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Autore: C and S_StorieMentali    17/06/2015    9 recensioni
Samantha è la secondogenita di Clary e Jace. La sua vita sembra procedere come al solito, tra le peripezie per nascondere la sua identità di Shadowhunter agli amici mondani e tra i continui battibecchi con Max, il figlio di Simon e Isabelle. Samantha, però, non sa che il male è in agguato... E' del tutto ignara di quello che si nasconde nell'ombra, che di soppiatto entrerà nella sua vita, sconvolgendone gli equilibri e costringendo la giovane Cacciatrice a intraprendere un'avventura che mai avrebbe immaginato, un'avventura al termine della quale dovrà compiere una scelta che decreterà il suo destino e quello dell'intero Mondo delle Ombre... Tutto ciò che conosce crollerà, e, forse, anche la realtà dei mondani è in grave pericolo.
Dal CAPITOLO 1: "Premetto che essere la figlia dei due Shadowhunters più famosi degli ultimi tempi non è per niente così eccitante come sembra. Mi spiego: se i tuoi genitori, durante la loro adolescenza, hanno compiuto mirabolanti avventure che farebbero la barba persino a un cane parlante (di questo parleremo più tardi... Effettivamente riguarda più me che loro, la storia del cane), be', tutti si aspettano grandi cose da te."
SPOILER COHF!
Genere: Azione, Comico, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio, Sorpresa, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Tic, tac. Tic, tac. Continuavo a fissare il quadrante bianco dell'orologio appeso al muro della classe. La lancetta piccola si trovava quasi sulle 12. La lancetta grande batté il cinquantesimo minuto di un'interminabile lezione di storia.
Tic, tac. Non riuscivo a stare concentrata, quel giorno. Non sapevo perché. Forse ero ancora agitata per Owen, dopo la discussione fuori dalla mensa di due giorni prima. Nonostante lui sembrasse essersi scordato rapidamente dell'accaduto, tant'è che aveva ripreso ad essere dolcissimo come sempre, con i suoi messaggini della buonanotte che mi facevano sorridere come un'imbecille.
Chloe, seduta affianco a me, mi diede una gomitata sul braccio.
Le rivolsi un'espressione interrogativa, e lei indicò con gli occhi il mio porta-penne posato sul banco. Fortunatamente mi ero ricordata di impostare il silenziatore, perché dentro lo schermo del cellulare si era appena illuminato per l'arrivo di un sms. Attenta a non farmi notare dalla Martin, aprii il messaggio e lo lessi.
Owen mi aveva scritto "Penso a te" con una miriade di cuoricini.
Sentii un pezzo di cervello sciogliersi come burro, e sorrisi.
-Cosa diamine stai facendo con quel cellulare?!- La voce irata della Martin mi fece sobbalzare.
Alzai la testa di scatto, con la bocca aperta pronta a buttare fuori qualche scusa. Ma la professoressa non stava guardando me. I suoi occhi severi erano puntati su Owen, due banchi più avanti nella fila a destra della mia.
Il poveretto arrossì violentemente, abbassando lo sguardo, rispettoso. -Mi scusi, professoressa…-
-Io stavo ancora spiegando, Sherman! Ti sembra che la campanella sia suonata? Ti sembra che la lezione sia finita? Io non tollero questo tipo di comportamento così irrispettoso… Ti interrogherei, se solo non mancassero dieci minuti alla fine dell’ora. Sei fortunato.-
Per un attimo, mi sentii sollevata nel sapere che non ero stata beccata io, ma poi avvertii il cuore sprofondarmi nello stomaco per il senso di colpa: dopotutto, era per inviare un messaggio a me che Owen aveva usato il cellulare. Quindi era in buona parte per causa mia che ora la Marin lo stava rimproverando così aspramente.
-E di grazia, Sherman, vorresti dirmi davvero cosa stavi facendo con quel telefono?-
Ora becca anche me, pensai, Owen dirà la verità e anche io sarò costretta a sorbirmi una predica coi fiocchi.
-Io… Stavo solo giocando con il telefono, professoressa- disse Owen, sorprendendomi. -Sa, è tutta colpa di questa applicazione fighissima per gli iPhone, dà proprio dipendenza…-
Sentii delle risatine provenire da vari compagni di classe.
La Martin dilatò talmente tanto le narici che ebbi timore che il naso le sarebbe scoppiato da un momento all’altro, e mi venne in mente una pittoresca immagine di pezzi di naso e muco sparsi per la classe, magari proprio in  faccia a Max, che era seduto al primo banco e di cui non potevo vedere il viso, da dove ero io. Ma ero certa che stesse ghignando in modo malevolo per la sventura di Owen… Mi ritrovai proprio a sperare che il naso della professoressa gli scoppiasse in faccia.
Però sentii una strana sensazione di leggerezza nella testa, come se si fosse trasformata in una bolla. Owen mi aveva coperta. Poteva benissimo confessare che stava scrivendo a me, cosicché ci saremmo divisi la colpa. E invece non lo aveva fatto, non mi aveva tradita. Si era preso la piena responsabilità della faccenda. Sorrisi, nel bel mezzo di quella situazione per me così nuova, dolce e assurda.
-Non so se crederti o no, Sherman.- La Martin riprese a parlare con quel suo tono duro, scoprendo i denti gialli, e la classe ripiombò nel silenzio. -In ogni caso, hai sbagliato, sia che tu ti stia distraendo con quegli stupidi giochini, sia che tu mi stia prendendo in giro.- Si bloccò un attimo, puntellandosi una penna sotto al mento, forse tentando di decidere la punizione più adeguata o subdola da infliggere a quel dolcissimo ragazzo. -Per questa volta niente nota, visto che fino ad ora hai mantenuto una condotta impeccabile… ma non puoi rimanere impunito- rifletté. -Alzati, Sherman.-
Nella mia testa, paragonai Owen ad un condannato a morte. Lo vidi spingere indietro la sedia, mettersi in piedi lentamente, in silenzio, con gli occhi bassi, come se la spada di Damocle pendesse sulla sua testa, pronta a dargli il colpo finale ad un minimo cenno da parte della professoressa. Dopo che la Martin glielo aveva ordinato, il ragazzo dai capelli color mogano prese pesantemente tra le braccia i libri e lo zaino, trascinando i piedi sul pavimento fino alla cattedra, dove la vecchiaccia lo fece fermare.
Poi, in meno di un minuto, la situazione raggiunse i limiti dell’assurdo. La Martin ordinò al ragazzo che si trovava al primo banco, accanto a Max, di alzarsi e andarsi a sedere al posto di Owen. All’ex posto di Owen. Sì. Ex. Ex. Perché ora la professoressa stava indicando a Owen la sedia ormai vuota accanto a Max. -Forse, sedendoti al primo banco insieme ad uno studente esemplare, ti lascerai prendere meno dalla distrazione.-
Max si alzò in piedi, andando accanto alla cattedra, dal lato opposto rispetto a quello dove Owen era rimasto impalato per lo stupore. Varie ragazze si lasciarono sfuggire dei sospiri, alcune gli guardavano le spalle sotto la maglietta aderente e altre gli lanciavano occhiate nervose al fondoschiena, il quale sembrava essere l’attrattiva principale, a dispetto del faccino decisamente non trascurabile di Owen.
-Per quanto il suo complimento mi abbia lusingato, professoressa- disse IPC con un tono rispettoso e pacato -credo che non ci sia bisogno che Sherman si sieda vicino a me… Insomma, io non c’entro niente in questa storia, e mi sembra ingiusto che a subire le conseguenze delle sue… deplorevoli azioni- guardò Owen con una punta di qualcosa molto simile al disgusto che mi fece ribollire il sangue nelle vene -debba essere anch’io.-
Per quanto la scena fosse strana, mi trovai a rivalutare la Martin quando liquidò Max con un gesto della mano. Semplicemente perché, per una volta, qualcuno non stava pendendo dalle labbra di IPC, dandogli ragione.
-Suvvia, Lewis- lo riprese. -Non morirai mica, e non mi sembra che per te questa possa essere una punizione, o che possa toccarti personalmente in qualche modo.-
Max non replicò, ma ogni cosa si bloccò per qualche secondo.
Lui e Owen si guardarono dai lati opposti della cattedra, studiandosi a vicenda.
IPC irrigidì impercettibilmente la mascella.
Owen inarcò le sopracciglia.
