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Autore: G K S    30/06/2015    2 recensioni
Agorafobia, demofobia, acluofobia, sociofobia, fobofobia, agyrofobia.
Queste sono tutte le facce di Kell, tutti i suoi demoni, tutte le sue fobie.
L’unica cosa che ha sempre potuto fare è resistere, contro ogni convinzione e anche contro il suo stesso volere, ha quasi diciassette anni e l’unica cosa che vorrebbe fare è vivere.
E dove finisce? Beh, il Quattrocentoventisette è un istituto correttivo per ragazzi affetti da fobie, proprio come lei. Troverà Cecely, Victor e anche Jeh, il fantasma del suo passato, il ragazzo sfigurato con l’occhio di vetro che non ha mai dimenticato e le cose per lei non sembrano andare troppo male...
Solo che le cose non sono esattamente come sembrano, anzi, le cose in realtà sono ancora più complicate di quelle che sono...
Genere: Introspettivo, Romantico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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salve a tutti, spero che lo scorso capitolo vi sia piaciuto, in questo ci sarà
qualche emozione forte per così dire eheh ma non voglio anticiparvi niente
buona lettura e ci vediamo la prossima settimana con il prossimo capitolo.
Se voleste lasciare una recensione sarei felice di sapere cosa pensate degli sviluppi xoxo








 
 






18. Lo sconcerto dell'ombra 




«Ma perché?» Anluan lasciò la mano di Itsuko per sedersi insieme a loro al solito tavolo in sala da pranzo, isolato proprio come necessitava essere.

«Danni fisici e morali nei confronti di Cat, dicono che è stato lui a istigarla al suicidio per dispetto ai genitori che non potevano più pagare la retta, si vocifera che per far fare l’esame a Catherine i suoi abbiano minacciato di raccontare la verità su questo posto e così Rang l’avrebbe…»

«Ed è vero?» Kell lo guardò torcendosi le mani, forse Emeric non era uno di quelli che potevano saperlo ma valeva la pena tentare: «E’ vero che i suoi hanno minacciato di spifferare la verità?»

«Non lo escludo.» Dichiarò Emeric scatenando il panico.

«Ma è una follia.» Esclamò Itusko sconcertata scambiandosi sguardi atterriti con Anluan.

«Prima ho parlato con Lucy Fitzvellian.» Disse Emeric, Kell lo esortò a continuare e i suoi occhi verdi saettarono verso di lei: «Sua madre vuole telefonare ai genitori di Cat, mi farà sapere non appena saprà qualcosa, Lucy era un po’ restia a rivolgermi la parola, come al solito, ma alla fine l’ho convinta.» 

«Come mai lei ce l’ha tanto con te?» Chiese Kell, assaporava già l’idea di Cecely gettata a capofitto in quel mucchio di novità e cercò di mettere in difficoltà Emeric per arricchire il piatto.

«Suppongo sia perché crede che io abbia spinto di sotto Cat.»

Anluan alzò le sopracciglia ad ala di rondine all’unisono: «Che assurdità.» 

«Già.» Fece lui: «Davvero un’assurdità.»

La cosa non la sorprese ma notò sul viso di Emeric un sorriso quasi assopito, come se fosse sul punto di ridere ma al contempo non avesse alcuna intenzione di farlo. 

Kell smise di spiarlo. L’ipotesi che Rang, il loro sfuggente e fuggevole dirigente avesse voluto spingere Catherine a suicidarsi per vendicarsi solo perché i suoi l’avevano dovuta rimuovere dalla scuola per mancanza di soldi era a dir poco allettante, avrebbe significato inquadrarlo come uno psicopatico in piena regola. Tutto sommato l’idea di un dirigente psicopatico in un istituto che avrebbe dovuto aiutare ragazzi psicopatici non era affatto male, avrebbe fatto scalpore e per quanto irrealistico sarebbe stato facile far chiudere l’istituto con Rang dietro le sbarre.

«Se Rang l’avesse istigata davvero sarebbe meraviglioso.»

Vide Emeric scurirsi in volto, scosse la testa e sorrise lievemente, agguantò la forchetta con la mano sinistra si mise in bocca un boccone di carne, masticò silenziosamente, nessuno ebbe il coraggio di aggiungere altro fino a quando lui non inghiottì.

«Hai ragione, sarebbero costretti a sbaraccare.»

Anluan e Itsuko si guardarono, i loro piatti erano ancora intatti, assentirono anche loro, avevano ragione.

«Sarebbe davvero un peccato se qualcuno lo incastrasse… e ora scusatemi un minuto.» Si alzò in piedi con aria di scuse: «Lucy mi sta chiamando, torno subito con le novità.»

Non appena si fu allontanato a sufficienza, anzi, non appena lo vide sedersi accanto a Lucy circondata da un gruppo di facce non troppo sconosciute Anluan aprì bocca: «Sta cominciando a capire a che gioco stiamo giocando.»

Kell si infilò le mani nella tasca della felpa azzurra, in lontananza vide Sibille mettere un braccio intorno alle spalle di Jeh, un brivido freddo lungo la colonna vertebrale interruppe per un secondo i suoi pensieri: «Ti sbagli, ha capito perfettamente a che gioco stiamo giocando.»

Itsuko sprofondò nella sedia scuotendo la testa come se le mancasse la voce per commentare la verità che aveva appena detto.

