Libri > Hunger Games
Segui la storia  |       
Autore: Ivola    17/06/2015    1 recensioni
Le storie di Panem sono varie e numerose. Avete mai sentito parlare dei promessi del Distretto 6, quei due ragazzi che avrebbero fatto di tutto pur di ammazzarsi a vicenda e non sposarsi? Loro sono solo una sfocatura, come tanti altri.
Klaus e London. London e Klaus.
Un altro matrimonio combinato, le persone sbagliate, un cuore solitario, e tutto ciò che (non) può essere definito amore.

▪ VI: « Che cosa mi stai facendo? » ansimò la ragazza, tentando di aggrapparsi alle sue spalle. Era decisamente una domanda stupida, visto che era piuttosto evidente cosa il ragazzo stesse facendo. [...]
Klaus non si degnò neanche di rispondere, ben concentrato a muoversi sul suo corpo con gli occhi distanti e le labbra socchiuse. Non aveva né la voglia né la forza di ribattere, per cui la zittì con un bacio rabbioso. « Taci » le sussurrò, corrugando la fronte e mantenendo le labbra a pochi centimetri dalle sue nel caso London avesse deciso di parlare ancora.

▪ XIII: « Perché lo state- no, perché lo stai facendo? »
L’altro lo guardò bene negli occhi, con un’espressione che Klaus non seppe decifrare.
[...]
« Mert szeretlek » rispose Ben semplicemente.
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest, Triangolo
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Note: A volte ritornano. Io meno volte di quelle che dovrei. Comunque eccomi qui, ero ispirata e ho concluso in pochi giorni questo capitolo. Aprile e maggio non ho neanche scritto una virgola, sono sincera, perché ho sudato sette camicie per prendere una media decente a scuola, visto che mi preparo al fatidico quinto liceo #lavitadiIvola. Appunto, probabilmente non vi interessa.
Non ho nient'altro in particolare da dirvi, in realtà, solo che Blur è quasi finita e... sono soddisfatta così. Un giorno proverò a trasformarla in un romanzo, eliminando totalmente il contesto di HG, ma mi ci vorrà veramente molto tempo. Per ora godetevi questi ultimi capitoli, se sono decenti, perché poi quasi di sicuro mi dedicherò a tutt'altri progetti e Klaus, London, Ben e tutta la combriccola se ne andranno un po' in vacanza, se lo meritano dopo tanto angst e tante sofferenze. Credo.

Come sempre, nel caso voleste seguirmi altrove(?), vi linko la mia pagina facebook QUI. Stavolta niente lista della spesa :°

Buona lettura! ♥

Il titolo del capitolo viene da "Another love" di Tom Odell. Vi consiglio di ascoltarla... anche se in effetti non c'è nessuna canzone della playlist di Blur che non vi consiglierei di ascoltare.

Questo banner appartiene a me, ©Ivola.














 










Image and video hosting by TinyPic










Blur

(Tied to a Railroad)






