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Autore: BaschVR    18/01/2009    5 recensioni
Il giorno della morte di Zack Fair, il cielo era nuvoloso, ed egli era morto lasciando qualcosa più grande di lui su questa Terra.
Il giorno della morte di Cloud Strife, pioveva, e la sua dipartita aveva messo in moto parecchi avvenimenti che avrebbero portato fine ad una lunga storia.
In entrambi i casi Aerith Gainsborough, in un modo o nell'altro, era una delle dirette responsabili: perché la follia non esiste finché non la si considera come tale.
Genere: Dark, Mistero, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Aeris Gainsborough, Altro Personaggio, Cissnei, Cloud Strife, Zack Fair
Note: Alternate Universe (AU), OOC | Avvertimenti: nessuno
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Salve a tutti! Prima di cominciare a tediarvi con la narrazione, occorre attuare qualche piccola precisazione. Questa è una Alternative Universe, e quindi, non si colloca in nessun modo nell’universo narrativo di Final Fantasy VII. Quindi non è mai successo nulla di quello che ci racconta la trama del videogame. Tuttavia i luoghi ed alcuni personaggi sono stati presi dal videogame originali. Questi elementi non sono di mia invenzione e quindi (logicamente) appartengono ai rispettivi proprietari, che, come tali, ne detengono tutti i diritti. Inoltre non sono utilizzati a fini di lucro.

Occorre anche precisare che la narrazione è alterata: più che altro la storia si sviluppa in quest’ordine: dapprima nel presente, poi continua con un lunghissimo flashback, e poi, ancora una volta, ritorna al  presente. Per semplificare la comprensione, metterò delle date che aiuteranno a capire il tempo in cui si svolge la storia.

Forse questo capitolo, il prologo, vi lascerà lievemente spiazzati, ma non vi preoccupate, col flashback successivo si spiegherà tutto (forse XD)!

Bene, direi di cominciare, vi auguro buona lettura!

 

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Lacrimosa

 

“Lacrimosa dies illa,
qua resurget ex favilla
judicandus homo reus […]”

Messa da Requiem, Lacrimosa – Wolfgang Amadeus Mozart

 

Prologo: Opporsi al destino

24 Novembre 2009, 15:45  

Quel giorno la nebbia dominava tutto. Dominava il cielo, la terra, ogni cosa era soggetta al suo volere. Sembrava far da scudo alle vicende terrene, e il suo manto avvolgeva le vie quasi deserte, le strade, i viali, le case, le anime della poca gente che stava in strada. Un cane, disorientato dalla scarsa visibilità, barcollava incerto per i luridi vicoli di Midgar; si faceva strada tra l’immondizia, rabbrividendo per il freddo innaturale di quella strana giornata, scostando con la zampa una lattina usata, guardando il cielo plumbeo, così diverso da quello azzurro che fino a ieri regnava tra le candide nuvole bianche, simili ad un gregge che pascolava nel cielo.

E mentre il cane guardava con nostalgia al passato, c’era chi invece addirittura lo rimpiangeva. Si sa, il presente non è sempre benaccetto. A volte, si farebbe di tutto per tornare indietro, rivivere ciò che è passato, cercare di dare una spiegazione a ciò che avverrà. Era semplice capire quanto potesse essere strano vivere in tal modo. La difficoltà era trovare la forza di andare avanti. Era a questo che pensava l’uomo che camminava lentamente per una via secondaria della città, avvolto in un cappotto pesante per sferzare il freddo di quella giornata. Gli occhi azzurri erano stanchi, l’espressione preoccupata. Il suo nome era Cloud Strife.

Cloud non aveva mai avuto ché di lamentarsi. Una famiglia ricca, una moglie amorevole, un figlio fantastico, un buon lavoro. Una vita che molti avrebbero considerato perfetta. E all’apparenza, lo era. Ma spesso, per capire davvero la gente, bisogna guardare sotto la superficie. Allora sì che tutti avrebbero notato la verità. Cloud lo sapeva benissimo. Per scalare il successo aveva dovuto scavare nella gente, riuscire a capire tutte le motivazioni intrinseche dei loro gesti, cercare di aiutarle ed infine lasciarle andare da sole.

