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Capitolo 18 -
Quando
tornò in camera, erano ormai le 05:30
del mattino. Si lasciò cadere sul letto, e pianse tenendo
stretto il suo
cuscino dove, qualche giorno prima, Tom aveva lasciato il suo profumo.
Lo
inspirò a pieni polmoni, cercando di memorizzarlo il
più possibile, dimodoché
potesse ricordarselo per sempre.
Heidi
e i suoi genitori, l’avevano sentito,
fino ad addormentarsi per quel poco tempo, ma non dissero nulla.
Sapevano
benissimo che, se avessero provato a parlare, Bill avrebbe risposto
male. Molto
male. Sorvolarono, anche se, vedere il figlio in quelle condizioni, era
molto
doloroso.
*
‹‹Heidi,
hai preso tutta la tua roba?›› Simone
aveva due valigie nella mano destra, un borsone sulla spalla sinistra e
uno a
destra e un trolley nella mano sinistra.
‹‹Sì,
mamma. Quante volte devo ripetertelo? È
la seconda volta che me lo chiedi. Qui l’unico problema
è come portare i
bagagli di Bill fuori di qui. Occuperanno tutto il
corridoio.››
Simone
lasciò quei bagagli e cercò di aiutare
la figlia a portare fuori le valige del fratello.
‹‹Quello
stronzo. Solo perché è emotivamente
distrutto, non vuol dire che io debba fare tutto il suo
lavoro.›› affermò
Heidi, con un cenno di sforzo nella voce. Provò a tirar
fuori l’enorme valigia
di Louis Vuitton da sotto il letto.
‹‹Quella
valigia vale più di tutto il mio e il
tuo guardaroba messo assieme. Se vai a graffiarla solo un
po’, sappi che Bill
potrebbe ucciderti molto dolorosamente.››
avvertì Simone, cercando di aiutare
la figlia a non combinare nulla.
‹‹Papà
poteva anche darci una mano a sistemare
la roba, invece di andare beatamente a fare colazione. Non è
possibile che
tutto il duro lavoro dobbiamo farlo io e te.››
‹‹Siamo
le donne di casa, figlia mia. Non puoi
dare agli uomini un lavoro che solo una donna può
fare.››
‹‹Ma
puoi dare ad una donna, il lavoro che può
fare un uomo.››
‹‹Questo
è vero.›› Sorrise Simone, riuscendo
finalmente a togliere la vaglia da sotto il letto.
‹‹Bene, adesso ne mancano
solo altre sei.››
*
‹‹Non
mangi?›› chiese Gordon, addentando per
l’ultima volta quella fantastica brioche che, sicuramente,
non avrebbe mai più
mangiando in tutta la sua vita. Della crema gli sporcò
leggermente l’angolo
della bocca. Lo leccò con poca grazia.
Bill
non rispose. Portava gli occhiali da sole,
nonostante quella mattina, il tempo sembrava essere alquanto
minaccioso. Non
c’era nemmeno uno spiraglio di luce. Le nuvole erano grigie,
dense, e molto
compatte fra loro. Un forte odore di pioggia, inebriava
l’aria.
Erano
ancora in navigazione ma, nel giro di
un’ora, sarebbero arrivati a Venezia. Erano già in
territorio italiano da quasi
due ore. Guardò il uso telefono. Il campo era ancora
completamente assente.
Stava pensando a Sarah. L’aveva sentita davvero pochissimo.
Gli aveva promesso
che, al suo ritorno, le avrebbe raccontato tutto. Forse
però, ora non aveva più
tutta questa voglia di farlo.
‹‹No.
Non ho fame.››
Continuava
a guardare verso il mare. Le sue
guance erano bagnate. Ogni tanto tirava su col naso, asciugandoselo con
un
fazzolettino ormai del tutto sporco di lacrime.
‹‹È
per quel ragazzo, non è vero?››
Disse
poi di punto in bianco Gordon, mandando
giù l’ultimo boccone di brioche. Bill si
girò di scatto e, inaspettatamente,
mise gli occhiali sulla fronte. Gordon poté notare i suoi
occhi gonfi e rossi,
ancora pieni di lacrime.
