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Autore: Sara Saliman    21/06/2015    7 recensioni
Dopo un lungo silenzio, la fronte di Zeus si spianò.
-Sta bene, Ade. A me la Superficie, a Poseidone il Mare. A te, qualunque sia il motivo, il Sottosuolo.-
Così si ebbe la divisione del Mondo, come ancora lo conoscono gli umani.
E così ebbe inizio la mia storia, sebbene allora io non fossi ancora nata.
Genere: Drammatico, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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l'Ombra è parte viva della personalità e vuole vivere con lei sotto qualche forma. Non è possibile impedirle di esistere con argomenti, né con altrettanti argomenti la si può rendere anodina. (…) presto o tardi il conto deve essere saldato e siamo costretti a confessare a noi stessi che esistono problemi assolutamente insolubili con i nostri soli mezzi. (…) ecco che adesso ci sentiamo inclinati a prestare orecchio a un'idea utile o a percepire pensieri cui prima non permettevamo di formularsi. (…) Se si assume una simile posizione, forze soccorritrici che sonnecchiano nella natura umana più profonda si destano e intervengono, poiché miseria e debolezza sono l'esperienza eterna e l'eterno problema dell'umanità, al quale esiste anche un'eterna risposta; altrimenti l'uomo sarebbe già da tempo perito.
 
C. G. Jung
 
 
Ecate mosse un passo verso di me. Le fiamme tremarono sui candelabri e le ombre della stanza oscillarono di rimando. A quella luce incerta, la fronte della dea apparve solcata da rughe sottili, le sue guance scavate, il labbro inferiore cascante.
Poi Ecate sollevò una mano verso il mio viso e premette il pollice contro la mia fronte,  e fu di nuovo una donna nel fiore degli anni, la pelle liscia e compatta, le spalle dritte. Mi parve così simile a mia madre, che provai una fitta al cuore per la nostalgia.
Il suo riflesso si allungava sul pavimento di marmo: vidi che Ecate aveva tre ombre, una delle quali si fondeva con la mia.
-Alifto.- disse.
Una fiammella azzurrina guizzò sopra la sua spalla destra e io capii che quella parola era un nome.
La fiamma crebbe più vivida, più grande, fino a diventare una fanciulla della mia altezza, avvolta in una veste di mussola bianca. La fanciulla teneva il capo chino: lunghi capelli argentei e lisci le ricadevano ai lati del volto, celandone i lineamenti.
-Alifto.- disse Ecate nuovamente, senza voltarsi.
- Eccomi, divina Madre.-
La fanciulla sollevò il capo e i capelli argentei le ricaddero sulle spalle, svelando un volto diviso.
A destra la pelle era liscia, la guancia rotonda, le labbra morbide e rosa. Sotto l'arco del sopracciglio scintillava un occhio azzurro e vivace.
A sinistra la pelle del viso era lucida e rattrappita, sollevata in cordoni fibrosi. Da quel lato del volto l’arco delle sopracciglia era nudo, la palpebra ptosica e priva di ciglia. L’occhio destro era bianco come il ventre di un pesce e l’angolo delle labbra stirato in un ghigno.
-Alifto,- disse Ecate una terza volta. E poi:- questa è la tua nuova sorella.-
L’Empusa inclinò il capo da un lato e capelli le ricaddero sopra una spalla in una cascata di liquido argento. Mi sorrise, e io mi morsi le labbra per non gridare.
Venne avanti e protese le mani verso di me: una era bianca e soffice, l’altra grigia e mutilata, poco più di un artiglio scampato alle fiamme.
Un’intuizione mi raggelò: non potevo scegliere quale mano stringere, né quale metà di quel viso contemplare. Mi venivano offerte entrambe.
Esitante, anche io sollevai le mani verso l’Empusa e intrecciai le mie dita alle sue. Sentii la carne morbida e vellutata da una parte, e la cute ispessita e fredda dall’altra.
Abbassai lo sguardo sulle mani spaiate, e poi lo sollevai sul volto diviso.
Chiusi gli occhi.
Non vidi più due profili disarmonici che si incastravano a formare un volto.
Sentii Alifto: non Divisa, ma Una.
Fu di questo che scelsi di fidarmi.
 
****
 
Non so che ora fosse quando rimisi piede nella mia stanza.
