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Autore: WhileMyGuitarGentlyWeeps    04/07/2015    2 recensioni
Joan Cameron si trasferisce a New York dopo aver capito che la vita che credeva perfetta era in realtà una gabbia dorata. Arriva al 4D in una fredda mattina di febbraio e la sua porta non si apre.
Accorre in suo aiuto, come un principe su un cavallo bianco, quello che sarà poi il suo vicino, aprendo la porta di casa sua. Lui di fiabesco non ha nulla. E’ un’anima tormentata, svuotata.
Da quel freddo giorno di febbraio le loro vite si incrociano e si scontrano in una danza in cui non ci sono né vincitori né vinti.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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14.


Erano passati due giorni da quel bacio e di Cult non c’era stata neanche l’ombra. Erano le sei di sera di lunedì e Joan stava per lasciare definitivamente lo studio. Solo due mesi  e mezzo di lavoro. Il più breve della sua vita, beh a parte quello in quella caffetteria vicino al campus: lì era durata un mese …

Il primo giorno che aveva messo piedi li dentro era spaventata e si sentiva persa. Quante cose erano cambiate in solo due mesi e mezzo, quante ne erano successe! Si guardò intorno, mentre raccoglieva le sue cose. L’attestato di laurea incorniciato, quei pochi libri che si era portata per averli sottomano, qualche penna, fogli, documenti. Stava tutto in una di quelle scatole che si vedono sempre nei film quando qualcuno viene licenziato.

Clark le aveva telefonato il giorno prima. Era rientrato in mattinata e si era preso qualche ora di riposo, ma da martedì avrebbe ripreso il lavoro allo studio.
Le aveva detto che avrebbero continuato a collaborare, che l’avrebbe chiamata quando avesse avuto bisogno di lei. Era stato gentile, disponibile, come sempre, ma questo non cambiava il fatto che fosse senza lavoro.
Sapeva da giorni che sarebbe rimasta disoccupata presto, ma solo ora se ne rendeva conto, con quella scatola tra le mani, le chiavi dello studio in cima a tutto il resto.

Era stato bello, ma come tutte le cose doveva finire e quella era la fine. Lanciò una rapida ultima occhiata e chiuse la porta, lasciandosi alle spalle quell’esperienza, senza voltarsi indietro.
 
Quella sera sarebbe andata al Morning Glory aveva voglia di vedere Steve  e sapeva che anche Alison sarebbe andata.

“Sei sola sta volta…”

“Sì, Blake aveva da fare con dei colleghi, meglio per me. Serata tra sole donne!”

“Mi sento escluso”. Si intromise Steve mentre serviva i loro drinks.

Le ragazze risero di gusto.

“Steve mi ha detto del tuo lavoro”.

“Già, da oggi sono ufficialmente disoccupata”.

“Cavolo non ci voleva! Hai già trovato una soluzione?”

Joan scosse la testa bevendo un altro sorso di cosmopolitan.

“Ho provato a contattare un paio di ospedali, ma non hanno posti vacanti. Clark ha chiesto ad alcuni colleghi ma a nessuno serve aiuto”.

“Accidenti, che sfortuna!”

“Già, e come se non bastasse tra poco è inizio mese e devo pagare l’affitto altrimenti quello stronzo mi lascia in mezzo a una strada”.

“Non hai nessuno a cui chiedere aiuto, magari economico?”

“No e non voglio farlo. Me la caverò. Ho dei soldi investiti, nel caso fosse necessario preleverò quelli e nel frattempo spero di trovare un lavoro”.

Sapeva che se solo avesse chiesto aiuto ai suoi genitori, loro l’avrebbero aiutata senza pensarci due volte, ma non voleva arrivare a quello. Si era trasferita a New York per sua scelta e anche se sarebbe stata dura avrebbe continuato a farcela da sola.

Quando Alison si allontanò per andare in bagno, Joan si avvicinò a Steve per chiedergli notizie di Cult.

“E’ via per un paio di giorni, dovrebbe tornare domani in giornata. Pensavo ti avesse avvisato”.

“Sì figurati, quello non mi avviserebbe neanche se fosse in punto di morte”.

Sospirò rumorosamente.

Un passo avanti e dieci indietro.

In quei giorni si era sentita sollevata ogni volta che aveva varcato la porta del palazzo senza incrociarlo, ma ogni volta che metteva piede sul pianerottolo di casa non poteva fare a meno di ripensare a quel bacio.
 