Io mi sorpresi a chiedermi se davvero, come aveva detto la Martin, non ci fosse nulla in quella storia che toccava personalmente Max. O Owen. O, pensai, anche me. E mi ritrovai a riavvolgere la memoria, come la pellicola di un film, e vidi il quasi-bacio al parco, quando Max si era trovato lì e aveva involontariamente spezzato i rami dell’albero, facendo sobbalzare me e Owen e interrompendoci. Vidi il secondo quasi-bacio alla festa a casa di Owen. Era stato IPC, di nuovo, a bloccarci, quando quella ragazza dal vestito viola super aderente aveva cominciato a spalmarglisi addosso, vicino a noi. Vicino a me. In vino veritas, aveva detto Magnus, dopo le cose che Max aveva borbottato quando era ubriaco.
E arrivai ad una conclusione. Giunsi a quella che non poteva essere altro che la più pura, semplice, cristallina verità:
Max cercava di rendermi la vita impossibile. Solo questo. Lo aveva sempre fatto, del resto. Ogni volta aveva interrotto i miei baci con Owen per farmi un dispetto. Aveva deciso di farmi incazzare come una belva, aspettando che esplodessi. Poi mi avrebbe presa in giro fino alla morte. Sì, doveva essere decisamente così. Non c’era altra spiegazione, se non la sua demenziale, infantile e subdola voglia di mettermi i bastoni fra le ruote in ogni situazione. Il Perfetto del Cazzo.
Sentii la rabbia montarmi dentro, ma cercai di trattenermi, di mettere un coprire la mia ira bollente, solo per caricarmi, per urlare contro IPC che avevo capito il suo stupido piano di divertimento, una volta usciti da scuola. Cristo, l’avrei voluto strozzare con le mie mani, lì, davanti a tutti, davanti a quelle ragazzine deficienti e odiose che non facevano altro che sbavargli dietro.
Mi risvegliai dai miei pensieri quando Max e Owen tirarono indietro le sedie per mettersi ai loro posti, provocando un dannato stridore che mi fece sobbalzare.
Owen si girò verso di me, facendomi l’occhiolino, forse per tranquillizzarmi, per dirmi che avrebbe resistito a ogni provocazione di quel bastardo.
Gli rivolsi un flebile sorriso d’incoraggiamento, e lui si voltò nuovamente.
Poi, anche IPC rivolse lo sguardo verso di me, forse progettando qualche altra mossa per rendermi la vita un inferno. Nessun altro, tranne me, sembrava aver notato che mi stava ostentatamente fissando, sul viso un’espressione indecifrabile.
Pensai di distogliere l’attenzione da lui, ma la rabbia era troppa, mi montava dentro come un fiume in piena.
Così, girandosi, fu lui a interrompere quella muta conversazione.
 
-E non dimenticate, ragazzi,- disse la Martin mentre ci precipitavamo fuori dall’aula appena dopo il suono della campanella -che se volete i biglietti per la giornata dell’arte dovete prenderli dal tavolino che troverete all’uscita.-
Spintonandoci, arrivammo tutti finalmente alla porta d’ingresso della scuola.
L’aria dei primi di marzo mi accarezzò  il viso, anche se il traffico newyorkese e i suoi rumori erano una nota sempre presente.
Mi misi in fila per prendere i biglietti insieme a Chloe e Lucas.
-Allora… a che ora ci incontriamo, oggi pomeriggio, per andare insieme alla giornata dell’arte? Facciamo alle 5 all’entrata di Bryant Park? È lì che si tiene, quest’anno.-
I miei amici si lanciarono un’occhiata e poi mi guardarono imbarazzati.
Alzai un sopracciglio. -Allora?-
-Be’, ecco…- fece Lucas, mentre Chloe arrossiva -noi due vorremmo andare per conto nostro.-
-E perché mai…- cominciai, ma poi mi ricordai della festa di Natale a casa mia, di come Lucas si era mostrato geloso quando un altro ragazzo aveva invitato Chloe a ballare e di come i miei due amici erano spariti tra la folla per stare soli e indisturbati. Come avevo potuto essere così imbecille da non pensarci prima? Stavo per esprimere il mio disappunto per il fatto di non aver detto alla loro migliore amica che si stavano frequentando… Ma poi decisi di rinunciare, perché mi resi conto che io stessa nascondevo loro una quantità di informazioni in confronto alla quale il loro “segreto” era una cosa insignificante.
Alzai le mani. -Capito,- dissi -meglio lasciarvi da soli.- Poi simulai una voce da vecchina, sfregandomi le mani: -Oh cielo, i miei ragazzi crescono così in fretta!-
Chloe e Lucas scoppiarono a ridere.
Continuai: -Mi lascerete a ricordare i bei tempi andati mentre passeggio sola come un cane per gli stand della giornata dell’arte.-
-Allora ci vieni con me- disse una voce alle mie spalle. -Così non ti sentirai “sola come un cane”.-
Mi voltai.
Owen era lì a sorridermi.
Arrossii. -Non parlo sempre come una vecchietta- fu la prima cosa che mi passò per la testa, e che dissi.
Owen rise. -Era proprio quel che speravo.- Poi si fece più serio. -Allora, vieni con me all’art day, vero?-
Mi bloccai finché Chloe non tossicchiò per svegliarmi. -Certo.- Sorrisi.
 
Entrai nell’ascensore dell’Istituto. Prima che potessi schiacciare il pulsante per salire, Max s’infilò.
Non parlammo.
Io mi limitai a guardare di sottecchi il nostro riflesso nello specchio: io ero piccola, con i capelli biondi spettinati e lo zaino più grande di me che mi piegava la schiena; IPC, anche se era poggiato con la schiena alla parete opposta, la borsa con i libri a tracolla, gli occhi fissi sul soffitto, sembrava troneggiare su di me per via della sua imponente statura.
Uscimmo dall’ascensore, sempre in silenzio. Buttai lo zaino su una panca lì vicino e mi incamminai per il corridoio, con Max dietro di me.
Entrammo nella sala da pranzo. Zia Isabelle stava apparecchiando. Sul piano cottura della cucina c’era un incarto con delle lettere cinesi rosse stampate.
-Pranzo takeaway?-
Izzy sorrise. -Ovvio. Lo sai che non sono capace di cucinare. Oggi mangiamo cinese: anatra all’arancia.-
Alzai un sopracciglio. -Suppongo che mio padre la farà a pezzi.-
-Be’, è arrivato il momento che Jace superi questa stupida paura delle anatre. Ha 45 anni, per l’amor del cielo!-
-Mamma, sei sicura che questa non sia una scusa per evitare di cucinare?- domandò Max, alle mie spalle.
Isabelle alzò gli occhi al cielo e raddrizzò la schiena, incrociando le braccia davanti al petto. -Si può sapere che avete? Non vi siete mai lamentati del takeaway… adorate il cibo cinese!-
Lanciai un’occhiata a IPC, che alzò le mani. -Rilassati, mamma, stavamo solo scherzando...-
Izzy sorrise. -Sarà meglio per voi. Ora andate a lavarvi le mani.-
-Isabelle, non abbiamo cinque anni.-
Lei mi fulminò.
-Come non detto...- sospirai. -Max, andiamo a lavarci le mani.-
 
Fu così che io e IPC ci stringemmo di fronte al lavandino del bagno.
-Potresti anche permettermi di lavarmi le mani per prima, visto che sono una ragazza.-
Max mi guardò in modo eloquente. -Sul serio? Faresti una questione anche su chi deve lavarsi le mani per primo?-
Stavo giusto aprendo bocca per replicare, quando lui occupò tutto lo spazio, spingendomi via con il corpo. Aprì il rubinetto e si sciacquò le mani, il tutto con snervante lentezza.
-Ti dai una mossa, almeno?- ringhiai.
Max mi ignorò.
Tentai allora di spingerlo a mia volta, ma si spostava dovunque tentassi di infilarmi per raggiungere il lavandino.
Mi aggrappai a una sua spalla per allungare il braccio e raggiungere il flacone di sapone.
Max chiuse il rubinetto e si voltò. -Dammi il sapone.-
-No.-
L’acqua gli sgocciolava dalle mani, così prese una salvietta e se le asciugò. -Samantha.-
-No.-
Ghignò. Poi mi lanciò l’asciugamano sulla testa.
-Max!- sbottai.
Il flacone cadde a terra e si ruppe.
Mi tolsi l’asciugamano dalla testa. Vidi Max che raccoglieva il contenitore rotto e che si versava sulle mani tutto il sapone rimasto, dandomi le spalle per avvicinarsi al lavandino.
Infastidita, raccolsi il sapone che era finito sul pavimento e lo spalmai sulla schiena di Max, imbrattandogli la maglietta.
Prima che potessi fare qualsiasi cosa, lui si girò verso di me e mi spalmò quello che si era versato nelle mani sulle spalle, sporcandomi a sua volta.
-Come hai osato!- esclamai, togliendomi del sapone dalle spalle e buttandoglielo sul petto e sul collo.
Poi mi ritrovai la fronte insaponata. Max rise.
