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Autore: Bloody_Schutzengel    29/06/2015    1 recensioni
[Primo capitolo della serie: Sotto mille ciliegi]
Anno ****, mese di Agosto, quindicesimo giorno.
Lo stato di Kintou viene stravolto da un violento colpo di stato da parte di estremisti detti Rivoluzionari, che attuano un macabro e violento regime di ferro nella parte orientale del paese. La parte occidentale, invece, è popolata ancora da creature magiche, sacerdotesse e dalla natura. E' chiamata Terra Pura ed è sotto tiro dal generale salito al potere che vuole emulare violentemente i costumi delle popolazioni d'Oltremare, industrializzate e moderne all'esterno ma sanguinose e ingiuste all'interno.
Yoko è una semplice ragazza di Kintou Shuto, la capitale di Kintou Est, che a causa di vari eventi, si troverà ad entrare nell'esercito della morte della città, pur di sfuggire all'esecuzione pubblica. Tra le file, Yoko dovrà affrontare i suoi compagni, tutti uomini, le battaglie, le campagne militari ma soprattutto il vero e proprio generale, del quale è oggetto di desideri perversi e omicidi allo stesso tempo.
Genere: Drammatico, Fantasy, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yuri
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Non-con, Violenza | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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• Note dell’autrice •
(Importante)
 

 



Ehilà!


ATTENZIONE! IMPORTANTE! Ragazzi, purtroppo la mia estate è pienissima di impegni. Vado di quà vado di là, Expo, Fiordi, e poi fa anche caldissimo e mettermi al pc concentrandomi è davvero difficile. Detto ciò, non so quando aggiornerò, magari tra due settimane, qualche giorno, oggi, domani o a settembre. Non ne ho idea. Perciò perdonatemi in anticipo per tutto questo e prometto che non lascerò mai la storia in sospeso. Davvero. Grazie! Al prossimo capitolo...

Lo so che sarei da lapidare per lo strabiliante ritardo di pubblicazione, ma prima di darmi una bandierina bianca o rossa solo per questo… ascoltate un po’ qui!
E’ stata una vera e propria epopea, un’Odissea, un viaggio al centro della Terra! E non solo per il caldo che non mi faceva scrivere al pc non più di due righe, per cui staccavo continuamente la storia, ma anche per il capitolo in sé! Questo è un capitolo molto particolare che mi ha creato problemi, essendo composto da due parti molto importanti per la storia e ciò mi ha creato un casino perché non sapevo come sfumare da una parte all’altra, come descrivere le cose, le azioni! C’è stato anche un nuovo punto d’osservazione, un nuovo POV in una parte della storia e quindi tante complicazioni! In compenso, con il sudore alle mani e ai piedi, sono riuscita a mettere in piedi queste undici pagine di Word, per regalarvele e farmi perdonare per il ritardo. Che poi, scusate, si è rotta anche un’unghia in tutto questo! *piange* Non riuscivo a scrivere *sob*. Bando alle ciance, spero che il capitolo vi piaccia, perché lo aspettavo da tanto tempo *cuoricino* Non so quando aggiornerò: fa davvero troppo caldo per stare al pc L
Buona Lettura!
P.S. L’unica nota la metto qui, alla fine del capitolo che sarà troppo… niente spoiler:
 
1) Grazie Mille: il ‘gozaimasu’ si mette quando si parla in modo formale, in alcune formule di cortesia.
 
ADDIO. E recensite, chiedo ancora venia!
 
-Bloody Schutzengel
 



 


 
 
• Capitolo 24
Il giglio sanguinario sulla vetta
 

 