«Questo può significare solo due cose: 

a) vuole essere scoperto perché si sente in colpa. 

b) vuole mettere nel sacco il colpevole.»

«Hai anche una terza opzione?» «No.» Rispose Kell, vide Victor e Cecely arrivare defilati, avrebbero dovuto spiegare tutto anche a loro…

«Ma in entrambi i casi vuole che sia fatta giustizia.»




Quel giorno la Strins era particolarmente agguerrita, dopo una settimana di buio profondo in cui a malapena si era presentata a terapia entrò in classe con la bombetta con tanto di linea di velluto rosso, Kell capì all’istante che perlomeno qualcosa sarebbe tornato alla normalità.

«Viviamo in un mondo di folli ragazzi miei.» Scoccò un’occhiata indagatrice ad un paio di ragazzi e poi prese posto all’interno del cerco, proprio in mezzo a Kell e Jeh, come sempre.

«Avrete saputo, i genitori di Catherine Yeferson hanno denunciato Rang alla polizia per istigazione a suicidio/omicidio. Davvero una scelta oculata non trovate?» Qualcuno nel cerchio bisbigliò: “ma allora è vero” un paio di volte poi il silenzio si fece improvvisamente assordante, la Strins era visibilmente furiosa e Kell poté solo ringraziare il cielo che quel giorno non avessero terapia di esposizione da acluofobia.

«Come se non avessimo abbastanza problemi in questo posto infernale, ci mancava solo il dirigente sotto denuncia.» Scosse la testa: «Rifletteremo sull’importanza della verità quest’oggi che ne dite?» Nessuno osò proferire verbo: «Se proprio deve succedere un pandemonio qui dentro tanto vale che sia per la verità, atteniamoci al tema: oggi dovrete dire la verità.»

Kell non si scompose, vide Jeh non cambiare neanche lontanamente espressione apatica e questo la rincuorò.

«Vi conoscete tutti, ognuno di voi ha mentito almeno a una persona qui dentro, voglio darvi la possibilità di redimervi, la bugia peggiore che avete detto fissatevela bene in mente, oggi direte la verità davanti a me e questa persona, in modo da fare finalmente giustizia su voi stessi.» Qualcuno sussultò, la Strins strinse il blocco degli appunti tra le mani ossute, sorrise: «Avanti, componete le coppie.»

E le coppie si composero, il familiare rumore delle sedie trascinate sul pavimento la riscosse dai suoi pensieri, in quel momento particolarmente opprimenti. 

Jeh non si era mosso; portò la sua sedia davanti a quella del ragazzo con l’occhio di vetro, lui aveva l’espressione grave, seria e nient’affatto distesa di quelle settimane stampata sul viso fermamente impassibile.

«Io non ti ho mai mentito.» Per quello che poteva valere era senz’altro la verità, non aveva mai mentito a Jeh e non aveva mai avuto intenzione di farlo. 

Il suo occhio grigio mortalmente bello era l’unico colore sul suo viso, si immaginò Jeh davanti allo specchio, a cercare di immaginarsi diverso, completo, non rotto, mettendosi una mano davanti alla parte di volto scalfito guardandosi come sarebbe dovuto essere. Non pensarci si disse, sebbene non fosse la prima volta che sentiva quell’idea premerle contro la scatola cranica.

«Ho avuto difficoltà a dirti la verità ma non ho mai mentito, ci sono cose che non riesco a dirti sì certo, ma non ti ho mai mentito.» 

«La Strins non accetterà questa tua dichiarazione quindi cerca di inventarti qualcosa.»

«Cosa dovrei inventarmi Jeh?»

«Quello che vuoi, sinceramente non mi interessa.»

Avrebbe voluto tapparsi le orecchie: «E tu?»

«Io cosa?»

«Tu mi hai mai mentito?»

Non diede segno di averci minimamente pensato sopra: «Sì.»

A Kell non stupì la sua risposta, la stupì il modo in cui lo vide guardarla, come se fosse assolutamente ovvio, come se lei fosse cieca e non riuscisse a vedere la realtà celata davanti ai suoi occhi.

«Avanti Kell, dicci.» La gamba destra della Strins ricoperta da un sottile strato di calza nera era pericolosamente vicina a quella di Jeh e naturalmente la cosa non faceva altro che metterla in ansia come tutto il resto d’altronde.

Avrebbe tanto voluto sbatterle in faccia la verità, e cioè che lei non aveva mai mentito a Jeh perché non aveva mai avuto bisogno di farlo in nessun caso, ma gli avevano dato sufficiente tempo per pensare e sapeva bene quanto la Strins fosse una pessima nemica, ora li minacciava tutti perché in pericolo pareva esserci nientemeno che Rang in persona, era chiaramente fuori di se o meglio l’avrebbero vista fuori di se se non avessero abbassato la testa in silenzio.

Ne avrebbe approfittato per dire un’altra verità celata che non poteva più trattenere, inevitabilmente ne sgusciò via: 

«Ti ho fatto pensare che questa storia di Sibille fosse un’imposizione e basta, che dovessi farlo senza replicare perché è questo quello che ci aspettavamo da te ma ho mentito. 