Passarono giorni, settimane da quella notte. Steve era andato a trovarla un paio di volte, mentre Joan era chiusa in casa alla ricerca di un lavoro. Oramai aveva abbandonato l’idea di trovare lavoro come psicoterapeuta, quindi provò a cercare qualche associazione che facesse al caso suo, ma anche lì fu un buco nell’acqua.

Era un giovedì pomeriggio, quando stufa e stanca, uscì per una passeggiata. L’aria fresca le avrebbe fatto bene. Era fine aprile e, nonostante l’aria fosse ancora fredda, c’era un bel sole che scioglieva i residui di neve.
Stette in giro tutto il pomeriggio. Girò per il centro, poi si sedette su una panchina di Central Park e si alzò solo quando ebbe troppo freddo per restare ancora ferma.

Andò a prendere Alison all’uscita dal lavoro, alle cinque. Faceva la segretaria in uno studio di avvocati.

“Ciao Joan! Che bello vederti!” Ciò che le piaceva di Alison era il suo buonumore, sempre e comunque. Era per quello che aveva voglia di vederla, perché le trasmetteva allegria e sicurezza.

“Ciao Alison! Mi chiedevo se ti andasse di bere qualcosa insieme e magari fare due chiacchiere”.

Alison guardò l’orologio. “Accidenti ora devo andare a prendere Austin da mia madre, ma perché non vieni con me? Le due chiacchiere le facciamo comunque”.

“Ma certo, perché no…E’ una vita che non vedo quello gnomo”.

Arrivarono a casa di sua madre poco dopo. Ad aprire fu una signora alta e magra, con un viso dolce  e due bellissimi occhi verdi, e dietro di lei un ometto vestito di tutto punto e sporco di cioccolato agli angoli della bocca. Sorrise a trentadue denti quando la vide e le saltò subito in braccio, salvo poi allontanarsi per andare a giocare.

“Joan lei è mia madre. Mamma, lei è la famosa Joan di cui tutti parliamo”.

“La tua fama ti precede Joan, è un piacere conoscerti. Perché non vi fermate per un tè?”

Rimasero da Lidia -la madre di Alison- fino alle sei quando, dopo essersi congedate, una volta fuori dal piccolo palazzo di separarono. Alison abitava a un paio di isolati e sarebbe andata a piedi, mentre a Joan toccavano varie fermate di metro.

Fu fortunata e trovò posto da sedersi. Si lasciò cullare dal rumore del treno in movimento fino a quando non arrivò a destinazione.

Davanti al portone, preso da una discussione al telefono, c’era Cult. Gli passò accanto, ma sapeva che non l’avrebbe evitato, non così spudoratamente.

Cult si accorse della sua presenza solo quando concluse la chiamata.

“Ciao ragazzina”.

“Ciao. Sei tornato…”

Ma no? Ma dai? Osservazione davvero acuta!

Lui sorrise appena. “Così sembrerebbe”.

“E posso chiederti dove sei stato o è una di quelle cose che se me le dici poi devi uccidermi?”

“Chicago”.

Conciso.

“E ci sei andato per…”

Voleva scucirgli il maggior numeri di informazioni possibili.

Lui rise di gusto, lasciandola interdetta.

“Non ti arrendi mai, eh?”

“La mia è solo sincera curiosità…”

Fece la gnorri, mentre gli fissava le labbra, carnose e morbide. Deglutì a fatica e indietreggiò di un passo.

“Ho incontrato Pavlov. Sarà in città tra qualche giorno e gli serve protezione”.

Pavlov. Dimitri Pavlov. L’ultima volta che si erano visti Joan gli aveva salvato la vita e poi Cult l’aveva salvata a lei. Ne avevano fata di strada da allora!  Ancora non si spiegava come avesse fatto a comparire al momento più opportuno, ma probabilmente quella sarebbe rimasta una delle tante domande senza risposta.

“Bè, portagli i miei saluti quando lo vedi. Io ora devo rientrare tu che fai, sali?”

“No, devo raggiungere Steve. Non vai al Morning Glory oggi?”

Lei scosse la testa. “Non sono dell’umore, ma salutami Steve”.

Si voltò per entrare nel palazzo quando Cult la chiamò.

“Senti, ragazzina, mi scoccia non poco chiedertelo, ma…”

“Ma…” Rimase in attesa, per secondi interminabili.