‹‹No
ne voglio parlare okay? Lasciami in
pace.›› quasi urlò, alzandosi di
scatto dalla panca. Attirò l’attenzione di un
paio di francesi che si erano appena seduti al tavolo dietro il loro.
Lasciò
Gordon da solo. Spiazzato.
*
‹‹Abbiamo
sistemato tutte le valigie fuori
dall’ingresso. C’è da dire che, quelle
di Bill, hanno occupato gran parte del
corridoio. A proposito, non è con
te?›› disse Simone, sedendosi accanto al
marito. Prese del pane e della marmellata di albicocche, un
po’ di burro e del
succo di prugna. Iniziò ad imburrare la fetta di toast.
‹‹È
corso via quasi dieci minuti fa. Non so
dove sia.››
‹‹Povero
piccolo. È davvero distrutto. A
pensare che non voleva venire, inizialmente.››
‹‹Non
credo che la supererà facilmente questa
cosa.››
‹‹Conoscendo
Bill…››
*
Era
sul divano della sala d’accoglienza dove,
una settimana prima, era giunto lì per la prima volta.
Guardava a destra e a
sinistra, nella speranza di poterlo trovare.
Quella
stessa notte, dopo che Tom gli aveva
confessato che si era innamorato di lui, era scoppiato a piangere. Gli
aveva
gettato le braccia attorno al collo e gli aveva detto che, molto
probabilmente,
anche lui provava la stessa cosa. Lo strinse più forte che
poté, quasi a
toglierli il fiato. Lo supplicò di non andarsene ma,
entrambi, sapevano che non
poteva accadere una cosa del genere. Videro l’alba sul ponte,
insieme,
abbracciati, dopo aver fatto l’amore nell’uovo di
vimini. Era un posto intimo,
tranquillo e assolutamente inesplorato. Raramente salivano
lì sopra.
Sarà
il nostro posto.
Sì.
Il nostro.
Aveva
detto Tom. Entrambi, avrebbero voluto
che, quel bellissimo momento, non fosse mai finito. Avrebbero voluto
che
durasse in eterno. Il vento fresco che scompigliava loro i capelli; il
leggero
albeggiare del sole, sul loro viso; il profumo fresco e pungente del
mare. Era
davvero una favola quella che stavano vivendo? Con la sola differenza
però, che
non c’era un lieto fine.
Presto
Tom, avrebbe preso un aereo per andare
in America; lui, un autobus che lo avrebbe condotto
all’aeroporto di Verona,
diretto a Berlino.
Tom
non c’era. Lo stava aspettando da quasi
un’ora. Ma non lo vide arrivare. Non aveva chiuso occhio
tutta la notte e, il
sonno, cominciava a farsi sentire; e proprio quando decise di
distendersi per
l’ultima volta su quel divano, lo vide arrivare.
Gli
si illuminarono gli occhi e, con uno
scatto, balzò in piedi, dirigendosi verso di lui. Gli
saltò addosso.
‹‹Temevi
che non venissi più?››
‹‹Ad
un certo punto l’ho pensato, sai?››
‹‹E
non venivo a salutarti?››
Non
rispose. Lo prese per mano.
‹‹Mi
sono addormentato. Non ho chiuso occhio da
quando siamo tornati in camera.››
‹‹Io
ho dormito un’ora, forse.›› disse Bill
sorridendo, seppure in maniera triste. Si lasciò
trasportare.
‹‹Ho
dimenticato una cosa in camera. Sali con
me. Io tra venti minuti dovrò sbarcare. Il mio aereo parte
fra due ore. Siamo
già parecchio in ritardo.››
Bill
non disse nulla. Lasciò che Tom lo
trascinasse con sé verso la sua cabina. Ancora un volta. Per
un’ultima volta.
Si misero a correre per tutto il corridoio della nave. Passarono per il
ponte. Quel ponte. Era come se non
fosse
successo assolutamente nulla. Tutto era al proprio posto.
L’alluvione non c’era
mai stata prima.
Salirono
dieci piani a piedi, correndo. Quando
arrivarono al loro deck, erano
stremati e con il fiatone. Bill lasciò la mano del ragazzo e
le poggiò entrambe
sulle ginocchia, piegandosi leggermente per cercare di riprendere
fiato.
