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Autore: G K S    20/06/2015    2 recensioni
Agorafobia, demofobia, acluofobia, sociofobia, fobofobia, agyrofobia.
Queste sono tutte le facce di Kell, tutti i suoi demoni, tutte le sue fobie.
L’unica cosa che ha sempre potuto fare è resistere, contro ogni convinzione e anche contro il suo stesso volere, ha quasi diciassette anni e l’unica cosa che vorrebbe fare è vivere.
E dove finisce? Beh, il Quattrocentoventisette è un istituto correttivo per ragazzi affetti da fobie, proprio come lei. Troverà Cecely, Victor e anche Jeh, il fantasma del suo passato, il ragazzo sfigurato con l’occhio di vetro che non ha mai dimenticato e le cose per lei non sembrano andare troppo male...
Solo che le cose non sono esattamente come sembrano, anzi, le cose in realtà sono ancora più complicate di quelle che sono...
Genere: Introspettivo, Romantico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- minuscolo sparzio autrice -
mi scuso per l'enrome ritardo (o meglio per l'enrome pausa) ma ho finalmente finito di scrivere Discarica di Anime,
credo che aggiornerò una volta a settimana come prima della pausa ahaha scusate ancora.
Ringrazio umilmente le persone che hanno recensito gli scorsi capitoli e vi invito a farlo ancora,
ogni consiglio ora più che mai mi sarebbe enormemente d'aiuto :)








17. Separazione


Emeric stava peggio di due giorni prima, peggio per modo di dire, forse in realtà stava meglio, difficile dirlo. «Em, abbiamo fatto qualcosa di... che ti ha... non so.»

«No, no.» Biascicò Emeric premendo la faccia sul cuscino di camera sua, soffocò con un verso strozzato un singhiozzo con eccessiva forza, facendosi male, Kell ne riconobbe il suono.

Era girato dalla parte del muro, si copriva la bella faccia pulita con il cuscino usando le mani, strette a pugno intorno ai bordi della stoffa.

Lei, Anluan e Itsuko erano lì da quando Emeric aveva salutato  incredulo Nikki, Sibille e Jeh, di conseguenza sapeva perché lui si era ridotto in quel modo, Itsuko gli strinse le spalle un po’ commossa un po’ incredula, forse non credeva che lui fosse così fragile, non aveva guardato con sufficiente attenzione.

Kell sorrise, si avvicinò anche lei: «Lei non ti lascia...»

«No.» Rispose Emeric, Anluan sorrise, angosciato in realtà.

«Lei non mi lascia mai da solo con...» Si interruppe, respirando affannosamente, i muscoli della schiena così tesi da poter essere scorti guardando sopra il tessuto della maglietta: «Mai, solo con altre persone.»

«Perché Em?» Domandò Itsuko, lui si lasciò abbracciare da dietro, per un secondo sembrò quasi che si fosse calmato, poi Kell sentì le lacrime contornate dal male alla gola, neanche fosse lei quella in preda agli spasmi.

«Crede che io sia debole.» Singhiozzò. «E ha ragione, lo sono.»

Itsuko si lasciò andare, lo abbracciò con maggiore forza, scuotendolo leggermente.

«Aveva paura.» Bisbigliò a un tratto, come se temesse che Nikki li stesse ancora ascoltando mentre Kell pregava che parlasse abbastanza forte da farsi sentire dal registratore del telefono

«Paura di cosa?» Chiese Kell.

«Che potessi dire qualcosa che non avrei dovuto.»

Itsuko si irrigidì, ma Emeric non lo diede a vedere.

Cosa, cosa stava per dire?

«Adesso neanche questo, adesso mi vede morto, lei...»

«No.» Anluan intervenì spazientito: «E’ lei che è finita Em, è finita, hai capito? Ci siamo noi con te, non devi più scappare, non è necessario.» Lo raggiunse, gli accarezzò un secondo la testa: «Smettila di soffrire per Nikki, per tutto quello che ti ha fatto e che ti ha costretto a credere, non devi Em, lei non ha più il controllo su di te, gli sei sfuggito ora devi accettarlo.»

La maschera di Emeric cadette definitivamente, si mise seduto sul suo letto, si tolse le lacrime dalla faccia, le occhiaie gli adornavano gli occhi verdi lo rendevano vistosamente vivo al contrario di quello che lui aveva appena detto

«Em non devi andare via.» Gli disse Kell mettendogli un braccio intorno al collo, il ragazzo le sorrise, il respiro era ancora corto ma si era assestato.