Ho mentito perché dovevo… darei qualsiasi cosa per far tornare tutto com’era prima e anche se capisco perché tu non voglia farlo è giusto che tu lo sappia. Non ho mai voluto che lo facessi, avrei preferito gettare chiunque nelle sue grinfie ma non te, vedo il modo in cui ti guarda e lo odio con tutta me stessa. Lascia perdere quello che gli altri vogliono che tu faccia, lascia perdere e lascia Sibille a se stessa, per una volta pensa a ciò che vuoi e fregatene degli altri, per me ha perso significato, non significa più niente se fa stare male te.»

«Okay.» Disse la Strins, annuì, aveva l’aria di una a cui non importa assolutamente niente delle sue parole sofferte, e forse per questo la sua presenza la rassicurava, scrisse un’appunto veloce sul suo taccuino a poi passò la parola a Jeh senza lasciare intendere che gliene potesse importare qualcosa di quello che lei aveva appena detto. 

Intanto lui non si era praticamente mosso se non per alzare lievemente l’occhio grigio verso di lei. 

Parlare davanti alla Strins non l’aveva messa troppo a disagio ma Jeh, lui aveva aperto bocca, forse aveva anche sillabato una parola ma non era uscito niente, neanche un suono, niente di niente, e ora era lì, che non riusciva a parlare e lei aveva solo voglia di mettersi a gridare.

Guardò la Strins nella speranza che capisse, lei neanche la degnò di uno sguardo, si alzò in piedi, lanciò un’occhiata disgustata a Jeh e disse tranquillamente: «Sei senza speranza.» E se ne andò via, passando a un’altra coppia senza dire niente a Kell, lasciandoli nel vuoto profondo.

«Hai ragione.» Disse Jeh, schiarendosi la voce, d’improvviso guardandola dritto negli occhi, andata via la Strins aveva in fretta recuperato l’uso della parola, in modo quasi istantaneo anche se la rabbia era la stessa di prima: 

«Lo ammetto, ho mentito, non voglio continuare, farei di tutto anch’io per non continuare questa storia, lasciarmi tutto alle spalle facendo finta che niente fosse successo ma resta il fatto che se smetto niente di quello che ho fatto ha avuto senso, se smetto Nikki torna alla carica e avrò sulla coscienza l’orgoglio ferito di quella stupida di Sibille.» Lo disse con disprezzo guardandola aggrottare le sopracciglia spremendosi le meningi per trovare una soluzione ma Jeh era già al punto dopo.

«Lei vuole solo mettersi con me.» 

«No, non devi…» Kell tentò subito di frenarlo ma non ci fu nulla da fare: «Sì invece, è l’unico modo per portare avanti questa storia, altrimenti si renderà conto che la sto solo usando, forse ha già capito che non sono semplicemente un sociopatico, non lo so, ma questo è quello che farò, posso sopportarlo, ho sopportato di peggio e ho deciso.» Alzò le spalle, spalle di ghiaccio, in uno scatto quasi involontario, d’odio: «Ti rendi conto che è l’unica cosa da fare vero Kell?»

«Mi rendo conto.» Fù costretta ad ammettere lei: «Ma non devi, non sei obbligato, possiamo inventarci qualcosa, possiamo…» Jeh non mosse un muscolo: «Non possiamo fare niente.»

Kell strabuzzò gli occhi, un brivido le corse lungo la schiena: «Non dovevi dirmelo, se non ti interessa il mio parere, se non vuoi ascoltarmi allora non dovevi dirmelo.» Si alzò in piedi lo guardò scuotendo la testa, era a dir poco incredula, improvvisamente si era resa conto di avere le sue ragioni per poter stare male esattamente come lui e soprattuto che non voleva stare lì a farsi ignorare da Jeh.

Lui la guardò stringendosi le mani le une nelle altre: «Non dovevo dirtelo? Perché, sostanzialmente, sinceramente Kell, a te che cosa cambia?» 

Sentiva una specie di blocco in gola crescere di secondo in secondo, rimase a guardarlo, la cicatrice dritta e inflessibile non produceva ombre a quella luce, giusto il tempo di rendersi conto di quello che stava per accadere.

Sgusciò via, raggiungendo la Strins, dicendole che non si sentiva bene e doveva andare, la sentì assentire, scappò via, senza che nessuno le impedisse di andarsene e così non appena riuscì a varcare la soglia della classe di terapia e sentì la porta chiudersi alle sue spalle lasciò che il singhiozzo dolorosamente strozzato  che stava respingendo fuoriuscisse dalla sua bocca.




Emeric stava seduto davanti a lei sul suo letto, a gambe incrociate; le stava ripetendo la lezione di storia su cui il giorno seguente sarebbe stato interrogato ma Kell non riusciva a seguire davvero il suo discorso.

Era troppo impegnata a pensare a Jeh.

Ed era troppo indaffarata a cercare di distrarsi pensando al fatto che Rang fosse sotto denuncia e al fatto che la Urlink le aveva mandato un messaggio in cui le diceva che ora avevano tre sospettati invece che due. Si chiedeva come avessero potuto non pensarci affatto, dopotutto l’idea di incolpare l’istituto di ogni cosa sarebbe stata decisamene la cosa migliore da ogni punto di vista. Significava la chiusura dell’istituto praticamente certa ed era proprio quello che volevano e lei non voleva arrivare alla conclusione che fosse stato proprio Emeric, il ragazzo con gli occhi verdi di nuovo brillanti che amava quella povera ragazza morta.