Era la sua capacità di comprendere a fondo le persone, che lo aveva portato fino a quel punto, nel bene e nel male. I suoi piedi urtarono qualche ciottolo. Mise le mani in tasca, e si maledì per non aver portato i guanti con lui. Non poteva perdere tempo per tornare a casa, ci sarebbe voluto troppo tempo per far ripartire la Lamborghini, date le condizioni in cui era ridotta. Ed era sicuro che lei lo stesse seguendo, la sentiva. Sentiva i suoi passi, nella realtà, o forse soltanto nella sua mente, la sentiva vicino a sé, la sentiva pronta a vendicarsi per il torto subito. Sicuramente aveva seguito la pista lasciata dalla sua macchina distrutta. E, una volta giunta in quella zona della città, probabilmente era stato facile intuire dove sarebbe andato. E sicuramente l’aveva seguito. Ma dopotutto non gli importava. Forse era arrivato il momento della vera azione, il momento che sapeva sarebbe arrivato. Forse.

Oltrepassò una strada secondaria a passo svelto, mentre le prime gocce di pioggia gli bagnavano il viso. Si maledì nuovamente per non essere stato previdente riguardo all’eventualità che potesse piovere, e a denti stretti, seguitò nella sua improbabile passeggiata. Mentre il vento si alzava e la pioggia batteva sul suo viso, Cloud pensò che mai era caduto così in basso, e che probabilmente non lo sarebbe stato ancora per molto, se tutto andava come prevedeva. Nel bene o più probabilmente nel male, tutto sarebbe presto finito.

Si stava scavando la fossa con le sue stesse mani? Stava percorrendo la strada verso il patibolo? Forse, probabile, sicuramente era così. Lo sentiva, così come sentiva il vento che soffiava sul suo viso, la pioggia che batteva sui capelli oramai bagnati fino alla radice, come il silenzio innaturale di quelle strade. Strinse l’impermeabile, poi alzò la testa ed osservò le guglie gotiche della cattedrale che si ergeva di fronte a lui. In quel momento, un lampo squarciò il cielo, illuminando l’elaborata facciata della chiesa che aveva di fronte, che si stagliava su, in alto, fino a toccare il cielo. Era una cattedrale grandissima, ma quel giorno deserta. Dopotutto, anche il più strenuo dei fedeli avrebbe avuto difficoltà a lasciare la propria casa con quel tempo, naturale che la chiesa fosse vuota.

Ma il grande portone in quercia era aperto, come sempre, e Cloud, senza più nessuna titubanza, entrò.

La prima cosa che lo colpì fu la luce soffusa che proveniva dalle finestre, di solito sempre così luminose e piene di vita grazie alla luce proveniente da fuori. Poi vide qualche candela accesa nel banco delle offerte dei fedeli, che stranamente emanava più bagliore del solito, forse per l’assenza della grande luce che di solito caratterizzava la grande sala. Infine, provò un brivido di solitudine nel vedere le navate vuote, senza nessuno che le riscaldasse con le proprie preghiere.

Mosse un passo in avanti, poi un altro, e un altro ancora, nella lenta camminata che portava verso l’altare, attraversando in silenzio la navata. Ogni passo era un rimbombo che scuoteva la chiesa, come se l’ambiente circostante fosse soggetto ad un terremoto. Da una cappella laterale, l’occhiata penetrante di qualche santo lo attraversava, con un sorriso austero e compiaciuto sul viso. Scuotendo la testa, si fece avanti, fino a raggiungere il buio dell’altare. Un lampo illuminò per un attimo la chiesa, poi l’oscurità torno a regnare sovrana. Cloud si mosse verso una porta ai lati dell’altare e provò ad aprirla, ma con irritazione vide che era chiusa.

“Padre McRonis!” chiamò l’uomo. La sua voce rimbombò per la chiesa, senza ricevere nessuna risposta.

“Padre McRonis, mi sente?” ripeté Cloud, alzando il tono della voce. Ancora una volta nessuno gli rispose, ma proprio quando pensava che ormai non ci fosse nessuno, ecco dei passi frettolosi che provenivano da una delle porte laterali.

“Chi è?” chiese una voce maschile, sospettosa, aldilà della porta in legno.

