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Autore: cartacciabianca    16/01/2009    1 recensioni
[…] I due assassini si issarono sui bastioni della fortezza e furono a portata degli arcieri. -Via, via, via!- Altair l’afferrò per il cappuccio e la trascinò di corsa verso l’angolo della fortezza, che culminava con una torre, la quale facciata dava sull’immenso piazzale del distretto nobiliare. -Salta!- Altair la spinse giù e i due assassini, accompagnati dal ruggito di un’aquila, si gettarono nel vuoto. Nel bel mezzo del volo Altair la strinse a sé, ed Elena si avvinghiò a lui che, capovolgendosi in aria, atterrò di schiena nel cesto. Poi fu il silenzio, scortato dal canto delle campane d’allarme, ma almeno le voci dei soldati e le grida degli arcieri erano cessate. […]
Genere: Azione, Fantasy, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Quasi tutti
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Dea tra gli Angeli' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Scale di pietra e buffi stendardi



Si svegliò che era notte fonda.
Alle orecchie le giungevano i canti melodiosi delle cicale notturne, trasportati dalla brezza fresca che andava a svolazzare per la stanza.
Si guardò attorno alzandosi.
Era una lunga stanza che aveva la forma di un corridoio. Era larga, spaziosa e poco arredata. Non c’erano finestre, ma tende trasparenti color porpora che lasciavano scorgere il cielo stellato. Oltre le tende, si aprivano archi di pietra retti da delle colonne che davano su uno strapiombo mozzafiato, senza alcun tipo di protezione.
La stanza aveva l’aspetto di un’infermeria: c’erano mobili che ospitavano garze, tomi e fiale di ogni forma e colore.
In fine, la ragazza poté ascoltare nel buio i respiri leggeri di un’altra decina di presenze.
C’erano degli uomini che riposavano stesi, come lei, tra dei cuscini enormi. Dormivano profondamente, e la maggior parte di loro riportava ferite di guerra. Per esempio, un ragazzo poco distante da lei aveva il volto fasciato per intero, e solo un foro per il naso e uno per la bocca. Chissà cosa gli era capitato, pensò lei.
Istintivamente si passò una mano sulla coscia, e rimase sorpresa del fatto che sotto il suo tatto sentì una fresca benda pulita. Alzò le coperte e guardò con attenzione.
Non vi erano macchie di sangue o rughe sul bendaggio. Poteva essere che lo squarto fosse guarito del tutto oppure che qualcuno le avesse fatto un nuovo bendaggio da poco. Con non meno sorpresa notò che qualcuno le aveva anche messo le mani addosso per cambiarle i vestiti!
Indossava una veste che le arrivava più in alto delle ginocchia. Era bianca e leggera, legata in vita da una sciarpa rossa.
Si spostò al bordo del letto e alzò la gamba malata col solo uso dei muscoli. Fu entusiasta che nessun dolore l’avrebbe più infastidita d’ora in avanti. Forse lasciarsi curare era stata la mossa giusta, anzi era certo che fosse stata la mossa giusta. Ora poteva cominciare di nuovo a vivere, qualcuno le aveva offerto un posto dove stare, lontana da allenamenti con le armi, lontana dal sangue e dagli omicidi… Lontana dalla guerra e dalle vittime che si era lasciata dietro. Avrebbe dimenticato tutto quello che aveva appreso da suo padre, che voleva forse proteggerla insegnandole ad usare una spada.
Sorrise. Era andata proprio in quel modo, dopotutto. Se suo padre aveva fatto qualcosa per meritarsi di morire per mano di Corrado e dei suoi uomini, prima avrebbe affidato ciò che gli restava più caro a qualcuno che sapeva se ne sarebbe preso cura. Il pacchetto da spedire era stato lei, Elena in carne ed ossa, ed era arrivata a destinazione.
Ma poteva fidarsi di quel luogo?
E si guardò attorno.
Poteva fidarsi di chi lo abitava?
E guardò il ragazzo fasciato che dormiva.
Poteva fidarsi di Adha? Alla quale suo padre l’aveva affidata?
Ripensò alla donna che non aveva visto in volto mentre un incappucciato la teneva per le spalle.
Era capitata in mano a sconosciuti, a gente che mai si sarebbe immaginata che un giorno sarebbe stata la sua famiglia. Per di più, da quanto ricordava, questa Adha doveva essere qualcuno di abbastanza importante lì dentro. Insomma, per farsi chiamare “sì signora” ci vuole un certo rango, pensò mentre poggiava i piedi scalzi a terra.