«E’ orribile, sarà sempre orribile, ma questo posto ormai è casa mia, casa nostra, io non voglio andare via.»

 

Jeh e Sibille (consciamente e inconsciamente) distraevano Nikki, le facevano credere di avere dei nuovi amici visto che Emeric doveva senz’altro essere troppo a pezzi come sempre per interessarla come una volta, forse la sua gelosia si era definitivamente placata. 

Mentre la Urlik era rimasta senz’altro affascinata dalla portata di macchinazioni che avevano escogitato Kell, Anluan e Itsuko avevano portato Emeric di fronte a Cecely e Victor.

Lei gli aveva stretto la mano come si tocca lo stelo di una rosa spinata con cui si ha paura di pungersi (o con cui ci si è già punti), lui gli aveva sorriso accondiscendete come solo Victor sapeva fare, lo sguardo di chi saluta un vecchio amico ritrovato, e così la situazione si era lentamente stabilizzata.

Ma la situazione non si schiariva anzi tutt’altro, Emeric non dava segno di voler parlare, al contrario non pronunciava il nome di Catherine più di due volte al giorno e si guardava bene dal parlare di Nikki e del perché avesse una così perforante paura di avvicinarvisi.

«Insomma per separarli e farli stare meglio abbiamo ottenuto il risultato praticamente opposto, Em non si sogna neanche di dirci cos’è successo, sta davvero meglio.»

«Se è davvero stato lui chissà perché la cosa non mi stupisce.» Sussurrò Cecely al suo orecchio durante la cena. Emeric era salito a farsi una doccia, ora stava per scendere.

Kell, si sentiva profondamente angosciata per ogni istante del giorno, per Emeric, per il fatto che forse davvero avevano sbagliato, forse davvero dovevano lasciarlo affondare, e per Jeh, Jeh era ormai un assente punto fermo, il sacrificato invidiato.

Non si sentiva serena, neanche le rassicurazioni riuscivano neanche lontanamente a farla stare meglio.

«Ottimo lavoro.» Bisbigliò la Urlik al suo orecchio, ancora una volta nel cuore della notte: «I genitori di Emeric hanno ritirato definitivamente la domanda di uscita anticipata dall’istituto, ce l’avete fatta, non che ne dubitassi.» Specificò.

«No certo.» Accennò Kell coprendosi la bocca con la mano per attutire lo sbadiglio, si strinse il cuscino costosamente profumato al petto. 

«E adesso... adesso dovete convincerlo che può fidarsi di voi, dovete spingerlo a confessare senza dirglielo, ma lo sapevi già, non è vero?» «Sì.» Rispose Kell.

«Cosa c’è che non va?»

«Niente, è quello che stiamo cercando di fare e puoi contarci, ce la faremo.» «Certo.» Disse sicura la Urlik, aveva ancora la voce leggermente impastata di sonno, la notte chiamava.

«Cosa ti preoccupa?»

«Nikki.»

«Nikki... perché proprio Nikki, hai detto che...» «Sì.» Fece Kell sbrigativa, voleva attaccare, tornare a dormire, smettere di pensare: «Ma Nikki è imprevedibile, è come una granata, potrebbe esplodere in ogni dannato momento.» Si lasciò trascinare con eccessivo slancio forse, si zittì prima di dire troppo, avevano Emeric in loro balia, tutto era possibile, doveva solamente resistere ancora un po’.

 

«Quasi dimenticavo, non devi andare a fare terapia di esposizione nella stanza nera?» Emeric pigiava sui tasti del costoso computer portatile davanti ai suoi occhi e intanto Kell lo guardava interrogativa, il ragazzo aveva appena aperto un altro documento sulla scrivania del computer di ultima generazione dal nome “Negativismo” e ora stava scrivendo chiaramente di getto, si fermò per guardarla mentre Kell metteva i libri sulla sua scrivania, con l’intenzione di mettersi a ripassare la lezione per il giorno dopo. 

Da quando le cose erano cambiate Emeric le aveva intimato: “smettila di fare la dama spocchiosa cara Kell perché non la dai a bere a nessuno” e lei aveva annuito, era stata scoperta ed era tutt'altro che triste per questo. Tenere Emeric impegnato le piaceva, il diario di Michael aveva cessato di essere interessante in modo definivo, colmo di ripensamenti e odio, tantissimo odio nel confronti di Emeric che a lei irritava e basta.