-Demente!-
Mi infilai tra lui e il lavandino, feci scorrere l’acqua e misi le mani a coppa per prenderne un po’. Mentre IPC si voltava verso di me, gliela lanciai in faccia.
Max strabuzzò gli occhi e si allungò per raggiungere il rubinetto. Mi schizzò la testa.
-E va bene,- feci -è chiaro che vuoi la guerra.-
-Sei stata tu a cominciare- si giustificò, alzando le spalle.
Fulmineamente, ci togliemmo le scarpe e le buttammo fuori dal bagno: non era il caso che le coinvolgessimo e lasciassimo poi impronte che avrebbero fatto imbestialire gli altri abitanti dell’Istituto.
Dopo cinque minuti di schiamazzi miei e risate da deficiente di Max, eravamo bagnati dalla testa ai piedi.
-Basta- dichiarai -è ora di smetterla. Comincio ad avere fame.-
-Tu hai sempre fame.-
-Sta’ zitto- sbuffai.
Stranamente, Max fece come gli avevo detto. Lo osservai: aveva i capelli bagnati che ricadevano sulla fronte, delle goccioline scendevano lungo il viso fino a raggiungere il collo della maglietta. La quale era diventata aderente e trasparente. Arrossii accorgendomi che gli si era appiccicata alla pelle, e che i contorni dei muscoli erano ben visibili.
Prima di scoprire se tutti i vestiti avevano fatto la stessa fine, distolsi lo sguardo e mi voltai per uscire.
Poi un pensiero mi fece arrossire ancora di più: chissà in che stato erano i miei vestiti. I jeans, almeno, erano scuri, ma la maglietta era bianca con una semplice stampa. Mi girai di scatto. Allungai un braccio. -Passami l’asciugamano- intimai a Max.  
Sembrò perplesso per un istante. Poi un lampo gli attraversò gli occhi. -Certo- fece. -Scusa.-
Per uno strano momento, mi sembrò di vederlo arrossire leggermente. Cercò con gli occhi l’asciugamano, evitando attentamente di posare lo sguardo su di me, cosa di cui gli fui grata. In un certo senso era comico vedere Max comportarsi in quel modo. Era così… non da lui.
Dopo averlo trovato, me lo porse tenendo gli occhi fissi sulla sua mano. -Tieni.-
Uscimmo dal bagno in un silenzio imbarazzato.
A qualche metro di distanza, la porta dell’ascensore si aprì e ne uscì Chris, fischiettando.
Poi si accorse si noi e si bloccò, fissandoci, in volto un’espressione per niente sorpresa. Incrociò le braccia muscolose davanti al petto e scosse la testa, sorridendo.
-Ho paura a chiedere cosa sia successo, stavolta… Più che altro, ho paura a chiedere il motivo totalmente inutile per cui vi siete conciati in questo modo.- Sì, stava decisamente vestendo i panni di fratello maggiore.
-Non mi ha fatto lavare le mani per prima- gracchiai, e in quel momento mi resi conto di quanto patetica fosse quella motivazione.
Chris scoppiò a ridere.
-Ehi!- sbottai. -Vorrei vederti ad avere Max intorno per tanto tempo. Significa tutta la mattina, capisci? Tutta la mattina.-
-Come se tu fossi la personificazione della simpatia!- mi sbeffeggiò Max. -Sono serio- disse a mio fratello, che si stava scompisciando. -Tu non puoi saperlo, passi un sacco di tempo alla succursale newyorkese dell’Accademia di Idris. Là sì che starei in santa pace…-
-Già, fratello,- feci -studiare lì deve essere un pacchia.-
Chris si fece più serio. -Samantha, sai benissimo che vai alla scuola mondana per una questione di sicurezza.-
Sbuffai.
-Ma chi lo sa… secondo me, se lo chiedi con gentilezza e insisti, l’anno prossimo papà ti permetterà di fare domanda per entrare lì. Sai che non resiste a te. E anche Max potrà presentare la domanda di ammissione. Non sarete obbligati a fare li stessi corsi: potete sceglierli.-
Ci pensai su. Anche se significava non andare più a scuola con Chloe e Lucas, per me quell’Accademia sarebbe stata una grande opportunità…
-Allora perché non accompagni tua sorella alla giornata dell’arte? Così avrai una vaga idea di quanto possa essere fastidiosa se sei costretto ad averla intorno per diverse ore di fila - propose Max a Chris.
Entrai nel panico: non che non volessi Chris; semplicemente, volevo stare sola con Owen.
Per fortuna, mio fratello declinò l’invito: -Purtroppo oggi ho delle lezioni pomeridiane, e non posso assolutamente saltarle.-
-Oh- tentai di sembrare il più delusa possibile. -Allora sarà per la prossima volta.-
In quel momento, un urlo ci fece voltare. -Maximilian! Samantha!-
Ci voltammo: Izzy era lì, l’indice puntato verso di noi. -In camera a cambiarvi. Subito!-
Non ce lo facemmo ripetere due volte, mentre Isabelle ci intimava di pulire tutto il disastro che avevamo combinato una volta finito di mangiare.
 
Posai la spazzola e mi guardai allo specchio: i vestiti erano puliti e asciutti e i capelli erano pettinati. Ero pronta per andare a tavola senza che Isabelle mi mandasse indietro a cambiarmi.
Qualcuno bussò alla porta.
-Avanti!- gridai.
Sentii solo che la porta si apriva. Nello specchio, alle mie spalle, vidi Max che si appoggiava con un gomito allo stipite, portandosi la mano all’altezza della fronte. Indossava abiti asciutti: un paio di pantaloni di tuta e una camicia sbottonata su una t-shirt.
-Perché ho avuto l’impressione che tu non fossi veramente dispiaciuta quando Chris ha detto che non poteva accompagnarti alla giornata dell’arte?-
Mi voltai verso di lui, dando le spalle allo specchio. -Ci vado con Chloe e Lucas. Sarebbe stato strano se Chris fosse venuto con noi, non credi? Insomma, non si conoscono molto bene- mentii.
-Strano,- disse, grattandosi il mento con il pollice e l’indice -perché i tuoi amici devono andarci insieme come coppia. Credo che non uscirebbero con un terzo incomodo.-
-Come…-
-Lo sanno tutti, Herondale. Si vede che i tuoi amici sono molto affiatati tra di loro. Tu sei stata l’ultima a capirlo… non farò commenti su che tipo di amica tu debba essere, date le circostanze.-
Mi venne da tirargli una sberla, ma mi trattenni e puntai gli occhi sulle mie scarpe: se l’avessi ignorato, probabilmente se ne sarebbe andato. Ma così non fu.
-Ci vai con Sherman, vero?- domandò con un tono indecifrabile.
Alzai lo sguardo. -E a te che importa?-
La sua voce era pregna d’indifferenza. -Voglio conoscere meglio il mio compagno di banco.-
Sollevai un sopracciglio. -E per giudicarlo ti serve sapere chi invita alla giornata dell’arte?-
Max distese le braccia lungo i fianchi e alzò le spalle. -Ho i miei criteri.-
-E tanto per sapere,- domandai, stringendo i pugni per la sua insolenza -quale sarebbe il tuo giudizio su qualcuno che esce con me?- 
-Ragazzi.- La testa di zio Simon spuntò da dietro la porta. -È pronto in tavola.- Sorrise. -Sam, tuo padre sta giusto cominciando a folleggiare sull’anatra.-
-Papà, noi stavamo parlando- fece Max. -Vi dispiacerebbe aspettare cinque minuti? Tanto è takeaway: non puoi dire che l’anatra si fredda.-
Simon spostò gli occhi da suo figlio a me e viceversa.
Sapevo che IPC sarebbe riuscito ad aggirare la mia ultima domanda per continuare a farmi il terzo grado. E non avevo intenzione di parlare con lui riguardo Owen.
-Be’,- dissi -io invece ho una fame tremenda: se aspetto solo cinque minuti credo che sverrò.- Attraversai la stanza e raggiunsi Simon. Con la mano, diedi un colpo leggero sul petto di Max e lo guardai. -Non so tu, ma io non ho nient’altro da dire.- Sorrisi beffarda per il mio trionfo. -Si va a mangiare!-
E m’incamminai verso la sala da pranzo.
Max mi superò, la camicia che gli svolazzava dietro i fianchi.
Capii dal passo rapido e pesante che ero riuscita a farlo innervosire.
Entrai in cucina sfregandomi le mani, mentre lui spostava rumorosamente una sedia e ci si buttava sopra.
