarne il processo degenerativo.
Tuttavia non vorrei che, per ragioni di trama, alcune informazioni sulla malattia stessa vengano riportate sbagliate o incomplete.
Dunque vorrei sottolineare come sia raro, anche se non impossibile, che persone giovani contraggano la malattia.
Il protagonista ha un'età intorno ai venticinque anni, quindi non rappresenta il soggetto statisticamente più esposto. La scelta è puramente di comodità, poiché non mi sento in grado di raccontare questa storia dal punto di vista di una persona più grande.
Inoltre la diagnosi della malattia è estremamente difficile e soprattutto è raro che sia tempestiva, al contrario di come potrebbe trasparire dalla storia.
Con questo racconto non voglio pretendere di trattare nel modo più esauriente i risvolti clinici, biologici, tecnici della malattia, quanto piuttosto gli effetti su chi deve conviverci e le persone che gli stanno accanto.
Per quanto sia impossibile descrivere un'esperienza così delicata quando non la si vive sulla propria pelle, spero di non risultare superficiale o inopportuna e dare il giusto spazio a questa realtà di cui si parla ancora troppo poco.
Per chi è interessato a capire di più sulla SLA consiglio il sito: www.AISLA.it , dove tutto è spiegato in modo semplice e diretto.
La storia, poi, tratterà di altri temi come l'amicizia, la capacità di lasciarsi andare e fidarsi degli altri, i quali saranno ugualmente importanti. C'è tanta carne al fuoco insomma.
Spero continuerete a seguirmi e, se vi va, esprimere le vostre impressioni.

Grazie a tutti, a presto!
  
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