Guardò il ragazzo che la scrutava interrogativo dietro lo schermo del computer, un computer che nel Quattrocentoventisette non sarebbe neanche mai dovuto entrare, si aspettava una risposta, Kell sospirò: «Ennesima giornata tranquilla, ha comunicato a me e Jeh che ha preso appuntamento con casi più urgenti.»

«Ancora?» Emeric schiacciò un paio di tasti a ripetizione.

«Non è la seconda volta?»

«Esattamente. Non entriamo nella stanza nera da due settimane.»

«Praticamente da quando sono arrivato tra voi.»

«Già.»

«E Jesse?» Non aveva ancora preso l’abitudine a chiamarlo Jeh, con tutte le buone ragioni in effetti ci aveva parlato a stento due volte.

«Sibille.» Disse solamente, cercando di alzare le spalle in modo tendente al disinteressato.

«Quindi loro due...» «Non ancora.» Disse Kell, non poteva mica dirgli che Jeh passava tutto quel tempo con Sibille per tenere Nikki alla larga da loro.

«Non ancora ma siamo lì.»

«Chissà.» Lasciò in sospeso, in tutta onestà non sapeva più neanche lei che cosa credere.

«Chissà? Un ragazzo non sta tutto questo tempo da solo con una tipa che non gli interessa in quel senso, suvvia Kell, non essere ingenua.»

«Tu non conosci Jeh.» Disse e basta sprofondando nel libro di letteratura, certo fu quello che disse ma i dubbi perduravano nella sua mente.

Jeh era distrutto, a stento lo vedeva sorridere tre volte al giorno, stava visibilmente male e ogni volta che qualcuno gli chiedeva come si sentisse deviava la domanda con una prontezza sconcertante ma dall’altra parte era sorprendente, riusciva a intrattenere dialoghi e conversazioni non solo con Sibille e Nikki ma persino con tutta la loro gang, migliorava sempre di più dal punto di vista sociale e nessuno di loro poteva prendersi il merito di questo, Cecely le aveva confessato quanto si fosse resa conto di aver ingabbiato Jeh per molto tempo, si era detta felice di vederlo interagire facilmente con altre persone e contemporaneamente come se quel bene tanto agognato fosse troppo da reggere per una persona sola stava sempre peggio, era ovvio che a Jeh piaceva quella gabbia, lui si sentiva quella gabbia, bramava quella gabbia e non sorrideva più perché l’aveva persa, in piena balia di una dispersione cosmica indifferente ai suoi bisogni Jeh guardava gli altri senza guardarli e andava avanti facendo finta di niente con Sibille e Nikki, soffrendo davanti alla porta chiusa della sua gabbia di anime.

«E’ un po’ giù di corda o sbaglio?» Chiese Emeric alzando nuovamente gli occhi dal computer, distogliendola dai suoi ragionamenti.

«Non è giù di corda, è a pezzi.»

Emeric si fece una sana risata, Kell lo guardò interrogativa: «Uno che cresce dentro una cicatrice deve essere a pezzi, o sbaglio?» «Non sbagli.» Kell in quel momento avrebbe volentieri tirato il suo volume di letteratura addosso a Em, ma si trattenne e lo guardò scontrosamente.

«Se questa cosa ti mette così di cattivo umore perché diavolo non vai da lui e non gli dici che i suoi amici dovrebbero avere la precedenza sulla sua nuova fiamma?» Sfoggiò un’espressione canzonatoria e Kell si sentì scuotere la testa, quasi contro la sua stessa volontà.

«L’hai uccisa tu Catherine?» Lo disse, non seppe neanche per quale ragione ne con quali speranze, forse solo perché l’aveva irritata; vide Emeric scuotere la testa di rimando, improvvidamente più pallido strinse le mani a pugno e poi le rilassò: «Se ti stai chiedendo se uccidere Jesse possa essere un buon compromesso tra dividerlo con quella strega di Sibille e vederlo ridotto come un fantasma piuttosto che farlo tornare tra voi... beh, lasciatelo dire, sei da rinchiudere cara ragazza.»