“Sono Cloud Strife” rispose l’uomo. “Potrei parlarle? Ne avrei bisogno”

Una chiave consunta e arrugginita girò nella toppa, e la porta si aprì, rivelando la figura rassicurante di un uomo di chiesa, cinquantenne, chiamato Padre Davis McRonis. Il Reverendo McRonis era sempre stato un devoto servitore di Dio. I più anziani fedeli della comunità lo ricordavano ancora da ragazzo, quando si occupava delle attività giovanili della chiesa. Ricordavano la sua sicurezza, il suo coraggio, la sua voglia di aiutare il prossimo. E queste erano le qualità che trovavano anche nel McRonis del presente, divenuto un punto di riferimento per tutti coloro che cercavano aiuto.

“Dottor Strife” esclamò il reverendo, felicemente sorpreso “Sapevo che sarebbe venuto presto, ma non mi aspettavo di vederla in una simile giornata. Prego, entri”  e gli fece cenno di seguirlo oltre la porta che aveva appena aperto. Richiudendo la porta alle sue spalle, Cloud pensò che non aveva ancora molto tempo, se le sue supposizioni erano esatte. Seguì il reverendo per uno stretto e angusto corridoio,  fino ad un accogliente stanza dominata dalla penombra, ma illuminata fiocamente da un caminetto acceso.

“Si sieda pure” disse Padre McRonis. Cloud, un po’ teso, si accomodò su una delle due poltrone illuminate dal camino, e si lasciò riscaldare dal tepore delle fiamme. “Come sta sua moglie?”

“Oh, Cissnei sta bene” rispose Cloud assente.

“Bene, le dica che la saluto” proferì il reverendo, sorridente.

“Senz’altro” si susseguirono alcuni secondi di silenzio. “Immagino che sappia perché sono venuto” disse poi, fissando il fuoco ardere scoppiettando nel camino.

“Beh, credo di si” rispose l’altro, in tono greve “Sa, a dire la verità mi ha stupito non vederla al funerale dell’altro ieri. Credevo che lei e il signor Fair foste amici”

Alla menzione del cognome dell’amico, Cloud si sentì, se possibile, ancor più depresso di prima. Gli era dispiaciuto moltissimo non essere presente al funerale di Zack, ma non poteva presentarsi, non dopo tutto quello che era successo con lei. Ma non doveva dire la verità a nessuno. Non poteva rischiare che quella storia venisse a galla. Anche per il bene dell’ormai defunto Zack.

Decise quindi di mentire. “Si, mi dispiace molto, ma purtroppo ero impegnato in un viaggio d’affari” disse quindi.

“Sua moglie e suo figlio, invece, sono venuti” rispose il reverendo.

“Si, me l’hanno detto” assentì Cloud.

Ancora qualche minuto di silenzio. Poi Cloud si fece coraggio e chiese una cosa che gli stava parecchio a cuore.

“E la signora Fair? Come stava?”

McRonis sospirò. “Non ha mosso ciglio durante la cerimonia. Beh, d’altronde era chiaro che provava moltissimo dolore. E come darle torto?”

“Già” sussurrò Cloud in risposta, assorto nei suoi pensieri. Appena si riprese, decise di andare al sodo, chiedendo ciò per cui era venuto.

“Reverendo, Zack Fair è stato sepolto nel cimitero privato dietro la chiesa?”

“Certamente” rispose McRonis “come tutti i membri illustri della nostra comunità. Un giorno questo onore spetterà anche a lei. Ovviamente spero il più tardi possibile”

Cloud sorrise amaramente, decidendo di non infierire su quell’ultima affermazione decisamente priva di tatto. “Vorrei poter entrare nel cimitero privato. Vorrei far visita alla tomba del mio amico”

Il Reverendo aprì un cassetto e vi frugò all’interno, poi gli porse una chiave. “Immaginavo che volesse andare a trovarlo, così mi sono premurato di farle una copia”

“Beh, grazie” rispose Cloud prendendo la chiave in mano, fredda al tatto.

“Vuole scusarmi, devo prepararmi per la funzione serale” disse dopo un po’ il Reverendo “Anche se con questo tempo, non credo che verranno in molti”

“Allora la lascio” rispose Cloud, alzandosi.