031. Thirty-first Chapter – All my tears have been used up.


 
Klaus rimase paralizzato per qualche secondo, ma dopo quel momento di stordimento sentì il rimorso e la frustrazione invadergli il petto in una vampata di fuoco. Non pensò neanche alle proprie azioni, cominciò semplicemente a scuotere il corpo addormentato di Benjamin con violenza, finché quello non si svegliò di soprassalto, voltandosi spaventato verso di lui.
« Che cosa ci fai qui? » urlò Klaus, spingendolo con impeto giù dal letto. Ben cadde a terra e si rialzò dopo qualche istante, ancora indebolito dal torpore della dormita – e degli avvenimenti precedenti –, massaggiandosi una tempia. Lo fissava con sguardo spaesato e innocente ed era nudo. Nudo di fronte a lui. Nudo di vestiti, nudo di tutte le bugie di una vita, nudo di maschere. Era semplicemente identico al Benjamin Bridge che Klaus aveva imparato a conoscere una volta.
« Klaus... » provò a dire in un flebile sussurro, ma sembrava essere a corto di parole. Parole che, comunque, l'altro non avrebbe ascoltato.
« Esci subito! »  gridò Klaus, ricordandosi di essere nudo a sua volta e coprendosi il più possibile con il lenzuolo. Non si trattava di pudore, ma non voleva che Ben vedesse il suo corpo.
Se Klaus pensava che Benjamin quella notte aveva rivisto tutte le sue cicatrici, che le aveva accarezzate allo stesso modo in cui gliel'aveva inflitte, con lo stesso sorriso di trionfo, con gli stessi sospiri di piacere... gli si rivoltava lo stomaco e la rabbia aumentava – perché non avrebbe mai smesso di aumentare.
Ben gli rivolse un ultimo sguardo triste e cominciò a raccattare i propri abiti sul pavimento e a rivestirsi il più in fretta possibile. Non parlò, mentre Klaus continuava a fissarlo con occhi colmi di ira.
« Che cosa cazzo è successo? » gli chiese lui, digrignando i denti. Non voleva neanche saperla, la verità, ma aveva bisogno di fare chiarezza nella sua mente annebbiata.
Ben indossò la propria maglietta e poi si voltò nuovamente verso di lui. « Eri ubriaco » disse soltanto.
« E tu hai pensato bene di approfittarne? » domandò il moro, alzandosi dal letto. In fin dei conti, non gli importava che Ben vedesse – rivedesse – le sue cicatrici. Magari sarebbe servito a qualcosa, anzi, a far sì che i sensi di colpa lo divorassero per tutto ciò che aveva fatto.
Ben gli restituì un sorriso amaro e un'espressione quantomai sincera, così tanto che Klaus faticò ad accostare quell'immagine a quella dell'uomo vestito in nero nella sala delle esecuzioni che aveva voltato le spalle a sua sorella, prima di ucciderla. Si sentì ancora più confuso di fronte al suo viso, come se l'odio nei suoi confronti stesse vacillando per qualche secondo.
« No, Klaus. Tu hai pensato bene di approfittarne. Hai pensato di sfogarti, hai pensato che magari io e London non siamo tanto diversi, giusto? Beh, non è così. Siamo diversi, tremendamente diversi. Lo sapevi già, ma hai voluto constatare ancora una volta, e io non sono riuscito a tirarmi indietro, lo sai... lo sai il perché... »
Klaus lo fronteggiò senza paura a quella risposta, ma la sua determinazione stava ormai scemando. « Stai dicendo che sono stato io a prendere l'iniziativa? Stai dicendo che avrei tradito London... con te? Di proposito? » Fece una risata spenta, perché non credeva neanche alle proprie orecchie. Di sicuro Ben se l'era inventato, di sicuro l'aveva manipolato o obbligato o...
« Sono felice di vedere che non ricordi, Klaus. E' meglio così. E' meglio per te, ma anche per me. E, in ogni caso, ti assicuro... » si bloccò, inspirando lentamente ma tremando un po' nel rilasciare l'aria, « ti assicuro che non l'hai tradita. »
Non era vero. Klaus aveva ricordi confusi di quella notte, ricordi che si schiarivano piano al passare dei minuti, come se la nebbia che li pervadeva stesse svanendo per lasciare il posto alla cruda realtà dei fatti, una realtà che lui non voleva accettare. 
L'aveva tradita.
Ho tentato di... sostituirla. 
Con Benjamin. 

La verità gli si presentò così, terribile, nei suoi pensieri.
Era lui il colpevole dell'accaduto, lui aveva trattenuto Ben in casa e lui l'aveva trascinato verso la stanza da letto.
Indietreggiò, con gli occhi fissi nel vuoto, e ricadde seduto sul materasso. Si prese la testa tra le mani e gli ci volle tutta la forza di volontà del mondo per non mettersi a piangere davanti a lui, per non apparire una persona estremamente debole e spezzata. 
Ma lo era, lo era, lo era.
Un debole, un vigliacco, un fallito. 
Aveva fallito nel proteggere London, aveva fallito nel darle un figlio, aveva fallito nel riportarla a casa, aveva fallito persino nel riportarla da Klaudia e nel supplicare suo fratello di salvarla... e adesso falliva, ancora una volta, concedendosi alla stessa persona che l'aveva fatta ammazzare.
« Vattene » disse a Ben, rompendo il silenzio che si era creato intorno a loro. « Non voglio vederti. »
L'altro indugiò per qualche secondo, in piedi davanti a lui, e provò a sfiorargli una spalla, ma Klaus si alzò di scatto e lo spinse bruscamente verso la porta.
« Vattene! » urlò ancora. « Vattene, vattene da casa mia, dannazione, vattene dalla mia fottutissima vita! »  Eppure stavolta, per la prima volta, la rabbia graffiante contenuta in quelle parole non era rivolta a Benjamin, ma soltanto a se stesso. E Ben sembrò capirlo, perché annuì e se ne andò in silenzio, lasciandolo solo con la voglia di sprofondare nel baratro – la stessa voglia che aveva fatto compagnia a lui per anni.