Qualsiasi posto fosse Masyaf, non avrebbe speso quell’occasione per dormire altre 20 ore consecutive. Piuttosto avrebbe curiosato un po’ in giro.
Fece qualche passo avanti di prova, e andò tutto bene: la gamba e i muscoli la reggevano.
Silenziosamente, si trascinò verso le colonne. Scansò una tenda e ammirò il paesaggio.
Lo strapiombo si gettava per un centinaio di metri dentro un lago dalle acque immobili e così limpide da specchiare le stelle.
Di lato, la ragazza riconobbe la facciata posteriore di una magnifica ed enorme fortezza di pietra. Buffi ed insoliti stendardi ornavano i balconi esterni. Portavano un simbolo che non aveva mai visto prima. Sembrava una A appena stilizzata, oppure un compasso aperto! Si disse che era strano, ma come tutte le più importanti città di un regno, anche Masyaf meritava un esercito con la rispettiva divisa. Gli artisti si erano lasciati prendere la mano, però!
Con il sorriso in volto lasciò che la tenda tornasse a svolazzare al vento e andò furtivamente verso la fine del corridoio.
L’aria fresca le aveva fatto bene, ma era ora di andarsene a curiosare in giro prima che qualcuno si accorgesse che un paziente mancava all’appello.
S’infilò nella fessura tra un battente e l’altro del portone, e si ritrovò in un’ampia sala ornata di una maestosa gradinata. La scala seguiva le pareti della torre quadrata, e il tutto era illuminato da bracieri ardenti che pendevano dall’alto del soffitto.
Quando alzò lo sguardo, la ragazza poté notare che l’infermeria si trovava in uno dei piani più alti. Sotto, affacciandosi al parapetto di pietra, vide che i gradini portavano di tre livelli più i basso.
Cominciò a scendere che non era più nella pelle.
La sua curiosità, si disse a metà strada, l’avrebbe portata dritta davanti ad una sentinella che sicuramente, vedendo una ragazza girare scalza e ferita, non avrebbe potuto fare a meno che domandarsi quanto fosse strano. Forse molti dei soldati la conoscevano, o già si sparlava di lei in quel luogo, ma non le importava.
Piuttosto, prese a rallentare il passo quando gli arazzi alle pareti cominciarono ad attirarla. Erano magnifici, tutti su un’unica tonalità di colori che andava dal rosso al nero e viceversa. Rappresentavano diverse battaglie o scene di vita comune. Ma quello che più la colpì fu un arazzo che rappresentava due uomini incappucciati. Uno stringeva nella mano una coppa, un calice, e l’altro s’inchinava portandosi una mano al cuore.
Buffo, pensò. Aveva sentito parlare di molte leggende riguardo moltissimi artefatti antichi. Il Santo Graal, il Frutto dell’Eden… suo padre gliene parlava in continuazione durante le lezioni di storia.
Chissà che forse…
Un rumore di una porta la fece sobbalzare. Il botto rimbombò per tutta la stanza, ma la spaventò ancora di più il suono di passi che veniva dai piani alti.
Si appiattì il più possibile contro la parete, nascondendosi nella penombra tra l’arazzo e l’angolo delle scale.
Con i suoi occhi attenti scorse una figura incappucciata che scendeva dritta verso di lei. Era armata, stringeva una torcia in fiamme e portava una buffa veste: un lunga tunica bianca con diversi spacchi. Poi una spessa cintura di cuoio e in fine dei cappi che gli attraversavano il petto dal fianco alla spalla e s’incrociavano dove sfavillava un triangolo di metallo.
L’incappucciato continuò oltre la ragazza senza accorgersi della sua presenza, e sparì nel buio portando con sé il chiarore della fiaccola.
A quel punto Elena riprese a respirare e si accertò che l’uomo se ne fosse andato davvero.
Leggera leggera si allungò oltre il parapetto e lo vide imboccare un corridoio.
Pensò che seguirlo l’avrebbe portata da qualche parte d’interessante, così si affrettò a fare gli ultimi gradini in quanto silenzio le era possibile.
Al piano terra c’era un tappeto che copriva tutto il pavimento, e nei diversi quattro muri della torre si aprivano quattro differenti corridoi.
Non era confusa, anzi, lontano nella direzione davanti a lei poteva ancora vedere la luce della fiaccola illuminare la figura composta dell’incappucciato.
Camminando appiattita contro la parete, seguì i suoi passi.
L’uomo svoltò a destra, poi a sinistra e salì in fine delle scale più piccole che lo portarono in un cortile.