Non c’era una luna nel cielo del Sottosuolo, nessuna stella rischiarava il manto di Erebo che intravedevo dalle vetrate. Il castello era buio e immerso nel silenzio; Minta sembrava sparita, ingoiata da quei corridoi e da quelle silenziose file di porte chiuse a chiave.
Trovai da sola la mia stanza: era attigua a quella di Ade e arrossii intuendone i sottintesi . Mi lasciai cadere sul letto si schiena, le braccia aperte sopra le coperte.
Il filo delle mie riflessioni era molto frammentato: prendevo in mano un pensiero, lo rigiravo nella mia mente e poi lo posavo, incapace di seguirne le implicazioni fino in fondo. Mia madre si era ormai accorta della mia assenza: come aveva reagito? Mi stava cercando? Mi avrebbe trovata? E come l’aveva presa Leucippe?
Pensai alla mia nuova condizione di regina, sposa, prigioniera. Il mio tentativo di fuga, a ripensarci adesso, mi sembrava avventato e patetico, e un assurdo senso di colpa mi attanagliava per le conseguenze riportate da Ade.
La cosa che mi bruciava di più era il tradimento da parte di mio padre, il fatto che lui mi avesse venduta prima ancora che nascessi.
Non mi sentivo sgomenta come avrei dovuto, come Kore avrebbe dovuto.
Cercai di immaginare i sentimenti di Kore: paura, rassegnazione, condiscendenza. Kore avrebbe chinato il capo come un agnellino su un altare sacrificale e avrebbe belato, tremante: grazie, divino padre, per aver concesso la mia mano a uno sposo così potente, sovrano di un regno così grande. Mi inchino al tuo volere, compiacerò te e il mio sposo.
Io non provavo gratitudine: mi sentivo delusa e tradita, furiosa con mio padre, ma anche con mia madre e con Leucippe che non mi avevano protetta.
Un dubbio si fece strada in me mordendo e graffiando: di non essere la persona che avevo sempre creduto, di non essere la Kore che mi ero sempre sforzata di essere.
Sentii la mia identità scricchiolare: provai un dolore di ossa spezzate. Mi premetti i palmi sugli occhi, mi abbracciai forte, per tenermi insieme.
E allora, dolce Persefone, torniamo alla spinosa domanda di prima: se non sei la Kore timida e inerme, che cosa sei?
Ebbi paura che la risposta si rivelasse terribile, che la vera me fosse un’entità folle e piena di rabbia.
Il Tartaro è uno stato dell’anima, pensai.
 Sarei sprofondata anch’io insieme ai Titani?
Mi parve di chiudere gli occhi solo per un istante, invece mi assopii.
E sognai.
Sognai di riaprire gli occhi nella mia stanza e di scorgere una figura a torso nudo, in piedi accanto alla mia toletta. Grandi ali nere, piumate, emergevano tra le sue scapole, a destra e sinistra del rilievo nodoso della colonna vertebrale.
-Thanatos?-
Il dio non si voltò. Passò una mano aperta sui miei fiori, ancora ordinatamente disposti sul mobile. Fittissime squame da rettile coprivano il dorso delle sue mani e dei suoi avambracci fino ai gomiti.
-…sarebbe più misericordioso.- stava dicendo
Mi levai a sedere sul letto.
-Thanatos…? Che stai facendo? Vattene di qui!-
Il dio si voltò verso di me. Il volto magro era scolpito nel buio: il mento appariva bianco e appuntito, gli zigomi sporgenti come quelli di un teschio. Le labbra sottili si dischiusero.
-Ho detto: non credi sia più misericordioso lasciarli andare?-
Osservai i miei fiori disposti sulla toletta, i gambi recisi ravvivati dalle acque dello Stige, le corolle sfinite.
Mi vidi scendere giù dal letto e piantare i palmi sul petto di Thanatos, spingendolo via con violenza.
Non li toccare! Non osare toccarli! Sono i fiori di Kore e tu non li toccherai!
Artigliai le coperte, e mi accorsi di stare piangendo.
Thanatos mi guardò con aria dolente. Era poco più alto di me, così magro che vedevo sotto la sua pelle la linea dentellata delle sue costole. Gli spazi tra le sue ossa erano scuri, come lividi impressi da dita invisibili.