 
Gli occhi di Chloe erano pieni di dubbio. -Sicura che non vuoi che aspettiamo con te?-
-Certo, ragazzi. Owen sta arrivando.-
-Samantha, noi possiamo…-
-No, Luckie. Andate a godervi la vostra uscita.-
Lucas sospirò. -E va bene. Ma, se Owen non dovesse presentarsi, sai che puoi raggiungerci in qualsiasi momento. Per noi non c’è problema: ci farebbe piacere stare con te.-
Chloe annuì, spalleggiando il suo ragazzo.
Sorrisi sorniona. -No, amico, non vi farebbe piacere stare con me. Non oggi, intendo… Immagina che vogliate sbaciucchiarvi, ma che con voi ci sia anche io. Non sarebbe piacevole neanche per me.-
Chloe arrossì fino alla punta dei capelli.
Lucas tossicchiò e raddrizzò la schiena come se avesse avuto un palo in corpo. -Grazie, Sam- disse, a denti stretti, più imbarazzato che altro.
-Oh- feci, guardandomi le unghie con aria non curante -è a questo che servono gli amici, giusto?-
Tutti e due rimasero fermi per qualche secondo.
Alzai lo sguardo. -Allora?-
Lucas sollevò le mani. -D’accordo. Ora ce ne andiamo.-
 
Circa cinque minuti dopo, di Owen non c’era neanche l’ombra. Passai davanti a vari stand. Mi infilai dietro una bancarella che esponeva CD di band studentesche, tutte con nomi improbabili scritti con un pennarello nero sulle custodie. Lì c’era abbastanza silenzio per chiamare Owen.
Aprii la borsa per tirare fuori il cellulare.
Una ciocca di capelli mi cadde di fronte agli occhi.
Alzai lo sguardo per ravviarla dietro l’orecchio.
Fu allora che li vidi. Max. Kara. E le loro labbra, unite.
Sembrava non dovessero staccarsi mai più, tanto era il trasporto che stavano mettendo in quel bacio.
 Max strinse i fianchi di Kara, attirandola a sé.
Lei sospirò, allacciandogli le braccia intorno al collo, solleticandogli la nuca con dita leggere, tirandogli delicatamente i capelli.
E questo gesto, questo piccolo gesto fece scatenare Max.
La avvolse nelle sue braccia e se la premette sul petto, intensificando il bacio.
Ma certo. Cosa pensavo? Solo perché non li avevo mai visti, non significava che non si fossero mai baciati. Chissà quante volte si erano stretti in quella maniera, le labbra incollate.
Avvertii distintamente lo stomaco stringersi in un nodo, contraendosi man mano che loro andavano avanti.
Mi sentivo di troppo. Non avrei dovuto essere lì. Non sopportavo Kara e men che meno Max, ma mi sentivo a disagio nello stare impalata, ferma a guardarli. Quello era il loro momento. Non potevo rovinarlo, per quanto non riuscissi a scollare gli occhi dalla scena. Più li fissavo, più un sapore amaro mi saliva verso la bocca, stordendomi. Dovevo andarmene il prima possibile, prima che si accorgessero di me, della mia presenza.
Ma i piedi sembravano pesare come macigni, non potevo spostarli di un solo millimetro.
Max e Kara si staccarono lentamente, tenendo gli occhi chiusi, respirando affannosamente. Le loro fronti erano una contro l'altra.
Kara poggiò dolcemente le mani sul petto di Max, ponendo una lieve barriera tra il balcone esagerato che si trovava e il corpo del suo ragazzo. Sorrise.
Poi Max aprì lievemente la bocca. Fu un sussurro rivolto a Kara, fievolissimo, dolce, che però mi arrivò in faccia amaro come il groppo che mi aveva raggiunto la gola: -Sei bellissima.-
Kara sembrò crogiolarsi in quelle due parole, sorridendo ancora di più.
Poi si abbracciarono.
E io mi decisi a muovermi, riuscendo miracolosamente a staccare i piedi da terra, sullo stomaco il peso del senso di colpa per aver assistito a quel momento così intimo, così privato.
Scollegai il cervello dal mondo circostante, andando dove mi portavano i piedi. Camminai velocemente senza guardare dove stavo andando, la borsa che sbatteva da una parte all'altra. Attraversai lo spiazzo dove si trovavano la maggior parte degli stand per la giornata dell'arte, captando solo qualche colore sgargiante e musica alta.
Quando tornai lucida, mi accorsi di star quasi correndo, e di trovarmi dall'altra parte del parco. Mi bloccai con il fiatone, sedendomi pesantemente su una panchina. Mi passai una mano sulla fronte, respirando profondamente. Sentii un rivolo di sudore corrermi giù per la schiena.
Non mi resi conto del demone finché non avvertii il suo alito caldo e pesante solleticarmi il collo. Mi abbassai appena in tempo, prima che una spina gigantesca perforasse l'aria, esattamente nel punto in cui fino a pochi secondi prima si era trovata la mia testa.
Mi buttai in avanti, spostandomi dalla panchina e rimanendo in ginocchio, la faccia a pochi centimetri dall'erba.
Un Drevak. Era un demone pericoloso, ricordai, ma non particolarmente sveglio. Sfruttai questa cosa per prendere tempo, prima che il mostro si accorgesse che mi ero solo accovacciata e non scappata. Aprii febbrilmente la borsa, cercando lo stilo. Ma non c'era. Presa dalla disperazione, cominciai a svuotarla. Una penna, un pacchetto di chewing-gum, il telefono e qualche banconota accartocciata fu tutto quello che ne uscì.
Ma perché cavolo mi trovavo sempre sprovvista di armi?
Mi guardai intorno, ma non scorsi nessun oggetto da usare come arma. Vedevo solo erba e alberi; sradicare qualche panchina andava decisamente oltre le mie possibilità. Cominciai ad avanzare carponi, cercando di allontanarmi dal Drevak.
 Ma il demone, mettendo in pratica il suo odorato fino, sembrò cogliere la mia posizione, seguendo la scia del mio odore. Strisciò sotto la panchina con il suo grosso corpo bianco di larva, le spine della bocca protese verso l'esterno, verso di me.
Cercai di pensare velocemente, guardandomi intorno alla ricerca di ispirazione per ideare un piano disperato dell'ultimo secondo. Ma, dannazione, i piani ben ideati non erano compito mio, durante le battute di caccia.
Quello era il lavoro di Max, che riusciva a tenere i nervi saldi in qualsiasi momento di pericolo, che non si faceva prendere dal panico, riuscendo ad analizzare la situazione in modo distaccato e preciso, strutturando nella sua mente brillanti piani d'attacco, che se andavano all'aria era solo perché io non mi attenevo alle sue istruzioni.
Sì, pensai a Max. E a Kara. E alle loro labbra unite, poco prima. Una strana sensazione mi attanagliò lo stomaco, facendomi scordare per qualche secondo del Drevak sempre più vicino. Ma mi ripresi subito.
Di solito, a questo punto, mi facevo prendere dal panico e delle idee avventate mi folgoravano, facendomi agire in un modo completamente diverso rispetto a quello progettato da IPC. E, anche questa volta, un'idea arrivò. Un'idea folle, molto probabilmente suicida e difficile da attuare. Ma dovevo metterla subito in pratica, se volevo avere qualche speranza di successo.
Proprio mentre una spina stava per colpirmi, scavalcai con un salto il demone, atterrando sulla panchina alle sue spalle.
Quello si fermò per un attimo, sollevando la testa da bruco e annusando l'aria, disorientato.
Approfittai della sua confusione momentanea per togliermi la giacca e attorcigliarla a mo' di corda.
Studiai per qualche istante i rami più vicini della quercia attaccata alla panchina, e ne scelsi uno che mi sembrava abbastanza stabile. Ci avvolsi la giacca e lo usai come leva par salire sull'albero, aiutandomi con i piedi.
Mi dissi di non guardare verso il basso, ma fu più forte di me. E feci un errore, perché per poco non andai in confusione, quando mi accorsi che il demone mi aveva localizzata. Tra me e me, esultai nel guardare il Drevak che non riusciva ad arrampicarsi a causa del suo grosso e viscido corpo larvale... Ma durò poco, dato che mi resi conto che, se fossi scesa, il Drevak mi avrebbe fatta a pezzi: ero bloccata sull'albero, senza via d'uscita.
E di nuovo mi guardai intorno, per cercare di capire cosa usare per batterlo. Ma, da lassù, era impossibile fare qualsiasi cosa.
Una spina avvelenata si conficcò nel tronco, un paio di centimetri sotto il mio piede.
Decisi che, per il momento, era meglio salire un po' più in alto. Non fu semplice, anche se la quercia non era molto grande. Sentivo le mani bruciare, sul punto di scorticarsi contro il legno ruvido. Le scarpe scivolavano in continuazione, provocandomi brividi di panico ogni volta che rischiavo di perdere la presa con i piedi e che mi sentivo il tronco mancare da sotto le suole.
