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Autore: Elissa_Bane    05/07/2015    1 recensioni
Seguito di "Cercatevi una stanza".
Questo è ciò che accade, un anno dopo l'epilogo.
E' una storia sull'amore.
Perchè l'amore è il primo motore del nostro mondo. Ed è in nome dell'amore che si compiono i gesti più belli e quelli più terribili.
[dal prologo]
Ho capito che non puoi meritare o meno l'amore. L'amore è un difetto chimico, una mutazione pericolosa quasi quanto un tumore, che ti si attacca prima ad una cellula e poi infetta tutto il resto, fino a portarti via anche il cuore. Tanti pensano che il cuore sia la prima cosa che l'amore ti porta via. Non è così: è l'ultima, e quando te ne accorgi ormai è troppo tardi.
Non lo puoi controllare, così come non puoi controllare le tempeste solari. L'amore non ha regole: non puoi scegliere a chi darlo, nè da chi riceverlo. Non puoi smettere di amare a tuo piacimento. Non puoi rifiutarti di amare, per quanto tu ti sforzi. Non puoi controllare l'amore, ed è per questo che ci fa così paura.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Jim Moriarty, John Watson, Mycroft Holmes, Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Deduction Is Easy, Life Is Not.'
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Capitolo 1

How Everything Begun.

Ovvero di bambine, omicidi e litigi irrisolti.

 

Yesterday I died, tomorrow's bleeding.
Fall into your sunlight.
The future's open wide, beyond believing
To know why, hope dies.
Losing what was found, a world so hollow
Suspended in a compromise.
The silence of this sound, is soon to follow
Somehow, sundown.


La mia storia non ricomincia proprio da dove l'avevamo interrotta. Inizia un anno dopo, in un caldo giorno di marzo in cui pioveva a dirotto. «Omicidio. Donna, strangolata al Milestone Hotel.» il buongiorno di Sherlock mi fece scattare in piedi, con una mano già tesa a cercare la tazza di caffè che mi portava ogni mattina, l'altra a legarmi i capelli ormai lunghi abbastanza da sfiorarmi il seno. Gli sorrisi, vestendomi di corsa e uscendo con lui di casa. Ancora non sapevo che quel giorno avrei incontrato uno dei miei amori.

La donna al Milestone era bella, la ricordo anche adesso che sono passati mesi. Come artista so e sapevo riconoscere la bellezza anche nell'abbraccio della Morte e quella donna aveva un delicato aspetto quasi fatato. L'assassino aveva avuto, in un ultimo gesto d'amore o di cortesia, l'accortezza di ricomporla, quasi non volesse rendersi conto del fatto che le aveva appena tolto la vita. Sherlock si era chinato a guardare per terra, mentre io mi ero avvicinata istintivamente alla donna: stesa sul copriletto bianco e oro, aveva lunghi e ricci capelli neri, un delicato naso alla francese e le labbra lievemente dischiuse, come se ancora ci fosse stata un'anima d'aria indecisa se fuggire o meno verso la luce del sole che la baciava. Era stata uccisa circa due ore prima, il segno della collana di perle usata per strangolarla chiaro sul suo collo.
«Clorinda Mayers.» ci informò Lestrade «Una figlia di sei anni, che era nascosta in bagno. Il padre è morto sei mesi fa, suicidandosi.» annuii ringraziandolo.
«Dov'è la bambina?»
«Di sotto. I paramedici l'hanno visitata, sta bene.»
«Chi ha avvisato la polizia?» domandò Sherlock, sfilandosi un guanto, gli occhi improvvisamente metallici.
«Stanley Robbins, il direttore. La signora lo ha chiamato, ma al suo arrivo era già morta.»
Mi ritrovai a fissare ancora una volta Clorinda Mayers e a ripensare a quelle che da bambina erano i miei versi preferiti di tutta la letteratura italiana:

D'un bel pallore ha il bianco volto asperso,
come a' gigli sarian miste viole,
e gli occhi al cielo affissa, e in lei converso
sembra per la pietate 'l cielo e 'l sole;
e la man nuda e fredda, alzando verso
il cavaliero in vece di parole
gli dà pegno di pace. In questa forma
passa la bella donna, e par che dorma.

 

Poi mi voltai, senza più guardarmi indietro, mentre Sherlock mi faceva un occhiolino prima di voltarsi verso un uomo alto e magro, con lunghi capelli biondi e una cicatrice sulla guancia sinistra.

