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Autore: etoshina99    19/06/2015    1 recensioni
Quando perdi la famiglia, l'amicizia, l'amore, ti rimane almeno Dio. Ma quando perdi anche Lui? quando perdi la fede, cosa succede? a cosa ti aggrappi per andare avanti? chi, o meglio, cosa diventi?
La seconda guerra mondiale ha investito la vita di Anna, giovane ragazza italiana, che dovrà lasciare la sua professione di studentessa per ritrovarsi a combattere, a cercare in ogni modo di non soffocare, di non sprofondare nell'oblio dell'odio nazista.
" sei la cura e la condanna"
Ogni volta che vede i suoi occhi si ripete questa frase;
Ogni volta che sente la sua voce, trema.
Ogni volta che la sua pelle sfiora quella di Louis, lei si frantuma, come le case e le vallate distrutte dalle bombe e dalla polvere d'asfalto.
Cielo.
I suoi occhi saranno il suo cielo, il cielo che non ha mai avuto il diritto di vedere.
Genere: Drammatico, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Louis Tomlinson
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Guardò l’orologio; erano ormai le tre del mattino quando ebbe finito di sistemare la cucina e buttare tutti gli avanzi nella ciotola del cane; Anna, ormai esausta, decise di andare a dormire; scese piano, per evitare di fare il minimo rumore( “ altrimenti la pagherai ” le sembrò di sentire la voce del padrone di casa). Arrivò in cantina e accese con un fiammifero la piccola candela che stava sopra la mensola. Slacciò il busto e si tolse la lunga e ampia gonna ,qua e là macchiata e rattoppata alla bell’e meglio. Prese la sua spugna sgretolata e la immerse nella bacinella per poi passarsela lungo le braccia ossute e il collo magro. Sbadigliò mentre si infilava la semplice tunica di rafia che usava come pigiama, se la sistemò adagiandola bene al corpo e poi con un lieve, quasi strozzato, soffio spense il cero sdraiandosi sulla poca paglia spelacchiata che divideva la sua schiena dalle polverose e umide assi di legno.
Dopo non molto crollò in un sonno profondo tutt’altro che tranquillo. Ormai era un anno che lavorava per il signor Neumann e, anche se per certi versi lo odiava, doveva a lui la sua stessa vita.

I campi.
Le montagne.

Fiii boom.

Fiii boom.

Era cauta un’altra bomba.
Si svegliò di soprassalto – mamma! Mamma dove sei? Layla? Padre?- si alzò; si guardò intorno; il tetto spiovente della loro piccola casa faceva scorrere l’acqua direttamente in strada provocando un’assordante scroscio.

Fiii boom.

Anna uscì di corsa e vide tutta la gente del paese stringersi nella piazza principale; accorse anche lei e, saltellando cercò di vedere cosa stava accadendo. Tutti gli abitanti erano ammassati in un gruppo solo, come volessero darsi forza l’un l’altro, come se si volessero abbracciare. Erano un grande e intenso abbraccio.
Il cielo grigio, tappato dalle nuvole del temporale, era in fiamme; ogni tanto dei lampi neri venivano scagliati da uccelli di latta, di metallo, che vomitavano polvere da sparo a intervalli regolari di tempo.

Fiii boom.

Dopo pochi istanti si accese un piccolo fuocherello, appena visibile all’orizzonte, che poi aumentò sempre più diventando un terribile mostro mangia vita.
- i tedeschi! I tedeschi!-
-arrivano i tedeschi!-
L’abbraccio si dissolse in fretta lasciando solo un grande vuoto e creando scompiglio attorno ad Anna, allora quindicenne. Con gli occhi esaminò tutti i cittadini riuscendo infine a trovare la sua famiglia.

Fiii boom.

Tre giorni dopo erano in macchina con i bagagli legati sul tetto e la piccola Layla in grembo alla madre. Anna invidiava la sorellina poiché non si rendeva conto di quello che stava accadendo e ammirava se stessa per non conoscere a fondo il motivo della loro partenza; pianse anche lei lacrime amare perché costretta a lasciare la sua terra, la sua amata Italia.