Un'altra spina arrivò, puntandosi tra il mio pollice e il mio indice, vicino alla testa.
Guardai verso il basso, e mi accorsi di non aver fatto poi tanta strada. Il demone teneva la bocca aperta, pronto a scagliare un altro colpo.
In un atto disperato, staccai un ramo e lo gettai giù, sperando di colpire il bersaglio. Miracolosamente, il ceppo finì tra le fauci del mostro, che cominciò a contorcersi tentando di sputarlo. Almeno potevo guadagnare un po' di tempo.
 Di scendere, però, non se ne parlava: avevo troppo timore che il Drevak riuscisse a riprendersi da un momento all'altro.
Improvvisamente, qualcosa al margine del mio campo visivo attirò la mia attenzione. Capelli neri e occhi luccicanti fin troppo familiari. Dall'altra parte dello spiazzo, nella penombra, c'era Max. E in mano aveva qualcosa di luccicante, anch'esso a me conosciuto... Il mio stilo. Ma certo, dovevo averlo perso mentre guardavo la scenetta di Max e Kara che si scambiavano effusioni. La strana sensazione allo stomaco fu subito sostituita dal sollievo.
Sì, per una volta ero sollevata nel sapere che qualcuno, anche IPC, avrebbe potuto darmi una mano. Ma non gli avrei permesso di ucciderlo da solo... Potevo farlo fuori io, mi serviva solo lo stilo. A questo punto -ironia della sorte-, Max si rivelava essere la mia unica speranza. Lo guardai, cercando i suoi occhi.
Ma qualcosa non andava. Mi sfuggivano, e Max con loro. Aggrottò la fronte, puntando finalmente il suo sguardo su di me.
Da lontano, notai le sue nocche sbiancare, nel mentre che stringeva il mio stilo sempre più forte.
Ma era rimbambito? Non si accorgeva della situazione disastrosa in cui mi trovavo? Un moto di rabbia e impazienza mi fece stringere i denti. Mi resi conto che IPC era sparito. Aprii la bocca per richiamare la sua attenzione.
Ma mi uscì solo un verso strozzato, quando sentii una spina conficcarsi nella coscia, poco sopra al ginocchio.
La vista mi si appannò, e tutto divenne verde. Ai margini del mio campo visivo comparvero dei puntini rossi, che cominciarono a balzare da una parte all'altra, confondendomi, aumentando man mano che il dolore mi lacerava la gamba, salendo su per la spina dorsale, dandomi una scarica elettrica. Quasi non mi accorsi di aver perso la presa sull'albero, di star cadendo verso il terreno.
Finché non lo colpì violentemente, e il contraccolpo mi rimbombò in tutto il corpo, rischiando di rompermi il collo. Fu un sollievo rimanere viva.
Poi un pensiero macabro mi attraversò la mente: se non fossi morta per il colpo alla schiena, probabilmente sarei morta per il veleno del Drevak. Mi venne un conato di vomito nel ricordarmi che il demone era ancora in circolazione. Ero quasi certa che Max non l'avesse ucciso, da come non aveva mosso un dito per aiutarmi. E poi, era evidente che se ne era andato prima che la spina mi colpisse. Per una volta, ora che stavo per morire, mi trovai a desiderare l'aiuto di Max. Ma non arrivò.
Provai a muovermi, ma ero totalmente paralizzata sull'erba, e quel tentativo mi causò una scarica di dolore lancinante alla gamba. Riuscii solo a spostare le dita per toccare il punto che mi bruciava terribilmente. Mi sentii il mondo crollare addosso quando avvertii la spina sotto i polpastrelli. Lunga diversi centimetri, mi spuntava in modo disgustoso dalla coscia.
Il sangue mi bagnò la mano: usciva caldo, a fiotti. E un'altra sostanza mi mandò in fiamme la pelle: il veleno del Drevak. Mi sforzai di ricordare ciò che era scritto nel Codice a proposito di quella razza di demone. No, il veleno non era sempre fatale: si moriva solo se non si interveniva tempestivamente. Ma, di fatto, non avevo idea di chi potesse aiutarmi e curarmi, in quel momento.
Poi sentii lo scroscio d'acqua, e mi sembrò un po' più possibile stare attaccata alla vita. La fontanella, a qualche metro di distanza, era stata messa in funzione.
Strinsi i denti gorgogliando per il dolore, e, ansimando, mi misi in ginocchio. I puntini ricominciarono a danzarmi davanti agli occhi, ma si calmarono subito.
 Poco distante, il demone giaceva vivo, ma tramortito. La punta del ramo che gli avevo lanciato spuntava dalla bocca.
Gattonai fino alla fontana, soffocando i conati di vomito e le urla di dolore. Una volta arrivata, mi sedetti sulla terra, la schiena appoggiata al ferro freddo che mi risvegliò leggermente. Presi coraggio ed esaminai la ferita: era bruttissima, forse la peggiore che avessi mai avuto. Intorno ad essa, sul jeans, una macchia di sangue si allargava sempre di più. Decisi che era meglio togliere la spina: forse l'emorragia sarebbe aumentata, ma il veleno rischiava di uccidermi più in fretta.
 Afferrai saldamente la spina con la manica della giacca. Con mano ferma, la estrassi tutta d'un colpo. Non riuscii a bloccare l'urlo che mi uscì dalla gola. La spina era nera, più lunga di quanto pensassi, e del veleno verde stillava dalla punta. La usai per strappare il jeans intorno alla ferita. Decisi di non scagliarla lontano, ma di tenermela accanto, posandola sull'erba.
Immersi un lembo della giacca nell'acqua della fontana. Lasciai che il sangue si scrostasse dalle mani, per rinfrescarle dal bruciore dovuto ai tagli che mi ero procurata arrampicandomi sull'albero.
Con la giacca bagnata, pulii la ferita, premendo per far uscire il sangue avvelenato e poi tamponando delicatamente. L'acqua fredda mi aiutò notevolmente, mentre scoprivo la pelle scorticata e bruciata ai margini della ferita. Ripresi in mano la spina per tagliare una manica della giacca. La usai come un laccio emostatico, avvolgendola intorno alla coscia e bendando la ferita, facendo un nodo bello stretto per bloccare il sangue alla meno peggio.
Mettermi in piedi fu una fatica, ma senza dubbio mi sentivo meglio rispetto a prima. Zoppicando, la spina in mano, camminai fino al demone tramortito.
Non fece una piega quando gli conficcai la spina nella gola e gli squarciai la pelle fino all'addome. Si disintegrò in un mucchietto di cenere, a cui diedi un calcio con il piede della gamba sana.
Decisi di andarmene a casa: era meglio chiedere una pozione per togliere del tutto il veleno... E poi, dovevo piazzare una poltrona davanti all'ingresso dell'Istituto, di modo che, appena arrivato, a Max sarebbe venuto un infarto nel vedere il mio sguardo che lo fulminava. Sì, mi sfregai le mani immaginandomi la scenetta. Mi sarei anche presa una coppa di pop corn per godermi la sua agonia, proprio come aveva fatto lui poco prima. Ma perché non mi aveva aiutata?
"Brutto bastardo" fu l'unico pensiero che rivolsi a IPC in quel momento.
-Samantha!- Sospirai rendendomi conto di aver trascurato un dettaglio: Owen, al quale avevo promesso di passare un bel pomeriggio insieme. -Ti ho cercata dappertutto- disse, il fiatone dovuto alla corsa -e non hai risposto al telefono...- Poi si bloccò, e assunse un'espressione preoccupatissima, lanciandosi verso di me.
-Merda... Stai zoppicando. Cosa ti è successo, tesoro?-
Un mare di emozioni mi esplose nel petto: sorpresa, per aver sentito Owen dire una parolaccia in modo così aperto; gratitudine, perché adesso i suoi occhioni castani erano spalancati e pieni di apprensione verso di me; e poi, più forte di tutte, un calore che si sciolse come burro nella testa, per poi scendere fino allo stomaco, quando metabolizzai la parola "tesoro".
Avevo sentito varie volte mia madre chiamare così mio padre... Ma solo i miei genitori e Izzy - qualche volta anche Simon - avevano usato con me quell'appellativo. Normalmente, l'avrei trovato estremamente mieloso... ma detto da Owen, aveva tutto un altro suono.
Mi ripresi abbastanza per rassicurarlo: -Non è niente, Owen, sta' tranquillo. Sono solo inciampata e caduta. Mi sono sbucciata un po' i palmi, ma sto bene.-
Owen non sembrò convinto. Mi prese per il polso, delicatamente. -Vieni.-
Mi lasciai trascinare.
Owen mi portò fino alla fontanella e mi fece sedere sulla panchina accanto ad essa. Tirò fuori dalla tasca un fazzoletto pulito di stoffa candida, e lo immerse nell'acqua. Si sedette accanto a me e mi guardò.