La bambina non piangeva. Era in silenzio, una ciocca di capelli castani stretta attorno alla piccola mano paffutella, solo una lacrima sulla guancia.
«Ciao» le dissi, senza sorridere. Un paramedico scosse il capo.
«Non vuole parlare.»
«Non importa. Parlerò io.» dissi ancora alla bambina, che continuava a guardarmi. «Mi chiamo Cecilia, e puoi benissimo rispondermi a gesti. Hai fame?» un lieve cenno affermativo «Bene. Neanche io ho fatto colazione. Lei viene con me» aggiunsi in direzione di Lestrade, che mi stava raggiungendo con Sherlock.
«Non posso lasciartelo fare. È una testimone oculare.»
«Di cinque anni, spaventata e affamata. Lestrade, la bambina viene con noi.» affermai, vedendo Sherlock mandare un messaggio. Meno di un minuto dopo, avevamo il permesso di portare con noi la bambina.
«Ti piacciono i biscotti?» le domandò Sherlock, prendendola per mano. La piccola lo guardò dal basso, un piccolo gnomo, e inarcò un sopracciglio, come se le avesse fatto una domanda decisamente scontata.
«Perchè vuoi che stia con noi?» mi chiese Sherlock non appena misi piede in casa. Ricordo che a quel tempo ancora cercavo di sfuggire all'amore che mi dava e che fu proprio quella la causa del nostro combattere opponendoci vicendevolmente.
«E' una testimone oculare.» risposi.
Fu in quel momento che tutta la tensione rabbiosa che riposava quietamente nel mio compagno esplose in un primo, piccolo anticipo di ciò che sarebbe accaduto solo il mattino seguente. «Mi confondi, Cecilia. Non mi hai risposto quando ti ho chiesto di sposarmi, ma sembri quasi in procinto di adottare una bambina!» esclamò, mentre io, celando stupidamente i miei sentimenti e i miei dubbi, mi preoccupavo che Piccola, come avevo soprannominato la nostra ospite, non si sedesse su un esperimento che coinvolgeva dell'acido nitrico. Le porsi un piatto di miei biscotti e la feci sedere sulle mie ginocchia, sul divano, prima di alzare lo sguardo.
«Non essere irragionevole, Sherlock. Non la stiamo per adottare.» ribattei, fingendo di non curarmi della prima parte della sua frase, perché era lì che si annidava il problema. Quando, alcuni mesi fa, smisi di scrivere la mia storia, la terminai con la proposta di Sherlock, ma senza dirvi la mia risposta. Per un motivo molto semplice: ancora una risposta non c'era allora, né c'era nel momento di cui vi sto raccontando. Semplicemente non pensavo che una persona come lui si meritasse qualcuno come me, con tutti i suoi problemi e le sue paure stupide.
Accarezzai i capelli castani di Piccola, che sgranocchiava il suo biscotto guardandomi con sguardo interessato, e in quegli occhi innaturalmente vecchi e stanchi trovai una scintilla di rimprovero, ma finsi di non vederla. Le sorrisi, anche mentre la porta sbatteva dietro le falde del cappotto di Sherlock, uscito come una furia.
«Hey piccina, ti andrebbe di andare al parco con un'amica?»