-Hai paura di me?- mi chiese.
-Tutti hanno paura di te!-
-Sono un dio come gli altri. Nemmeno tra i più potenti.-
-Tu hai un potere terribile, invece! Tu sei il silenzio da cui non si ritorna. Le parole che non potranno più essere dette. I gesti che non verranno mai più compiuti. Tu sei la fine di tutto!-
Sentii il mio petto sollevarsi e abbassarsi in respiri affannosi. Mi resi conto di stare gridando.
Thanatos sollevò tra le mani uno dei miei fiori, la corolla retta tra l’indice e il medio.
-In un ventre di donna, si trovavano due bambini. Uno di loro chiese: “tu credi nella vita dopo la nascita?”. L’altro rispose: “Sciocchezze! Non c’è una vita dopo la nascita… come potrebbe?”- Thanatos fece una pausa. -Io sono… inevitabile. Sono il prezzo che si paga per essere reali. Non ho scelto né il patto né i termini: è così, perché così è. Quando paghi un prezzo elevatissimo per qualcosa che non ha prezzo, hai comunque fatto un affare.-
I petali del fiore si scurirono e avvizzirono, l’ovario si inturgidì. Infine si essiccò e si sbriciolò, liberando nell’aria altri semi.
Spalancai gli occhi di scatto.
Ero nel palazzo di mia madre, adesso: mi trovavo in una sala esagonale, dalle pareti sostituite da ampie finestre piombate.
Un cielo congestionato si accalcava contro i vetri. La luce era opaca, l’aria ispessita: aveva una consistenza oleosa lungo la mia trachea.
Uno scranno nero e ossuto catturò il mio sguardo.
È enorme! pensai. E subito dopo: no, non è enorme: sono io che sono piccina.
Tesi una mano –la manina rosea e paffuta di una bambina. Toccai un bracciolo di ebano ed ebbi la sensazione che qualcosa di immenso si levasse da oscure profondità e si voltasse nella mia direzione
(Chi mi chiama, dopo tanto tempo?)
lasciando vagare lo sguardo
(Sei tu, Estia?)
e posandolo infine su di me.
Mi sentii
(risucchiare)
investire da una sfrigolante onda di potere: la sentii gonfiarsi e crescere sotto le mie dita come una gigantesca bolla nera. Ingoiò la mia mano fino al polso, e poi l'intero braccio.
Caddi.
Caddi attraverso tutti i luoghi dello Spazio e le epoche del Tempo, come attraverso un pavimento sfondato. Caddi attraverso tutte le vite che esistevano e mai sarebbero esistite: vite di umani, di animali, di piante. Le attraversai tutte, senza eccezione.
Quando il Tempo, lo Spazio e le vite si esaurirono, continuai a precipitare nel buio. L’oscurità intorno a me aveva la forma di un pozzo, il pozzo era il centro esatto di una Spirale.
Centinaia, forse migliaia di fanciulle, dee che non erano esattamente me, ma quasi me, si sporgevano dalla Spirale come da una balaustra, guardandomi cadere.
Morirò, pensai.
Forse lo dissi persino.
Quel pensiero mi riempì di costernazione, non per l’ovvia paura che lo accompagnava, ma perché seppi che era vero: io ero una dea, eppure sarei morta, e se anche gli dei potevano… dovevano… morire, se solo la Morte era eterna, allora a cosa valevano tutti i fiori, tutta la bellezza del Mondo? A cosa valeva…
-Smetti di cadere.-
Aprii gli occhi di scatto, anche se non sapevo di averli chiusi: non ci fu alcun impatto, eppure la caduta finì.
Mi domandai se fosse avvenuta davvero o se l’avessi solo immaginata.
-Entrambe le cose, naturalmente.-
Mi guardai intorno, smarrita. Un’oscurità fittissima mi circondava da ogni parte, eppure se abbassavo lo sguardo vedevo le mie manine, le pieghe del mio abito, le punte rosate delle mie dita.
-Dove sei?- chiamai. -Sento la tua voce, ma non riesco a vederti!-
-Sono intorno a te. Mi stai guardando.-
Capii che la voce non apparteneva a qualcuno nascosto nel buio, ma al buio stesso.