-Permetti?- chiese, indicando con gli occhi le mie mani.
-Davvero, Owen- provai a dire -sto benissimo. Non c'è bisogno che tu...-
Owen alzò le spalle e arricciò le labbra in modo adorabile. -Ormai ho bagnato il fazzoletto.- E mi prese le mani fra le sue, in modo deciso ma cortese, girandole in modo che i palmi fossero rivolti verso l'alto. Smisi di ribellarmi, permettendogli di aiutarmi. Anche perché mi sentivo la testa leggera, ogni volta che mi stringeva le mani un po' più forte. Fece un'espressione contrariata non appena vide i tagli che mi costellavano le mani. -E questi me li chiami un niente?- Scosse la testa. -Bisogna pulirli un po', così si rimargineranno prima.- Lentamente, posò il fazzoletto sulla mia mano destra. Cominciò a tamponare, pulire e strofinare i graffi.
Lo guardai attentamente: aveva la fronte aggrottata per la concentrazione, i capelli castani erano resi più scuri dall'ombra degli alberi che ci sovrastavano. I suoi occhi color cioccolato brillavano, fissi sulle nostre mani.
Mi incantai a guardare la cura con cui si occupava del lavoro che stava facendo, passando alla sinistra.
Dopo un po', richiamò la mia attenzione: -Sam?-
Lo guardai con aria interrogativa.
-Ho finito- disse, poggiando il fazzoletto affianco a lui.
Ed era vero: guardai i miei palmi, ormai tutti puliti dal sangue, i graffi molto meno visibili. Annuii, sentendo una punta di delusione: avrei voluto che continuasse, ma davvero non ce n'era bisogno. Owen aveva fatto un lavoro eccellente, semplicemente con un po' d'acqua.
-Vuoi che prenda io il fazzoletto? Lo lavo e poi te lo porto... È tutto sporco di sangue.-
Lui sorrise. -No, no. Non preoccuparti assolutamente. Sono stato io a voler usare il fazzoletto per pulirti il sangue dalle mani, quindi la responsabilità è mia. Non credo che mia madre si arrabbierà, quando glielo porterò a casa.- Fece una smorfia. -Al massimo obbligherà me ad occuparmene.-
Ridemmo, insieme. Poi mi venne un brivido e tremai per un istante.
-Che hai?- domandò Owen.
-Solo un po' di freddo...- dissi, perché era quello ciò che avevo sentito. Probabilmente era solo il fatto di non avere la giacca sulle spalle.
 -Oh,- fece Owen -aspetta.- Si tolse la giacca e me la avvolse intorno alle spalle. -Va meglio?- chiese, tenendo le mani sul colletto, vicinissime al mio viso.
Arrossii. -Certo, grazie. Ma a te non serve?-
-Me la darai quando ti sentirai meglio- rispose, alzando le spalle. -Il freddo non è un problema, per me.- Sorrise, scherzoso. -Sono super resistente.-
Decisi di non precisare il fatto che avevo anch'io una giacca allacciata in vita e che potevo benissimo mettere quella. Prima di tutto perché mi serviva per nascondere la ferita della spina, poi perché... Be', perché indossare la giacca di Owen era una prospettiva molto più interessante, soprattutto se significava che mi sarebbe stato così vicino. -Sì- confermai, ridendo. -Sei proprio resistente.-
-Mi prendi in giro?- chiese, giocando.
-Assolutamente sì- dichiarai, in falso tono solenne. -Bene. Mi piacciono le ragazze burlone.-
-Suppongo che prenderti in giro per aver usato la parola "burlone" mi farebbe guadagnare punti...-
Rise leggermente.
-Quindi...- cominciai, arrossendo e ridendo nello stesso tempo -vuoi dire che potrei piacerti?-
Owen sollevò un angolo della bocca. -Tu mi piaci comunque- disse, abbassando la voce e stringendo la presa sul colletto.
Non risi più. Rimasi bloccata, non sapendo cosa fare. Dovevo rispondere "Anche tu mi piaci"? Dovevo limitarmi a guardarlo negli occhi?
Fu Owen a risolvere il problema. Mi tirò leggermente per il colletto, avvicinando il mio viso al suo. Ci fu solo silenzio, anche nella mia testa. Poi poggiò le sue labbra sulle mie, piano, delicatamente, quasi avesse paura di farmi male.
E lo lasciai fare. Lasciai che il mio primo bacio si prolungasse, chiudendo gli occhi. Sentivo solo le labbra di Owen, sottili ma morbide.
Fu un bacio a fior di labbra, casto, ma mi resi conto che Owen non era niente male. Non che potessi fare paragoni... Ma, tra me e me, mi piacque pensarla così.
Portò le mani sulle mie guance, scostandosi leggermente. -Niente male,- disse -davvero niente male.-
Arrossii violentemente, avvertendo il fiato fresco di Owen che si infrangeva sulla mia faccia. Ringraziai Raziel di essermi lavata i denti per bene, prima di uscire. Sorrisi. -Dici?-
-Assolutamente sì- rispose, imitando le parole che poco prima gli avevo rivolto io.
Risi piano.
-Sarà il caso che andiamo- disse Owen. -Si sta facendo tardi, e purtroppo mia madre è molto rigida sugli orari.-
-Oh- feci, delusa. -Ehm... okay. Hai ragione.- Già, parlai come una deficiente.
Owen si alzò, e io con lui. Mi aspettavo che mi prendesse per mano, ma non lo fece. Forse non voleva farmi male per via dei graffi, ma lì per lì non potei fare a meno di chiedermi se avessi sbagliato qualcosa.
Camminammo in silenzio per un po', quasi fino all'ingresso del parco, che non era lontano.
-Mi spiace che sia oggi sia durato così poco.-
Non seppi se si riferiva alla giornata in generale o al bacio. Ad ogni modo, ero d'accordo per entrambe le cose. Quindi concordai: -Anche a me.-
-Sai una cosa?- fece.
-Cosa?-
-Se non tieni conto del fatto che il parco è diverso, è quasi come quando ho provato a baciarti la prima volta. Prima che fossimo interrotti da quel rumore.-
Sorrisi, accorgendomi che aveva ragione... Cacciai indietro il ricordo di quando avevo scoperto che a fare rumore e interromperci era stato quel coglione di Max che cadeva da un albero. Sperai che si fosse fatto proprio male, in quell'occasione.
Non riuscivo a capire perché, ma baciare Owen dopo aver visto Max baciare Kara era stato soddisfacente... Quasi come se un conto fosse stato pareggiato.
Ad ogni modo, tornai con la mente fissa su Owen. -Già- asserii al suo commento precedente -è tutto come allora.-
-Solo che stavolta ci siamo baciati davvero- precisò Owen.
Sorrisi di nuovo. -Lo so.-
-Credi che potrei riprovarci?- domandò, arrossendo leggermente. -A baciarti, intendo.-
Una vocina nella mia testa stridette di gioia. -Direi di sì.- Mi sentivo le guance in fiamme. -Quando ne avrai voglia.-
Owen annuì, sorridendo leggermente. Restò un po' a guardarmi, poi chiese: -Tu devi prendere l'altra uscita, giusto?-
-Sì.-
Lui sospirò e alzò la mano in segno di saluto. -Allora vado.-
Gli guardai la schiena man mano che si avvicinava al cancello.
Sospirai anch'io e mi girai, prendendo a camminare. Dopo un po', sentii un rumore di passi svelti e una mano che mi afferrava il polso, facendomi voltare.
Riuscii a vedere solo due occhi castani, prima che mi cingesse la vita con le mani e mi attirasse a sé per baciarmi. Fu un bacio più deciso, più profondo del precedente. Gli misi le braccia sul petto, poggiando le mani sulle sue spalle. La distanza rimpicciolì man mano che lui mi abbracciava.
Poi il bacio finì. Aprii gli occhi, e così anche lui.
-Avevo voglia adesso di baciarti.-
Sorrisi a Owen. -Direi che hai fatto bene a tornare indietro, allora.-
-Sì, be', purtroppo adesso mi tocca davvero andare a casa. Ci vediamo domani a scuola. Altrimenti mia madre mi farà fuori.-
Risi. -E va bene.-
Owen si staccò e si allontanò, ogni tanto girandosi e sorridendomi. Poi sparì oltre il cancello.
Mi voltai e me ne andai anch'io, continuando a pensare al fatto di aver dato il mio primo bacio.
Uscii dal parco e mi avviai verso casa. Non passò molto tempo che mi sentii di nuovo prendere per il polso.
Stavolta, la mano che mi afferrò era molto più calda.
Una scarica elettrica mi attraversò. La sensazione fu che appartenesse ad un'altra persona, ma Owen sembrava l'unica scelta plausibile.