“Pavlov ha richiesto la tua presenza. Io gliel’ho detto che non lavori con noi, ma lui ha insistito”. Era nervoso, anzi innervosito, probabilmente da quella richiesta.

“Ovviamente la decisione è tua…Se non vuoi gli dico che hai altro da fare, che non…”

Non gli diede il tempo di finire. “Ci sto, di cosa si tratta?”

Cult era a metà tra il deluso e il sorpreso. Cosa gli passava per la testa in quel preciso istante?

“Dimitri è un uomo simpatico, mi fa piacere rivederlo…” Si sentì in dovere di giustificare la sua decisione, chissà perché.

Forse perché Cult l’aveva ignorata per due settimane, sparito chissà dove. Era rientrato  il giorno che le aveva comunicato Steve, lo aveva sentito aprire la porta, ma poi era sparito ancora. E ora se ne stavano lì, a parlare come due vecchi amici come se due settimane prima non fosse successo nulla.

“Ottimo allora. Ti farò sapere i dettagli”.

Sparì senza salutare, senza aggiungere nulla.
 

Il giorno dopo Steve suonò verso le dieci del mattino, le portava informazioni sulla ‘faccenda Pavlov’. Joan dovette ammettere un pizzico di delusione e fastidio alla scoperta che non era Cult a portarle quelle informazioni.

“Allora Pavlov atterra domani sera, ma non è questa la parte che ti riguarda…Ciò che ti riguarda è il ballo al Plaza, dopodomani sera”.

“Ah, però…Mi va di lusso!”

“Eh già! L’ambasciatore russo a New York ha organizzato un ballo a cui parteciperanno vari politici e uomini di spicco del Paese e non solo e Pavlov ha richiesto la tua
presenza, come ti ha accennato Cult”.

Anche il solo nome la faceva sobbalzare. Annuì, mentre le Steve le dava i dettagli.

“Quindi tu verrai là con Pavlov, che ha insistito per venirti a prendere, mentre io, Cult e Duck saremo già la”.

“Perfetto. Spero solo che non cerchino di ammazzarlo anche questa volta, o mi verranno i capelli bianchi sul serio”.

Fece ridere Steve, che però si era realmente preoccupato quando Cult gli aveva detto della sparatoria.

“Non ti chiedo se hai un abito adatto, perché vuoi donne avete sempre tutto per tutte le occasioni anche se dite che non avete mai nulla da mettervi!”

Aveva decisamente un abito adeguato, mai indossato, regalo di sua madre di un paio d’anni prima.
 

La fatidica serata era arrivata. Erano le otto eventi ed era perfettamente in orario. L’abito era bellissimo e le cadeva meglio di quanto pensasse. L’aveva indossato una sola volta, nel salotto di casa, dopo che sua madre aveva insistito per vederglielo addosso.

Era un lungo abito blu notte, monospalla. Il corpetto era aderente e liscissimo, mentre la gonna era più ampia e formava delle pieghe. L’unica spalla era decorata da pietre dorate che donavano luce  senza involgarire il tutto. Infilò i sandali, anch’essi dorati, di Jimmy Choo. Ebbene sì, aveva una grande debolezza: le scarpe. E le borse, e gli abiti, e i gioielli. Il primo passo è ammettere il problema.
Non erano le scarpe più comode che avesse, ma erano bellissime. Aveva raccolto i capelli in uno chignon basso ed morbido, con dei ciuffi che sfuggivano all’acconciatura sfiorandole il viso.

Si diede un’ultima occhiata nello specchio prima di indossare il cappotto e uscire di casa.

L’auto nera di Pavlov era già giù ad aspettarla. L’autista le aprì la portiera e finalmente incontrò il volto di Dimitri.

“Joan, che bello vederti”.

Era molto elegante nel suo smoking nero.

“Anche a me fa piacere, Dimitri”.

Gli sorrise leggermente imbarazzata, mentre l’auto partiva.

“Ho insistito molto per venirti a prendere di persona. Volevo avere modo di scusarmi per ciò che è successo l’ultima volta…”

“Dimitri, tu non hai colpe e alla fine nessuno si è fatto male ed è questo l’importante”.

“Sei una persona molto comprensiva, chiunque ti sia amico è molto fortunato”.

Era talmente colpita e imbarazzata da quel complimento che nemmeno si accorse che ormai erano davanti al Plaza. Era bellissimo, come nei film e anche di più.