Berna, gennaio 1940

Erano ormai mesi che vagabondavano per la Svizzera in cerca di accoglienza e riparo accompagnati dal pianto ritmico e regolare della madre che aveva perso la sua seconda bambina a causa della polmonite.

Engen, marzo 1941

Li hanno scovati.
Stanati.
Li hanno trovati.
Li stanno smistando assieme alle altre donne, bambini, uomini impuri, zingari, omosessuali ed ebrei. Ebrei.
Ma loro non erano ebrei.
Lo era la bisnonna di Anna. Solo lei. Ma per i tedeschi erano ebrei e non si discute.
I camion partirono a tutta velocità.
Anna fece giusto in tempo a dire addio ai suoi genitori perché non li rivide più. Mai più.
Anna era la più grande tra i bambini ma questo non le vietava di piangere, di sfogare la su rabbia che passava in secondo piano soffocata dai gemiti e dalle urla degli altri marmocchi, ogni tanto frustati o picchiati dai due soldati delle SS che li tenevano d’occhio.

Dachau, maggio 1942

Era ormai un anno che lavorava dalla mattina alla sera, mangiava bucce di patate e radici e spesso non dormiva. Soffriva di panico e, da quando sua madre non le accarezzava più la testa né le sussurrava dolci parole prima di andare a dormire, era sempre triste e malinconica. Non parlava mai.
I soldati spesso facevano brutti commenti su di lei (aveva imparato un po’ il tedesco, soprattutto quello labiale), parole sporche e volgari che Anna detestava con tutta se stessa.
Le veniva da vomitare.
Quando , anni prima,andava a scuola tutti la prendevano in giro , non solo perché era brava, ma anche perché era robusta, un po’ cicciottella. Ora le rimanevano solo le ossa e, ripensando a quelle scene, ogni tanto sorrideva perché adesso aveva proprio un fisico da modella: girovita stretto e ben evidente, costole numerabili da lontano, scapole sporgenti e gambe sottili e uniformi come stecchini.
Una sera, mentre tornava verso la sua baracca venne prelevata e trascinata in un capannone da tre soldati.
La violentarono.
A turno.
Non fu la prima volta poiché venne trasferita per diventare una prostituta da campo.
Lacrime.
Versava molte lacrime.
Ma non erano di dolore, rimpianto o rassegnazione; anzi era contenta di essere diventata una prostituta, lo preferiva di gran lunga alle camere a gas oppure alle fucilazioni di massa. Almeno era ancora viva, si ripeteva nei momenti di sconforto.
Piangeva per nostalgia, oppure per scusarsi con i suoi genitori, per non aver scelto la professione dei loro sogni; per scusarsi con sua sorella ,perché non ebbe modo né capacità di salvarla ; piangeva per scusarsi con Alberto, il suo ragazzo, ex ragazzo, perché per puro egoismo e sete di vita, lo stava continuamente tradendo.
Già, sete di vita.
Ma questa, si può chiamare vita?
No, non credo.

Dachau, dicembre 1943

Un pomeriggio tornarono dal fronte una decina di soldati delle SS e Anna si ritrovò ad incontrare uno di loro. Come d’altronde era di routine.
Era un uomo sulla quarantina, che dimostrava la metà dei suoi anni, alto e muscoloso, dagli occhi verdi e i capelli corvini, neri come la polvere da sparo, lucidi e sudati di brillantina.
Rimase fermo a fissare la sua esile figura, le sue dolci curve e le linee lella vita per poi scendere alle gambe magre e sinuose. Anna lo aveva già visto ma non si ricordava chi era.
… forse… no, no, non era lui.
Si tolse la giacca della divisa, si sfilò i pesanti e rovinati stivali per poi passare alla camicia. Era un ufficiale. “tenente Neumann” lesse la ragazza sulla targhetta cucita malamente alla giacca.
Non passò molto tempo da quella notte che Anna , su ordine del tenete, venne condotta via e portata nella vicina Monaco per lavorare come sguattera e cameriera per la famiglia del sul salvatore.
Layla.
Mamma.
Papà.

