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Autore: haev    25/06/2015    7 recensioni
«Sono uscita.» rispose accarezzandogli i capelli.
«Per fare cosa?» domandò e aprì finalmente gli occhi.
«Per salvarti.» sussurrò Rion, ma era certa che il fratello l’avesse sentita e come sempre non aveva detto niente, così gli lasciò un bacio sulla fronte e uscì dalla camera.
[...]
Il castano si sorprese ad ammirarla e sentir nascere dentro di sé un senso di calma che non aveva mai provato. Aspirò il fumo e scosse la testa: non doveva affezionarsi a lei. Il suo compito era quello di renderla più loquace, di scavare dentro di lei e capire il motivo per cui amasse così tanto la solitudine.
[...]
Greta non si definiva una ragazza depressa, semplicemente aveva smesso di vivere e non sapeva nemmeno se a vent’anni si potesse dire di aver iniziato a vivere per davvero, aveva ancora davanti una vita piena di cose da fare, scoprire e lei aveva già rinunciato a tutto.
Peccato che il suo tutto fosse su un letto con una bandana in testa per la chemioterapia.
Completa.
Genere: Mistero, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Louis Tomlinson, Nuovo personaggio
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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And then I found out how hard it is to really change.
Even hell can get comfy once you’ve settled in.

I just wanted the numb inside me to leave.
No matter how fucked you get, there’s always hell when you come back down.
The funny thing is all I ever wanted I already had.
There’s glimpses of heaven in everything.
In the friends that I have, the music I make, the love that I feel.