Sorrisi pensando che era nuovamente tornato indietro, e mi preparai a ricevere un altro bacio, avvicinandomi - mentre mi voltavo - al corpo caldo del proprietario della mano.
Il mio voleva essere un gesto dolce, invece sbattei contro il suo petto.
Al di là della figuraccia, constatai con piacere che Owen aveva molti più pettorali di quanto pensavo.
-Scusami, Owen- dissi, la voce dolce. Ridacchiai, arrossendo. -Lo sai che hai molti più muscoli di…-
Sbiancai non appena vidi la faccia del proprietario dei pettorali che stavo per lodare, un sopracciglio talmente inarcato che sembrava stesse per finirgli in mezzo ai capelli. Col senno di poi, mi dissi, avrei dovuto accorgermi del profumo di sapone familiare e dell'altezza (quella delle costole) alla quale avevo colpito con la testa Max.
Non sapevo se schifarmi o provare vergogna.
Ma quando nello sguardo di Max scorsi un indecifrabile guizzo di luce, con la sua mano serrata delicatamente intorno al mio braccio, mi sentii minuscola mentre un’ondata di rossore mi invadeva fino alla punta dei capelli.
Fissai lo sguardo davanti a me, sul petto di Max, evitando di incontrare i suoi occhi.
-Sì?- domandò con uno strano tono. -Cosa stavi dicendo a proposito dei muscoli?-
-Io… ecco, io penso di essermi confusa dopo aver sbattuto contro di te e…-
-Ci credo che ti sei confusa… Insomma, mi stavi scambiando per quello lì. Come si fa a non accorgersi subito della differenza, dico io?- mi sbeffeggiò in modo così sfacciato che sentii la faccia cambiare colorazione, dal rosso al viola.
Non risposi alla provocazione, perché avevo troppa paura di dire qualche cavolata e sembrare ancora più scema. Ma non resistetti dall’alzare gli occhi sul suo viso.
Il ghigno che avevo già avvertito nella sua voce era lì, come sempre, stavolta particolarmente accentuato.
Vedendo che non ribattevo, IPC alzò gli occhi al cielo e mi lasciò andare.
A questo punto, sarei potuta scappare…  Ma non lo feci. Rimasi inchiodata davanti a Max, incapace di fare un solo passo.
-Lasciamo perdere- borbottò Max, spostando lo sguardo da me e posandolo sulla tasca interna del giubbino in cui aveva cominciato a frugare. -Stavi cercando- e tirò fuori il mio stilo -questo?-
Mi tornò in mente di come mi aveva lasciato in balia del Drevak, e mi venne voglia di prenderlo a pugni.
Con un tono accondiscendente che mi fece saltare i nervi, mi chiese: -Sai dove ho trovato il tuo stilo?-
Sfoggiai un sorriso tanto falso quanto smagliante. -Be’, non ne ho idea. Ma per fortuna l’hai trovato. Quindi grazie tante.-
Allungai una mano per strappargli lo stilo, ma lui sollevò il braccio, ponendolo al di fuori della mia portata.
-L’ho trovato- soffiò -dove poco prima stavo facendo i fatti miei.-
Non potei fare a meno di notare come aveva detto “fatti miei” al posto di “sbaciucchiavo Kara”. Continuai comunque a fare buon viso a cattivo gioco. -Potresti essere più preciso? “Fatti miei” è decisamente troppo vago: non riesco a capirti.-
-È qualcosa che non ti riguarda assolutamente… e poi, se è come penso io, sai benissimo di cosa sto parlando.- Si grattò il mento con finta aria dubbiosa. -E credo proprio di avere ragione, dal momento che prima che cominciassi a fare i fatti miei il tuo stilo non c’era.-
Quel giochetto cominciò a scocciarmi. -Senti,- dissi -prima di tutto, accetta l’idea di dire “baciare la mia ragazza”, perché sennò mi attacchi i nervi.-
Max aprì la bocca per dire qualcosa, ma lo bloccai prima che emettesse un fiato.
-E poi sì, vi ho visti.- Dovetti sforzarmi per non far salire il sangue alle guance, stringendo i pugni a tal punto che le unghie si conficcarono nei palmi. -Ma ti giuro che non avrei voluto. Non vi ho neanche interrotti, non mi sono messa in mezzo per rovinare i tuoi piani con lei, non vi ho dato alcun fastidio. Non vi siete neanche accorti della mia presenza, visto com’eravate impegnati, tanto che sono arrivata e avevate già cominciato, me ne sono andata e non avevate ancora finito. Non ti ho preso in giro dopo che hai detto a Kara che è bellissima… Quindi proprio non capisco cosa tu abbia contro di me, stavolta!- Ripresi fiato e avvertii un dolore sordo alla coscia, dove sentivo la ferita bruciare.
Max restò interdetto per un istante, ma si riprese subito. -Intanto hai guardato.-
Sentii la rabbia esplodermi nella testa. -Mi sono comportata senza dubbio meglio di te, che intervieni solo quando non dovresti!-
I suoi occhi si incupirono, e io infierii: -Ogni maledetta volta che Owen stava per baciarmi hai fatto in modo che non accadesse.-
-Pensi che lo abbia fatto di proposito?-
-Certo che sì! Tu non fai mai nulla per sbaglio. Ho capito benissimo che stai solo cercando di mettermi i bastoni fra le ruote, perché hai un bisogno vitale di far sì che io non ottenga quello che voglio… Anche se la cosa in questione è un bacio!-
-Sei solo capace di fare tutte queste macchinazioni mentali?- m’interruppe, ma continuai senza pietà, i miei occhi ormai fissi nei suoi, quasi ad annullare la differenza d’altezza. La distanza tra di noi era ridotta a due centimetri, in modo che ci fosse un dialogo anche tra i nostri sguardi, uno d’oro e l’altro d’ambra.
-Ti ho visto, prima. Il Drevak mi ha attaccata- sentii un'altra fitta alla coscia, ed ebbi un capogiro -e tu non hai fatto niente. Non mi sto incavolando perché volevo che arrivasse il Principe azzurro per salvarmi... Ma, per Raziel, stavo per soccombere! Potevo morire; sono viva per miracolo. Posso capire che non ti importa niente di me, ma almeno potevi lanciarmi lo stilo!-
-Credevo che te la saresti cavata da sola!- sbottò Max, interrompendomi. -All'inizio ho pensato di aiutarti, ma poi mi sono ricordato che dici sempre di poter fare tutto da sola e che ti sottovaluto... Ora mi sono comportato come hai sempre richiesto, ma ti lamenti ugualmente. Non sei mai contenta, sembra che tu ti diverta a venirmi contro a tutti i costi, non importa quanto quello che vuoi sia incoerente da un giorno all'altro! Ma forse stavolta hai ragione...- Il suo tono si fece sibilante, e la sua voce soffiò sulla mia faccia questa frase: -Probabilmente ho avuto troppa fiducia in te, e ho erroneamente creduto che non ti saresti aspettata un salvatore che ti togliesse dai guai.-
E non seppi cosa ribattere. Parte del mio cervello era ancora sicura di avere ragione, ma Max aveva un'abilità con le parole che era spiazzante: la mia mente non riuscì ad elaborare un pensiero da trasformare in parole contro IPC. Max mi stava facendo sentire una debole.
-E poi, Owen ti ha baciata comunque!- aggiunse in tono aspro.
Non mi curai del fatto che Max era molto più alto, forte e muscoloso di me; semplicemente, gli afferrai la maglia all’altezza del petto e lo avvicinai.
Max non oppose resistenza.
Non c’era più distanza, neanche uno spiffero tra di noi.
Solo le nostre facce non erano incollate: la sua sovrastava la mia, per via degli oltre trenta centimetri buoni di differenza d’altezza.
I respiri si mescolarono.
Sentii le gambe tremare e un dolore lancinante alla ferita, ma non rinunciai a infondere nel mio tono tutta la rabbia che provavo, il mio pugno stretto intorno alla stoffa della sua maglietta.
-Tu- ringhiai a bassa voce -ci hai spiati. Chi ti ha dato il diritto di farlo?-
-È quello che hai fatto tu, mi sembra- sibilò, mantenendo il contatto visivo. -E lasciamelo dire…- mi tirò leggermente la manica della giacca -ti sei fatta catturare da qualche stupidaggine mielosa. Ti ha dato la sua giacca, ma potevi benissimo usare la tua. Perché non l’hai fatto?-
In quel momento mi resi conto che
  1. avevo ancora indosso la giacca di Owen e
  2. Max non sapeva che il demone mi aveva colpita, era tornato indietro quando già con me c’era Owen.
A Owen avrei ridato la giacca l’indomani mattina.