Pochi e lievi rumori, mormorii di voci e delicate melodie metalliche delle lame delle spade svegliarono poco a poco Yoko, che quella notte dormì piuttosto meglio rispetto alle altre passate al palazzo. Sentiva il calore della sua pelle, della sua mano sulla propria guancia, la morbidezza delle rustiche coperte e l’odore sempre più scandito del cibo della prima colazione. Si stropicciò gli occhi con delicatezza, quasi come una bambina, poggiò una mano a terra e fece leva per alzarsi, sbandando un po’: era ancora tra la veglia e il sonno. Sbadigliò tenendosi una mano sulla bocca, per poi decidere di velocizzarsi e cambiarsi. Si alzò e prese la sua divisa, infilandosela in pochi secondi non prima di togliersi la camicia da notte. Si sistemò i capelli come meglio poteva, con la solita lunga treccia nera ed uscì dalla tenda: stavolta, prima di scostare quella cortina, s’era preoccupata di controllare in un piccolo specchietto se si piacesse.
L’aria fredda d’inverno senza neve la colse alla sprovvista: la lampada ad olio che aveva tenuto vicino il futon per tutta la notte l’aveva a tal punto riscaldata da farle dimenticare in che stagione fossero. Un brivido di freddo le fece tremare le gambe, poi il torso ed anche il viso. Nonostante la “sorpresa” della temperatura, a Yoko piaceva quell’atmosfera: dovevano essere le sei del mattino, secondo l’orologio e il sole era appena sorto, facendo apparire il paesaggio tenuamente illuminato, delicato e morbido. Non sembrava di essere in guerra…
In effetti, non era mai stata etichettata come guerra: Yoko sapeva che quello non era altro che un capriccio del generale che, secondo lei, per qualche motivo, un giorno, s’era svegliato con l’intento di rendere un inferno la vita della gente. Eppure, quella sera, le era parso tutt’altro che un essere dagli istinti pluriomicidi… Anche a guardarlo adesso, la ragazza non fece caso a nient’altro che al suo aspetto: l’ì, all’alba, le piaceva ancora di più e, forse, stava dimenticando di trovarsi davanti ad un assassino.
Non essendo in vena di rimanersene lì imbambolata, camminò verso il centro dell’accampamento, attraverso i vari soldati che giravano tra le varie tende. Arrivò alla grande dispensa, da dove, la mattina, distribuivano le porzioni di cibo per la colazione, poiché non c’era bisogno di allestire la tavola, per qualche motivo. La fila era logicamente molto lunga, ma la ragazza non si scoraggiò: prima o poi sarebbe terminata ed il suo turno sarebbe arrivato… Chissà perché questa frase, le dava un senso di malinconia, di tristezza, come se nella sua vita qualcosa fosse stato per finire, se non proprio i suoi giorni… Questi macabri pensieri le rimbombarono nel cuore, mentre guardava fisso a terra, come una campana di morte, quelle che di solito suonavano per decretare il decesso di qualcuno.
“Buongiorno soldato, dormito bene?” Le fece il generale, passandole affianco e fermandosi, con un tono altezzoso che non le piacque troppo. Forse, doveva comportarsi diversamente, in presenza di altri soldati.
“Sì, signor generale.”
“Non sembra dalla tua ridicola faccia, sembra che ti abbiano appena condannato a morte. Hai fatto qualcosa di sbagliato?” Le sibilò, avvicinandosi al suo orecchio, ma quando la ragazza fu sul punto di fraintendere tutto se non di più del tono che le stava rivolgendo, l’altro iniziò a sussurrarle tutt’altro.
“Ecco, io…”
“Shhh… Devi avere pazienza: non ci sei solo tu qui in questo casino, ci sono anche io, intesi? Dopo la colazione vattene nel bosco. E non morire.” Quando ebbe finito di parlare, le diede uno spintone, per fare scena, ma la fece quasi cadere a terra. Le povere e sottili gambe della ragazza stettero per cedere, quando trovarono all’ultimo momento l’equilibrio giusto. Doveva avere pazienza: quelle risate sguaiate e infantili erano uno dei marchi con cui gli altri suoi uomini lo conoscevano e l’avevano sempre conosciuto. Cambiare così repentinamente, neanche di soppiatto, per un motivo o per un altro, sempre più avvolti nel mistero, avrebbe destato non poco sospetto in occhi indiscreti. Nel volto del generale, Yoko poteva leggere un espressione di altezzose scuse.
Dall’altro lato, invece, c’era Heizo.
Tohma gliene aveva parlato come uno dei più fidati del generale, come il suo miglior cane da guardia, che ha sempre occhi su di te anche quando dormi. Il suo nome, sapeva, non era temuto tanto quanto quello del suo superiore, ma riusciva pur sempre a metterle i brividi. Purtroppo, non conosceva i tempi in cui si era dimostrato servile al pari di uno zerbino con colui che lo comandava a bacchetta, ma solamente gli ultimi giorni in cui sembrava essere ossessionato da lei. Ogni angolo, da ogni lato che si girasse: era sempre lì, a fissarla, come un fantasma, a scrutarla con occhi maligni ed indagatori, tanto da metterle i brividi più di quanto il freddo non facesse di per sé. Sembrava come se fosse sempre stato lì per mangiarla, divorarla, distruggerla, saltandole addosso facendola a brandelli come un cane rabbioso mascherato da perfetto schiavo. Forse era solo una sua impressione: gli altri uomini non sembravano turbati da lui, ma anzi, ultimamente Yoko notò che gli si dimostravano più fedeli. Alcuni forse erano diventati come suoi cagnolini personali, invece che del generale. Di sicuro, c’era qualcosa che non andava.
“Basta così, arigatou gozaimasu1” Col volto basso, prese la sua ciotola di riso e carne, voltò le spalle e lasciò che il calore dei chicchi bianchi cremosi le riscaldasse la gola, mentre dalle sue narici, aria calda si trasformava in piccole nuvole nel cielo azzurro.
 
 
 