Lei ne rimase meravigliata.
Era un bellissimo giardino ornato di fontane e piante colorate che diffondevano un odore dolcissimo, quasi persuadente, accattivante. Era architettato su dei terrazzamenti esposti ai raggi della luna piena e allo splendore delle stelle. Sul cortile davano diverse facciate della fortezza, ma un balcone-giardino era esposto sullo strapiombo sul lago e abbellito da archi in pietra e colonne.
I porticati erano adornati da tappeti e tavoli lussuosi. Poi vasi, cassapanche e infiniti cuscini che ci si sarebbe potuto nuotare, e per di più, dei colori più richiesti e costosi.
Elena si chiese se per caso non fosse ospite di chissà quale nobile famiglia reale. O magari dei reggenti di Masyaf. Forse Adha era la regina di quel posto… nella sua mente si articolarono ipotesi che le fecero girare la testa.
Per la lunga camminata e per lo sforzo di restare sempre vigile, i muscoli della coscia ferita avevano cominciato a cedere, e la ragazza fu costretta a sedersi su una panca di pietra.
La ferita si era riaperta, si disse, perché le bende stavano assumendo un preoccupante colorito rosato.
 -E ora che faccio?! Che faccio?!?! Stupida, stupida, stupida!- cominciò a picchiarsi la testa.
Scendere dall’infermeria era stata una stupida imprudenza, e ora le sarebbe stato impossibile risalire! Il dolore alla gamba non cessava, il sangue aveva ripreso a fluire in grosse quantità che la cucitura nascosta sotto le bende non riusciva più a reggere!
Il primo terrore che le passò sulla coscienza fu quello di essere notata da qualcuno che si sarebbe ricordata per sempre di lei come la stupida handicappata ficcanaso! Apparire non le era mai piaciuto, il centro dell’attenzione era la sua grande debolezza. Come detestava che in cinque si prendessero cura di lei, un tempo aveva odiato alcune sue amiche per averla lasciata sola con un ragazzo che le faceva la corte. Davanti a suo padre e a quello del giovane.
-Una vita tranquilla!…- si diceva sempre. Ma quale tranquillità! Fin da quando suo madre l’aveva messa al mondo, la sua vita era stata tormentata, e un Dio in fame aveva messo radici sulla sua anima condannandola alle umiliazioni peggiori.
Tutto quello che faceva e che aveva fatto era o si sarebbe rivelato sbagliato! Nessuna delle sue decisioni era mai corretta, nessuno che le dicesse mai: - Hai fatto la cosa giusta-. Mai!
Ripensare a certi avvenimenti le fece luccicare gli occhi, mentre le labbra le si increspavano e il mento le ballava come gelatina.
Non riuscì a trattenere una lacrima, e si disse che stava piangendo perché ormai non si sarebbe potuta rendere più ridicola di così. Tanto valeva sfogarsi una volta per tutte.
Aveva toccato il fondo, il suo animo depresso l’avrebbe condotta alla morte prematura. Se non fisica, allora mentale.
Alzò gli occhi rossi al cielo e si concentrò sulle stelle che ornavano il firmamento pur di distrarsi.
La verità era che non conosceva neppure una costellazione. Per lei erano puntini luminosi senza un ordini logico o sintattico. Qualcuno li aveva messi lì solo per non rendere il cielo notturno più macabro di quanto era davvero.
Ovunque girasse lo sguardo riusciva ad odiare quello che vedeva, quello che la circondava era tutto sbagliato. Lei non doveva essere lì, si disse, ma a sfamare papà a mamma avvoltoio sul ciglio della strada torrida del regno! Chiunque l’avesse salvata condannandola a continuare ad odiare se stessa l’avrebbe pagata cara!
-Ehi, tu!-
Si voltò e vide che due uomini la guardavano attraverso delle sbarre che chiudevano l’ingresso ad una stanza. –Sì, tu!- fece l’altro.
La ragazza scattò in piedi.
-Non è quella che hanno trovato Marhim e Halef?- domandò una guardia al compagno.
-Che importa!- rispose l’altra. –No può stare lì!- disse indicando la ragazza.
Lei indietreggiò sconcertata. –Io…- balbettò.
-Da dove è saltata fuori?-
-Sicuramente è passata da dietro, viene dall’infermeria. Ragazzina- la chiamò uno dei due.
Sicuramente non poetavano raggiungerla se non avevano le chiavi. –Ciao…- mormorò facendosi avanti.
-Sì, da brava, vieni qui-.