«Kell, Kell mi stai ascoltando?» Alzò improvvisamente gli occhi dal libro e lo guardò, gli sorrise sforzandosi di sembrare tranquilla.

«Certo.» 

«Non è vero.» 

Il suo sguardo severo la fece ridere anche se un secondo dopo sentì il sorriso spegnersi da solo.

«E’ per Jesse o per la storia di Rang.»

«Per entrambe le cose.»

Emeric sorrise sentendola rispondere in quel modo: «So cosa state facendo, non credere che non lo sappia.»

«Non ho mai detto il contrario.» Non si lasciò prendere dal panico, farlo avrebbe voluto dire mentire a se stessa, sapeva che Emeric non era uno stupido, tutt’altro.

«Non siete troppo lontani dalla verità… forse dovreste solo allagare un po’ di più la vostra visuale.»

Kell annuì pesantemente, ora si che c’era panico.

«Tu sai chi è stato.»

Quando vide Emeric annuire si sentì mancare il soffitto sulla testa: «Sì, so chi è stato, so come ha fatto, so con che mezzi, so perché, io so tutto.»

Gliel’aveva già chiesto in passato: «Sei stato tu?» 

Emeric alzò le spalle: «Potrei essere stato io, non devi essere triste pensando a questo.»

«Non sono triste, le persone sbagliano, deve essere fatta giustizia.»

Vide Emeric scuotere la testa: «Vi fa onore, cercare di salvare tutta la scuola sacrificando una sola persona.»

«Ti sbagli non lo facciamo per questo.»

«E perché allora?» Domanda retorica da parte del ragazzo: «Lo fate perché nessuno pensa di essere al posto giusto chiuso in una gabbia, e lo capisco, ma non sempre le cose sono come sembrano, questo concetto non vi entra in testa e mentre voi cercate un assassino non sapete cosa potrebbe esserci sotto, grattando un po’ di più.»

Era così vicina a una denuncia o a una confessione che quasi le sembrò di riuscire a scorgerla negli occhi verde speranza di Emeric. «Cosa può esserci sotto un’assassino?»

«La verità.»

«La tua verità?» Emeric si stirò le braccia nonostante il fatto che fosse visibilmente in ansia, anzi, forse proprio perché era in ansia: «Probabilmente sarebbe la mia in ogni caso.»

Kell gli tolse il libro di storia aperto sul suo grembo e lo chiuse bruscamente: «Ascolta Em, in questo momento mi sto rendendo conto di un sacco di cose che non avevo considerato, mali stupidi e immotivati che sinceramente non credevo avrei provato nuovamente allo stesso modo, ed è una cosa che detesto perché potrei perdere più di quello che ho e non è mai una bella cosa per una sociopatica come me.» «Non sei una sociopatica.» Tentò Emeric con uno sguardo esagitato negli occhi.

«Sì che lo sono ma lasciami spiegare. Ho coniato io il piano, io ho deciso che dovevamo mettere nel sacco l’assassino di Catherine, il sottinteso era ovvio, così facendo questo posto avrebbe chiuso. Si fidano di me, fanno quello che io dico loro di fare e tu lo sai, sulla mia parola possiamo assicurarci la verità. Ora come ora, posso persino decidere io come sono andate le cose, sai perché?» Emeric scosse la testa, non capiva dove volesse arrivare con il suo discorso: «Ci siamo solo tu e io qui e nessun altro ad ascoltarci, possiamo metterci d’accordo Em, possiamo parlare, possiamo decidere prima cosa dire agli altri, possiamo decidere che è stato Rang e incolpare Rang e far chiudere questo posto e smettere di prenderci in giro a vicenda visto quanto questo sia inutile, ma sta a te.»

Emeric annuì distrattamente, capiva il suo discorso, voleva ascoltarla parlare, era come se non avesse aspettato altro, ora si stava preparando a dire quello che sapeva di dover dire per chiudere quel discorso, ora c’era un accordo basato sulle menzogne che si stava ergendo davanti ai suoi occhi ma solo perché lei lo voleva e lo desiderava.

«Sei stato tu?»

Lui alzò gli occhi verso di lei, sorrise, i suoi denti bianchi perfettamente dritti la prima volta l’avevano quasi inquietata, ora le parevano candidi, veri, inequivocabilmente Emeric.

«Sono stato io.»

Si passò una mano sulla faccia, la cosa le ricordò Jeh anche se Emeric non lo faceva come se volesse nascondersi, ma come se volesse mostrarsi grattando via la superficie.




Passarono i primi minuti in silenzio a guardarsi, valutandosi a vicenda, per la prima volta allo scoperto Kell si vedeva a osservare l’assassino di Catherine con i suoi occhi da sveglia.