Si avviarono all’entrata insieme, per poi andare nella sala adibita al ricevimento. All’entrata c’era una signora che controllava gli inviti e prendeva i cappotti.
Era una bella sala, decorata con mobili e lampadari stupendi e riccamente decorati.

“Credo che Cult e gli altri ci aspettino da quella parte”.

Indicò l’altro lato della stanza. E aveva ragione. Proprio nel puntò da lui indicato c’erano Cult, Steve e Duck, uno più bello dell’altro, impeccabili nei loro vestiti eleganti.
Ma era Cult l’unico che riusciva a vedere mentre si avvicinavano. L’abito nero gli stava da Dio, persino il farfallino, che aveva sempre trovato un po’ insulso, su di lui risultava sexy.

Cult dovette mantenere un grande autocontrollo quando vide Joan. Duck e Steve dicevano quanto fosse bella e elegante, ma lui non si scompose. All’esterno perlomeno. Era oggettivamente bella e elegante, ogni giorno, che si vestisse per andare al lavoro o per fare la spesa, ma quella sera era magnifica.
L’acconciatura le donava un’aria regale e quell’abito era semplicemente fatto per lei. Era radiosa e bellissima.

Avrebbe voluto trascinarla via, impedire a chiunque di guardarla, portarla in giro per la città, ovunque lei volesse, ma via di lì.

“Bene, Cult, come siamo messi?”

Steve dovette dargli una spintarella per farlo concentrare.

“Tutto bene, signore, tutto sicuro. Si goda la serata”. Fortunatamente Duck rispose al suo posto.

“Bene allora. Joan vado a prendere dello champagne. Aspettami qui”.

Joan sorrise, imbarazzata.

“Joan sei bellissima”. Solo quando Pavlov si fu allontanato Steve si avvicinò per farle i complimenti, facendole fare una giravolta.

“Steve ha ragione, sei proprio uno schianto…Se mi permetti…” Duck sembrava quasi imbarazzato. “Sì ecco, io…Non vorrei che tu fossi ancora arrabbiata per quella faccenda…”

“E come potrei, Duck, sei cosi adorabilmente insopportabile”. Lo interruppe lei alzando gli occhi al cielo.

Duck sembrò davvero sollevato perché gli occhi gli si illuminarono come quelli di un bambino.

Cult stava immobile, a guardarla, con un’espressione indifferente dipinta sul viso.

“Cult, io e te dobbiamo ancora controllare una cosa o sbaglio?” Steve parlava allusivo.

“Ma cosa dici?!” Non lo guardava, troppo occupato a fulminare Pavlov che era di ritorno con due flute di champagne in mano.

Duck sembrò capire prima di Cult.

“Ma sì, Cult, quelle cose di cui Steve e io ti abbiamo parlato, che volevi controllare di persona…”

Cult continuava a non capire, ma si lasciò trascinare fuori dalla sala da Steve.

“Si può sapere che diavolo ti prende?”

“A me, Cult? Non sono io quello che incenerisce Pavlov con lo sguardo!”

“Non capisco a cosa ti riferisci, Steve”.

“A questo” Steve assunse la stessa espressione che Cult aveva poco prima, facendolo ridere.

“Guarda che ti sbagli”.

Steve non parlò, ma lo guardò con aria si sufficienza.

“Ok lui non mi piace ma questo non importa”.

“E non ti piace a prescindere o perché a lui piace Joan?”

“Steve, ancora con questa storia?!”

“Sì, finchè non mi dici cosa ti succede”.

Cult si allontanò ulteriormente dalla sala, togliendo finalmente la maschera di indifferenza. Sospirò pesantemente.

“Senti… Siamo amici da sempre, di me ti potrai sempre fidare. Qualsiasi cosa succeda, io…”

“L’ho baciata”.

Ecco l’aveva detto. Aveva cercato di non pensarci per giorni, lavorando giorno e notte, tenendosi impegnato il più possibile.

“Tu l’hai, cosa?!”

“Sono sicuro che tu abbia capito benissimo”.

“Non so se essere stupito, felice o entrambi…Insomma non ci speravo più”.

Poi ci pensò meglio.

“Aspetta, aspetta, aspetta! Tu l’hai baciata e poi l’hai ignorata per giorni, anzi per settimane come è tipico tuo?!”

Cult annuì, serio.