I just had to start again.
-Hospital For Souls; Bring Me The Horizon

IV

Jessica era felice della sua vita, fino a due anni prima.
Non sapeva nemmeno tutt’ora come faceva ad andare avanti, come riusciva a concedersi piccoli spazi della vita quotidiana solo per lei, anche solo cinque minuti, per pensare, riflettere o lasciarsi andare, per capire davvero cosa potesse fare per non cadere nel buio.
Era dell’idea che un adolescente era molto più forte di un adulto. Un ragazzo riscontra tutto per la prima volta e può sbagliare, capire come rimediare, invece un adulto riflette sempre su quello che deve e non deve fare, causandosi molti dubbi e quindi la sua forza svanisce con il tempo nell’oblio, così come le loro menti.
Un adolescente è più forte perché nonostante tutte le prime volte, riesce sempre a provarle; un adulto, ha sempre paura di sbagliare di nuovo e quindi non riesce ad andare avanti, rifugiandosi in se stesso.
Jessica molte volte avrebbe voluto ritornare giovane e vedere come avrebbe reagito a quella situazione, peccato che non poteva e doveva convivere con la paura di precipitare.
Tutto ciò che avrebbe voluto fare era volare via.
Il problema era che non possedeva delle ali e quegli arti mancanti nella vita quotidiana si chiamavano responsabilità, alle quali Jessica non poteva fuggire via.
Nel complesso era soddisfatta della sua vita. Ricordava gli anni della sua adolescenza con un sorriso, riviveva quei tormenti nei suoi figli ogni giorno.
Era proprio in quegli anni che aveva incontrato George, suo marito. Molte volte si sorprendeva nel pensare quanto lo amasse ancora nonostante tutti gli anni passati; spesso si sorprendeva di provare le stesse sensazioni ogni volta che uscivano solo loro due, ogni volta che facevano l’amore, ogni volta che baciava le sue labbra e sentiva la sua barba pizzicarle la pelle.
Si sorprendeva nel pensare a quanto fosse ancora vivo il suo desiderio per lui.
Suo marito era la sua ancora, colui che la sorreggeva, la portava avanti e le faceva svanire quella paura costante.
Essere madre era una cosa indescrivibile, la faceva sentire piena e splendente. Era soddisfatta dei suoi figli, li amava tutti e cercava sempre di non essere apprensiva con nessuno di loro, se non con la piccola Renae, che avendo solo un anno, esigeva delle attenzioni maggiori agli altri.
Anche Rich richiedeva attenzione, ma in ambito completamente diverso. Jessica si stupiva della forza che le dava suo figlio attraverso quegli occhi diversi, sdraiato nel suo letto, come se fosse un insetto.
E quel piccolo insetto stava per essere schiacciato da una scarpa mortale.
Il respiro di Jessica si bloccava ogni volta che pensava alla malattia di suo figlio. Quella malattia che glielo avrebbe portato via.
Non avrebbe potuto partecipare al suo matrimonio, piangere per lui e per la sua amata. Avrebbe detto arrivederci prima di lei, prima che lei sarebbe andata via. Non l’avrebbe potuta aiutare a mangiare quando sarebbe stata troppo vecchia oppure non avrebbe potuto appoggiarsi alla sua spalla quando suo marito fosse morto.
Non avrebbe mai potuto vederlo diventare uomo, che non sapeva nemmeno se lo poteva considerare tale, visto che lo vedeva sempre come il suo bambino.
Lui, l’unico maschio, l’amore della sua vita.
Il suo ventunenne costretto a sopportare un peso così grande, un peso che lui prendeva così alla leggera tanto che Jessica avrebbe voluto essere lei malata e non lui, avrebbe voluto sopportare tutte le chemio, tutte le terapie, tutti gli esami al suo posto.
Perché non c’era niente di peggio nel vedere il proprio figlio stare male e non fare niente, semplicemente stare lì a guardare.
Morire, quasi, con lui. L’unica differenza era che lei stava morendo dentro, soffocata dalla paura di perderlo, mentre Rich veniva soffocato dal cancro.
Un genitore non dovrebbe mai vedere suo figlio morire.
Il telefono squillò e Jessica corse a rispondere: «Pronto?»
«Ciao, Jeje.»
«Ciao, Jay, come stai?» chiese Jessica tenendo il telefono tra l’orecchio e la spalla per poter continuare a preparare la cena per la piccola Renae.
«Bene, direi. Ho un nuovo studente.»
«Davvero? Come mai è arrivato così tardi?» chiese curiosa, a che lei sapeva, il secondo quadrimestre era già iniziato.
«Da quanto ho saputo si è appena trasferito, mi piace come ragazzo.»
«Già dopo un giorno?» chiese ridacchiando mescolando la pappa.
«Sai che li inquadro subito.»
Jessica annuì alzando un sopraciglio e appoggiò in tavola il piatto, poi prese un cucchiaio e iniziò a imboccare la piccola, facendo il trenino.
Nessuno avrebbe mai immaginato che la signorina Finch, docente di superiori, e Jessica potessero diventare così amiche. Innanzitutto per la differenza d’età: avevano più di dieci anni di differenza, poi s’aggiungeva anche il fatto del carattere. Una era schietta, amante delle scienze e dedita all’insegnamento, l’altra era dolce e viveva alla giornata.
Erano così opposte che era come se un magnete avesse rifiutato la scarica dalle due calamite, facendole incontrare nella strada inversa.
Si erano conosciute a un banalissimo incontro tra genitori e docenti, Jessica era andata per sentirsi dire che Rich non era portato alla matematica, invece la signorina Finche le aveva detto che suo figlio poteva arrivare perfino a ottimi risultati, se solo ci avesse provato.
Alla fine dell’anno Rich aveva raggiunto quasi il massimo dei voti, facendo sì che Jessica si complimentasse con Jay.
Grazie a Rich, sua madre aveva incontrato la signorina Finch e da lì erano sempre state ottime amiche. Nonostante l’amicizia profonda, Jay non era un’amica di famiglia, quindi Rion e Rylee non la consideravano come tale, nonostante sapessero che si sentiva molto con la loro madre.
«E’ in classe con Rion?» domandò Jessica.
«Sì, lo sai che Rion è sempre più stanca in questo periodo?»
«L’ho notato.» mormorò la donna. La situazione di sua figlia era un altro fatto che rischiava di farla cadere nell’oblio. Nel giro di quattro mesi, Rion era cambiata radicalmente e il brutto era che Jessica non riusciva a spiegarsi in che cose fosse mutata.
Era come sempre silenziosa e non diceva mai nulla se non forzata a parlare, ma oramai quella era una caratteristica che aveva da quando era piccola e la madre non ci faceva nemmeno più caso: sapeva per certa che se Rion avesse voluto iniziare a essere più loquace non ci avrebbe impiegato molto a parlare di più. Il fatto di rimanere in silenzio, quindi, era un comportamento deciso dalla stessa Rion.
Pure il fatto di non avere amici era una cosa normale, Jessica aveva una figlia solitaria e benché all’inizio della sua adolescenza si era preoccupata di questo fatto, vedendo che Rylee si era fatta molti amici, dopo aver parlato con sua figlia, aveva capito che era un altra parte del suo carattere.
Jessica si chiedeva spesso se Rion era nata solitaria o con il tempo avesse iniziato ad amare la solitudine, per sfuggire allo schifo del mondo.
L’unica cosa che le aveva visto erano le profonde occhiaie, ma più di una volta era entrata in camera sua e l’aveva trovata a letto.
Forse era solo stress oppure un periodo no.
La donna molte volte si arrabbiava perché non riusciva a passare oltre il muro qual era la mente di sua figlia. Si chiedeva perché mai sua madre non potesse sapere ciò che le passava per la testa, ma poi si ripeteva che era giusto che avesse i suoi segreti.
«Non sei riuscita a parlarle?»
«Sai meglio di me quanto sia difficile Rion.»
«Non credi che ti possa nascondere qualcosa?»
«Cosa può mai nascondermi una persona che vive nella solitudine?»
«Magari il modo in cui passa questa solitudine.»
«Che intendi dire, Jay?»
«Non lo so, magari ha altri tipi si svaghi.»
«Droga? Fumo? Alcool?»
«Rion non si abbassa a questo livello, Jessica.»
«E’ per questo che non so cosa possa procurarle questo grande stress.»
«Magari è la situazione.»
«E’ difficile per tutti, Rion è sempre stata la più forte di tutti.»
«Sai quanto tiene a Rich.»
«E’ mio figlio, Jay.»
La signorina Finch sospirò bruscamente: «Questo non lo metto in dubbio, ma sappi che tu sei adulta e ognuno interpreta i proprio sentimenti come meglio crede.»
 