Giorno XX
Mese XX
Anno XXXX
 
Caro diario, cos’è quella cosa che gli esseri umani chiamano amore?
E’ per caso quello strano sentimento che si prova verso una madre o un padre? Quello che io ho provato verso mia madre, nonostante non l’abbia mai vista? Quello che provavo per mio padre e che ancora provo, anche se non ho mai potuto abbracciarlo?
Nessuno mi può dare una degna risposta: come posso fare?
Il Tempio della Letteratura, qui, è pieno di storie che parlano d’amore, di quel fuoco passionale che ti avvolge fino a farti dolcemente soffocare fino a desiderare di morire. Uomini e donne che, come è scritto in quei libri, si amano, si proteggono a vicenda, si baciano, si fondono l’uno con l’altra e si giurano questo “amore” per l’eternità.
Cos’è giurarsi amore per l’eternità?
Mi sento una bambina impacciata ed ingenua, diario, eppure, desidero così tanto sapere cosa si prova ad amare qualcuno. E’ forse lo stesso sentimento che rivolgo al mio popolo? Quello che rivolgerei ad un amico, pur non avendone o quello che donerei volentieri ad un fratello o una sorella?
Una cosa, però, l’ho capita: questo amore di cui parlano tutti, è riservato ad una persona speciale, con la quale ti fondi in tutto e per tutto. Devi poterti fidare di lei, devi poterci litigare, devi graffiarne la carne e farti graffiare, per poi curarle le ferite e fartele fasciare. E’ un insieme di reazioni a catena, reciproche, ad ognuna delle quali corrispondono una e più reazioni.
E’ così complicato l’amore diario! Da come è descritto sembra tanto difficile da far credere che imparare ad amare sia tanto complicato da dover meritare una scuola. Una scuola d’amore, per insegnare questa che sembra tanto simile ad un’arte antica e raffinata.
Eppure ho letto tante e tante di quelle storie anonime delle Terre d’oltremare in cui l’amore è potente, impavido, semplice a tal punto da essere dato per scontato. Però allo stesso tempo è tanto forte da sconfiggere la morte, la guerra, il sangue e il male.
Sarebbe così vantaggioso possedere tutto l’amore del mondo! Purtroppo, però, è una cosa che non si crea e non si elimina, non si respira, non si tocca, non si vende e non si compra. Non puoi vederlo, non puoi sentirlo con le orecchie e assaporarlo con la lingua. Allora, come si fa a capire dov’è l’amore, diario? E’ forse nascosto nelle persone? E’ come quella storia delle Terre d’Oltremare del filo rosso del destino? E’ stata una delle mie storia preferite di sempre, caro diario! Come sarebbe bello trovare un lungo filo di cotone, lana o lino o seta che sia e seguirlo, fino in capo al mondo, per trovare l’amore. Ma allora, dire amore è come dire “persona”? Perché se l’amore corrisponde ad una persona… Sono confusa diario.
Se le persone sono amore, allora perché a Kintou Shuto, mi dicono, stanno progettando un disegno tanto maligno da togliere la vita a tante persone innocenti, privandole delle loro tradizioni, delle mie tradizioni e di tutto il resto? Perché le persone sono cattive? L’amore non è cattivo… Eppure!
Forse l’amore è tanto malvagio tanto benevolo, come una katana. Una katana la puoi usare per tagliare i frutti che cadono dagli alberi o per proteggere un paese, ma anche per tagliare la testa di un povero bambino che non ha nulla a che fare con il nemico che combatti.
Sono spaventata, diario. L’amore è una cosa tanto bella quanto spaventosa, ormai, ai miei occhi. L’altro giorno, ora ricordo, mia madre mi è apparsa in sogno e mi indicò dove trovare delle pergamene che lei stessa aveva scritto per informarmi di come lei e papà fossero morti. Anzi, molto di più: era la loro storia d’amore, breve, passionale ma anche macabra e malvagia, se guardata unilateralmente. Secondo me, le storia d’amore sono una delle cose che più difficilmente si possono comprendere, perché per poterne capire a fondo il significato bisogna entrare nelle teste dei due protagonisti, cosa che neanche i fantasmi riescono a fare. I fantasmi possiedono i loro malcapitati, possiedono il loro corpo e rinchiudono la loro anima da parte, la addormentano, diventando la loro nuova aura provvisoria e maligna. Se il loro malcapitato sarà una persona abbastanza forte da liberare la propria anima, scaccerà presto l’aura buia, al contrario, rimarrebbe prigioniero del demone all’infinito e, anche se si riuscisse a liberare dopo anni, vivrebbe in una realtà distorta che lo porterebbe al delirio e alla morte.
L’amore cosa c’entra con questo, ti chiederai, diario.
Me lo chiedo anche io…
In effetti, non è che abbia molto a che fare con questo argomento, ma se un tale potere passionale ha la forza di far spuntare questi pensieri nella mia mente, allora, è davvero molto potente.
Ho letto le pergamene della storia di mia madre e mio padre, caro diario, ma non voglio parlarne qui.
Mio padre Gesshin era un semplice uomo della Terra Pura, una specie di Samurai. Era in giro nel bosco per rinfrescarsi nel fiume: era lì che incontrò mia madre.
Mi sono sempre chiesta da dove venissero queste strane orecchie da volpe e questa lunga e morbida coda che posseggo. La risposta mi è pervenuta solo l’altro giorno: mia madre era una kitsune.
Purtroppo, essendo uno youkai, sapeva che quella passione e quell’amore a prima vista sarebbero andati a finire nel sangue. Le kitsune, come ben saprai, sono delle creature, degli spiriti che assumono l’aspetto di giovani donne prosperose e dalla bellezza irresistibile o anziane, per attirare l’attenzione di giovani uomini. Il loro aspetto naturale, in realtà, è quello di una volpe, che può avere una o più code, fino ad un totale di nove, a seconda dell’età. Esse, si cibano di esseri umani.
Mia madre era una kitsune in tutto e per tutto, e così mio padre era un mero essere umano. Io sono una mezza kitsune, un ibrido, un essere incompleto, a metà, che non è ne acqua né terra, né fuoco né vento, né kitsune né donna.
Mio padre ha incontrato mia madre con l’aspetto di una donna bellissima dai capelli castani e gli occhi rossi, diversi dalla sua corta chioma nera ed occhi castani. Erano uno l’opposto dell’altra. Il filo rosso del destino ha voluto che mio padre venisse irrimediabilmente attratto da mia madre, così, giorno dopo giorno, si diedero incontro al fiume per vedersi e parlarsi, come quegli innamorati proibiti dei libri romantici. Mia madre Nagisa, così era il suo nome, cercò di seppellire il suo istinto animale pur di non far del male a mio padre, dicendogli idi rifiutarsi di unirsi a lui, perché gli sarebbe costato la vita. Per un primo momento, raccontano le pergamene, andò tutto bene, sia per mio padre che per mia madre. Sfortunatamente, sebbene decisero di volersi sposare, sebbene si conoscessero da appena qualche mese, come due adolescenti ignari ed ingenui, non potettero: uno youkai non può sposare un umano, è impossibile.
La realizzazione di ciò portò mia madre, come per un naturale processo biologico, ad impazzire in preda a quell’istinto che la portava sempre di più a rifugiarsi nei piccoli templi delle danze sacre, per potersi sfamare. Lì, racconta lei, era un tripudio di lussuria, dove spesso le kitsune meno forti e meno “malvage” si rintanavano di nascosto pur di non morire di fame. Lì attiravano uomini impazziti, ubriachi, fuori di senno a tal punto da non poter essere recuperati. Non che la loro vita valesse di meno di quella di chiunque altro, ma per il campare di uno serve il sonno eterno di un altro.
Mio padre Gesshin decise che quella situazione non gli piaceva più, perché non riusciva a sopportare il pensiero di quella che aveva deciso dovesse essere sua “moglie” che si univa ad altri uomini meno che a lui. Dopo lunghi litigi, decise che era disposto a sopportare la morte, pur di amare mia madre e, così, racconta Nagisa, io fui concepita in una torrida ed umida notte estiva, nella quale venne sparso un lago di sangue.
Dopo quel sudore, quella passione e quel desiderio durante i quali mio padre Gesshin le giurò eterno amore, mia madre, purtroppo, non ci vide più. Quell’istinto di fame la corrodeva sempre di più, ancora ed ancora fino a renderla una bestia, un mostro, un’assassina. Pian piano, le mani di mio padre, secondo la sua volontà, si staccarono dai fianchi dolci di mia madre Nagisa, per cadere molli lungo i propri, per terra. Una lacrima gli percorse la guancia e, racconta lei, non urlò quando iniziò a divorarlo.
Pochi mesi dopo, scoprì di essere incinta e sapeva che il figlio era di Gesshin, così, non lo uccise a differenza di come le altre kitsune usavano fare per continuare a mangiare. Mia madre, come mio padre, decise di sacrificarsi per amore della piccola creatura che stava crescendo dentro di lei, che la faceva sentire male ogni giorno, che la faceva indebolire, fino a non permetterle più di camminare, costringendola in un diroccato Tempio: quello dove, una volta nata, lei morì in una pozza di sangue, perché mi amava.
Ho ucciso mia madre.
Il nostro amore l’ha assassinata.
L’amore è sangue, caro diario.
 