“E allora non hai alcun diritto di essere incazzato né con lei né con Pavlov”. Questa volta Steve era serio come poche volte nella sua vita. “Joan mi piace, Cult! E’ una
ragazza sveglia e intelligente e nonostante sappia che non si farà trattare male da te so anche che le piaci, che lei lo ammetta o meno…Quindi decidi: o la tratti col rispetto che merita o la lasci perdere”.

Mise una mano sulla spalla di Cult.

“Perché se lei si fa prendere dalla situazione ci si troverà immersa prima che se ne renda conto e quando tu le volterai le spalle senza motivo lei soffrirà”.

“Steve, senti…”

“No, Cult, stammi tu a sentire. Non puoi vivere solo per te stesso, pensando che gli altri si adeguino. Lo so che è dura lasciar andare qualcuno a cui siamo legati…” E lui lo sapeva bene! “…Ma forse dovresti pensare alle conseguenze delle tue azioni. Lei non è Melody. Non tornerà da te ogni volta anche se la tratti male. Lei non è una botta e via”.

E detto ciò tornò nella sala.

Joan e Dimitri ballavano al centro della sala, allegri.

“Non ballavo da una vita”. Ammise Joan. “Sono arrugginita”.

“Di solito nemmeno io ballo. Queste feste mi annoiano a morte, ma oggi ho una partner speciale”.

“Se non la smetti coi complimenti mi monterò la testa…”

Spostò il viso, mascherando il rossore della guance. E incontrò Cult, o meglio, i suoi occhi. Due pozze blu, che risaltavano grazie alle luci chiare della sala.

La guardava. La osservava. La scrutava. Di tutti gli occhi presenti nella sala, molti dei quali l’avevano osservata per diversi minuti, gli unici che voleva addosso erano i suoi. E li ebbe fino a quando lui non si recò sul terrazzino adiacente al salone.

“Dimitri, scusa ho bisogno di un po’ d’aria, tutto questo ballo mi ha fatto venire caldo”.

Lui le sorrise. “Ti concedo solo cinque minuti, però, altrimenti mi toccherà parlare con questi uomini noiosi”.

Lei rise di rimando. “Prometto che verrò  a salvarti appena mi sarò ripresa”.

Si allontanò, diretta verso il balconcino.

Cult le dava le spalle e stava fumando. Joan sorrise senza neanche rendersene conto.

“Siamo piuttosto in alto, eh?”

Cult di voltò di scatto, per poi tornare a guardare la città. Joan gli si affiancò, silenziosa.

“Dovresti rientrare, fa freddo qui fuori”.

Ecco, quell’affermazione era paragonabile ad un ‘fa freddo oggi, vero?’ oppure ‘dicono che verrà a piovere, speriamo torni presto il sole”.

“Ok, questa volta perché mi tieni il muso?”

“Come scusa?” Spense la sigaretta nell’apposito portacenere.

“Ma sì, con te va bene per un po’, poi per chissà quale oscuro motivo, ti viene il broncio e mi guardi come se fossi una persona orribile. Se almeno capissi il perché mi metterei il cuore in pace”.

Lui alzò le spalle, indifferente.

“E’ per Dimitri?”

Per un attimo sperò dicesse di sì. Da quando lo conosceva sperava molto di più di quanto facesse a Washington.

“No, Joan, non è per Pavlov, ho altro per la testa…”

Rabbrividì quando pronunciò il suo nome. L’aveva sempre chiamata ragazzina e la cosa le aveva sempre dato fastidio, ma in quel momento avrebbe dato di tutto per essere chiamata in quel modo, perché per quanto il suo nome suonasse bene detto da lui, il suo tono non le piaceva affatto.
Lui si tolse la giacca e fece per mettergliela sulla spalle, ma lei indietreggiò, lo sguardo improvvisamente freddo come il ghiaccio.

“Non preoccuparti, ora rientro, tieniti la tua stupidissima giacca e vai al diavolo!”
 

Quando rientrò sbatté contro Duck, che le chiese cosa ci fosse che non andava.

“Balla con me!”

Duck, stranito, rise. “No, ecco…Io non so proprio ballare, ma il signor Pavlov è molto bravo, forse dovresti aspettare…”

Ma non finì la frase, perché una lacrima solcò la guancia di Joan. E fu così che Duck si ritrovò a ballare a lato della pista, un po’ fuori tempo.

“Va tutto bene?”