Giulia mi sorrise, vedendomi arrivare, tenendo per mano Guinevre, che fissò con interesse Piccola. Appena le bimbe furono abbastanza vicine da toccarsi, Guinevre allungò la mano e pizzicò la guancia dell'altra. Finirono nel giro di cinque secondi per terra a rotolarsi ridendo e giocando come due micine, e devo dire che adesso le cose sono addirittura peggiorate: quando ci ritroviamo con Giulia, John e Guinevre e dobbiamo poi separarci, quelle due fanno delle scene degne della tragedia greca.
La mia amica mi prese sottobraccio, accompagnandomi ad una panchina. «Ho chiesto in ospedale. I tuoi esami non sono ancora pronti. Appena potrò te li porterò.»
«Grazie» mugugnai sottovoce. «Non parla, Giuls. Non dice una sola parola e io bisogno che parli, per la giuria. È una bambina, è vero, ma è l'unica che ha visto come sono andate le cose.»
«Proverò a parlarle io, anche se non so se funzionerà. Sei tu la prima che le ha prestato attenzione come se fosse stata una persona, a quanto mi ha detto Lestrade. È più probabile che decida di parlare con te.» sentii le sue dita fresche insinuarsi sotto la manica del mio cappotto, scoprendomi il polso. Giulia ha sempre osservato le mie cicatrici in maniera diversa da chiunque altro: chi le ha viste per caso ha sempre pensato a me come ad una autolesionista, o ad una persona da compatire, John le guarda con occhio clinico e militare, di chi riconosce una ferita procurata in combattimento, Mycroft le ignora, Francesca le guarda con dolore, come se fosse stata lei a farle, Sherlock le sfiora con dolcezza e so che ogni volta che le vede ricorda chi e cosa me le ha procurate, così come so che ne è orgoglioso, perché sono una dimostrazione di quello che ho affrontato e vinto. Giulia, invece, non le ignora, non mi compatisce, non ne è orgogliosa. Le tocca, sempre, come se sapesse che le sento fredde e dolorose in certi giorni, le accarezza con delicatezza, le osserva e nei suoi occhi vedo solo affetto. Lei è l'unica che le accetta non come qualcosa che mi è stato messo addosso, ma come parte di me. È l'unica ad aver capito, oltre a Sherlock, che non le odio, ma che semplicemente non m'importa che esistano. Sono altre le cicatrici che mi feriscono ancora adesso.

«So che dovrei stare zitta, ma è passato così tanto tempo. Cosa ti trattiene ancora?» domandò dopo un po', una mano sempre morbidamente posata sul mio polso. Sherlock era andato a parlare con John, compresi.
«E' passato così tanto tempo» risposi, riprendendo le sue parole e guardando le bambine giocare, mentre il sole filtrava tra le foglie degli alberi «Non sono sicura.»
«Ma perché? Lo ami, si vede» mi disse, con quel tono che usava per dirmi che ero un'idiota e non capivo nulla. «Lo ami da quando vi siete incontrati la prima volta.»
«Oddio, non esagerare» risi, cercando di smorzare la tensione «Lui non merita una come me» ammisi dopo un'occhiataccia della mia amica «Potrebbe avere chiunque, una bella ragazza normale, magari.»
«Ma lui non ha voluto chiunque. Ha voluto te.»
Scossi la testa con il fare stanco di chi non spera più di tanto in un finale felice. «Preferisco evitare di pensarci. Non posso sposarlo, non posso rovinargli così la vita.» Giulia posò il capo sulla mia spalla, facendo scorrere con delicatezza le dita sulla cicatrice, e rimanemmo in silenzio finché Guinevre e Piccola non si avvicinarono. La bambina, che continuava a non pronunciare parola, mi si arrampicò sulle gambe, liberandomi una coccinella fra i capelli. Risi della sua risata quando volò via in un frullio leggerissimo d'ali, fingendo di essere felice.