 
- Sotto Mille ciliegi
 
 
 
 
Le pagine del libro vennero chiuse pian piano dalle deboli mani di Yoko che, lì inerme e sconvolta, non poteva fare a meno di sentire un leggero brivido per via di ciò che aveva appena letto. Era quasi sera e doveva già tornare all’accampamento. Era arrivata al Tempio tardi perché la via si era stranamente quadruplicata, facendole credere che qualcuno l’avesse fatto apposta per non farla giungere lì. Nonostante la strana circostanza, la ragazza non s’era persa d’animo e aveva camminato per ore ed ore, per alberi e alberi, non riuscendo a vedere un singolo spiraglio di grigio pietra.
E poi quello.
Quel libro… Le prime pagine erano coperte da quella storia sanguinosa e misteriosa tanto quanto l’autrice del diario. Che fosse un’autobiografia?
Nonostante la sensazione di orrore che improvvisamente pervase il corpo di Yoko, la curiosità vinse e prese il sopravvento facendo decidere alla ragazza di scoprire a tutti i costi chi avesse scritto quel libro. Sapeva che sicuramente, avendo nominato Kintou Shuto, questa donna misteriosa, questa mezza youkai sapeva di ciò che stava accadendo lì, in quel momento. A giudicare già dalle prime pagine, gli ordinati ideogrammi tracciati con inchiostro e pennello, erano recenti, non consumati terribilmente come quelli dei frammenti che aveva trovato precedentemente.
La determinazione era la parola stampata nelle pupille castane di Yoko, che, pur sapendo di dover al più presto tornare, prima che il sole tramontasse del tutto, sarebbe tornata a notte fonda per scoprire di più su “Sotto Mille Ciliegi”.
 