Avrei sfruttato la seconda scoperta, tacendo a IPC il fatto di avere una terribile ferita alla coscia per non sembrare ancora più debole.
Proprio in quel momento un dolore tremendo partì dalla gamba e mi attraversò il corpo. Mollai la presa sulla maglia di IPC e mi allontanai, sentendo la testa girare.
Decisi di andare a casa il più velocemente possibile, facendo in modo che Max non si accorgesse di niente. Mettere i passi in sequenza per riuscire a camminare mi costò una fatica immane e fece aumentare il dolore. Cominciai a zoppicare.
Max mi affiancò, parandosi di fronte a me.
Mi puntò gli occhi sul viso, ma io lo abbassai per sfuggirgli.
-Max- tentai -ti prego. Lasciami stare.- Strinsi i denti per il dolore.
-Tu dimmi perché non hai usato la tua giacca.-
-Max, te lo chiedo per favore, smettila di prenderla sul personale.-
Chiusi gli occhi per resistere ad una fitta particolarmente forte.
Capii che Max si era accorto che qualcosa davvero non andava quando avvertii un tono dubbioso nella sua voce.
-Posso sapere che cosa hai?-
Non risposi.
-Samantha, si vede che non stai bene.-
Avrei quasi voluto ridere per il suo tono, visto tutto il discorso sulla fiducia che mi aveva fatto poco prima. Invece mi misi a fissare un punto indistinto del suo giubbino. Il filo di voce che mi uscì dalle labbra mi fece dubitare che Max riuscisse a sentirmi mentre dicevo: -Non ho niente. Voglio solo tornare a casa.-
Ma lui capì lo stesso. -Mi dici cosa ti è successo?-
Le sue parole mi sembrarono urlate.
Non risposi.
Non ebbi neanche la forza di bloccare Max quando allungò un braccio e mi strappò la giacca dalla vita, scoprendo il jeans insanguinato e la fasciatura ormai scesa al ginocchio.
L’aria di inizio marzo mi ghiacciò quando la ferita vi fu esposta.
Max guardava il punto in cui la spina del Drevak si era conficcata, e io riuscii a vedere il suo cervello che lavorava per collegare tutti i pezzi e capire cosa era accaduto.
Tutto quanto, ai miei occhi, fu coperto da puntini che saltavano da una parte all’altra del mio campo visivo.
Max si gettò verso di me, un’espressione forse attonita dipinta sul volto.
Sentii il calore delle sue braccia che mi avvolgevano e mi sostenevano.
Poi fu buio.
 
*****
 
 
Non ci sono stelle, questa sera. Soltanto un sottile spicchio di luna è comparso nel nero manto notturno. Ma la sua luce fioca ha illuminato la città di New York, dai quartieri popolari della periferia ai moderni appartamenti luccicanti in vetta agli alti grattacieli. La città non dorme mai: non è cosa insolita osservare le macchine sfrecciare veloci per le strade o qualche ubriaco uscire barcollando da un pub, reggendo in una mano una bottiglia di birra da quattro soldi.
Ma arriva sempre un orario, giusto il breve movimento delle lancette di un orologio, pochi attimi in cui New York cade in un breve sonno profondo, dove i rumori dei clacson sono solo ricordi lontani, dove non c'è una sola foglia in movimento a Central Park, dove perfino le luci brillanti dei lampioni gettano una luce più fioca, morbida.
Ed in quel mentre, solo una figura ha osato rompere quel delicato equilibro, ha osato uscire dal limbo della notte. Un'ombra longilinea. Sicuramente una ragazza, per la forma piena dei fianchi e le morbide curve del petto. Ha iniziato a correre velocemente, diretta sicura verso una semplice villetta a due piani all'angolo della strada.
Al suo passaggio la luce dei lampioni è arrivata a intermittenza, come se non volesse illuminare, o svelare, la figura. Perfino la luna si è nascosta dietro a pesanti nuvoloni neri, che promettono l'arrivo di un temporale.
Il buio. Non si riesce più ad intravedere l'ombra della ragazza.
Ma, se prestate ascolto potere sentire un impercettibile ma continuo ticchettio. Tic, tic, tic. Come di tacchi che sbattono sull'asfalto. Forse potete anche immaginare le minuscole pietruzze di cemento sotto le suole delle sue scarpe che creano attirato fra i piedi ed il suolo.
Ora, seguiamo il loro rumore. Si sta attenuando sempre di più.
Ma adesso captiamo un cigolio sinistro, come di una porta non oliata a dovere che viene socchiusa, quanto basta per farvi passare una persona soltanto.
Poi il silenzio.
La luna non è ancora uscita dal suo letto di nubi oscure e i lampioni illuminano la via ad intermittenza, seguendo un ritmo scoordinato ed innaturale, creando un gioco di luci ed ombre. Anche il vento non soffia più.
Poi all'improvviso una luce. Argentea, pura, bellissima. Proviene da quella anonima casetta all'angolo della strada, quella dove si è recata la figura. La luce svela la presenza di due persone in uno strano salotto, al secondo piano della villetta.
Una vecchia  con un  viso scavato dalle rughe che ghigna soddisfatta.
La ragazza dalle curve morbide si limita a stringere nella mano uno strano oggetto luminoso.
La vecchia le fa segno di sbrigarsi, togliendole dalle mani la fonte della luce.
La ragazza estrae dalla tasca del suo vestito un semplice sacchetto di velluto e ne slaccia i nastri. Al suo interno c'è un anello luminoso, decorato con rilievi intricati.
La ragazza non osa toccare l'oggetto e lo porge con riverenza all'anziana signora, che lo stringe tra le dita nodose e lo annusa emettendo un verso famelico.
All'improvviso urla di dolore, allentando la presa sul gioiello.
- Oro massiccio...- gracchia. Il suo tono è sdegnoso e guarda l'anello con una nuova luce negli occhi. Le sue iridi nere, in cui non si riesce a distinguere la pupilla, fissano con orrore misto a soddisfazione l’anello. Lo osserva da più angolazioni, come per accertarne il valore.
Dopo il suo minuzioso controllo ritorna a sospirare di piacere e mormora: -Ben fatto, figliola- dice. La sua voce è gracchiante, simile al suono delle unghie che graffiano una lavagna. 
- Quest'odore- sussurra, gemendo. - Oh, questo è sangue di angelo-.
Poi scoppia in una fragorosa risata, coinvolgendo anche la ragazza.
Le porge l'anello ed anche la ragazza inizia a toccarlo delicatamente con le unghie laccate, senza mai sfiorarlo con i polpastrelli, per poi cominciare ad ansimare emettendo un suono agghiacciante, mostrando i denti bianchi.  
La vecchia glielo toglie dalle mani e con voce bramosa sussurra: -Manca poco ormai ,figliola. Manca poco...-
All'improvviso, la luce si spegne e le due figure scompaiono.
Ecco che la luna esce dal suo nascondiglio di nere nubi, i lampioni tornano ad illuminare la via regolarmente, con la loro solita luce calda. Anche il vento ricomincia a soffiare, facendo muovere le fronde nodose degli alberi.
Ma, anche se tutto sembra uguale, normale, i più attenti possono avvertire una certa tensione, un’energia magnetica che serpeggia fra le case, tra le foglie degli alberi, perfino nelle proprie cellule. È un ritmo serrato, veloce, che scandisce il tempo proprio come le lancette di un orologio: come se la terra, il cielo, la vita stessa stesse iniziando un conto alla rovescia. Come quello di una bomba pronta ad esplodere, distruggendo ogni cosa. Ogni cosa...

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COMMENTO SCRITTRICI: 
Carissimi, che dire... Questo capitolo è stato un parto: ci abbiamo messo un sacco di tempo perché avevamo difficoltà ad accordarci tra noi due e siamo state sobbarcate di impegni. Grazie per chi ci ha incoraggiate a pubblicare il nuovo capitolo, per chi nello scorso capitolo ci ha regalato recensioni e preferiti... Senza di voi non saremmo niente! Ora che le vacanze sono cominciate, cercheremo di rendere gli aggiornamenti più veloci, anche perché ci piange il cuore a farvi aspettare tanto a lungo.
Speriamo che il capitolo vi sia piaciuto: fatecelo sapere con una recensione. Per noi la vostra opinione conta moltissimo. 


Piccolo avviso: nel prossimo capitolo introdurremo più POV. Ci siamo rese conto che abbiamo troppe idee in testa, e che mantenere solo il punto di vista di Sam ci vincolerebbe. Quindi, oltre a lei, ci saranno altri narratori all'interno della storia... Cosa pensate di questa idea? Fatecelo sapere! ;)

Tantissimi baci e grazie ancora per il vostro sostegno,
C&S 

 
   
 
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