Una volta che Rion entrò in casa finita la scuola fece un salto in cucina, salutò la sorellina con un buffetto sulle guancie e sorrise alla madre.
«Tutto bene, Rion?» chiese quest’ultima.
«Sì, mamma, grazie. – Rispose e si appoggiò alla porta – Tu?»
Jessica sorrise: «Non mi lamento, ti vedo strana, tesoro.»
«Sono solo stanca.»
Rion era stanca fisicamente e mentalmente. Il fatto di dormire così poco la notte per portare a termine la sua missione, la spingeva al limite, facendo sì che oltre al suo corpo ne risentisse perfino la sua testa.
Era stanca di adattarsi a quella società di merda, rimanendo in silenzio.
Stanca di sorridere, di andare avanti, di stare muta e fare finta che tutto andava bene.
Rion era stanca di andare a scuola e portare a casa risultati che un domani non le sarebbero serviti a un cazzo.
Stanca di vivere in quel quartiere, ma al contempo era pure stanca di cercare una via di fuga.
Era stanca di fumare e rifugiarsi nei libri, che la riempivano solo di fottuti sogni.
Rion, alcune volte, era perfino stanca della musica.
«Sì, è stata una giornata pesante.» ribadì, tanto sarebbe stata sempre la stessa merda.
La ragazza dopo aver mangiato e chiacchierato del più e del meno con la madre, si rifugiò in camera sua, decisa a studiare per la verifica di inglese dell’indomani.
Prima di immergere la testa nei libri, controllò quanti soldi avesse sotto il letto e riscontrando che erano circa cinquecento dollari, una piccola fortuna, accese il computer.
Cinquecento dollari non erano per niente sufficienti a portare a termine quello che lei doveva fare prima di lasciare New York.
Doveva raggiungere almeno settecento dollari e ciò comprometteva ancora una settimana di uscite la sera, odiava quel fatto: a scuola stava avendo un calo pauroso, non tanto perché non studiasse, ma poiché era così stanca e stressata che perdeva la concentrazione facilmente e i professori iniziavano a fare domande.
Domande a cui Rion rispondeva con un’alzata di spalle e se ne sgusciava fuori dalla porta.
Nonostante la sua popolarità fosse bassa, possedeva un account Facebook, lì aveva pochi amici: compagni di scuola e Bon.
Bon era il suo Caronte personale.
Rion non sapeva come muoversi nei meandri dell’inferno e l’unica via di fuga fu quella di chiedere una mano e fortunatamente aveva trovato Bon. Lo conosceva da circa un anno e la prima volta che si incontrarono fu durante una delle sue passeggiate notturne, il ragazzo l’aveva scambiata per una prostituta, ma dopo una sguardo fulminante da parte della ragazza, iniziò a parlarle scusandosi.
Fu la prima persona che non si curò del fatto che Rion non parlava, anzi quel fatto giovava in suo favore perché Bon aveva semplicemente bisogno di una persona con cui sfogarsi e non dicesse niente. Rion quindi, era una specie di diario umano per Bon.
I primi tempi la ragazza rimase in silenzio, sentendo i tormenti del ragazzo che erano per lo più di una famiglia assente per i troppi impegni di lavoro, una ragazza non corrisposta e il suo dannato cane che scappava di casa tutte le sere per pisciare.
Dopo circa quattro di mesi, Rion arrivò subito al punto parlando della sua missione, inutile dire che fu la prima volta che Bon la sentì parlare in tutta la sua vita, e quella voce fredda, dolce e soffusa le fece così tanta tenerezza che ascoltò la sua sofferenza e apprezzò la sua solitudine.
Tra di loro c’era una tacita comprensione, sancita dal nulla.
Bon offrì un lavoro a Rion e la ragazza, avendo bisogno di soldi, acconsentì senza pensarci due volte.
Le serate erano diventate più intense negli ultimi tre mesi poiché aveva un bel giro di clienti, prima era vista come la piccola del gruppo, colei che era innocente, ma dopo svariati mesi, Rion riuscì a integrarsi perfettamente.
Così, una volta al mese, andava in posta e spediva i soldi allo stesso indirizzo in cui abitava e ogni mese sua madre e suo padre si trovavano settecento sterline in più, che non sapevano da dove spuntavano, ma le usavano comunque.
Rion, benché sapesse che fosse un lavoro sporco, era soddisfatta di se stessa.
 