‹‹Giuro…che…se
mi hai
fatto…salire…inutilmente…ooouufff…ti
uccido.›› disse quasi senza fiato,
respirando molto lentamente per riprendere aria. Tom non aveva
abbastanza fiato
per rispondere. Non disse nulla e baciò con un sorriso sul
volto il ragazzo
biondo.
‹‹Hanno
già portato via le mie
valigie…›› disse
poi lui. Bill dette una fugace occhiata un po’ più
infondo al corridoio. Anche
le sue valigie non c’erano più.
‹‹Anche
le mie…››
Volse
nuovamente lo sguardo verso Tom, notando
i suoi occhi leggermente velati.
No,
non può piangere
un’altra volta.
‹‹Tom,
ti prego…››
‹‹È
davvero finita, quindi?›› Bill non rispose,
e attese che Tom aprisse per l’ultima volta la porta della
sua cabina. ‹‹Tu
aspettami qui. Torno fra un secondo.››
così fece. Bill attese qualche minuto
sull’uscio della porta, prima di vedere comparire nuovamente
Tom con una
fialetta in mano.
Bill
la guardò stranito. Cosa poteva essere?
Tom lo precedette, rispondendo immediatamente alla domanda che Bill
stava
sicuramente per porgli.
‹‹È
il campioncino del profumo che uso io. Lo
porto sempre in borsa con me.›› lo porse al
biondo senza indugiare ancora. ‹‹Ah,
quasi dimenticavo. Questa è una lettera che ti ho scritto.
Devi promettermi che
non l’aprirai.›› Il rasta porse
entrambe i regali al biondo che, perplesso,
afferrò.
‹‹Ma…non
capisco. Perché non dovrei leggere la
tua lettera?››
‹‹La
leggerai quando sarà il momento
giusto.››
‹‹Ed
io come farò a sapere quando sarà il
momento giusto, Tom?›› Tom non rispose. Sorrise e
gli baciò le labbra.
‹‹Questo
è tuo. Voglio regalarlo a te. Vorrei
che ti ricordassi di me, quando un giorno ti sentirai solo. Voglio che
non ti
dimentichi del mio profumo. In un modo o nell’altro,
sarò sempre accanto a
te.›› la sua voce era rauca, spezzata, cupa. Gli
accarezzò una guancia,
delicatamente. ‹‹Non importa quanto lontani
saremo; non importa quanto tempo
passerà prima di rincontrarci; ma ricordati…non
sarà l’oceano a separarmi da
te. Tornerò a prenderti, Bill. Mi hai
capito?›› afferrò il suo viso con
entrambe le mani, costringendolo a guardarlo dritto negli occhi.
‹‹Questa è una
promessa. Io tornerò da te.›› lo
baciò con così tanta forza che a Bill, quasi
gli fece male. Era finita. Era finita per davvero.
Bill
avrebbe voluto piangere, avrebbe voluto
gridare tanto era il dolore che stava provando. Aveva trovato una
persona che,
molto probabilmente, lo avrebbe amato per il resto dei suoi giorni.
Perché
doveva andare a finire proprio così? In questa maniera?
Perché dovevano
lasciarsi?
Restarono
abbracciati lì, in quel corridoio,
per un tempo quasi indefinito. Bill inspirò a pieni polmoni
il suo profumo,
affondando il viso nell’incavo del suo collo.
‹‹Non
dimenticarmi…›› disse poi flebilmente
lui, staccandosi controvoglia da quell’abbraccio
così intenso. Avrebbe voluto
non farlo mai. Frugò nella propria tasca, in cerca di
qualcosa da poter
regalare a Tom. Qualcosa di molto intimo e personale. Non aveva
assolutamente
nulla. D’un tratto però, si guardò le
mani. Aveva un anello in acciaio, a
fascia larga, con scritto il suo nome. Lo regalò suo nonno
al compimento dei
suoi diciotto anni. Era una cosa molto importante per lui, e avrebbe
voluto che
Tom l’avesse.