 
*


Era un mattino spento e vuoto. Non c'erano nuvole, soltanto poco vento, ma il sole sembrava una lampadina fredda nel cielo. 
Klaudia si scostò dalla finestra e si andò a sedere al tavolo accanto a Klaus per la colazione. Lui le aveva preparato del latte caldo e delle fette di pane con il cioccolato, poi si era immerso nei propri pensieri e l'aveva quasi del tutto abbandonata per qualche minuto.
A Klaudia piaceva osservarlo, di tanto in tanto, quando era sovrappensiero, perché riusciva quasi sempre a capire quello che gli passava per la mente. Il suo sguardo in quel momento diceva frustrazione, fedele compagna della perenne tristezza che ormai infestava i suoi occhi, anche quando provava a sorridere per lei. 
Klaudia sapeva che il suo papà non era più come una volta. Sapeva che la morte della mamma l'aveva sgretolato in mille pezzi. Sapeva che probabilmente non riusciva più neanche a vivere o a trovare una motivazione per farlo senza di lei.
Klaudia sapeva, semplicemente. Ben ed Erzsébet le avevano raccontato tutto ciò che era stato loro possibile, o quasi, perché lei avrebbe dovuto avere la facoltà di capire e interpretare la verità a modo suo, anche se era ancora una bambina. E lei aveva capito. Credeva di aver capito ogni cosa, ogni tassello di quel puzzle intricato e apparentemente impossibile; adesso sentiva di dover adempire al proprio compito: mettere ogni tassello al proprio posto.
Si alzò velocemente e andò a prendere il quaderno che le aveva regalato la nonna e che aveva lasciato nella stanza accanto.
« Dove vai? » le domandò Klaus, ma lei ovviamente non lo sentì. Rientrò dopo qualche secondo con il proprio bottino e lui inarcò le sopracciglia, accennando con fare sorpreso al piccolo quaderno di carta che teneva tra le mani. Klaudia sorrise e gli mostrò le prime pagine, piene di disegni infantili che ritraevano orsetti rosa, altalene, motivi geometrici senza senso e... la sua famiglia. Klaus focalizzò la propria attenzione su un piccolo riquadro in cui erano disegnati tutti i membri dei Wreisht e dei Bridge. Erano chiaramente delle figure stilizzate e semplici, tutte troppo alte e magre, con teste più grandi del normale, ma Klaus riconobbe ognuna di esse: Frantz era disegnato con dei grandi baffi neri, Erzsébet con un sorriso enorme, mentre lui, London e Benjamin si tenevano la mano. Accarezzò con i polpastrelli quel buffo ritratto della realtà, soffermandosi sul volto gentile della London sulla carta. Sembravano quasi una famiglia normale e felice.
Klaus si voltò verso di lei e le posò un bacio sul capo, facendola poi sedere in braccio a lui. Continuarono a sfogliare il quaderno insieme, passando oltre i numerosi esercizi di scrittura della bambina. Arrivati a delle pagine vuote e bianche, Klaudia impugnò la penna che aveva recuperato.
"Mi... manca... –  scrisse, piano e con grafia tremante –  mamma".
Klaus la guardò, stupito, per un istante lunghissimo. Klaudia gli passò la penna, incitandolo a scrivere qualcosa.
"Anche a me", replicò lui di getto, cercando di usare comunque una calligrafia comprensibile per la figlia. Lei gli avvolse forte le braccine intorno al busto e smorzò un singhiozzo affondando il viso nel suo petto. 