“Mi ha fatto molto piacere la sua visita” rispose McRonis “venga a trovarmi presto”

“Lo farò” disse Cloud, pensando che probabilmente stava mentendo. Ma non dipendeva da lui. Ancora una volta, come sempre, si era fatto trascinare dagli eventi, così diversi da lui eppure così simili ai suoi pensieri. Quella giornata di pioggia, che gli era parsa tanto inospitale, adesso gli appariva come… liberatoria. Dopotutto, cos’è la pioggia, se non acqua? Ogni temporale porta con sé la speranza di un sole splendente, e per un attimo, mentre si dirigeva verso il cimitero, verso il suo insicuro “patibolo”, si dimenticò del passato, dell’incidente con la Lamborghini, della famiglia che lo aspettava a casa, di Cissnei, di suo figlio, e persino di lei, pur sapendo che ben presto l’avrebbe rivista per l’atto finale della sua storia.

 

 

 

 

Mentre la pioggia lasciava il passo ad una sempre più fitta nebbia, lei camminava per le strade bagnate del centro, verso quella chiesa che era stata meta di Cloud Strife parecchi minuti prima. I suoi occhi verdi si mossero con circospezione per l’area circostante, cercando un qualunque segnale di anomalie. La sua mano, nella tasca dell’elegante soprabito nero che indossava, si chiudeva sul calcio di una pistola appartenuta al marito, morto qualche giorno prima. Non conosceva neppure il modello dell’arma, eppure era sicura di saperla usare. Dopotutto, è difficile premere un grilletto? No, ci voleva solo un po’ di sangue freddo. Beh, di coraggio lei ne aveva da vendere.

Diamine, com’era potuta arrivare a tanto? Si sentiva in qualche modo irriconoscibile. Un brivido la attraversò, e si strinse ancora di più al suo cappotto scuro. Lo stesso che aveva utilizzato il giorno del funerale. Scuotendo la testa, si disse di non pensare al passato, e, con rinnovato vigore, si diresse verso la cattedrale che già riusciva ad intravedere attraverso spiragli vuoti tra i grattacieli del centro di Midgar.

Camminò ancora per qualche minuto, poi si fermò, lasciandosi andare per un attimo su una gelida panchina. Il freddo metallo la tenne con i piedi per terra, impedendole di speculare su quegli ultimi terribili giorni. Al contrario, il suo sguardo si fermò su una bambina sorridente, di poco più di sette anni, dai capelli castani e con indosso un candido vestitino azzurro leggero, non di certo adatto ad una giornata così piovosa. La bambina giocava con due pupazzi di pezza, vecchi di almeno vent’anni. Uno di questi era posato a terra, con una grossa croce piantata sul petto, nel punto in cui, se fosse stato umano, si sarebbe trovato il cuore. L’altro pupazzo aveva dei capelli giallo paglia e veniva sballontonato di qua e di là dalle mani della bambina, che lo teneva stretto come se non lo volesse far scappare. E quell’insolito quadretto, così strano, così… singolare, la attirava. Quasi senza rendersene conto, si ritrovò nuovamente in piedi, lasciò andare la pistola dentro la tasca del soprabito e si avvicinò, un po’ di soppiatto e un po’ incuriosita, alla bambina. Una parte di lei voleva non essere notata dalla bambina, e continuare ad osservare il suo gioco infantile per capirne la logica. Ma un'altra parte invece voleva essere notata, voleva avere una spiegazione, voleva capire il perché di quel magnetismo verso quel piccolo esserino che si muoveva goffamente  e che, con distratta eleganza, piantava sempre più in basso la croce sul petto del pupazzo, che, inerme, assecondava il suo volere.

Fu così che la curiosità vinse, e che, con un sorriso tirato sul volto, si avvicinò fino a carezzare la testa della piccola con la propria affusolata mano. Quella non si scompose, continuò a giocare distrattamente con i pupazzi, senza degnarla di uno sguardo.

“Ciao” si decise a parlare la donna, con un tono di voce amichevole.

“La mamma mi ha detto di non parlare con gli estranei” rispose la bambina, senza distogliere lo sguardo dalla bambola con i capelli di paglia.

“Oh, capisco. Lo diceva sempre anche mia madre. Lo fa perché ti vuole bene” rispose lei, con un sorriso sul volto.

“Io invece non capisco, che barba!” continuò la bambina “Io voglio conoscere tante persone nuove!”

“Beh, facciamo amicizia!” propose l’altra, abbassandosi sulle ginocchia per stare al suo livello.