«Sherlock, siamo a casa!» esclamai entrando. Il mio compagno mi trafisse con quegli occhi ghiacciati come l'Inferno e notai immediatamente la sua rabbia, per nulla svanita, ma con un cenno del capo gli feci capire che non ne avrei più parlato davanti alla bambina. Piccola aveva visto sua madre morire, non le serviva di certo che ci mettessimo a litigarle davanti! C'era qualcosa che mi spingeva a proteggere quella bambina, ma allora lo avrei identificato solo come un forte senso del dovere, non certo come l'amore che oggi dichiaro apertamente di provare per mia figlia.
«Se vuoi farti una doccia prima di andare a cena da tua sorella, hai tempo» mi avvertì laconico, prendendo Piccola dalle mie braccia e sorridendole. «Ancora non parli, eh?» lo sentii prenderla in giro, mentre mi dirigevo verso il bagno. Sotto l'acqua bollente i miei cupi pensieri presero il sopravvento e, quando uscii, la vista del mio corpo nudo, con quelle cicatrici invisibili che pure io vedevo chiaramente, oltre a quelle visibili, mi lasciò boccheggiante. Davvero Sherlock amava questa cosa che ero? Davvero amava questa creatura spezzata e tremante, che nemmeno riusciva ad ammettere di avere dei sentimenti reali e positivi? Come poteva farsi questo? Barcollai fuori dal bagno a fatica, stretta nell'accappatoio e tremante di terrore, rifugiandomi in camera. Sentii la porta sbattere dietro di me e mi accorsi solo più tardi che il mio compagno mi aveva raggiunto e mi stava abbracciando, non curandosi dei miei capelli che gli bagnavano la camicia immacolata.
«Calmati. Respira.» ricordo che, nel buio improvviso che mi aveva circondato, riuscivo a percepire solo la sua voce. Non avevo tatto, né vista, né olfatto ad aiutarmi e il mio udito si limitava a riportarmi le sue parole. Mi ci aggrappai disperatamente, ma fu solo quando sentii una manina calda sulla guancia che i miei occhi ripresero a vedere. In quel momento sentii qualcosa. Un piccolo verso, emesso a labbra chiuse dalla bambina, una canzone.
«Sherlock» gracchiai, artigliandogli le mani strette intorno a me «Ascolta. Sta cantando.» Seguii la melodia con aspettativa, ma la piccola non disse una parola. «Hey Jude» allora cominciai, cercando di farle capire che anche io sapevo quella canzone, che volevo cantarla con lei. «Don't make it bad. Take a sad song-»
«And make it better.» una vocina flebile e spaventata, come quella di un uccellino.
«Quindi parli, mostriciattolo» le sorrise il mio compagno. «Come ti chiami?» Ma la bimba non rispose, continuando a canticchiare sottovoce le note della canzone. «Non vuoi parlare?» Piccola annuì. «Ma cantare va bene.» Un cenno di assenso. «Ti chiami Jude, vero?» continuò Sherlock, sorridendo vittorioso quando Piccola, ora Jude, fece un gran sorriso annuendo. Due mani pallide e dalle dita lunghe si strinsero intorno al suo corpicino e Sherlock la trascinò verso di noi. Le mie braccia si chiusero istintivamente intorno alla bambina che mi abbracciava, una mano sul suo capo e l'altra sulle reni. Per un istante mi dimenticai anche che Sherlock non era mio marito e che Jude non era mia figlia. Per un istante mi sentii una persona normale con una famiglia normale.

 

«Mycroft»
«Sherlock» Mentre i due fratelli si salutavano come due idioti (perché io voglio un gran bene anche a Mycroft, ma tra lui e Sherlock non so chi sia il peggiore a fingere di non tenere all'altro), si avvicinò mia sorella, zoppicando solo lievemente con le stampelle, residuo dell'incidente causatole da Marta.
«Solo un mese!» annunciò trionfante, sventolando una stampella per aria e abbracciandomi ridendo. Quando vide Jude, il suo sorriso sembrò cristallizzarsi. «E' lei il motivo per cui hai chiamato Myc stamattina?» domandò a Sherlock e, quando lui annuì, inarcò un sopracciglio con aria severa. «Una bambina non è un gioco.»
«Jude non è un gioco.» rispose il mio compagno, forse pensando che quella bambina avrebbe salvato il nostro rapporto. E solo ora che riconosco quello sguardo che aveva negli occhi chiari, quella muta preghiera di dargli una possibilità, di dare una possibilità a me stessa e alla nostra felicità. Ma allora il nostro rapporto era ancora una spada non completamente forgiata e io non seppi comprendere quella preghiera.
«Ti chiami Jude, allora» disse Francesca alla bambina, che rimase in silenzio.
«Parlale» le canticchiai «E' mia sorella, si chiama Francesca.» Jude allora affondò il viso nel mio collo, sussurrandomi che non voleva. E, in effetti, non cambiò idea finché Mycroft non portò a tavola la torta, un'enorme crostata di frutta, e gliene diede una fetta. Allora la bimba si sporse a dargli un minuscolo bacio sulla guancia, sussurrando un ringraziamento e imbarazzando in maniera comica l'Uomo di Ghiaccio.
Ma, quando guardai Sherlock, vidi che aveva gli occhi spenti.

 

 

 







Note dell'autrice: grazie come sempre a tutti voi che mi leggete, che mi avete messo tra i seguiti o tra i preferiti! La canzone citata all'inizio è "Shattered" dei Trading Yesterdays, mentre la citazione della morte di Clorinda è dalla Gerusalemme Liberata di Tasso. Infine, le cicatrici di cui parla Cecilia al parco con Giulia sono quelle causatele dalle corde metalliche di Enea (scusate, non ero sicura che si capisse), la canzone cantata da Jude è "Hey Jude" 
Grazie ancora!
xxx
Dan

 

 

  
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