– Bon, mi mancano duecento sterline. – scrisse velocemente.
– Sabato sera? – rispose subito.
– Ci sta, magari riesco a procurarmele tutte in una volta.  –
– Spero per te, come sta tuo fratello?
– L’ultimo esame non ha funzionato, come sempre. Sembra quasi che il suo corpo rifiuti le medicine.
– Magari è solo giunto al capolinea.

– Il mio capolinea è il suo, quindi, finché io non lo raggiungo, lui non potrà fare niente. – 

Il capolinea di Rich era la morte e quello di Rion era quello di far sconfiggere la morte a suo fratello. La ragazza sapeva che suo fratello si era arreso, aspettava solo il colpo di grazia, ma Rion non poteva vederlo in una tomba.
Lei al mondo non aveva nient’altro che suo fratello e tanto valeva morire se lui se ne andava. Alcune volte Rion si chiedeva cosa avrebbe fatto una volta terminata la sua missione e vedeva così tanti vuoti per il suo futuro che quasi ne aveva paura, per questo, altre volte sperava che la sua missione non si sarebbe conclusa mai.
Salutò Bon ringraziandolo e poi si mise a studiare.
 
Louis salì su uno degli ultimi autobus passanti per la sua via, aveva controllato in internet e sapeva che se avesse preso l’autobus delle 22.37 sarebbe arrivato a due vicinati prima, così avrebbe avuto anche il tempo di fumarsi una bella sigaretta.
Non sapeva di preciso dove andare e reputava che le uscite di sera non erano il massimo per scoprire un nuovo quartiere, ma non gli importava. La notte era calma, viva e placava un po’ della sua ira quotidiana, per di più non vedeva l’ora di uscire da casa perché sua sorella era stata male e suo padre si era incazzato con lui per la nota presa quello stesso giorno, quindi il centro paese lo attirava più di qualsiasi altra cosa.
Maxie gli aveva detto che l’indomani ci sarebbe stata una verifica di inglese, come al solito non aveva studiato niente, se la cavava piuttosto bene nella sua lingua, parlava spesso e sapeva usare bene le parole, in più la sua conoscenza della grammatica non era così male.
Aveva passato il pomeriggio a fare matematica e non aveva mal di testa, quella professoressa Finch lo aveva letteralmente stregato.
L’aveva sempre detestata come materia e ora si ritrovava a passare un intero pomeriggio sui numeri, sorrise al pensiero e scese dal bus.
Il centro paese consisteva in una piccola piazza, illuminata da lampioni che riflettevano la loro luce gialla su una piccola fontanella posta al centro della piazzetta, il resto andava a diramarsi nel buio più totale. Louis notò diversi negozi: un mini-market, una tabaccheria, una biblioteca e un negozio di dischi, si diresse a passo spedito verso di esso. Mentre lo raggiungeva notò che subito dietro i negozi c’erano case su case, la maggior parte erano villette a schiera con tetti marrone-rossastro e muri bianchi.
Riscontrò che non era poi così male come paese, soprattutto se c’era un negozio di dischi e avvicinandosi scoprì che vendeva anche strumenti musicali, purtroppo il suo pianoforte non era ancora arrivato per via del trasloco, quindi si beò di quella magnifica vista, mentre le mani si muovevano su tasti invisibili.
«Louis!» si voltò di scatto e riconobbe un paio di occhi marroni conosciuti quello stesso giorno.
«Maxie.» disse sorridendo.
«Cristo, Lou. – Esclamò sorridendo – Che ci fai qui?»
Louis sorrise e mettendosi le mani in tasca, disse: «Mia sorella è stata male e mio padre mi ha cazziato per la nota.»
Maxie ridacchiò e disse: «Vuoi fare un giro oppure vuoi rimanere da solo?»
Quella domanda commosse quasi Louis: nessuno si era mai preso la briga di chiedere il suo parere su qualcosa e la voce del ragazzo era così neutra che non si sentì oppresso dal desiderio di accettare o rifiutare.
«Vengo con te se vuoi.» rispose.
«Ma certo, sto andando da mio padre.» e il ragazzo iniziò a incamminarsi.
«Tuo padre?» domandò Louis con un sopraciglio alzato.
«Aha, i miei sono separati da non so quanti anni e ogni sera vado a trovare mio padre.»
«Oh.» mormorò Louis guardando per terra, non gli era mai piaciuto parlare delle situazioni famigliari.
«Tranquillo, ehi. – Lo rassicurò Maxie – E’ un tipo simpatico, non come quella schizofrenica di mia madre.»
Il ragazzo ridacchiò e disse: «Non hai diciotto anni? Non puoi scegliere tu con chi stare?»