Nonostante tutto Kell sorrise: «Se lui vuole stare con Sibille e Nikki io non sono nessuno per dirgli che non deve farlo.»

Emeric annuì rifugiandosi nuovamente dietro lo schermo del computer. 

«Suppongo che tu abbia ragione.»

Non poteva tirare via Jeh da quella situazione, se lui si fosse mosso si sarebbe spostato tutto di conseguenza, tutto sarebbe caduto a picco chissà dove e purtroppo lui era forte abbastanza.

 

«Smettila.» Gli disse, scuotendolo per il braccio sinistro, l’occhio grigio la scrutava arcigno, guardava la parte della sua faccia che conservava dettagli indimenticabili del bambino della sua infanzia, la forma del viso, la linea del naso.

«Smettila tu.» Gli disse lui, il Jeh di due settimane prima avrebbe riso ai suoi punzecchiamenti, ora neanche l’ora di educazione fisica passata a poltrire lo metteva di buon umore.

«Raccontami qualcosa Jessie, dai.»

«Oh no, non chiamarmi Jessie.» Si passò una mano tra i capelli neri, guardava Victor e Cecely davanti a loro, intenti a analizzare un formicaio piuttosto attivo.

«Dai, almeno dimmi se sta scoccando la scintilla tra te e Sibille. O  forse è già scoccata?»

Jeh sfregò una mano nervosamente contro la corteccia castana dell'albero: «Sibille sta già organizzando il nostro matrimonio.»

«Fantastico.» Esclamò Cecely lanciandogli l’okay con il pollice all'insù, diede a Victor una pacca sulla spalla: «Idee per il discorso del testimone?»

Kell smise di osservarli e scoccò un’occhiataccia a Jeh, tentava di fare dell’ironia e non ne rideva neanche lui.

«Quanto a te?»

«Quanto a me sto pensando a una luna di miele in Antartide.»

«O anche in Lapponia.» Suggerì Victor.

«Sì, sto valutando.»

Cecely si sforzò di ridere, fu’ l’unica: «Scegli la meta che costa di più, i genitori di Sibille sono ricchi sfondati.»

Kell alzò gli occhi al cielo, cercando di non sembrare troppo irritata dai loro discorsi scherzosi di cui nessuno riusciva a ridere sul serio: «E’ una frase che viene fuori spesso quando sei rinchiuso in un istituto psichiatrico di lusso.»

«Se non era ricca col cavolo che sopportavo le sue idiozie dieci ore al giorno.» Strabuzzò gli occhi brillantemente diversi e alzò le spalle, un altro tentativo di essere divertente finito male, Kell scosse la testa: «Se comincia a comportarsi da pazza te ne tiriamo fuori.» Gli disse, Jeh sorrise, per la prima volta quel giorno, Cecely e Victor sostenettero la sua dichiarazione.

«Così dopo Nikki torna alla carica con Emeric e possiamo dire addio al nostro piano… dimmi, cosa intendi esattamente con pazza?»

Quello era il discorso più lungo intrattenuto con Jeh da settimane ormai. Allungò il braccio oltre il collo del ragazzo stringendolo con una certa forza; due minuti dopo non aveva ancora risposto alla domanda che lui le aveva posto, in compenso si era abbandonato sulla sua spalla. Il contatto fisico più diretto  e più lungo raggiunto da settimane ormai, a Kell venne voglia di trovare immediatamente una soluzione diversa, immediatamente, mentre Jeh era ancora fragilmente in sua balia.

«Non c’è altro modo, quindi per favore Kell, smettila di preoccuparti.»

Ma la verità era che avrebbe proprio dovuto farlo.

 

Abituarsi al male non può essere una cosa buona, Kell ripose il suo ipod nel cassetto; aveva ascoltato per un paio di minuti qualche pezzo di musica classica mentre controllava per l’ultima volta il diario di Michael; niente di niente.

Negli ultimi tempi aveva continuato a raccontare di se e di quanto fosse arrabbiato, niente di più oltre che parlare di aver cominciato a odiare tutto quello che gli stava intorno, e non aveva più cercato di scoprire niente di più sull’omicidio di Catherine, ne su Emeric ne su tutto quel brutto episodio.