“Ok!” rispose la bambina, sorridente. Alzò lo sguardo e due bellissimi occhi verdi irradiarono il volto della donna, simili a due soli in quella grigia giornata. “Mi chiamo Aerith, piacere”

L’altra fece fatica a nascondere la sua sorpresa. Il sorriso di circostanza che aveva adottato sparì, sostituito da un espressione di costernamento e di confusione. “Beh, questo è buffo!” rispose fredda.

“Cosa è buffo?” disse l’ingenua bambina, senza capire ciò che la bella signora stesse dicendo.

“Io mi chiamo come te” rispose accarezzandole i capelli castani.

Passò qualche attimo in cui le due stettero in silenzio. La bambina, dal canto suo, ignorava completamente quello che l’altra le diceva, e rispondeva solo direttamente, senza aggiungere nulla di superfluo che potesse lasciare intuire qualcosa al riguardo della sua vita.

“Va bene, Aerith” disse la donna, mettendo enfasi sul nome “A cosa stai giocando?”

“Sto inventando una storia in cui ci sono due personaggi” disse, indicando i due pupazzi che adesso giacevano entrambi a terra.

“Davvero?” disse l’Aerith adulta, scostando una ciocca di capelli dal suo viso “Ti andrebbe di raccontarla?”

“Veramente non è un granché” rispose la bambina “Però se proprio vuoi ti posso fare un riassunto”

“Mi piacerebbe sentirla”

“Va bene” rispose la bambina guardandola “Questo pupazzo si chiama Cloud” e indicò la bambola con la testa di paglia “e l’altro è… beh, per la verità non ha un nome. Però se proprio vuoi saperlo posso deciderlo adesso! Direi che mi piacerebbe il nome… Zack!”

Adesso la donna non parlava più. Nella sua testa si ripeteva che non poteva essere solo una coincidenza, era troppo strano. Quella bambina si chiamava come lei, aveva il suo aspetto, e le sue bambole? Avevano lo stesso nome di… no, non poteva essere SOLO una coincidenza! C’era qualcosa sotto, e a questo punto, doveva scoprire cosa.

“Cloud e… Zack?”

“Si! E poi ci sono io che gioco con loro!” riprese la piccola, saltellando “Però Zack è morto qualche giorno fa”

“Davvero?” Chiese Aerith, cercando di mantenere un tono stabile, mentre nel suo petto il cuore martellava forte.

“Si… l’ho ucciso io” disse la bambina, con un sorriso mite sulle labbra, come se le stesse raccontando dei suoi ottimi voti a scuola. E le sembrò che la piccola provasse una sorta di gioia perversa, vedendola così sconvolta, come se fosse a conoscenza di cose a lei ignote.

“L’hai… ucciso tu?” sussurrò con appena un filo di voce tremante, mentre nei suoi pensieri si ricollegavano argomenti del tutto rimossi, con una logica altalenante che le pareva comunque senza senso. CHI era quella bambina?

“Beh, si, adesso è morto. Avresti dovuto vedermi al funerale! Non ero per niente triste, e poi…”

“Basta così!” esclamò Aerith, in tono serio “Non so cosa tu stia dicendo, ma non sei stata tu ad uccidere Zack!”. Non sono stata io!

La bambina posò anche l’altro pupazzo sul marciapiede, il bambolotto biondo chiamato Cloud. Poi sospirò, dicendo “Invece sono stata io, e tu, più di chiunque altro, dovresti saperlo. E dovresti sapere che la stessa cosa accadrà tra poco anche a Cloud”

Mentre la donna, istintivamente, toccava la pistola che adesso era abbandonata nella tasca del soprabito, pensò che la bambina aveva ragione, su quel punto. E odiò se stessa, odiò tutto quello che vivere nel suo stato poteva significare, ed odiò anche quello che forse aveva fatto e quello che stava per fare. Si inginocchiò accanto alla bambina, che sentiva vicina, parte di lei, specchio della sua anima. “Posso cambiare qualcosa?”

La piccola fece segno di no con la testa. “Sai anche tu che era impossibile evitare questi avvenimenti. Bella o brutta, ognuno deve seguire la propria strada, e vedere dove conduce, fino alla fine” E qui la bambina le si avvicinò, e le cinse le gambe con le braccia, come una sorta di abbraccio. Aerith rabbrividì al tocco di quelle mani piccole e fredde, però non la respinse, la lasciò immergersi in quell’abbraccio così sentito e profondo, ma al tempo stesso compassionevole.