 
 
Quella volta, appena ritornata all’accampamento in orario, il generale non le venne incontro correndo per darle una sberla, ma neanche per sgridarla come da copione.
Non lo vide affatto.
Tra i vari soldati che andavano avanti e indietro tra le fiamme delle torce notturne e i progetti sulle mappe mal disegnate, nessuna traccia dei suoi lunghi capelli verdastri. Quei riflessi color della speranza non brillavano tra le fiamme passando loro dietro, tantomeno gli occhi neri si fecero vivi. Dov’era finito? Era una nuova sensazione: paura? No… Piuttosto insicurezza e curiosità fuse assieme, in un misto di ombre che andavano e venivano come spettri tra le tende.
Finalmente, ne riconobbe l’ombra da fuori la tenda del vice. Lì, c’era anche l’altro: sembrava stessero avendo un’animata discussione, soprattutto a giudicare dai movimenti del generale. Heizo era fermo, ogni tanto un’ombra nera che stava per il suo braccio si muoveva in alto come per spiegare qualcosa, ma nulla di più.
Improvvisamente, il subordinato si alzò in piedi velocemente, seguito dal movimento più flemmatico del generale che, anche solo dall’ombra, Yoko riconobbe essere confuso: molto confuso. Forse era delusione, perdita, sconfitta. Non ne sapeva nulla, eppure, poteva percepire le vibrazioni di qualcosa di malvagio provenire da lì dentro. Una forma quadrata, un’oggetto a Yoko tanto sconosciuto quanto noto, era nelle mani del generale: era una radio.
Dopo pochi secondi, Heizo uscì dalla tenda in silenzio, lanciando un’occhiata assassina e impassibile a Yoko, nonostante lei non l’avesse vista, essendo nascosta ad origliare dietro un cespuglio.
Tentò di convincersi a non entrare in quella situazione, a starne fuori e semplicemente vegliare sul generale senza farsi vedere, ma la sua immagine che stava fissa e ferma lì, pensierosa, non la fece calmare affatto. Yoko si alzò di soppiatto, sapendo che in un modo o in un altro Heizo avrebbe tenuto g occhi su di lei, ma nonostante ciò, le sue mani delicate si poggiarono sulla cortina beige della tenda e la scostarono, poi, i suoi piedi toccarono il morbido terreno coperto da un telo, vedendo colui che stava cercando inginocchiato vicino la radio, sconfortato e quasi impaurito.
“E’ permesso… io…”
“Sta’ zitta.” Non se l’aspettava una risposta così flemmatica, molle e piena di rancore. Le bruciò il cuore con quelle poche lettere graffianti e scomode, come un suolo ruvido su cui si è costretti a stare la notte. Intanto, in quella sensazione di morbido, mista allo spiacevole contatto con dei sassi aguzzi, quella sensazione di piacere e dolore, Yoko cercò di ascoltare ciò che poteva.
La prima radio che aveva mai visto gliel’aveva fatta vedere Tori, in una foto, ma non ebbe mai il privilegio di poterla usare, poiché lui le aveva sempre detto che le notizie che correvano tra quegli aggeggi erano troppo violente per lei che era ancora una bambina. Una piccola, grande, forte bambina. Sapeva però come funzionavano, ragion per cui, senza che il generale se ne accorgesse, si avvicinò ed ascoltò le parole che aveva capito avevano fatto star male il capo del regime.
 
 
Passiamo alla tragica notizia che ha fatto capolino anche tra le Terre d’Oltremare, la tragica rivelazione del palazzo del governo di Kintou Shuto… Ecco ciò che era stato scritto sul giornale della Capitale.
Era tardo pomeriggio, forse, quando il vice generale Liang Tian ha fatto la sua orrida scoperta nelle viscere del palazzo del governo di Kintou Shuto. Era in una stanza segreta, racconta, in stato di shock, davanti ai giornalisti del quotidiano della capitale; una stanza che gli era sempre stata nascosta, non dice da chi o da cosa e neppure da quanto tempo. Della tragedia non si conoscono né colpevole, né quando e neanche il perché, ma ne si può solo raccontare il macabro esito finale. “Erano una ventina di corpi” continua il vice generale, sembrando anche piuttosto sospetto se si considerano i trascorsi violenti tipici della capitale dell’isola, “Erano tutti ammassati l’uno sopra l’altro, buttati come carne da macello, mutilati, inzuppati di sangue e senza divise. Non so il motivo per cui li abbiano spogliati, ma non è quello di cui ci si deve preoccupare al momento. E’ tutto troppo strano…” E’ vero: è tutto avvolto in un macabro mistero, come l’allarme che ha lanciato Liang Tian alla stampa una volta scoperti i cadaveri. Una mossa davvero inusuale ed atipica per la dittatura di Kintou Shuto, a quanto dicono i rappresentanti della Terra Rossa. Fatto sta che ogni dettaglio dell’assurda vicenda è coperto da una cortina oscura, ogni particolare è stato volutamente soffocato da quell’orrida immagine di morte. Adesso, le domande sono parecchie, a cominciare da chi abbia commesso tale crimine. Le ipotesi non sono molte, se non assolutamente nulle e al momento non si sa neanche quale sia l’arma del delitto. Si pensa ad una katana o forse ad un pugnale, ma qualunque ipotesi non può essere accertata per via dei pochi indizi sul caso. Il palazzo di Kintou Shuto è scenario di un andirivieni di poliziotti ed investigatori che anche nella città più violenta del secolo, hanno avuto il permesso di poter indagare su tale crimine.
Questo è ciò che dice il giornale della Capitale, radio spettatori. Se solo il generale non fosse partito questo forse non sarebbe successo, ci dice Liang Tian, che ha dichiarato di non voler rivelare i suoi sospetti al pubblico per un motivo di sicurezza. Non si sa se egli conosca l’assassino, o meglio il mostro che ha architettato tutto questo, ma una cosa è certa: la pericolosità dell’individuo porterà a misure di cautela rigide e più che severe più di quanto non lo siano già le altre, a Kintou Shuto, per proteggere innanzitutto il palazzo del governo, scenario del terribile massacro. Le immagini non possono essere trasmesse, purtroppo, come avrete già sentito, ma vi avvertiamo di stare attenti cittadini: una bestia si aggira tra di voi.
E ora passiamo...
 