Dall’oscurità emerse il volto bianco di un dio. Non sembrava né vecchio né giovane, né brutto né bello, come se quelle categorie non lo riguardassero. Era alto, però: di questo ero sicura. Aveva un naso dritto e sottile e labbra ben disegnate. Il dio aggrottò la fronte in un’espressione severa, o forse solo molto concentrata, e mi guardò da sotto le scurissime ciglia, con occhi simili a gocce di inchiostro.
-Tu non sei Estia.-
-No.- confermai. -E tu, chi sei?-
Esitò un istante.
-Io sono Ade.-
Lo scrutai incuriosita. Allungai una mano e mi accorsi che l’oscurità aveva una consistenza: era spessa e pesante, soffice come velluto. Il dio sollevò un sopracciglio: mi resi conto di stare toccando un lembo del suo mantello, e subito ritrassi la mano.
-Dove siamo?-
-Voi dell’Olimpo lo chiamate Orco o Averno.-
-E tu, invece, come lo chiami?-
-Sottosuolo.-
-È sempre così buio?-
-Sei caduta al lungo. Siamo nel regno dei semi, non in quello dei fiori.-
-Tu vivi qui? Come puoi sopportarlo?-
Il dio sollevò una mano pallida, e un varco si aprì nel buio come una ferita. Oltre i bordi sfrangiati della Porta scorsi la stanza esagonale, i sei scranni, il cielo congestionato che premeva contro le vetrate.
Il dio fece un cenno verso quello scorcio di Mondo.
-Torna a casa, figlia della Superficie: questo non è posto per te.-
-Mi chiamo Kore.- precisai, e non mi mossi.
Ade mi voltò le spalle.
-Torna a casa, oppure rimani, ma lasciami tornare ai miei doveri.-
Mi aggrappai al suo mantello con entrambe le mani, ma lo sentii scivolare da sotto le mie dita come fosse privo di consistenza, fatto di tenebra.
-Aspetta! Non te ne andare!-
-Attenta a quello che dici. Attenta a quello che chiedi.-
-Ade!-
Il suo nome saettò come luce dalle mie labbra e il dio si fermò, raggelato. Si voltò lentamente verso di me, mi guardò come se mi vedesse per la prima volta.
-Sei tu.- disse. Sembrava aver compreso qualcosa e tuttavia stentasse a crederlo possibile. –Sei… tu.-
Sentii il mio cuore accelerare. Lui non era una porta di legno da spalancare. Era un dio, ma anche io ero una dea e volevo dimostrarglielo.
-Io ti chiamo Ade,- dissi sfacciata. -Io ti chiamo dio dell’Averno. Io conosco il tuo nome e lo sto pronunciando!-
Vidi i suoi occhi neri assottigliarsi, il suo volto bianco inclinarsi nel buio mentre mi squadrava.
-Certo,- disse tra sè. -Naturalmente. Avrei dovuto capirlo.-
Puntò un dito sottile contro la mia fronte, esercitandovi una leggera pressione. Il suo tocco era gelido, più forte di quel che mi sarei aspettata, ma anche più gentile.
Lasciò scivolare il polpastrello lungo il dorso del mio naso, e sulle mie labbra. Me lo appoggiò infine sul petto magro, all’altezza del cuore. Poi ritrasse la mano, come se la mia pelle fosse troppo calda per il freddo a cui era abituato e gli avesse bruciato le dita.
-Io ti chiamo Persefone.- disse.-Io ti chiamo figlia di Zeus e Demetra. Anche io conosco il tuo nome, anche io lo sto pronunciando.- Vacillò, come se la portata di ciò che si era compiuto lo avesse sopraffatto. -Torna a casa, adesso. È troppo presto: sei ancora una bambina.-
Aprii la bocca per protestare, ma una risata femminile mi interruppe.
-Ecco dov’eri finito!- Una dea che non conoscevo emerse dall’oscurità, gettando le braccia al collo di Ade. Tutta la tenebra vacillò e tremò, come se lo slancio di quell’abbraccio l’avesse percorsa per intero. Poi la dea abbassò lo sguardo e si accorse della mia presenza.
-Oh… ciao!- Non sembrava davvero sorpresa, solo un po’ impreparata. –Eccoti… eccoci tutti qui. Dove è cominciato. O comincerà.-
Ade le appoggiò le mani sulle spalle, sciogliendosi con delicatezza da suo abbraccio. Guardò me, poi di nuovo la dea.