“Sei chi io penso che tu sia?” chiese poi l’adulta.

“Non si era capito?” chiese la ragazzina, staccandosi da lei e raccogliendo le sue bambole da terra. Poi le si avvicinò nuovamente, ed indicò la tasca destra del suo cappotto, dove l’arma riposava placidamente, in attesa di essere usata. “Fa quello che devi fare” disse “ma non credere che sia la cosa giusta, spero che tu lo sappia”

Aerith non sorrise. Al contrario, si incupì e chiuse gli occhi, non riuscendo nemmeno a trovare la forza di piangere. Ma quando li riaprì, nessuna ragazzina le stava davanti, nessuna sé stessa, nessun pupazzo. Solo la malinconica solitudine di una brutta giornata, ed una strada da imboccare. Mentre riprendeva a camminare, pensò che dopotutto, forse c’era un motivo se si era arrivati a tanto. Ma anche se poteva sembrare strano, lei non lo vedeva proprio.

 

 

 

 

Il cimitero privato della Cattedrale di Midgar non era molto noto. Anzi, si poteva affermare con tutta tranquillità  che gli unici che erano al corrente della sua esistenza erano i parenti di coloro che vi erano seppelliti, e che a loro volta sarebbero stati seppelliti accanto ai propri cari. Era come la chiusura di un cerchio, e così tutto ritornava alla situazione di equilibrio iniziale.

Cloud Strife non si stupì di trovarlo vuoto. Dopotutto, chi era il folle che in una giornata come quella andava a far visita ad un morto? Beh, follie a parte, in un modo o nell’altro, lui era lì. Davanti a quella lapide grigia rivestita in marmo, poco decorata ma al tempo stesso regale. Le lettere che svettavano sulla sua superficie erano dorate e splendenti, testimoniando che la tomba era un recente acquisto del Cimitero. D’altronde, quanti giorni erano passati dal funerale? Due, forse tre?

Per un attimo guardò il nome dell’amico, Zack Fair, pensando che sicuramente il fatto di avere una tomba come dimora per l’eternità lo avrebbe fatto ridere. Lui che diceva di voler morire ustionato a Costa del Sol! Era di certo uno strano modo di andarsene, ma nessuno glielo aveva mai fatto notare. D’altronde, Zack era fatto così, ed il suo modo di fare, il suo ridere delle battute a volte senza senso, il suo trovare qualcosa di buono in qualunque cosa, era gradito a tutti. Beh, se non altro avrebbe almeno accettato l’originalità del caso. Vivere in una tomba per un morto non avrebbe dovuto essere un problema, ma Cloud era sicuro che l’amico non si trovasse bene in un luogo così angusto. Magari una cripta sarebbe stata più adeguata. Beh, era stata una decisione di Aerith. E dopotutto, non era sicuro che Aerith volesse davvero il bene per Zack. Specie negli ultimi tempi: era stato attuato ciò che era necessario, questo era l’importante.

L’uomo poi ripensò alla sua morte: una vera e propria pugnalata alle spalle, da parte del meno sospettabile. Cloud stesso stentava a credere che fosse davvero successo, cinque giorni prima: eppure il fato aveva deciso così, anche se i motivi del gesto gli apparivano oltremodo senza senso.

Poi nella sua mente sovvenne l’immagine di Aerith. Era da quel giorno che non la vedeva, dal giorno della morte di Zack, quando era scappato dall’edificio dove si trovavano, con il suo sguardo sulle spalle. Cloud era però convinto che entro poco l’avrebbe rivista, ed infatti non si sbagliava. In quel preciso istante sentì la canna di una pistola posarsi contro la sua schiena, e seppe che lei era arrivata.

Aerith Gainsborough.

“Salve, Aerith” disse Cloud, senza scomporsi più di tanto al sentore della pistola alle sue spalle. Anche se non l’aveva ancora vista poiché sita alle sue spalle, Cloud era sicuro che fosse lei. Chi altri poteva aver accesso al cimitero privato, soprattutto in una così nebbiosa giornata? Nessuno, a parte Aerith. Ed infatti, ecco la sua voce, ora insicura ora più ferma, sussurrare: “Ciao, Cloud”.