Rilesse l’ultima cosa davvero rilevante che Michael aveva scritto dopo la morte di Catherine:

 

Non riesco più a vedere il lato positivo delle cose, a mala pena riesco a fare un discorso coerente con un professore, ormai l’unica cosa che mi rimane è la speranza che qualcosa in questo posto cambi, l’unica cosa che mi rimane è continuare a sentirmi sporco perché so qualcosa che non dovrei, ne sono certo, forse l’ho persino già scritto qui, quello che penso è la verità, ci credo e mi odio per questo. Ma non posso fare niente, non più, devo fare quello che conviene fare, stare in silenzio, aspettare.

Ma se non faccio qualcosa me ne pentirò, se non vendico Catherine, se non sveglio Emeric, se non disarciono Nikki so che me ne pentirò, e non voglio che succeda, voglio combattere per quanto questo sia assurdo e vano, voglio continuare a combattere.

Lucy dice che non sa cosa credere, non con certezza, il problema di molte persone è esattamente il contrario qui dentro, siamo tutti coscienti dei nostri mali, se non ne fossimo coscienti vivremo meglio, ma è troppo facile giungere a questa conclusione.

 

Il resto del diario erano dieci pagine sempre più dispersive, piene di discorsi incoerenti e macchinazioni assai poco chiare, quel discorso invece la ispirava, come se qualcuno avesse scritto quello che lei aveva in testa.

Il dubbio, l’incertezza, chi il colpevole, chi la vittima.

Erano passati due mesi da quando era arrivata al Quattrocentoventisette, da quando aveva abbassato la maniglia della cambretta di Sam scoprendola chiusa.

Ora erano altre le immagini familiari: Cecely e Victor stesi sotto un albero in un pomeriggio ventoso con le giacche a coprirli premurosamente; lei e Emeric sul verde del prato, si riuscì a vedere storcere il naso, accenni di momenti sbagliati andati a vuoto che girano l’uno sull’altro ripetendosi all’infinito.

Ora Cecely e Victor si sfioravano le dita delle mani tra loro scherzando su quella volta ormai distante anni luce in cui Vic si era ritrovato a guardarla sconvolto dopo una sua innocua spinta. Nello stesso tempo Emeric rimaneva fermo, una batteria scarica che cerca di ricaricarsi come può, somiglia ai vecchi sospiri di Jeh quando il ragazzo con il viso spezzato alzava lo sguardo dal pavimento due volte al giorno e il mondo era colorato da poche verità.

Attività quotidiane, monotonia, compiti in classe, equazioni, problemi di geometria incomprensibili, psicologia, sociologia, sorrisi vacui, l’ipod di Kell, l’attimo in cui riesce a vedere Sibille da sei tavoli di distanza artigliare con le sue unghia smaltate d’azzurro il morbido maglione di Jeh.

Si sentiva così frustrata che a malapena riusciva a dormire e la pioggia era l’unica cosa che riusciva a metterla di buon umore.

Erano passati due mesi ma si era accorta solamente quella sera a cena che Jeh teneva la testa leggermente piegata verso destra, più lo guardava più le pareva evidente e più ci pensava più le risultava assurdo accettare di non essersene mai accorta prima quando ce l’aveva di fronte tutta la giornata. Scosse la testa tornando a concentrarsi sugli appunti di storia, faceva troppa fatica a concentrarsi, davvero troppa.

Vedere Jeh entrare silenziosamente e ovviamente all’improvviso in camera e chiudendosi la porta alle spalle le procurò uno scompenso emotivo, chiuse il quaderno rassegnata all’idea che non sarebbe riuscita a ripassare affatto quel giorno: «Hey, che cosa ci fai qui?»

Jeh si sedette di fianco a lei prendendo posto alla sua scrivania: «Devo parlarti.» Si torturava con le dita bianche e sottili la catenella sfaccettata che teneva il porta pillole attaccato al suo collo. «Dimmi pure, si tratta del piano?»

«Esattamente.» Jeh confermò i suoi sospetti: «Ho bisogno di sapere cosa è meglio fare.» Jeh efebico e pallido come un lenzuolo si portò la mano alla cicatrice, sembrava incredibilmente esagitato, non lo vedeva in quello stato da troppo tempo capì subito che c’era qualcosa che non andava.

Lo spronò a continuare, Jeh fece un respiro profondo e infine cominciò a parlare. 

«Se smetto di fare questa cosa con Sibille adesso Nikki tornerà a… a fare quello che faceva prima?»

Kell lo scrutò dubbiosa: «Vuoi smettere?»