«Durante il suo interrogatorio  Lucy ha detto qualcosa che mi ha colpita. Me lo sono scritta qui parola per parola.» Gli mise in mano il suo blocco per gli appunti, Emeric lo lesse con attenzione, ad alta voce nonostante il fatto troppo agitato per leggere speditamente, per la prima volta Kell riuscì a sentire il suo velato accento francese: «Se Rang non avesse voluto fare questa specie di regalo ai genitori di Cat a causa di questi tre anni di pagamenti ineccepibili forse a quest’ora non staremo qui a parlarne, per Rang Cat doveva uscire da questo posto mentalmente pulita, priva da strane fobie – che non aveva – da spiegare in giro, per questo hanno voluto farle fare il test e si è alzato un polverone indicibile, nessuno usciva da questo posto quattro mesi prima della fine della scuola da quando Rang è diventato dirigente, e poi inspiegabilmente Catherine fallì quel test, ve lo ricorderete, Nikki le aveva messo addosso un’ansia indicibile, Rang forse ci aveva ripensato, non lo so…»

Emeric tentò di sorridere ottenendo una smorfia stentata: «Hai intenzione di attaccarti a questa frase?»

«Potrei.»

«E’ un’ottima idea Kell.»

«Davvero?»

«Sì se ci aggiungiamo una storia credibile.»

«Ho delle idee.»

«Parla.»

«Lo sto già facendo.»




Rang era una persona viscida fin da quando era arrivato al Quattrocentoventisette le cose erano cambiate, lo sapevano tutti, non sapevano fino a che punto, non potevano sapere quanto Rang fosse la radice malata ne quanto potere aveva in mano.

Rang aveva spiegato tutto a Emeric e a Nikki, ogni cosa, quando i genitori di Catherine gli avevano detto di non poter più parare la retta l’avevano convinto a fare un bel gesto… l’unico della sua carriera, ma poi se n’era subito pentito. C’erano lamentele da parte dei genitori a cui in passato aveva detto di no nonostante avessero i soldi, professori in difficoltà, incapaci di spiegare perché un’alunna su cui puntavano il dito ora era magicamente guarita, gli alunni stessi, centro pulsante del problema odiavano l’idea che Catherine la ricca ragazza bionda aveva offerto una cifra così alta da poter uscire prima di tutti loro. Troppe chiacchiere, uno uomo solo  non poteva contenerle tutte ma fino a quando Catherine non fosse andata via poteva resistere; e poi, la ragazza chiedeva di poter finire l’anno sfuggendo alle occhiate dei suoi compagni più rancorosi e si era ritrovato a reggere sulle sue spalle il peso del fatto che dall’esterno sarebbe sembrato come se lui, Rang, avesse abbassato la testa, piegandosi ai troppi problemi, troppe chiacchiere.

Aveva incaricato la guardia notturna di sorvegliargli, niente era permesso davanti alla Patricks, temuta e più che ben pagata, ora le chiedeva di chiudere entrambi gli occhi. Anche nella speranza che la sua reputazione potesse essere un segnale per la polizia impossibile da ignorare e segretamente abbastanza forte da accusarla…

Il piano di Nikki alla fine le si era ritorto contro perché negli ultimi tre giorni di vita della ragazza Rang li aveva avvicinanti, convocandoli nel suo ufficio, aveva detto loro che se non avessero fatto ciò che lui stava per dire loro sarebbero stati espulsi, per essere mandati in un vero ospedale psichiatrico, causa, follia recidiva. 

Avevano dovuto trovare una scusa per convincere Catherine a venire fuori, sul balcone quella notte mentre la Patricks era voltata da un’altra parte, la scusa che Nikki aveva trovato era l’ultima chance, Emeric le dava un’ultima chance, lei non poteva sapere quello che sarebbe accaduto ne cosa la attendeva e così cadde nella trappola.

Sul tetto, nascosto, c’era anche Rang, avrebbe di certo voluto che loro facessero il lavoro sporco al posto suo, che uno dei due spingesse Catherine di sotto e loro gli avevano detto che l’avrebbero fatto, avevano giurato.

Ma anche loro avevano un piano e nonostante quello che avevano passato non avrebbero mai permesso che Catherine facesse quella morte ingiusta.

Davanti a Catherine ormai chiusa fuori dall’istituto insieme a loro avevano smascherato Rang mostrandole che lui era lì.

Speravano che ci ripensasse, che non avesse davvero la forza di spingere Catherine di sotto, ma lo fece, lo fece e la loro vita in quell’istante di immobilità cambiò per sempre, sapevano cosa li attendeva se avessero parlato.

Li aveva fatti rientrare, se n’era andato, Nikki era corsa in camera in preda al panico più totale, Emeric era sceso di sotto, spezzato in due da dolore di quel corridoio senza uscita, così era iniziata e così era finita.




Cecely era seduta ripiegata su se stessa, le gambe fasciate dagli stivali col tacco stringati, la mani poggiate sulle ginocchia e la testa in mezzo, quella strana posizione la faceva sembrare quasi una ginnasta. 

Ad un tratto dopo un paio di minuti dopo averla sentita spiegare la piccola ragazza aprì finalmente bocca: «Una conclusione: non era in alcun modo quello che mi sarei aspettata di sentirti dire.» Si alzò in piedi, traballò per la stanza e andò a sedersi sul letto vicino a Victor che annuì non appena sentì che lei gli aveva preso la mano: «No Cely okay non ce l’aspettavamo, ma è il meglio che potesse essere successo, dobbiamo incastrare Rang niente di meglio.» La rassicurò Victor. «Già.» 

Kell abbassò lo sguardo sul suo blocco degli appunti, scoccò un’occhiata di soppiatto a Anluan e Itsuko che seduti in poltrona non avevano ancora aperto bocca.