« Klaudia, ti prego, non piangere... » mormorò Klaus, più a se stesso che alla bambina, perché sapeva che di quel passo non avrebbe retto neanche lui. Doveva resistere per lei, almeno quella volta. Riprese la penna e scrisse: "E' in un posto migliore ora". Si sforzò di credere alle sue stesse parole.
Klaudia lesse la frase, si asciugò gli occhi, tirando su con il naso, e annuì. "Lo so" aggiunse. "Mi vorrà sempre bene".
A Klaus ci volle ancora più forza per scrivere qualcos'altro, la sua mano quasi faticava a muoversi sul foglio. E tremava. Anche la sua grafia era comparabile a quella di un bambino. "Certo. Stanotte l'ho sognata, era felice e camminava in un prato con tanti fiori colorati... mi ha detto che dovrò sempre proteggerti d'ora in poi". Passò ancora una volta la penna a Klaudia.
"Anche io devo protegere qualcuno". Klaus le segnalò l'errore con una finta occhiata di rimprovero e lei fece un piccolo broncio rattristito. "Proteggere" corresse.
"Chi?"
"Ben". 
Tre lettere, tre coltellate al petto. Klaus si chiese come fosse possibile che Klaudia volesse ancora bene al suo vero padre nonostante avesse scoperto che era stato proprio lui ad uccidere London. Decise, per un impulso di vigliaccheria, di deviare la discussione e cambiare argomento. Non voleva assolutamente parlare di lui, non dopo quella notte.
"Chi ti ha insegnato a scrivere?"
"Nonna Bet".
"Ha fatto un ottimo lavoro".
"Mi porti a casa loro qualche volta?"
Klaus tentennò nel replicare, ancora una volta. "Non ti piace qui?"
"Si ma io voglio che stiamo tutti quanti insieme ora che la mamma non cè piu Stamattina ho visto Ben andarsene... perche non è rimasto qua?"
Klaus sorvolò sugli errori ortografici – comunissimi per una bambina di sei anni – e impiegò diversi secondi per pensare ad una risposta che non la turbasse. "Perché non se lo merita".
"Ma anche lui è mio papà".
Klaus spalancò gli occhi e gli sembrò che il sangue nelle proprie vene si fosse ghiacciato. "Io sono tuo padre".
"Ben mi ha raccontato la verita" fece Klaudia, impegnandosi per scrivere il più veloce possibile e non sbagliare.
"Quando?"
"Quando tu eri via". 
Klaus capì che si riferiva al suo periodo di riabilitazione nell'ospedale di Capitol City dopo la vittoria dei ribelli. E così si era assicurato una garanzia, quel bastardo. Dirle che il suo vero padre era lui, in realtà, prima ancora di rivelarle la morte della madre. Un moto di disgusto e rabbia gli inondò il petto. "Non dovresti volergli così bene dopo quello che ha fatto" scrisse precipitosamente, cominciando a far fuoriuscire tutto l'odio che stava cercando di trattenere.
"Io lo perdono" ribatté Klaudia sul foglio, mentre Klaus la fissava intensamente, stupito e ferito. "E devo proteggerlo Ti prego papà mi porti da lui qualche volta?"
Ti prego, aveva detto. E l'aveva chiamato ancora papà, nonostante tutto. Ma lo stava supplicando. Gli stava chiedendo di tornare da Benjamin, di tornare ad essere una famiglia, di tornare a volergli bene così come faceva lei. 
Klaudia non capiva che per lui tutto ciò andava oltre l'impossibile. Chiuse il quaderno di scatto e la bambina lo guardò con delusione, forse perché aveva sperato di convincerlo. La fece scendere dalle proprie gambe e cominciò a sgombrare il tavolo dai residui della colazione, come se quella conversazione – la prima vera conversazione della sua vita con la figlia – non fosse mai esistita.