Maxie annuì, «Sì, peccato che mio padre non abbia un letto nemmeno per lui. – Ridacchiò – Da quando i miei si sono separati, lui è andato a vivere nel retro del bar che gestiva e ha tutt’ora, e dorme su un divano.»
«Capisco, immagino sia comodo.» disse sarcasticamente il castano.
«Cristo, dei tuoi invece?»
Louis respirò forte e mormorò: «Alcune volte non capisco proprio perché stiano ancora insieme, credo che lo facciano per mia sorella.»
Maxie sembrò accigliato, «A te non ci pensi mai?»
Louis lo guardò confuso: «Mi farebbero semplicemente un favore a separarsi.»
«Sì? Ogni cosa ha i suoi pro e i suoi contro. I pro sono che hai due case e se ogni tuo genitore ha una buona rendita avrai soldi in più, perché uno dei due è costretto a mantenerti passandoti soldi una volta al mese. Un altro pro è il fatto che potresti dedicarti singolarmente a ognuno di loro. Il contro? Non hai una famiglia, ti sei distrutto il classico ideale di famiglia felice. Certo, puoi pensare che non era la persona giusta, ma la tua idea di famiglia felice, precipita, perché hai sulle tue spalle un peso orribile da sopportare.»
Il castano rimase di stucco, non aveva mai pensato a quello. In effetti, il suo pensiero era puramente egoista, pensava solo a non sentire più le urla dei suoi, ma non aveva riflettuto sul fatto dei suoi sentimenti decisamente più importanti rispetto a un po’ di silenzio.
«Forse dico così perché non so cosa si prova.»
«Forse, eccoci.» ed entrò in un bar sulla strada.
Aveva una scritta a intermittenza sulla porta e un cartellino che diceva ‘aperto’ o ‘chiuso’ in base all’esigenza, l’interno era caldo e tutto sommato il bar non era così vuoto: persone giocavano a carte, una coppia era in un angolo, alcuni ragazzi erano circondati da libri con vicino tazze di caffè e il proprietario stava guardando la televisione al plasma mentre asciugava delle tazzine.
L’orecchio di Louis riconobbe una canzone dei Nirvana in sottofondo e sorrise tra sé, ecco da dove Maxie aveva preso tutto il suo amore per la musica.
Il padre di Maxie era un uomo magro, i capelli a spazzola e biondo scuri, un po’ brizzolati dove c’erano le basette, senza barba e con un paio di occhi marroni grandi e pimpanti, uguali a quelli del figlio.
«Ciao, pa’.»
«Ehi, Maxie!» salutò raggiante, poggiando lo strofinaccio sul bancone.
«Ti presento Louis.»
«Piacere, ragazzo.»
Louis annuì e sorrise leggermente, era contagiato dall’atmosfera del bar: sembrava che avesse fatto un viaggio nel tempo, tutto era come negli anni ottanta. La musica, il bancone, le sedie, perfino l’abbigliamento del padre di Maxie, nient’altro che un paio di jeans e una maglia, lo riportavano indietro nel tempo.
«Accomodatevi pure, vi porto una birra.»
«Grazie, pa’.» disse Maxie.
I due ragazzi si accomodarono a un tavolino, «Impressionato?»
«Questo posto è… cazzo.»
Maxie ridacchiò e mormorò: «Mio padre ama gli anni ottanta.»
«Noto.» rispose ridacchiando Louis, poi disse: «E’ lui che ti ha trasmesso l’amore per la musica?»
Maxie parve rianimarsi a sentire la parola ‘musica’ e rispose subito: «Sì, fin da quando ero piccolo. Non ho mai sentito un pezzo moderno sino a che non sono andato in discoteca un paio d’anni fa con Niko.»
Louis rispose: «Io, invece, ho sempre ascoltato quella musica… del cazzo diciamolo, poi sentii un pezzo degli AC/DC e boom, è come se una voragine si fosse aperta nel mio cuore.»
«E non si è mai richiusa.»
«Esatto.»
Alcune volte Louis si pentiva di non aver iniziato prima ad ascoltare brani vecchi, ma da quando li ascoltava non si sentiva appartenere a quel mondo. Era come se venisse da un’altra epoca e tutta quella tecnologia, quella musica, quella gente non facesse per lui, era fuori posto, sempre, costantemente.
Anche con gli amici e con la ragazza che aveva avuto a Boston, non si sentiva completamente padrone di se stesso. Non gli era mai capitato di sentirsi appartenere a qualcosa o qualcuno, e forse non gli sarebbe mai capitato, d’altronde, non apparteneva a quel tempo, o no?
«Sabato sera esco con Niko e altri, vuoi venire?»
«Se mio padre mi lascia uscire dopo la nota.» scherzò il ragazzo sorseggiando la birra.
«Ci sarà anche la sorella di Rion.»
Louis si animò sentendo il nome della ragazza, mormorò: «Allora tanto vale scappare di casa.»
Maxie gli diede una pacca sulla spalla.