Fiii boom.

Fiii boom.

Sangue. Spari.
Mani. Mani ovunque sul suo corpo.
Fucili.
Sporco.
Fame.

 

Anna si svegliò di soprassalto. Aveva di nuovo fatto lo stesso incubo, quel sogno malvagio che le rendeva le notti difficili da ormai giorni, forse settimane. Magari anche mesi.
Ormai aveva perso la cognizione del tempo.
Anna si mise a sedere. C’era poca luce fioca, timida, che invadeva il locale angusto ma Anna riuscì lo stesso ad accendere un fiammifero e a guardare l’ora sul piccolo e trasandato orologio di legno che ticchettava sconquassato sul pavimento.
5:45
Era ora di alzarsi.
Si mise in piedi, piano, per evitare capogiri; lo stomaco brontolò come ormai faceva tutte le mattine e tutte le sere (sembrava darle il buongiorno e la buonanotte).
Si sfilò la tunica, passò velocemente la spugna e indossò il corsetto e la gonna, mettendosi un piccolo scialle stopposo sulle spalle per non prendere freddo.
Salì di nuovo cautamente le scale e andò in cucina. Apparecchiò elegantemente la tavola e iniziò a preparare la colazione. Sbucciò le arance per poi fare una dolce spremuta, mise in tavola i due barattoli delle confetture e il paniere. Mise in un piattino il burro e iniziò, visto che era in anticipo, a sbucciare le verdure per il pranzo.
Dopo poco arrivò Alfred, il maggiordomo , che la salutò sottovoce mimandole l’imminente arrivo di Aaron Neuman.
 

-e che oggi si prepari il pranzo per una persona in più, capito Alfred?-
-sì signore, come desidera-
Aaron sospirò. Salì nuovamente le scale per salutare sua moglie e, giusto il tempo di lavarsi i denti, ridiscese prendendo al volo la giacca e chiudendosi la porta d’ingresso alle spalle.
Anna stava tagliando le carote per il contorno quando sentì il rombo dell’automobile, pronta per raggiungere il campo di Dachau.

La carne rosolava in pentola lentamente da ormai due ore; il suo profumo aveva invaso l’edificio e sembrava che persino i muri, alti bianchi e solenni, non resistessero più a tale tentazione; figuratevi la povera ragazza che non addentava qualcosa dal giorno prima.
Ad un tratto il campanello trillò allegro, ma Anna non ci fece molto caso poiché non rientrava nei suoi compiti aprire la porta a eventuali ospiti; così immerse nuovamente i pensieri nelle sue faccende finché un altro trillo non la riportò nel mondo reale.
Si asciugò le mani in un piccolo strofinaccio e si incamminò verso la porta.
Si guardò intorno.
Di Alfred nessuna traccia.
Decise di aprire. Era spaventata. E se l’avessero picchiata, di nuovo?
“No. Siamo positive. È da molto tempo che Aaron non alza le mani su di me “
Non molto convinta decise di aprire la porta. Lentamente.
Abbassò subito il capo, com’era solita fare in presenza di qualcuno di rango superiore al suo, e si ritrovò ad ammirare due scarpe di vernice nera, sapientemente intagliate. Pian piano, curiosa, alzò lo sguardò finché non si imbatté in due occhi azzurro cielo.
La fissavano.
Ricambiavano il suo sguardo indagatore.
Restò lì, come impalata.
Immobile.
Le sembrò passare un’ eternità.

Decise di spostarsi per lasciare entrare l’alta e statuaria figura del ragazzo sulla ventina. Sempre fissandolo chiuse la porta per poi tornare in cucina cercando di portare nuovamente la sua attenzione sul cibo.
Ma ogni tentativo fu inutile.
Inutile.

Cielo.
Cielo d’infanzia.
Cielo.

 

  
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