–Tu lo sapevi?- non capii a chi delle due avesse posto la domanda, ma provai una fitta di gelosia quando fu lei a rispondere, rubandomi la parola.
-Sì, lo sapevo.-
-Non me lo hai mai detto.-
La dea fece spallucce e gli rivolse uno sguardo malizioso, poi si chinò su di me. Mi guardò con tanta dolcezza che arrossii e mi sentii subito in colpa per essere stata gelosa di lei.
-Che cosa è cominciato?- le chiesi.
La dea mi fece cenno di avvicinarmi e sussurrò la risposta al mio orecchio.
La ascoltai attentamente, spalancando gli occhi, sempre più costernata.
-Io non lo sapevo, non lo volevo! È talmente buio, qui! Come posso tornare indietro?-
La dea sorrise, e questo mi diede coraggio. Sembrava così serena… così felice!
-Non si può tornare indietro, piccola Kore: non sullo stesso braccio della Spirale. Però si può andare avanti. Ciò che è oscuro può essere illuminato. Ciò che è nascosto, può essere riportato alla luce. I semi vogliono fiorire. Vedrai.-
-Tu sei così saggia… e così gentile! Chi sei?-
-Saggia… io?- La dea scoppiò a ridere. Raddrizzò la schiena e si accostò ad Ade. Aprì una mano e le sue dita trovarono nel buio quelle del dio senza doverle cercare. –Sì,- ammise.-Immagino di essere diventata almeno un po’ più saggia.-
-Chi sei?- insistetti.
-Sicura di volerlo sapere? Sicura, sicura, sicura?-
Annuii ansiosamente.
-Io sono te.-
-È un indovinello?- mi accigliai.
-No, piccola Kore. È una promessa.-
E mi svegliai.
 
****
 
Prima ancora che Erebo avesse ritirato le sue dita diafane, mi recai nelle stanze di Ade. Il suo letto era rifatto, la stanza perfettamente in ordine, ma lui non c’era. Armandomi di audacia, cominciai a vagare di stanza in stanza.
Lo trovai in una sala che sembrava uno studio, seduto a una scrivania invasa di pergamene. Le pareti erano occupate da scaffali alti fino al soffitto, straripanti di libri. L’unica parete che non occupava ripiani era quella alla sua destra: vi si trovava un piccolo camino sormontato da una gigantesca litografia, raffigurante quello che mi parve in tutto e per tutto un Albero.
Avevo cercato di non fare rumore, ma Ade dovette avvertire la mia presenza.
-Intendi restare sulla soglia? Puoi entrare, se lo desideri.-
Lo disse senza sollevare lo sguardo dai documenti che stava esaminando, in un tono talmente neutro che pensai non gli importasse davvero che cosa avrei fatto.
Entrai nella stanza e mi chiusi la porta alle spalle. Avanzai cautamente, in soggezione.
Dal mio lato della scrivania c’era una piccola poltrona di damasco azzurro. Mi sedetti rigidamente, la schiena dritta e le mani strette in grembo.
-Non avevo mai visto tanti libri tutti in una volta.- buttai un occhio sulle pergamene che invadevano lo scrittoio. -Tu governi l’Averno da qui?-
-Anche.- disse Ade, senza guardarmi.
Iniziavo ad abituarmi alle sue risposte laconiche. In Superficie gli dei e le ninfe parlavano moltissimo, spesso per dire molto poco. Ade esprimeva o sottintendeva almeno il triplo dei concetti, usando appena un terzo delle parole.
-Non sembri sorpreso di vedermi. Ti aspettavi che sarei venuta a cercarti di nuovo?-
-Mi aspettavo che mi avresti sorpreso di nuovo, sebbene non sapessi in che modo.- rispose lui meccanicamente.
-E… capita spesso che qualcuno ti colga di sorpresa?-
-In verità, non capita mai.-
Non preoccuparti, divino Ade: a questo rimediamo subito.
Con il cuore che accelerava, allungai una mano aperta proprio sotto il suo naso, coprendo il foglio che stava leggendo.