Spazio autrice.

AVETE AVUTO PROBLEMI COL TESTO? NO PERCHE' EFP MI E' LEGGERMENTE IMPAZZITO NELLA PUBBLICAZIONE DI 'STO CAPITOLO.

Buongiorno, buon pomeriggio o buonasera!

Lo scrivo in maiuscolo così vi attiro.


STO SCRIVENDO UNA NUOVA FF DATO CHE QUESTA E' PRATICAMENTE FATTA E FINITA NEL MIO PC E ASPETTA SOLO DI ESSERE PUBBLICATA. E' UNA FF TOTALEMENTE DIVERSA DA QUESTA, VI DO' UN'IDEA: PARLA DI UN MANICOMIO. CI SONO TUTTI E CINQUE I RAGAZZI E PURE UNA SLASH, DEHEHE. 
QUINDI, DATO CHE NESSUNO DEI MIEI AMICI SA CHE SCRIVO PERCHE' BOH ME NE VERGOGNEREI E ALTRE CASTRONATE CHE NON VI STO A DIRE. CHI SI PROPONE PER UN BETA READER CHE SIA ONESTO E SINCERO? 


Prima di iniziare vi voglio ringraziare. La storia non ha molte recensioni, ma mi accontento di quelle che ricevo e ringrazio tantissimo chi le fa (vi voglio taanto bene) e spero che possiate aumentare.
Ringrazio anche chi ha aperto questa storia, l'ha letta, le visite aumentano di giorni in giorno e io piango commossa, okay. 

Bene: anche se al concorso dello scorso capitolo ha partecipato solo una ragazza (all the love, thankyou aw) è ancora aperto e vi ricordo che in twitter sono @letsgotolive 

Okaaay. 
In questo capitolo abbiamo un POV's della mamma di Rion e Rylee, vi posso garantire che NON è stato per niente facile scriverlo, perché non sono madre e non so cosa si provi ad avere un figlio malato, quindi è stato piuttosto impegnativo.
Voi cosa ne pensate, fa così schifo?

Poi, EHIEHIEHIEHIEHEEEEEEEEEEEHI: ABBIAMO INFORMAZIONI SUL LAVORO DI RION EHEHEHHE

Cosa cazzo fa quella ragazza? Voglio sentire le vostre opinioni.

Poi, come sempre, abbiamo un Maxie e un Louis che parlano di cosa? Di musica, casualmente.
Ah ma c'è anche un intermezzo sul divorzio e boh, spero di aver reso l'idea.

COSA SUCCEDERA' SABATO SERA?

FATEVI SENTIRE CHE IO VI ADORO, OKAY.

A presto,
Giada.


 

 
 
  
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