 
*


In fin dei conti, Benjamin non aveva mai fatto del male a Klaudia. Era ciò a cui aveva pensato Klaus tutta la giornata e, così, i giorni successivi.
Ben era stato un torturatore, un assassino, uno psicopatico, ma la sola cosa che non si era mai azzardato a fare era stata permettersi di torcere anche solo un capello alla sua bambina.
Ma ha lasciato morire sua sorella, si ripeteva lui in continuazione, torcendosi le dita e provando a dare un senso alla sua coscienza che lo stava portando verso altre soluzioni. Klaus sarebbe volentieri morto pur di non dare un'altra sola, singola soddisfazione a Benjamin, eppure qualcosa lo stava spingendo ad accontentare Klaudia e a riportarla da lui. Non capiva come lei fosse riuscita a perdonarlo – forse con gli anni si sarebbe pentita amaramente di averlo fatto, così come Klaus sperava che fosse.
L'unica cosa al mondo che desiderava adesso era che sua figlia – perché lo era, non biologicamente, ma lo era – fosse felice. Non gli restava alcun'altra speranza, ormai, non gli restava neanche un'aspirazione, un sogno, un desiderio al di fuori di quello.
Gli sembrava di aver vissuto e visto già troppo. I ricordi bruciavano sulla sua pelle, come se gli fossero stati incisi, marchiati sulla carne, indelebili, incancellabili. Klaus Wreisht aveva soltanto ventotto anni, ma già sentiva sulla propria schiena il peso di una vita lunga e intensa, e il solo pensiero di dover vivere altri anni di sofferenza, altri anni senza London, senza felicità, lo dilaniava. 
Ma più di ogni altra cosa, lo dilaniava la propria vergognosa debolezza. Si sentiva sporco, marcio, viscido come un verme, a far vincere il proprio nemico per l'ennesima volta. 
Perché alla fine aveva vinto ancora. Non avrebbe mai smesso di vincere. Lo capì mentre bussava al campanello dei Bridge, tenendo stretta la manina di una Klaudia sorridente e quasi spensierata. Lo capì quando fu Ben stesso ad aprirgli con una maschera di stupore dipinta in viso. Lo capì quando Klaudia si allontanò con lui nell'atrio, abbandonandolo sull'uscio della porta con le braccia stese lungo i fianchi.