Ade mi guardò finalmente in faccia, una scintilla interrogativa negli occhi di ossidiana. Non portava più alcuna fasciatura: sembrava che la ferita fosse già guarita, o comunque molto migliorata. Era pallido, ma non più del solito: la notte di riposo sembrava avergli giovato.
Ed è un bene, pensai serafica. Perché tutti quei sogni mi hanno lasciato delle domande, e ho la ferma intenzione di estorcerti una ad una le risposte, se sarà necessario.
 Gli occhi di Ade si ridussero a due fessure.
-Persefone, che cosa stai macchinando?-
Trassi un profondo respiro, pregando che la voce non mi tremasse.
-Tu hai detto che ti appartengo per volere di mio padre, secondo le leggi della Superficie. Secondo quelle stesse leggi, però, tu potresti rivendicare precisi diritti su di me… cosa che invece hai negato.-
In verità, dovetti concedergli, non aveva solo negato: era parso anche piuttosto offeso.
No, ti sbagli. Non avrei potuto.
Ade si accigliò.
-E dunque?-
-E dunque, siamo nel Sottosuolo, non in Superficie. Qui la sovranità di mio padre non ha valore: non è stato il suo consenso a rendermi tua sposa.-
-Certo che no. Ti ho reclamato come sposa in base alle leggi del mio regno. Sono un re: non accetterei niente di meno.-
Annuii, perché me l’aspettavo.
-Allora, chi ha decretato che io ti appartenga? Ha qualcosa a che fare col nostro vecchio incontro?-
La voce di Ade mi raggelò.
-Quale vecchio incontro?-
Lo guardai confusa. Avevo dato per scontato che solo io avessi dimenticato, e che lui invece ricordasse ogni cosa.
-Avvenne quando ero una bambina.- gli spiegai. –Mi imbattei in una porta sbarrata e la aprii usando parole di cui non conoscevo il significato. Mi ritrovai in una sala con uno scranno. Ce n’erano sei, in verità, ma io ne toccai soltanto uno.- Mi aspettavo che Ade dicesse qualcosa, invece seguitò a fissarmi e tacere. -Ricordo una tenebra fittissima, che si volgeva verso di me. Eri tu, quella tenebra.-
-Suona plausibile, ma non ricordo un incontro del genere.-
-Ma io lo ricordo: adesso ricordo perfettamente! Ricordo che cadevo, e che tu mi salvavi. Tu mi dicevi...-
Ade protese una mano sopra lo scrittoio e mi premette due dita contro le labbra.
-Non ricordo questo incontro. Non ero… io.-
Il suo tono precipitoso creava un netto contrasto con la sua espressione posata.
-Mi stai dicendo la verità?- domandai delusa.
-Te l'ho detto: non mento mai.-
-Eppure non sembri nemmeno sorpreso. Non mi stai dicendo tutto... vero?-
Ade non mi rispose.
-Che cosa intendevi, allora, quando hai detto che ti appartengo?-
Il dio scrollò le spalle.
-E’ nella natura del Mondo, che il Sottosuolo abbia una regina al pari del Mare e della Superficie.-
-Ho capito, ma perché tra le figlie di Zeus hai scelto proprio me?-
-Io ti ho reclamata. Non ho mai detto di averti scelta.-
Strinsi i pugni sotto la scrivania e mi protesi verso di lui.
-Chi mi ha scelta come tua sposa e regina, allora? È stato il Fato? Il Destino?-
-Queste domande non hanno senso.- scandì Ade in un sussurro incolore.
Rimanemmo a fissarci negli occhi per qualche istante. Infine mi abbandonai con la schiena contro la spalliera.
-Dimmi almeno una cosa: perché dei tre regni hai scelto l’Averno?-
-Non l’ho scelto. Non nel senso che intendi tu.-
-È  un’altra delle cose che ti sei limitato a reclamare senza sapere perché?-
Ade si protese verso di me, la voce vellutata e tagliente.
-Il fatto che tu non ne capisca il motivo, non significa che esso non esista. E non significa nemmeno che io non lo conosca.-
Mi nascosi il viso tra le mani.
-Voglio tornare indietro!-
-Non è possibile.- disse Ade laconico.
Sollevai lo sguardo dalle mie mani.
-Però… si può andare avanti.- recitai senza troppa convinzione.