Jeh scosse la testa riducendo gli occhi a due fessure, quasi disgustato: «Tu rispondi semplicemente alla mia domanda.»

Perché? «Sì, se smetti di distrarre Nikki lei non si fermerà.»

«Benissimo, è quello che volevo sapere.» Si alzò in piedi, Kell fece lo stesso: «Dove vai?» «Io…» Lo trattenne per la manica della maglia pesante: «Non puoi venirmi a chiedere una cosa del genere e poi scappare via, sei ridotto uno straccio Jeh lo vedo non c’è bisogno che…» «Che mi nasconda?» Si diede una possente scrollata di spalle avvicinandosi alla porta.

«Non posso nascondermi Kell, mi stanno facendo rendere conto di cose che non avevo neanche lontanamente mai considerato, lo sai? Tutti qui dentro sanno come mi chiamo, sanno tutti il mio nome, sanno che il tipo strambo con la faccia sfregiata si chiama Jesse Larely, le voci girano, ho scoperto che buona parte dell’istituto sa persino come mi sono ridotto la faccia in questo stato, sanno persino questo, ma ti rendi conto!» Afferrò la maniglia appoggiandosi con la schiena sopra di essa: «E’ un’inferno, un vero inferno, per non parlare del fatto che a Sibille non importa un bel niente di me.» «Non dire così, non è così.» Cercò di accennare Kell, per quanto fosse deprimente forse quella ragazza se la meritava davvero una chance. «Perché non dovrei dire così? L’hanno capito anche i muri che cosa vuole da me, scommetto che lo sapete tutti, tu lo sai, vero?»

Kell strabuzzò gli occhi, Sibille era superficiale, cosa poteva volere da lui? Era scioccata da un tale discernimento così improvviso: «Certo che lo so, ma non sei costretto, lei non può obbligarti.» Jeh scoppiò a ridere, era chiaramente irritato, non voleva sentirla parlare in quel modo, la guardava come se si fosse appena contraddetta… 

«Bene, ti ringrazio, ora devo andare, ci vediamo domani.» «Aspetta, Jeh, se vuoi smettere…» Questa volta lo strattonò bloccandolo per le spalle quanto più forte riuscì a fare: «Ti ha messo le mani addosso?» Jeh rise ancora, la cosa le ricordò paurosamente la notte della morte di Catherine: «Se l’ha fatto, se si è permessa di fare qualsiasi cosa che tu non volessi…»

«No, non voglio smettere, non proprio adesso, non dopo tutta questo tortura, e no, non l’ha ancora fatto.» La prese in giro quantomeno chiaramente. La cosa la inquietò e non poco:

«Che cosa significa che non l’ha ancora fatto?»

«Significa: cercate di darvi una mossa con Emeric, significa muovetevi, oppure dimmi, ci hai preso gusto a fare la migliore amica del divo della scuola?»

Detto questo senza neanche lanciarle un’ultimo sguardo si chiuse aprì la porta e con una semplice mossa se la chiuse alle spalle.

 

Ritrovarsi Jeh a colazione il giorno dopo fu come beccarsi una botta in testa dal diretto interessato; non si sedeva al loro tavolo da due settimane, e vederlo seduto a capotavola sconquassò non poco il suo equilibrio.

Per altro accanto a lui c’era Emeric, praticamente niente era rimasto come prima. 

Vide Cecely scambiarsi un’occhiata d’intesa con Victor naturalmente al suo fianco per poi volgere le proprie attenzioni a Jeh, talmente dritto e impettito sulla sedia da costringerla a controllare di essere seduta bene. «Ehm… è veramente strano non averti più con noi così spesso.» Visto che a lezione si era chiuso in se stesso e a malapena li guardava: «Come vanno le cose con Sibille?»

Come vanno le cose con Sibille? 

Davvero Cely, questo è il meglio che sai fare?

«Non vanno.» Dichiarò Jeh mordendo con i suoi denti perfettamente dritti e impettiti da anni di apparecchio uno dei soliti biscotti con le gocce di cioccolato.

Purtroppo fu Emeric a esternare la propria costernazione per primo: «Come sarebbe non vanno?» Se non ci fosse stato Jeh l’espressione di Emeric l’avrebbe fatta ridere.