Alla fine, Erzsébet lo invitò ad entrare e lui si arrese rimettendo piede in quella casa, quasi senza nemmeno rifletterci. Nonostante tutto, la percepiva come un luogo molto più familiare del maniero dei Wreisht, come un rifugio... eppure era, allo stesso tempo, anche la tana del lupo. Un contrasto che nella sua mente si sviluppava e cresceva fino a farlo implodere.
Klaus si odiava. 
Sono così dannatamente debole.
Non avrebbe mai smesso di odiarsi.
« Penso che Klaudia potrà rimanere qui nei fine settimana » biascicò, accomodandosi allo stesso tavolo dove lui e sua suocera avevano discusso la volta scorsa. Lei non seppe cosa rispondere, meravigliata del suo gesto e delle sue parole, restando semplicemente a fissarlo con occhi stupiti. « Me l'ha chiesto lei. »  
« Te l'ha chiesto... lei? » 
Klaus annuì. « Voleva stare con Benjamin » spiegò laconicamente, massaggiandosi una tempia, « e ci ho riflettuto a lungo prima di portarla qui. Ho pensato che alla fine... ora che lei sa la verità... » 
« Che Ben ha ucciso sua madre? » domandò Erzsébet, stringendosi forte le mani in grembo.
« Che Ben è il suo vero padre. » 
La donna non ribatté per qualche secondo, soppesando quella replica attentamente ma senza far trasparire alcuna emozione evidente.
« Non lo sapevi? » chiese Klaus.
« Credo di averlo sempre saputo » rispose lei, socchiudendo le palpebre con aria stanca. « Riconosco i miei figli in lei. Riconosco la gentilezza di Ben e la caparbietà di London. Riconosco i loro lineamenti. Sono la loro madre, dopotutto. »   
Klaus rimase in silenzio per un bel po', pensando a cosa dire o fare. Ci aveva pensato anche lungo il tragitto verso il maniero dei Bridge, ma aveva dimenticato ogni cosa. Le fece, invece, una domanda che avrebbe voluto fare a London molto tempo prima, quasi non pertinente al discorso: « Perché tu e Alfons approvavate la loro relazione? »
Erzsébet fece un sorriso spento. « Non lo vedevi? Non lo vedevi quanto davvero si amassero? Quanto fossero le due metà di uno stesso corpo, di una stessa mente? »  
Klaus non rispose. Non voleva rispondere. Non voleva ammettere che, sì, l'aveva sempre notato, ma non voleva neanche urlarle contro perché Benjamin non vale neanche un granello di London.
« Andare contro la loro relazione sarebbe stato come andare contro un cataclisma naturale: non poteva essere soppressa o nascosta. Era pura, semplice, genuina » continuò la donna. Fece una pausa. « Ma poi sei arrivato tu. Sei entrato nelle loro vite, li hai completamente annientati. »
Klaus quasi si sentì ferito da quell'affermazione. Ma la comprese fino in fondo.
Erzsébet ci mise qualche altro secondo per trovare le parole giuste, forse per non essere troppo schietta. « E' colpa tua se da quel momento non hanno fatto altro che distruggersi a vicenda. Era come... era come una lotta inconsapevole e infinita. Era come se una parte di quel corpo perfetto che erano prima volesse prevalere per prendere in mano il controllo della situazione. Si stavano disintegrando per te, per tenerti in vita, per renderti felice. L'ho capito solo adesso. Dopo anni e anni di rimpianti e rimorsi ho capito la natura dei miei bambini... due angeli, due angeli travestiti.
Non so perché a noi. Non so perché due figli così meravigliosi e così... sbagliati. Ma io e Alfons li abbiamo amati più di ogni altra cosa, li abbiamo sempre protetti, perché loro erano il nostro miracolo... forse non li meritavamo, ma abbiamo fatto di tutto per tenerli al sicuro da loro stessi. Dio, Klaus, non hai veramente idea dei sacrifici che abbiamo fatto per nascondere a London la malattia di Benjamin, non hai idea di quanto lui abbia combattuto, per poi vedersela strappare via da Emil, da quella parte malvagia che ha sempre cercato di eliminare... è una sconfitta terribile, per noi e per lui. Ti sembrerà che alla fine sia stato Ben a prevalere, ma non è così... London si è arresa, alla fine. L'ha lasciato vincere perché lo amava troppo per vederlo ridotto all'ombra di se stesso. Lo so per certo. Io credo a mio figlio, credo a ciò che mi ha raccontato. Forse un giorno ci crederai anche tu. Tu che sei così fortunato ad essere stato il centro del loro universo che probabilmente non te ne rendi neanche conto. » 
Klaus rimase definitivamente senza parole. In un primo momento aveva pensato che Erzsébet stesse cercando di giustificare Benjamin ancora una volta, ma poi era riuscito a capire a fondo il senso di quel discorso e non aveva voluto interromperlo, perché riassumeva perfettamente, forse, tutto ciò che era stata la loro vita. Per un momento si estraniò dalla propria situazione e guardò la scena, rielaborando quel discorso nella propria mente, come uno spettatore esterno. E gli sembrò di guardare una fotografia, gli sembrò di ripercorrere tutta la propria vita come una serie di diapositive grigie e sfocate, sfocate, sfocate, in cui difficilmente si poteva fare chiarezza. Erzsébet ci aveva provato e forse era riuscita, con le sue conclusioni di madre e osservatrice, a sciogliere uno dei tanti nodi che componevano l'intricato groviglio dei loro sentimenti: perché loro tre erano sempre stati così... uniti?