Joan annuì. “Sì, è solo che se avessi aspettato Pavlov lui mi avrebbe fatto domande e io non ho voglia di rispondere”.

Duck le strinse la mano, sorridendole. Lo aveva giudicato male. Facevo lo strafottente, il simpaticone della situazione, ma era un bravo ragazzo.

“Bè doc, finalmente ti lasci toccare da me!”

Joan rise di gusto, ma solo perché sapeva che scherzava e che lo faceva par farla sorridere. Infatti, la sua mano non scese mai al di sotto della schiena, mentre l’altra
le sfiorava appena la mano.

Il tempo passò in fretta e Dimitri si offrì di riaccompagnarla a casa, ma Joan  insistette.

“Tu alloggi qui, è già assurdo che mi sia venuto a prendere non accetto un passaggio a casa per poi farti tornare indietro”.

“Ma Joan, lascia almeno che il mio autista di accompagni”.

“Ti ringrazio ma credo che quel poverino ormai stia dormendo e non chiuderei occhio sapendo che gli ho rovinato il sonno”.

Dimitri sorrise di quella accortezza. “Ma allora chi ti accompagnerà?”

“Prenderò un taxi”. Lo rassicurò.

“Sarei più sicuro se ti accompagnasse Cult”.

“Non si preoccupi, signore, ci penso io”. Cult spuntò da chissà dove, proprio alle spalle di Joan.

Pavlov sorrise, elegante. “Bene, allora buona notte e grazie per la compagnia, Joan. Spero che avremo occasione di rivederci”.

Le prese la mano per sfiorarne appena il dorso con le labbra.

“A presto Dimitri”.

Lasciò Cult e Pavlov a parlare e si recò a recuperare il cappotto.

Cercò un taxi in strada, ma non ne passava nessuno libero. Non aveva detto nulla a Dimitri, per non farlo preoccupare, ma col cavolo che sarebbe andata a casa con
Cult! Piuttosto se la sarebbe fatta a piedi su un paio di scarpe troppo alte e troppo aperte per quella notte primaverile ma ancora fredda.

Iniziò a camminare lungo il marciapiede, sperando di trovare presto un taxi libero, quando fu raggiunta da Cult.

“Guarda che la mia auto è parcheggiata dall’altra parte”.

Lei non lo guardò nemmeno, cercando invano di bloccare un taxi con un gesto della mano.

“Bene, buon per te!”

Cult le si fece vicino, camminandole accanto.

“Mi sembrava chiaro che ti avrei riaccompagnato io… Anche Pavlov sembrava d’accordo”.

“Bè, non mi sembra di aver detto che sarei venuta con te!”

“Non hai detto neanche il contrario”.

Joan non accennava a fermarsi, e nemmeno Cult.

“Dai non fare la ragazzina e andiamo a casa”.

A quell’affermazione si infuriò. Se solo avesse avuto un oggetto contundente, glielo avrebbe sbattuto in testa senza pensarci due volte. Si bloccò voltandosi verso di lui
con uno scatto nervoso.

“Ora basta! Non fare tu il ragazzino. Non ti ho mandato al diavolo perché non avevo nessun altro argomento di conversazione. L’ho fatto perché sono stufa e arrabbiata. E se non ho detto niente davanti a Pavlov è solo perché se avessi insistito con la storia del taxi lui avrebbe insistito ancora di più con la faccenda dell’accompagnarmi a casa e io voglio stare sola!”

Scandì con precisione le ultime tre parole, facendo in modo che gli entrassero in testa.

Finalmente un taxi si liberò poco più avanti. Senza aggiungere niente vi salì, senza guardarsi indietro.

Solo nel taxi si concesse di far scendere una lacrima che, solitaria, si infranse su quel meraviglioso vestito.


Sì, mie care. E' esattamente come sembra: questo è un nuovo capitolo! Spero tanto vi piaccia, come sempre.
Io sono mi sto sciogliendo per il caldo e ho perso quasi tutti i neuroni a causa di una della piaghe d'Egitto: la sessione estiva. 
Come?! Nell'antico Egitto non esisteva la sessione estiva?? E avevano anche il coraggio di lamentarsi per quattro cavallette?!
Bah...Comunque divago un sacco, come mio solito. Fatemi sapere e mi raccomando: mantenetevi fresche e ben idratate!
A presto (se, vabbè...Non ci crede più nessuno!!),

xx

 
  
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