«Lei striscia praticamente ai tuoi piedi e non vanno? non ti facevo così…» Si girò a guardare Kell schioccando ripetutamente le dita come se si aspettasse che lei gli suggerisse la parola più adatta a descriverlo. «Mh, schizzinoso?»

Kell si costrinse a distogliere lo sguardo, cosa che le procurò ovviamene un certo disagio, bevve un po’ di latte mentre Emeric continuava a sproloquiare.

«Cosa c’è che non va?»

Jeh di tutta risposta alzò le spalle e abbassò ancora lo sguardo sulla sua colazione. Non lo sopportava proprio Emeric.

«Niente.»

Emeric come al solito lo guardò scettico: «Uh davvero? Perché secondo me ti mancano i tuoi veri amici.» Detto questo rifilò una debole fiancata a Kell sorridendo come uno stupido.

Jeh li guardò con un aria quasi disgustata.

«Non oso pensare che orrore possa essere Nikki, sono veramente felice di essermene liberato, sicuramente avrai capito perché.»

Assurdo visto quanto fosse impossibile liberarsi di lei.

Lo disse come se fosse merito suo, cosa che probabilmente contribuì a far arrabbiare Jeh ancora di più.

Niente fermò Emeric: «Tu e io ci siamo praticamente scambiati di posto non è vero?»

Sul momento nessuno ebbe il coraggio di ribattere la sua affermazione: «E’ ironico ma non rimpiango affatto quello che hai ora; mentre tu… beh.» Sorrise a tutti e poi neanche a farlo apposta si soffermò sulla persona con cui inaspettatamente aveva legato di più, Kell.

Così a lei per poco non andò di traverso un sorso di latte, dovette inghiottire bruscamente per evitare di tossire rumorosamente e far girare tutti i presenti verso di lei.

Si levarono un coro di “no” da Cecely e da Victor, se Anluan e Itsuko fossero già arrivati avrebbero fatto lo stesso, no ovvio che no, nessuno aveva sostitutivo nessuno, ci mancherebbe altro, Jeh è sempre Jeh.

Ma non era vero, Jeh era distrutto e niente le toglieva dalla testa l’espressione espressa sul suo volto, era marmo scalfito.

 

Si sentiva impotente, si sentiva triste e si sentiva come se le si fosse fermato il respiro in gola da giorni e giorni e la cosa peggiore era vedere come il resto del mondo respirasse perfettamente.

Anluan e Itsuko erano tornati insieme, quasi brutalmente dopo settimane di sguardi gelosi di Itsuko; Cecely le chiese se ci era rimasta male, se per caso non le interessasse Anluan: «Ma che cosa vai dicendo Cecely…» Liquidò la cosa con un gesto della mano scostante, sembrava a dir poco che si fossero messi d’accordo per accusarla di relazioni illecite, sbuffò, l’ora di psicologia non finiva più, Jeh al suo fianco era impassibile muto da più di due ore, rispondere a monosillabi era tornato ad essere il suo passatempo preferito e solo Kell poteva dire quanto fosse deprimente pensare ai progressi al passato.

«Ma dai, mi hai preso per una sprovveduta?» Le strizzò l’occhio. Kell la guardò più che scocciata, anche lei era perfettamente in pace con il mondo, non si sentiva irritata, era invidiosa di quella pace, fino a due settimane prima l’aveva respirata, ora voleva solo essere lasciata in pace con la sua sofferenza i suoi dubbi e Emeric che doveva dirle la verità, punto, e Cecely parlava.

«Forse non è il momento adatto…» Gettò un’occhiata a Victor assorto nel tentativo di anticiparsi i compiti di psicologia e poi continuò: «Ma non ce la faccio ad aspettare un minuto di più, devo dirtelo, mi sono censurata per troppo tempo.» Kell strabuzzò gli occhi incredula, l’intero universo ce l’aveva con lei allora, era ufficiale.

«Ieri sera sono andata in camera di Vic e abbiamo parlato molto… senti lo so che non dovrei dirtelo adesso visto quanto sei a terra per questa faccenda di Jeh.» Si bloccò abbassando il tono di voce più che poté vedendo l’espressione arcigna sul suo volto, in realtà non le aveva detto niente dei recenti avvenimenti ma non ci voleva un genio per capire cosa stava succedendo.