‹‹Tieni,
questo è tuo.›› sfilò
l’anello dal
medio e lo porse al rasta. ‹‹Questo lo affido a
te. Me lo ridarai quando
tornerai da me.››
‹‹No,
Bill. Io…io non posso accettarlo.››
provò
a restituirlo, ma Bill oppose resistenza.
‹‹È
solo un prestito. Sarà tuo fin quando non
ci rivedremo. È una promessa questa.››
‹‹…non
sai nemmeno se sarà così, Bill. Potrai
perdere quest’anello per sempre.››
‹‹Se
così fosse, saprò che è in buone mani,
e
tu avrai un ricordo di me. E comunque, mi hai appena detto che ci
rincontreremo, che tornerai a prendermi. Stai per caso
mentendomi?››
Il
rasta scosse il capo.
‹‹No,
Bill. Non ti ho mentito. Io lo voglio, e
ci credo non tutto il cuore. Ma non si sa quando accadrà una
cosa del genere.››
Un
altro abbraccio; un altro forte ed intenso
abbraccio. Era giunta l’ora. Dovevano salutarsi. Nessuno dei
voleva staccarsi
dall’altro.
‹‹Ti
aspetterò, Tom. Ti prometto che lo
farò.››
Prima di salutarlo però, stava dimenticando la cosa
più importante: il suo
numero di cellulare e il suo contatto facebook.
‹‹Tieni Tom, questo è il mio
numero e il mio facebook. Metterò tutte le foto che abbiamo
fatto; accettami,
così ti taggo.›› Bill porse il
bigliettino a Tom.
‹‹Va
bene, splendore.›› sussurrò il rasta,
baciandolo ancora una volta.
D’un
tratto apparve Gustav, affannato.
‹‹Ti
ho cercato ovunque. Si può sapere che fine
hai fatto? Tocca a noi, Tom. Dobbiamo andare.››
Tom
non lo ascoltò. Restò nella stessa
posizione in cui era pochi attimi fa. Cominciò a sussultare
piano. Baciò
dolcemente la fronte di Bill, il collo, l’orecchio, lo
strinse ancora più forte
e, inaspettatamente, gli sussurrò:
‹‹…ti
amo!›› si allontanò di scatto e, prima
che il biondo potesse reagire, prese a correre verso l’amico,
lasciando Bill
così, attonito e con la vista appannata. Improvvisamente la
testa cominciò a
girargli. Aveva sentito bene?
‹‹…Tom…››
bisbigliò nel vuoto ma, quando tornò
in sé, era ormai troppo tardi. Tom era già andato
via.
*
Aveva
la testa poggiata sul finestrino, questa
volta non gli importavano tutte le botte che stava prendendo. Il dolore
era ben
altro. Da quando aveva lasciato la nave, non aveva proferito parola con
nessuno. Non aveva avuto nemmeno il pensiero di chiamare la sua
migliore amica
Sarah. In quel momento, non aveva voglia di fare assolutamente nulla,
né tanto
meno avere un contatto con qualcuno. Voleva solo tornare indietro da
lui. Provò
a chiudere gli occhi almeno fin quando non sarebbero giunti
all’aeroporto;
anche se questo, non avrebbe fatto altro che male. Chiudendo gli occhi,
le
immagini di Tom scorrevano rapide, innumerevoli, e questo gli faceva
ancor più
male di quanto avesse immaginato. L’addio, era stato
più difficile del
previsto, e la lontananza, sarebbe stata ancor peggio.
*
‹‹Bill,
non parli da quando ce ne siamo
andati…››
disse Simone, mentre sistemava il suo bagaglio nello stipetto
dell’aereo.
Il
biondo non rispose. Aveva le cuffiette nelle
orecchie e lo sguardo rivolto al finestrino.
‹‹Lascialo
stare, tesoro, non sarà stato facile
per lui salutare quel ragazzo.›› si intromise
Gordon, aiutando la moglie a
sistemare i bagagli. ‹‹Vedrai che gli
passerà.››
Gordon
si sbagliava. Si sbagliava di grosso.
Non aveva la minima idea di cosa Tom, gli avesse fatto provare in una
sola
settimana. Poteva sembrare strano, ma era così dannatamente
semplice.
No.
Non sarebbe passata facilmente, anzi, non
sarebbe passata affatto.