Poi, superato lo shock iniziale le chiesero se avesse già informato la Urlik, lei rispose che sì l’aveva fatto e che quello che dovevano fare adesso era far confermare Nikki, convincerla a testimoniare visto che Emeric ora aveva tutte le intenzioni di farlo. Insomma, dovevano lentamente smontare lo schema e rimettere tutto in ordine.

«Io ancora non riesco a crederci.» Sillabò Itsuko: «Ero praticamente carta…» «Il racconto di Emeric non fa una piega, o almeno non come lui me l’ha raccontato, credetemi, se ci fosse stato lui qui a raccontarvelo non avreste avuto il minimo dubbio.» Kell vide Anluan scuotere la testa alle sue parole: «Nessuno mette in dubbio il tuo giudizio Cellach, solo che devi ammettere che molto, se non tutto quello che abbiamo fatto è stato in funzione della sicurezza che l’assassino si nascondesse in Nikki o in Emeric, dobbiamo letteralmente radere al suolo tutto.

Lavorare d’astuzia con Nikki e Emeric per incastrarlo, è semplicemente…» Anluan si interruppe, come se si fosse ricordato all’improvviso di un particolare prima messo da parte: «L’hai detto a Jeh? Può lasciare perdere Sibille adesso, Nikki ci serve, deve tornare da noi.» Kell annuì e disse: «Non gliel’ho ancora detto, lasciate che sia io a farlo.» «Certo.» Victor alzò le spalle di risposta ma poi sembrò ripensarci: «Probabilmente si arrabbierà, sei sicura di volerlo affrontare da sola?»

«Sì.» Stava mentendo, d’ora in avanti se voleva mettere la parola fine a quella storia mentire sarebbe stato all’ordine del giorno. L’aveva fatto anche per Jeh, per farlo evadere da quella prigione invisibile, loro non avrebbero mai scoperto la verità, non era necessario che la scoprissero purché quel posto venisse chiuso.

Probabilmente se avessero continuato per la strada precedente non sarebbero mai riusciti a incastrare il colpevole, Kell aveva insistito ma l’unica cosa che aveva ottenuto da Emeric quando l’aveva pregato di raccontare la vera verità era che sia lui che Nikki erano lì quella notte e poi lui aveva spinto di sotto la ragazza che amava e odiava.

Con quelle poche parole come incastrarlo? Era impossibile. 

Non portava neanche il registratore addosso quindi non potevano neanche appellarsi a quello; Emeric era furbo, le aveva detto che non avrebbe ripetuto neanche una sola parola della vera verità dopo quel pomeriggio, mai più.

«Benissimo.» Sussurrò Anluan: «Itsuko andiamo a recuperare Nikki e Emeric, dobbiamo parlare tutti insieme.»

Kell sapeva che non avrebbero trovato la ragazza ma rimase zitta, sapeva che ora Em stava raccontando a Nikki del nuovo piano in un posto sicuro e lui le aveva detto che sarebbe stata contenta e non poteva fare a meno di credergli.

L’aveva cercato in camera sua, in camera di Sibille persino – in nessuno dei due casi bussando aveva ricevuto risposta – e anche sotto, in lungo e in largo ma quella sera Jeh sembrava essersi volatilizzato.

Era tornata nella sua stanza stremata senza essere riuscita a mettere sotto i denti neanche due foglie d’insalata, sentiva un enorme peso nel petto, niente di accostabile al fatto che stesse mentendo a tutti, miracolosamente non riusciva a sentirsi in colpa, anzi, era quasi una liberazione sapere chi era l’assassino e anche chi era meglio accusare.

Aveva preso un altra decisione da sola. No… era in quello stato di esagitazione perché non vedeva Jeh da quel pomeriggio a terapia, ancora peggio, non vedeva neanche Sibille da quanto l’aveva vista portarsi via Jeh quello stesso pomeriggio, quindi sicuramente erano insieme e lei doveva fare qualcosa, doveva ma non poteva. Era già notte, non sapeva con che coraggio di sarebbe messa a letto sapendo che non avrebbe chiuso occhio. Era in quello stato, pressoché vicina all’idea di lasciarsi prendere dal panico quando vide Jeh entrare in camera sua, traballante, inceppato in se stesso com’era Jeh la prima volta che l’aveva visto, con la gola stretta da entrambe le mani, dalla sua bocca provenivano suoni strozzati, sibili sordi, era fragile come non lo vedeva da mesi, era assolutamente scioccato come se l’avessero appena picchiato ma non con le mani. Raccontava se stesso, pallido come un cadavere, l’occhio bianco lievemente velato di lacrime di sangue le fermò respiro in gola, era successo qualcosa di grave. Si era accasciato contro la porta, praticamente svenuto e Kell non era riuscita in alcun modo a rimanere calma: «Che cosa ti ha fatto?» Forse aveva gridato, forse l’aveva ripetuto altre sedici volte, o forse no. Guardarlo tremare era la cosa peggiore che avesse mai visto nella sua vita, evocava terrore, se n’era accorta fin dalla prima volta in cui l’aveva visto in quello stato, raccontava la muta disperazione di chi non riesce a parlare e tremando completamente, con gli occhi, con le mani, con le braccia, con le gambe, con i denti, si muoveva a scatti come se potesse spezzarsi in due da un momento all’altro, fuori controllo, fuori di se, fuori se stesso. 