Gli occhi del dio si socchiusero, riducendosi a due fessure color selce.
-Sei una creatura singolare, dolce Persefone.-
Senti chi parla, pensai. Solo un istante dopo mi venne il dubbio di avergli appena strappato un complimento.
-Dunque, io non ti ho scelto, né tu hai scelto me. Eppure siamo sposo e sposa.-
-È così,- annuì Ade. -Perché così è.-
Riflettei un istante, scoraggiata.
Se nemmeno lui possiede le risposte che cerco, che cosa posso fare?
La risposta mi balenò in mente, talmente ovvia che per la sorpresa persi un battito di cuore. Afferrai il bordo dello scrittoio, faticando a trattenere un tremito di eccitazione.
-Ade, ho bisogno di incontrare Oniro!-
Il dio sollevò uno scuro sopracciglio.
-Il Sogno è pazzo, ma se questo non ti turba sei ovviamente libera di andare a trovarlo.-
Lo guardai sgranando gli occhi.
-Stai dicendo che ho il tuo permesso?-
La mia domanda parve esasperarlo.
-Sto dicendo che sei la regina: non hai bisogno del permesso di nessuno.-
Lo fissai inebetita.
-Quindi nessuno mi sorveglierà? Nessuno controllerà che io non tenti di fuggire?-
Ade scrollò le spalle, come si trattasse di domande che non meritavano risposta.
Aveva nuovamente abbassato lo sguardo sul suo lavoro, e non ebbi il coraggio di infastidirlo oltre.
Rimasi per qualche minuto a fissarlo, il capo ricciuto chino sui fogli, il profilo aristocratico e impassibile, le sopracciglia leggermente aggrottate. Lo vidi intingere la piuma d’oca nel calamaio e tracciare sulla pergamena linee eleganti e precise.
In silenzio per non disturbare, mi alzai in piedi e indietreggiai fino alla porta.
-Persefone.-
Quando la sua voce mi raggiunse, avevo già una mano sulla maniglia. Mi voltai lentamente.
Mi stava guardando, e per un attimo ebbi un tuffo al cuore perché lo riconobbi: riconobbi l’altro Ade, quello che fissava innamorato la dea del mio sogno. Poi il dio aprì bocca, e l’illusione svanì come non ci fosse mai stata.
-Puoi andare dove vuoi, ma ti ricordo che non puoi garantire la tua sicurezza se lasci i Campi Elisi. E che, se non sono presente, non posso garantirla nemmeno io.-
-Grazie per avermelo ricordato,- sibilai con un inchino zuccheroso.
-Dovere.- replicò Ade, pacato.
Uscii dallo studio e mi chiusi la porta alle spalle. Poi ruotai su me stessa e gli feci una linguaccia, infantile ma liberatoria.
-Alifto.- sussurrai. -Ci sei?-
Una luce azzurrina divampò alle mie spalle, rendendo più scura la mia ombra contro la parete.
Mi voltai, incontrando il volto diviso dell’Empusa.
Sogno, pensai. Arriviamo!
La ninfa chiuse la mano sana sulla mia, e insieme ci lanciammo in corsa lungo il corridoio.
 
****
 
Chiedo scusa per il ritardo, anche se ormai sarete abituati alla mia puntualità non proprio svizzera!
Piccole note di cui non si sentiva il bisogno:
_Ringrazio tutti tuttissimi per i commenti e gli incoraggiamenti: mi sono stati di grande conforto mentre mi fumavano le orecchie e meditavo di cancellare tutto per scrivere solo drabble PWP!!!
_Angolino “date a Cesare quel che è di Cesare”: le parole che Thanatos rivolge a Persefone riecheggiano sia un post che gira su FB, sia una frase che torna spesso in alcuni articoli di Silvana De Mari. Si tratta di due riflessioni che mi hanno molto toccato, sia pure in modo diverso, e che ben rispecchiano la mia idea del personaggio.
_Piccola nota a parte per i miei lettori di Labyrinth: ho inserito un piccolo easter egg per voi, spero lo abbiate riconosciuto e gradito.
_Ultimo ma non ultimo: un grazie grosso così a Viola, che si è beccata i miei skleri, un capitolo sbagliato e pure un mega spoiler del tutto involontario.
Un abbraccio a tutti,
S.
   
 
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