Erzsébet prese a sciacquare delle tazzine sporche di caffè che erano rimaste nel lavandino e riprese nuovamente a parlare. « Potresti trasferirti qui, un giorno, Klaus » gli disse, ma senza guardarlo. « So che rifiuterai a prescindere, ma stare da solo non ti servirà assolutamente a nulla. Credo che se tentassimo di essere una famiglia sarebbe meglio per tutti. Siamo rimasti solo noi quattro ormai e la guerra è finita. »  
Klaus non si alzò dalla sedia, ma tornò ad assumere un tono di difesa e attacco contemporaneamente. Non riusciva più a parlare in un modo diverso, come se dovesse cacciare gli artigli per sopravvivere e comunicare con le poche persone che gli rivolgevano la parola. « Io invece penso che sarebbe meglio portare Klaudia qui nei finesettimana e basta » ribatté aspramente. « Già è tanto se ho preso questa decisione, credimi. »
« Sapevo avresti risposto così » disse la donna. « Ma sono sicura che un giorno ogni cosa tornerà al proprio posto. »   
« Ne dubito » fece invece l'altro, ostinato e fedele alla propria rabbia. « Voglio tenermi il più lontano possibile da Benjamin. E voglio che tu protegga Klaudia da altri suoi eventuali attacchi da schizofrenia, o quello che è, quando lei verrà qui. Devi giurarmelo. » 
Erzsébet si voltò di poco verso di lui. « Klaudia è al sicuro qui. »  
« Devi giurarmelo » ripeté Klaus. « Se le dovesse accadere qualcosa... » 
« Ti giuro che non le accadrà assolutamente nulla, Klaus. Non fin quando io e Ben saremo ancora in vita. »
Quella risposta lo colpì, in qualche modo, e sembrò convincerlo dell'incolumità della figlia tra quelle mura. « Me lo auguro. Klaudia è l'unica cosa che mi è rimasta. »
La suocera gli rivolse un sorriso spento, e lui lasciò la stanza, con uno strano senso di rimorso. Sentiva di aver mentito ad Erzsébet, in qualche modo, sentiva che dopo il discorso che gli aveva fatto la storia del volersi tenere lontano da Benjamin fosse completamente e terribilmente sbagliata. Klaus, dopotutto, continuava ad odiarsi perché non riusciva a combattere la minaccia di Ben come avrebbe voluto, non l'avrebbe mai odiato abbastanza e non riusciva – e non sarebbe riuscito – a stargli lontano per un tempo abbastanza prolungato. Come aveva detto anche la suocera, Ben era come un'altra parte di London, un suo riflesso. Ma un riflesso fittizio. Distorto. E lui lo desiderava e respingeva al contempo, lo odiava e stava cominciando a capirlo. 
Lo aveva svuotato così tanto che ora Klaus non sapeva neanche più cosa pensare.