La voce dell’uomo che parlava nella radio venne interrotta da un segnale di interferenza, seguito dal suono sordo del dispositivo che veniva spento. Gli occhi del generale, da persi nel vuoto, diventarono rabbiosi ed intrattabili, impenetrabili. Quando la ragazza se ne accorse, era già troppo tardi.
“Che cazzo ci fai qui?! Esci fuori! Chi ti ha dato il permesso di entrare in questa tenda, pezzente? Sparisci!” Le ringhiò il generale, con una punta di nervoso nella voce che, forse, secondo lei, nascondeva un velo di malinconia. Eppure, come fa un cuore assassino a provare compassione per un massacro? O forse non era per quello che era ridotto così male…
Fatto stava che la ragazza era stata presa alla sprovvista da una risposta così cruda e priva di tatto, ma doveva aspettarselo, dato che comunque non stava parlando con un suo amico ma con il temibile generale di Kintou Shuto.
Uscendo abbattuta dalla tenda, le campò in aria la decisione di saltare la cena per dormire per poi infiltrarsi nel bosco, alla ricerca del tempio descritto nel diario che aveva letto.
Non le serviva molto come equipaggiamento: solamente un’arma, di cui poteva disporre prendendola dall’armeria in ogni momento, essendo un soldato, l’orologio ed alcuni oggetti d’utilità pratica come una lampada ad olio, una scatola di fiammiferi, una cosa simile ad un piccone e una corda. Tutto questo, l’avrebbe sistemato in un sacco ricavato usando la sua camicia da notte che non serviva a molto: era tanto leggera che anche se avesse dormito nuda, sarebbe stata calda sotto le coperte di lana della tenda.
Yoko aspettò che passasse mezzanotte e che tutte le luci delle tende si spegnessero prima di uscire. Stette attenta per sentire che nessuno parlasse più, pur sapendo che i soldati avevano sempre avuto l’abitudine di avere un orecchio attivo per ascoltare il minimo fruscio di foglie in caso di pericolo. Ma ciò non le importava: avrebbe rischiato.
Scostò delicatamente la cortina e si fece strada tra il labirinto di tende per inoltrarsi nel folto bosco dalla via più buia pur di non essere scoperta. Guardava a destra e sinistra ogni pochi passi, come agli incroci delle strade per non essere investita. Era quasi come se stesse gattonando: era attenta ad ogni minimo spostamento e nel suo cuore poteva sentirsi fiera di aver imparato qualcosa durante gli estenuanti allenamenti al palazzo del governo.
A proposito di quello, non aveva avuto il tempo di pensare alla strage di cui aveva sentito alla radio poco prima, essendo stata distratta dal generale perso nel vuoto. Ora che le veniva in mente, il solo pensiero dei corpi dilaniati tutti ammassati dei soldati, le faceva venire il vomito, così decise di pensare ad altro e ad immaginarsi un bel tempio rosso e bianco nella foresta, pur non smettendo di elaborare quei dati acquisiti via radio. In quei giorni era ricorso parecchio il numero venti: venti soldati morti, venti altrettanto improvvisamente scomparsi dall’accampamento ed altri venti prima erano perfettamente presenti, sebbene la tragedia s’era consumata prima della partenza del generale. Allora come potevano essere spiegate quelle venti persone che ora c’erano e ora non c’erano nell’esercito? Troppi punti interrogativi al momento sbagliato.
La luna era bellissima, un quarto di luna, come nei disegni dei bambini. Bianca, splendente che rischiarava le alte foglie della boscaglia di un bianco bluastro quasi uscito fuori da un libro di fantascienza di cui le aveva parlato Hatori. La incantava a tal punto da farla rallentare e dimenticare di stare attenta se qualcuno la stesse seguendo. In effetti, non s’era neanche curata di nascondere le sue orme nel morbido ed umido terreno notturno. Le piccole gocce bianche negli occhi nocciola di Yoko, ora bluastri per il riflesso della luce notturna del cielo e del satellite terrestre, brillavano sì e no in quella semi oscurità rilassante e silenziosa in cui potevano essere sentiti solo i suoi passi scricchiolanti. Il percorso era leggermente impraticabile a tratti, caratterizzato da tronchi d’albero che spuntavano improvvisamente davanti alla ragazza che per poco non vi ci inciampava contro.
Innanzitutto, doveva trovare un punto abbastanza alto per poter osservare il territorio. Un grande albero sarebbe andato bene, ma i sottili tronchi sicuramente non avrebbero retto il suo peso e già si immaginava lei stessa cadere da un ramo flebile, spezzato, con la schiena a terra, da decine di metri. Piuttosto che rischiare, sperava di trovare un tronco possente o, nel migliore dei casi una magica collina spuntata dal nulla per aiutarla nel suo intento. Purtroppo, non poteva sperare cose impossibili.