Anche le mani di Kell avevano preso a tremare, aveva raggiunto il porta pillole che portava agganciato al collo e ripiegata leggermente su Jeh nel tentativo di infondergli contatto umano era riuscita a estrarre una pillola con una mano sola. Con quella stessa mano, senza lasciarlo per un secondo aveva cercato di infilargliela in bocca o almeno tra le labbra, le aveva toccate con le dita, erano corpose, morbide e fredde ma non appena lui se ne era reso conto aveva cominciato a digrignare i denti stringendo gli occhi convulsamente, aveva lasciato cadere la pillola sul tappeto.

La cosa peggiore era essere impotenti, impotente di fronte alla verità che prima di entrare al Quattrocentoventisette lo era stata davvero.

Forse doveva andare a chiamare qualcuno, la testa di Jeh finì sul tappeto nuovo di zecca che sua madre le aveva portato la settimana prima, cercò di rassicurarlo sussurrando parole e stringendogli le spalle, lui non la respingeva, non opponeva resistenza, ora cercava di abbracciarlo, o almeno frenargli i movimenti con le proprie braccia ma era tutto inutile, era debole anche lei e doveva reprimere l’istinto di scoppiare in un attacco di panico, un attacco senza paura ma per la troppa paura. 

Lui era andato da lei perché voleva che fosse lei, aveva retto fin fuori dalla sua porta poi aveva smesso di combattersi e si era accasciato a terra, sapeva che lei non l’avrebbe giudicato per quello che era o… non lo sapeva, tutto quello che voleva era riuscire a calmarlo, parlargli.

«Jeh.» Disse dopo un po’ continuando a avvicinarlo ogni volta che lui si muoveva come cercando di rialzarsi: «Jeh è tutto a posto, non preoccuparti, è tutto finito, davvero, ci sono io qui con te.» Voleva spronarlo a parlare ma dubitava fortemente che fosse una buona idea, non fino a quando non fosse riuscito a smettere di tremare come una foglia; l’unica cosa certa era che immaginare perché fosse messo in quello stato non era certamente difficile, la cosa la faceva scuotere di rabbia e curiosità insieme.

«Sono uno stupido.» Balbettò Jeh, improvvisamente stringendo la testa sulle sue gambe ripiegate. «Non è così Jeh.» Il panico stava scemando, almeno in lei, sentirlo parlare era sempre un’ottimo segnale.

Aveva troppe cose da dirgli, voleva che sapesse che con Sibille poteva chiudere e che qualsiasi cosa lei gli avesse fatto non sarebbe accaduto più, ma c’era quella fitta che continuava e ghermirle dolorosamente il petto, sembrava troppo persistente, sembrava una paura nuova, mai provata, una paura ansiosa e ossessiva.

«Devo dirti un sacco di cose, buone notizie, è tutto okay Jeh, tutto okay.»

Cercò di farlo mettere in piedi, aveva smesso di tremare ma rinunciò ugualmente, era talmente incordato che quando sentì una sua mano stringerle convulsamente un polso la raggiunse con l’altra liberandola da dietro il suo collo per infondergli un coraggio che non aveva.

Ora erano contro il bordo del letto, seduti. Lo abbracciava lateralmente, aveva la testa sulla sua spalla, mentre lui la teneva china, gli occhi chiusi, mostrando la cicatrice anche sulla palpebra nitidamente. Attorno al suo collo avvertì con le dita la presenza metallica di una catenella, la riconobbe subito, era del suo porta pillole, in un paio di punti c’erano delle lievi ferite, gli occhi di Kell indagarono, forse l’aveva tirato con troppa forza, forse l’aveva fatto di proposito. 

Glielo sfilò dal collo gettandolo sul tappeto e Jeh si ricoprì di pelle d’oca tanto che Kell ebbe in quel momento la certezza che sì l’aveva fatto di proposito.

Sfiorò con le dita le ferite, alcune fresche, altre già cicatrizzate, si odiò con tutta se stessa incapace di smettere di toccarle, a tratti Jeh era sempre stato un interesse morboso, qualche volta sua madre gliel’aveva detto, ma non lo era mai stato tanto come allora.

Se solo avesse potuto aiutarlo con quello che aveva da dargli, se solo avesse avuto quella possibilità.

«Jeh.» 

Si calmò definitivamente quando la sua mano destra raggiunse la guancia della cicatrice, ne sfiorò l’increspatura per tutto il profilo del volto, esitò lievemente sulla gola, si fermò non voleva che la respingesse, forse lui la ignorava di proposito, continuando a tenere gli occhi chiusi oppure preferiva non guardarla negli occhi, forse lo stava odiando, forse gli piaceva, non lo sapeva.

«Non vuoi sapere le buone notizie?» Lo sentì sospirare e tutto il suo corpo si mosse di conseguenza. «Sì.»

«Devi prima dirmi che cosa ti ha fatto.»

Per un secondo aveva aperto gli occhi ma sentendola dire quelle parole si era come ritratto, ora aveva la testa sotto il suo mento, si era ripiegato, sospirò di nuovo, come prendendo fiato.