L’altro gli diede un botta sulla spalla. –Ma si può sapere che cosa ha in mente?-.
-Lasciami fare, non vedi che è ferita? Forse non ce la fa a tornare su da sola-.
-Invece- disse lei. –invece credo di farcela, grazie- fece confusione con le parole, ma il senso della frase venne fuori.
-Sicura?- le domandarono assieme i due.
Lei annuì. –Scusate se vi ho disturbato, e…-.
-Ehi, ragazza! Sbrigati!- mormorò uno. –Quella benda non reggerà a lungo. Ti manderemo qualcuno appena potremo, ora tornatene di sopra!-.
Ascoltò il consiglio e cercò di ricordare la strada.
-Quarto piano!- gli disse la guardia prima che sparisse nel corridoio.

I piedi si erano intorpiditi dal freddo, la benda andava a sciogliersi e il dolore… be’ il dolore era il dolore.
Al terzo piano già non ce la faceva più, e doveva ancora arrivare silenziosamente fino alla fine dell’infermeria.
Col fiatone e coi muscoli che chiedevano sangue, sangue e ancora sangue quando in circolo ce n’era fin troppo poco, raggiunse l’ingresso della sala ospedaliera.
Il portone era socchiuso come l’aveva lasciato e s’infilò tra i battenti.
Camminò lentamente nei suoi ultimi sforzi, quando davanti al suo letto vuoto vide una figura dritta e vestita di un lungo vestito rosso.
I ricami dorati della veste brillavano alla luce delle stelle. Aveva lunghi capelli corvini legati in una treccia e le dava le spalle.
Elena si nascose dietro un mobile abbastanza spesso.
La donna si girò e cominciò a camminare verso di lei con un cesto in grembo.
Quando Elena credé che non si fosse accorta di lei, la donna si voltò e la vide nascosta nella penombra. –Che cosa credevi di fare?!- le gridò a bassa voce.
-Io…- Elena si strinse al muro.
-Guarda che razza di…- la donna imprecò nel vedere lo stato del bendaggio. –Spero che un giorno ripagherai quello che questo luogo ha fatto per te e tutta la pazienza di chi ci vive! Avanti, stenditi subito!-.
Elena camminò svelta verso il letto e si sedette sul materasso.
La donna lasciò il cesto vicino ad un altro paziente e vi trasse il nuovo rotolo di garza. –Ho detto di stenderti!- ruggì tenendo bassa la voce.
Elena si stese a pancia in su sul momento.
La donna le alzò la gonna e per la prima volta Elena, anche se sapeva che l’aveva fatto parecchie volte, provò imbarazzo.
-Sei… sei Adha, non è così?- trovò il coraggio di chiedere.
Con uno strappo sonoro Adha tirò via le bende vecchie, ed Elena non riuscì a trattenere un mugolio.
-Era un sì?- chiese a denti stretti.
-Tuo padre ti ha insegnato male cos’è il dolore- fu la risposta della donna.
-Non me l’ha insegnato affatto- Elena guardò altrove.
L’infermiera tacque qualche istante e rallentò i suoi movimenti, come stesse pensando a qualcosa che le teneva la mente occupata. Poi, d’un tratto, riprese ad essere dura e scontrosa.
-Sì, il mio nome è Adha. Ma quando ti ho detto che ci sarebbe stato tempo per le domande, non intendevo ora!- strinse con violenza la nuova fasciatura.
-Puoi fare un po’ più piano?- disse stridendo.
-Perdonami! Sono abituata con loro- Adha indicò con la testa gli altri pazienti. –Sai perché sono così tranquilli?- le chiese.
Elena non seppe che rispondere, alzò appena le spalle.
-Li ho imbottiti di anestetico, una mia invenzione. A quanto pare, pensando che a te ne sarebbe bastata una dose minore mi sbagliavo. Un veleno abbastanza forte che uso soprattutto con chi deve amputarsi un arto-.
-Dove sono?- Elena tentò di cambiare argomento.
Adha cercò tra gli scaffali della parete e ne trasse una boccetta.
-Ti ho detto che non è il momento. Finché non sarai guarita del tutto, non lascerai questa stanza, sono stata chiara? Sicuro che non andrai lontana, poche gocce ti terranno inchiodata qui per ancora qualche giorno. Poi sarò io a decidere se sarai in grado di conoscere il Maestro-.
-Chi?-.
Adha non le diede altro tempo: le afferrò la mascella, le aprì la bocca, ed Elena non si ribellò.
Le buttò in gola il sonnifero, e tutto divenne buio.

   
 
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