« Klaus, aspetta. » 
Ancora la sua voce. Quella voce. Quella voce che avrebbe preferito non ascoltare mai più. Quel tono quasi... innocente.
« Che vuoi? » sbottò bruscamente, con la mano ferma sulla maniglia della porta d'ingresso. Stava per andarsene e lui l'aveva bloccato. « Ti ho portato Klaudia, non sei contento? »
« Lo sono, ma... » tentennò Ben, guardando ovunque meno che verso di lui. « Devo parlarti. Ora. »   
« E di cos'altro? » domandò Klaus, imprimendo quanto più disprezzo gli era possibile nella voce. « Ti ho già detto che non voglio vederti. » Ben abbassò definitivamente lo sguardo a terra. « Si tratta di London. Non ti avrei trattenuto se non fosse stato importante, te l'assicuro. »
Il respiro di Klaus si velocizzò; non sopportava che lui avesse ancora il coraggio di nominarla. Il cuore cominciò a pompargli il sangue nelle vene molto più velocemente. « Dunque? » riuscì a dire con un filo di voce. 
« Vieni con me. » 
Lo condusse nel piccolo e curato salotto al pianterreno, il più lontano possibile dalla cucina dove si trovava Erzsébet, probabilmente perché non voleva che lei ascoltasse anche un brandello della loro conversazione, che ascoltasse qualcosa che riguardava solo loro due.
Klaus non si sedette sull'ampio divano in pelle e Ben lo imitò, preferendo restare a camminare nervosamente per la stanza, come se in realtà non fosse ancora pronto per quel discorso e stesse riordinando le idee. 
Tremava. Klaus non l'aveva mai visto tremare tanto.
« Allora? » lo incitò nuovamente lui, già spazientito dalla situazione. Si appoggiò con la schiena ad un mobile di legno pieno di cassetti e incrociò le braccia saldamente, quasi si stesse aggrappando a se stesso. « Niente più misteri, Benjamin. Parla. » 
Ben si passò una mano sulla fronte e continuò a girare per il salotto, ignorandolo. Non sapeva da dove cominciare. Non sapeva, forse, se volesse effettivamente parlargliene davvero oppure no. Ma non riusciva più a trattenersi. Non riusciva più a tenersi dentro altri segreti.
Il moro alzò gli occhi al cielo. « Senti, se non- »
« Era incinta, Klaus. »  
In quella stanza, in quel preciso momento, sembrò calare il gelo. 
Klaus spalancò gli occhi e li tenne fissi su Benjamin, sciogliendo la stretta tra le proprie braccia e ammutolendo del tutto. Un'ombra passò sul suo viso, un'ombra di disperazione. 
London è stata con qualcun altro...?, si domandò, sentendo le sue gambe farsi improvvisamente molli e deboli. 
Era... incinta... incinta...
Benjamin ricambiò il suo sguardo atterrito e scosse la testa. « So a cosa stai pensando » gli disse, avvicinandosi lentamente, pur essendo terrorizzato dal suo silenzio. « Pensi che lei ti abbia tradito, quando eravate a Valhalla. » Fece una pausa, tremando ancora di più. « Non è così. Me l'ha giurato. Lei non ti ha mai tradito, non ha neanche mai pensato di farlo. »
Klaus rimase immobile, con gli occhi sgranati nel vuoto, ma la sua espressione mutò nel giro di pochi secondi. Dall'incredulità passò allo shock e, poi, ad una dolorosa comprensione dei fatti. 
London era incinta... di mio figlio.
Non si chiese neanche come fosse possibile.
Si ricordò della bambina che correva spensierata nel suo sogno. Frangetta castana e occhi... grigioverdi...
... di mia figlia...
Arrivò la rabbia. Ben la vide chiara, dirompente, nel suo sguardo. E ne ebbe paura. Ma non seppe reagire prontamente, non quanto lui.
Klaus si voltò di scatto e prese il primo oggetto che trovò a portata di mano, un vaso di vetro colorato appoggiato su un tavolino, per poi scaraventarlo contro Benjamin. Lui riuscì a spostarsi un secondo prima che il vaso andasse in frantumi contro il muro, ma Klaus, inarrestabile nella sua furia improvvisa, gli lanciò contro anche una piccola scatolina di cristallo intarsiato, che Ben non riuscì del tutto ad evitare. Uno spigolo lo colpì in fronte, Ben urlò e cadde a terra. La scatolina andò anch'essa in frantumi, provocando un rumore agghiacciante, insieme al corpo del ragazzo che sbatteva sul parquet. 
« Tu... tu lo sapevi... » biascicò Klaus, con una voce che vibrava per quanto odio vi fosse contenuto, avvicinandosi a lui come un predatore che sta per avventarsi sulla preda. Era affamato di vendetta. « Lo sapevi! E l'hai ammazzata lo stesso! » urlò, stavolta con tono graffiante.
Salì di scatto a cavalcioni su di lui e lo afferrò per la collottola con una mano, cominciando a prendergli a pugni il viso con l'altra. Era la mano sinistra, la mano di un mancino, la mano che si era rotto e che voleva fargli più male possibile. Benjamin era stato stordito dalla botta in testa e un rivolo di sangue già gli colava tra i capelli albini, ma Klaus continuò a colpirlo senza sosta, la mandibola, la guancia, lo zigomo, il naso. Lo colpì così tante volte e con così tanta rabbia che non ebbe neanche il tempo di rendersi conto che lui aveva perso i sensi. Quando la mano gli faceva troppo male per continuare, si fermò e si rese conto che il suo pugno e le sue nocche erano imbrattate di sangue, esattamente come il naso di Ben e la sua tempia.
Si staccò di botto da lui e indietreggiò strisciando sul pavimento, inorridito da tutto. Le sue mani si ferirono con dei frammenti di cristallo, ma non riuscì a sentire il dolore. Non quello fisico. Ormai era lo shock ad aver preso il sopravvento. Sentiva le orecchie fischiargli, i polmoni aridi. 
Indietreggiò fino sbattere contro il muro, improvvisamente spaventato, terrorizzato a morte, da se stesso e da Benjamin che da quella prospettiva sembrava morto.
Vedeva sangue ovunque.
Si alzò e aprì la porta del salotto, schizzando via, fuori di lì, quasi tramortendo Erzsébet che era stata attirata dai rumori e che lanciò un grido nel vedere il corpo sanguinante del figlio sul pavimento. La ignorò, ignorò quel grido, ignorò ogni cosa, persino Klaudia che lo guardava da sopra le scale, confusa. Scappò, corse. Via da quella casa, via da quella giornata, via da quella vita.
Avrebbe voluto essere qualsiasi altra persona, in quel momento, non voleva più essere Klaus Wreisht. Non voleva più dolore, non voleva più nulla. Per un momento, mentre correva tra le polverose vie del distretto, mentre la catenina con la fede penzolava sul suo petto, desiderò persino di non aver mai incontrato London.
 
 

 













 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Hunger Games / Vai alla pagina dell'autore: Ivola