«Cos’è? Ti ha dato un bacio in fronte? No dimmi Cecely mi interessa.» La schermì, una volta tanto anche lei poteva prendersi il diritto di essere di cattivo umore, quello era proprio il suo momento adatto. Credeva che la piccola ragazza si sarebbe arrabbiata per la sua mancanza di sensibilità, invece scoppiò a ridere senza ritegno, tanto che la professoressa Narell le scoccò un’occhiataccia prima di concentrarsi di nuovo sul suo registro di classe. «Magari.» Fece Cecely ridacchiando.

«Ed è così divertente perché esattamente?»

«Beh.» Disse Cecely, il sorriso spento sul suo volto.

«So che non devo avere fretta è una delle poche cose su cui ho le idee chiare ma due settimane fa tu e Jeh avete messo in difficoltà Victor ti ricordi?» «Sì certo.» Rimpiangeva quei momenti di pace prima della venuta di Emeric, prima della telefonata della Urlick.

«Mi sono detta che non era stata proprio una brutta idea, insomma avrei potuto riprovarci e…» «Arriva al punto Cecely.»

Lei prese un bel respiro e si lasciò scivolare addosso tutta la tensione accumulata con una sola frase: «Gli ho detto che sono innamorata di lui… da un po’ di tempo.»

Kell strinse le gambe per evitare di farlo con le braccia, era proprio quello che si aspettava.

Forse avrebbe dovuto prenderla in giro o farsi una risata, ma non ci riuscì proprio.

«Brava Cecely.» Lei era sua amica, la prima vera amica che avesse mai avuto nella sua vita, quella che l’aveva scelta, quella che non avrebbe scambiato con tutte le Catherine del mondo.

Era stata brava ed era giusto dirglielo: «Sei coraggiosa.»

A quelle parole la ragazza rise di nuovo comprendoni la bocca con la mano, gli occhi verde muschio erano ridotti a due fessure: «Coraggiosa, questa mi è nuova.» 

«Non farmi rimanere sulle spine Cely.»

«Ma cosa pensi che sia successo?» 

Aprì bocca per rispondere ma Cecely la bloccò prontamente: «Preferisco non sapere; è rimasto zitto senza guardarmi per una paio di minuti, avrei solo voluto sotterrarmi, lo ammetto, poi mi ha chiesto se davvero stessi dicendo la verità, ovviamente gli ho detto di si. In tutta onestà mi si stavano già figurando scenari raccapriccianti quindi immagina in che stato mentale potevo essere…» 

Kell scosse la testa, preferiva non pensarci in effetti.

«Mi ha guardata negli occhi, sai che Victor è ommeotafobico e anch’io ma l’ha fatto lo stesso e anche per parecchio e sono riuscita a mantenere il contatto visivo ed è stato davvero sconcertante perché non ci eravamo mai guardati così a fondo prima.» Kell pensò a quella volta in cui Cecely era scoppiata a piangere a causa di un’episodio simile durante terapia d’esposizione.

«E?» 

«E ha detto: “non posso”.» 

Per poco a Kell non cadde la mascella sul banco.

«Cosa…» 

Cecely sorrise guardando la sua espressione sbigottita: «E ha aggiunto: “per ora”.»

«Per ora?» Ripeté Kell senza riuscire a sapere cosa pensare esattamente: «Gli serve troppo tempo Cecely, basta aspettare, colpisci.» La ragazza si lasciò scappare una risatina isterica: «Ho aspettato e represso questa cosa da quanto sono arrivata qui e ho conosciuto Victor costringendomi a guardare Emeric cosa sarà mai un’altro po’ di tempo?»

Certe volte era una cosa che si ripeteva anche lei, fu costretta a darle ragione ma aspettare era abitudine e l’abitudine non è mai qualcosa di facilmente reversibile. Alzò le spalle e si mise in spalla la cartella, era suonata la campanella, Victor lanciò loro due uno sguardo indagatore, Cecely gli sorrise a pieni denti in un modo che lo fece ridere e a Kell fecero molta tenerezza.

Li lasciò da soli non appena vide Emeric comparire in corridoio, era troppo a terra per guardare Jeh andare da Sibille, per lo meno Emeric sarebbe stato in grado di distrarla.

«Hai saputo?» Le chiese il ragazzo dopo un cenno del capo.

Il suo sguardo cupo la inquietò subito, qualcosa era successo se aveva perso la spensieratezza di quei giorni.

«Cosa?»

«Rang, è stato denunciato dai genitori di Cat.»

 

  
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