Il freddo le penetrava sempre di più nella divisa, sebbene si sentisse a suo agio. In fin dei conti, era un tessuto studiato per le esigenze dei soldati in quel territorio, quindi non c’era da preoccuparsi. Camminando, dinanzi a sé, tra una manciata di tronchi che sembravano strisce di zebra, come quelle delle borse delle ricche signore delle terre d’Oltremare, Yoko scoprì una cosa fantastica: acqua. Non era un fiume, nemmeno un lago, perché poteva vedere degli alberi affondare le loro radici nel liquido azzurro luminescente, sempre a causa della luna. Delle lucciole cominciarono a farsi vive, rendendo l’atmosfera ancora più magica. Il passo della ragazza aumentò di velocità fino a correre a piccoli saltelli. Una volta arrivata in prossimità della fonte d’acqua gelida, rimase a bocca aperta: era una distesa enorme azzurra e limpida, nella cui acqua si potevano distinguere sassi tondi, terreno, piantine e piccoli pesciolini che vivevano chissà come, in solo pochi centimetri d’acqua gelida. Era proprio un velo azzurro, né un lago né una pozza, né una fonte: un velo. Yoko immerse il suo anfibio nel gelido liquido limpido per assaporarne il paesaggio circostante: una radura d’acqua. Ecco come l’avrebbe denominata. Tutt’intorno, si levavano alberi enormi, come gli altri del resto, e, alla destra di Yoko, si stagliavano tre rocce enormi come pilastri che arrivavano all’altezza delle chiome del bosco. Gli occhi le brillarono: da lì, avrebbe visto tutto ciò che avrebbe dovuto vedere. In più, sembrava che la natura le avesse permesso di andare a vanti, costruendole una scala di pietra: una delle tre rocce era alta un terzo della più alta, mentre la seconda due terzi. Erano disposte non in fila, ma come se fossero state le foglie di un trifoglio, ravvicinate ma non abbastanza da non far intravedere gli alberi che completavano il cerchio della radura.
Appena cominciò a correre verso la prima roccia, appena arrivò a metà percorso, sentì qualcosa immergersi nell’acqua.
Sembravano piedi e il rumore proveniva proprio da dietro di lei, ma appena si voltò si rese conto che era troppo lontana dal confine alberato per poter distinguere qualcosa o qualcuno. E se fosse stato un animale feroce? Ingoiando le preoccupazioni, Yoko procedette, sentendo sempre pian piano i suoni dei piedi nell’acqua aumentare di velocità, come se qualcuno la stesse rincorrendo e, girandosi un’altra volta, potette dapprima riconoscere una figura umana con in mano quella che doveva essere una katana, ed un mantello, ma una volta che le si avvicinò un po’ di più lo riconobbe: il mantello non era tale, bensì erano i capelli del generale, che con tutta la sua forza e velocità stava raggiungendo Yoko. Una volta arrivato, le tagliò la strada scivolando sull’acqua, elegantemente, stregando la ragazza con quegli occhi sottili e decisamente arrabbiati.
“Dove credi di andare?”
Yoko sapeva di non dovergli neanche una risposta dall’ultima che le era stata data, brusca e violenta, così, senza pensarci due volte, prese alla sprovvista l’altro e corse verso la prima roccia e vi saltò sopra, aggrappandosi alle insenature con tutta la forza che aveva in corpo. Dei tamburi, flauti di bambù e suoni di travi scricchiolanti marciavano nel suo cuore, dando un ritmo a quell’incontro notturno segnato da un destino. I due abissi neri la fissavano con aria di rimprovero, di rancore, fermi e penetranti.
Yoko sapeva che alla sommità delle rocce, era come se fossero state tagliate, due trasversalmente e una orizzontalmente, creando tre patii di cui due scoscesi. La ragazza, arrampicandosi in cima alla prima roccia, non prima di aver buttato in cima il fagotto svuotato del piccone e della corda, ideò velocemente un modo per poter costruire un rampino, per agganciarlo all’estremità della roccia più alta ed arrampicarvisi. Improvvisamente il generale la prese per il colletto dell’uniforme e la scaraventò giù per tre metri, in acqua, saltando giù. La sua katana era sfoderata e cominciò a brandirla fermamente per colpire con dei fendenti la ragazza che però riuscì ad evitarli. Era molto concentrata, anche se il suo aspetto esteriore da sangue freddo non rispecchiava il caos di domande che aveva all’interno della sua testa. Stava sudando, anche se non se ne accorse e forse fu un bene: il calore rendeva i suoi movimenti più fluidi e pronti e non arrugginiti come se fosse congelata. Gli occhi del generale sembrarono non conoscere pietà, ma non le venne in mente di spiegargli che non stava scappando. Riuscendo a sviarlo con delle mosse repentine e fluide, la ragazza balzò ancora più in alto, raggiungendo arrampicandosi la cima della prima roccia, a sette metri d’altezza dal suolo acquoso. Immediatamente, corse verso la punta della grande pietra dalla base più o meno ovale, per arrivare il più vicino possibile a quella più alta delle tre. La distanza da saltare era inferiore ai tre metri da quel punto e sapeva di potercela fare. In fretta e furia, vedendo che il suo nemico si stava avvicinando, legò il piccone alla corda lunghissima, sperando si fosse agganciato ad una rientranza. Una volta constatato che la corda potesse reggere il suo peso, Yoko la assicurò alla roccia sulla quale si trovava, ad un picco appuntito con vari nodi, legò il fagotto alla schiena e poi saltò.