«Lei…» Forse disse qualcos'altro ma Kell non riuscì a sentirlo, sentiva ancora quella rabbia e quell’orrore; non riuscì ad aspettare: «Ti ha messo le mani addosso?» Sotto il mento sentì la sua pelle a contatto con la sua, l’aveva capito ma si sentiva comunque così furiosa da lasciargli perdere la schiena e accerchiargli il collo, strinse la testa sulla sua, lui si limitò a stringerle il braccio destro con la mano, Kell non volle trattenersi posò un bacio forse troppo pesante sui suoi capelli neri.

«Certo.» Rise Jeh: «Lo ha fatto, era quello che voleva, fin dall’inizio, ovviamente ha… ha cercato di baciarmi.»

Si aspettava anche questo ma non riuscì a evitare di imprecare contro di lei.

«Ma non l’ha fatto no? Sei riuscito a respingerla?»

«Sì.» Lo sentì alzare le spalle: «Sono solamente uno stupido, ridotto in questo modo per una cosa che non è neanche successa.» Lui stesso sapeva di non stare dicendo la verità, le cose in quel posto erano sempre state molto più complicate delle apparenze e la questione si estendeva anche agli occupanti.

«Non è colpa tua, sai che è così, lei non avrebbe mai dovuto avvicinarsi a te, sei diverso ma lei non può capire come, non sei venustrafobico Jeh, lo vedi?» La situazione parlava da se, lo sentì aumentare la presa sulla sua schiena a cui ora pareva essere aggrappato, Kell sentiva l’increspatura della cicatrice sulla gola, insieme al suo naso, dritto, le ciglia si chiudevano e si aprivano, sbattevano contro la pelle.

Kell aprì bocca e parlò: «E’ lei che è sbagliata, non tu.»

«O sei tu che sei giusta.»

Disse questo e alzò lo sguardo, la guardò negli occhi, tristemente ma senza paura, quasi ebbe l’impressione per la prima volta di vedere i suoi occhi uguali, entrambi grigi o entrambi bianchi, sangue, lacrime, non li distingueva.

«Questo è ovvio Jeh.» Lo sentì ridere, quasi sussurrando per paura di essere sentito da qualcuno che non c’era, Kell aveva sdrammatizzato, doveva, e seppe in quell’istante di poter cominciare a raccontare il motivo per cui l’aveva cercato con tanta insistenza, la porta in faccia a Sibille, Emeric innocente, Rang colpevole. Non sembrava stupito, ne tantomeno incredulo, pareva rassegnato all’idea dal primo istante in cui gliel’aveva detto; si erano raggomitolati sotto la coperta invernale nell’oscurità di camera sua e a Jeh quasi si chiudevano gli occhi, o forse non aveva voglia di tenerli aperti…

«Quindi ho scampato Sibille per merito tuo.» 

Kell scosse la testa sul cuscino. 

«Si invece.» Confermò lui: «Merito tuo e di Emeric e… non so, non ho idea di come fare per farmi perdonare… per la scorsa volta a terapia, io…» «Tu niente.» Lo fermò subito Kell: «Sono stata una stupida io.» Jeh cercò di negare, alla fine Emeric aveva confessato la verità su Rang anche perché non aveva Nikki tra i piedi, era necessario che qualcuno la tenesse fuori e quel qualcuno era lui, lui e Sibille.

Ma Kell non poteva essere d’accordo: «Ti ho fatto del male, ho fatto male a tutti, ho fatto male a me, non devi scusarti di niente Jeh.» Non riuscì a evitare di passargli una mano tra i capelli, ripiegandoli all’indietro sulla fronte. 

«Ma Kell, ti ho dato una responsabilità che non solo non era tua, ma che dovevo assumermi di mia spontanea volontà, potevo continuare a stare con voi, non l’ho fatto, ero arrabbiato, ero invidioso…» «Non importa Jeh, non ha importanza.»

Lo vide di nuovo chiudere gli occhi stancamente, sistemandosi svogliatamente la coperta sulla spalla, così Kell ad un tratto sapeva che quello era il momento giusto per spegnere la luce.

«Mi permetti almeno di ringraziarti per quello che hai fatto stanotte, oppure vuoi linciarmi anche per questo?» 

Erano stretti in un abbraccio totale, caldo, rassicurante ma anche esagitante e totalizzante, annuì rispondendo alla domanda di Jeh sorridendogli dritto in viso.

«Non andartene più.» Gli disse: «Non potrei sopportarlo.» Non suonò affatto drammatica, all’improvviso Kell sembrava a se stessa la Kell di sempre, si sentì dire qualcosa che avrebbe senz’altro detto la Kell di sempre ma in realtà… non era così, non avrebbe parlato in quel modo al ragazzo con l’occhio di vetro, ora poteva, ora sapeva che staccarsi da Jeh era stato come perdere una parte di se stessa che la manteneva a un metro da terra, distante dai mali del mondo, mai troppo vicina mai troppo lontana, indifferente e onnipresente e ora era lì, si sentiva quasi felice e lei neanche sapeva cosa fosse la felicità, ma voleva che lui promettesse, e lo fece.

«Non lo farò più Kell, non posso farlo.» 

Anche questa volta era serio, la sua mano che le stringeva la nuca le lanciava fievoli fitte fredde ogni volta che lui la toccava, non era abbastanza ma rimase zitta.

  
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