Con le mani si resse sul cordone, arrampicandosi e facendosi strada mettendo una mano davanti all’altra, reggendo il proprio peso quasi a fatica. Purtroppo, i passi veloci del generale avevano raggiunto la punta della roccia e la sua katana, alzata nel cielo, cadde sul peso di corda, costringendo la ragazza a mantenersi forte per quella caduta. In realtà, non volò giù per sette metri, bensì, come attaccata ad una liana, cercò di virare la traiettoria mortale. Cercò di spingersi verso l’esterno per evitare l’impatto con la roccia e a pochi secondi dalla catastrofe, il suo naso sfiorò miracolosamente un rivolo di polvere argentea ch’era sulla pietra. Un brivido d’adrenalina percorse la schiena della ragazza, che continuando a manovrare quella liana, toccò leggiadramente con la punta dell’anfibio il velo d’acqua, creando due ali trasparenti ed azzurrine con il liquido. Il generale, dalla sommità della pietra, non riuscì a scendere per andare a prenderla, incantato dalla sua abilità dimostrata nell’ardua situazione.
D’altra parte, Yoko cercò di arrampicarsi sulla grande roccia, avendo il vantaggio di avere la corda molto tesa e resistente tra le mani. Sorridendo soddisfatta, mentre le sopracciglia le si incurvarono con determinazione, mosse un passo dopo l’altro i suoi piedi in verticale e verso la sua sinistra, come per descrivere una spirale e raggiungere il rampino, approdato in un’abbondante rientranza. Nel frattempo, il generale, tentò di arrampicarsi sulla roccia dalla media altezza, a mani nude, come poteva, incastrando anche la katana tra l’irregolare disposizione della pietra. Una volta raggiunto il rampino, Yoko lo prese e lo lanciò con tutta la sua forza in cima alla roccia, fallendo un paio di volte. Dopo aver trovato un appiglio sicuro, continuò la sua scalata verso la bassa vetta, quei ventuno metri o forse di più che bramava con una forza di volontà mai vista. Le sue mani, i suoi polpastrelli e palmi le bruciavano, ma questo bruciore contribuiva solo a riscaldarla, mentre i suoi caldi respiri di disperdevano come piccole nubi nell’aria invernale.
In qualche minuto, guardando la luna splendente, giunse sulla tanto agognata cima della roccia. Asciugandosi il sudore sulla fronte col dorso del braccio e poi della mano, sorrise per la vittoria: finalmente, aveva dimostrato che se qualcosa la voleva, poteva averla, anche se fosse stato impossibile all’apparenza.
Improvvisamente, mentre Yoko stava scrutando il paesaggio, dei rumori di sassi trascinati via le fecero ricordare di non essere sola. Quando si girò, la chioma verdastra del generale si fece viva dietro l’orlo della roccia e fu lì che la ragazza ebbe un sussulto.
“I salti sono sempre stati una delle mie specialità.” Un ghigno apparve sul suo viso quando velocemente si tirò sulla superfice della roccia e a quel punto Yoko, senza pensarci due volte, prese la katana, la sfoderò e si mise in posizione di difesa, preparandosi ad affrontare quel fendente in corsa che arrivava veloce verso di lei, accompagnato dai soliti tamburi che andavano tanto veloci quanto impetuosi nel suo cuore. I flauti di bambù davano un’atmosfera magica alla situazione nella sua testa, ma non era nulla di più che una danza mortale di spade.
Illuminati dalla luna, fendenti parati formavano croci ed ‘x’ attraverso le quali due occhi pieni di fiamme diverse ardevano e s’incontravano, combattendo una guerra di sguardi, uno più potente dell’altro e viceversa. Con la sua forza, Yoko spinse via il generale, ma non si limitò a parare i colpi, passando al contrattacco: quella sarebbe stata la sua rivincita per la lotta col bastone, per la risposta brusca e per l’addio a Tohma e tanto altro. Quella violenza  che forse nascondeva qualcosa del tutto diverso, quei colpi che brillavano, le schivate, le scivolate sotto la luna che guardate da lontano sarebbero sembrate piccole lucciole bianche che luccicavano ogni tanto nell’oscurità azzurra.
I piedi di Yoko corsero per un ultimo colpo, mentre lei, sudando dalla fronte, non vide il volto serio del generale che si spostava di lato dando spazio ad un panorama di morte: il precipizio. Tentò di frenare, ma il peso, l’inerzia della corsa, l’adrenalina, non potevano salvarla. Purtroppo, sarebbe caduta.
Sarebbe caduta, se una mano calda non l’avesse fermata sull’orlo dello strapiombo, tenendola per una manica, poi, buttando via la katana, per l’addome. Quella stessa persona la girò, s’abbassò su di lei per fissarla seriamente negli occhi. Nero contro nocciola. Rabbia contro adrenalina e paura, ma anche ingenuità. Freddo contro caldo. Assassino contro angelo. Fiato contro fiato. Nero contro nocciola.
Violentemente, labbra contro labbra.
I tamburi sfumarono come in una danza sacra.








   
 
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