Una goccia di pioggia bagnò il viso del biondo, mentre il cielo annunciava un nuovo temporale. In effetti la nebbia s’era fatta più rada, e nel cielo splendeva il bagliore plumbeo che annuncia un imminente tempesta.

“Lascia che io ti spieghi” disse Cloud, mentre un lampo squarciava il cielo.

“Cosa vorresti spiegarmi? Io so tutto, e so anche che non dovevi farlo” rispose la ragazza, mentre la mano che teneva la pistola cominciava a tremare.

“Non c’è alcun bisogno di arrivare a questo punto!” esclamò Cloud, cercando di mantenere il sangue freddo e arrovellandosi per trovare una via d’uscita apparentemente inesistente a quel problema.

Aerith abbassò lo sguardo. “Io non la penso così” disse poi, con la testa china.

“Non vuoi sapere come è esattamente andato tutto?!” esclamò Cloud.

La donna tentennò, mentre la pistola tremava ancor di più nella sua mano. “Cosa dovrei sapere?”

“Posa la pistola e ti dirò la verità” continuò Cloud.

“E se fosse un bluff?” continuò Aerith, con una nota tremolante nella voce.

“Fidati di me, Aerith. Non farei mai nulla che potesse farti del male” continuò.

La donna non si mosse per qualche minuto, continuando a pensare. Poi rinforzò la presa sul calcio dell’arma, e parlò: “Dì prima quello che sai”

“No. Posa l’arma!” sibilò Cloud.

“Sarebbe un cliché se ti dicessi che non sei in condizione di poter trattare?” domando Aerith con una velata ironicità, mentre il tremore della sua mano si stabilizzava verso una più sicura convinzione di poter fare qualcosa di cui non si era mai considerata capace.

“Il prezzo sarebbe la verità” continuò Cloud, anch’egli più tranquillo. Nonostante il destino l’avesse guidato fin lì, forse c’era ancora una possibilità “Hai mai sentito parlare della ShinRa Electronic Power Company?” Sapeva di aver colto l’interesse della donna dietro di lui. Sentì di nuovo l’insicurezza che pervadeva la sua mente, ed il nuovo tremolio della mano della donna.

“Io… cosa ne sai tu della ShinRa?” chiese Aerith, sconvolta.

“Probabilmente so le stesse cose che conosci anche tu. Però devi dirmi con sincerità: dove hai sentito il nome della corporazione?”

“Circa due settimane fa, ho… ho visto un documento  sulla sua scrivania, nel suo studio… ma non pensavo fosse qualcosa di importante, non l’ho nemmeno letto! Però Zack da quel momento si è comportato in modo strano…”

“Si, immagino cosa vuoi dire” continuò Cloud “Aerith, ascoltami bene, adesso. Ho dei sospetti fondati sulla ShinRa, ma non ho molte prove che possano convalidare le mie teorie. E’ proprio per questo che per adesso non posso rivelarti tutto. Però i file che potrebbe avere Zack nel studio… devo dargli un’occhiata, ti prego. Sono questioni molto importanti per il destino di Midgar!”

Passò qualche minuto, in cui la donna continuava ad arrovellarsi sulle nuove rivelazioni di Cloud. Poi disse, a bassa voce, abbassando la canna della pistola “Ti credo”.

Cloud sospirò, mentre si voltava a guardare la donna che fino ad adesso era stata alle sue spalle. E la trovò radiosa, bellissima come sempre, anche nel suo dolore. Gli stessi occhi verdi che l’avevano guardato la prima volta un paio di mesi prima, attraverso i quali riusciva a vedere la sua anima. E vide che forse il destino aveva sbagliato, e se ne compiacque.

“Meglio andare” sussurrò Cloud “Dobbiamo andare a casa tua, nello studio di Zack. Non hai ancora toccato nulla, vero?”

Aerith fece segno di no con la testa “Non sono neanche entrata nello studio, a dir la verità”.

“Bene” continuò Cloud “Se le mie teorie sono esatte, potrò avere dei documenti che testimonino le mie teorie. Adesso andiamo!”

Aerith adesso era un po’ inquieta. Forse voleva dire qualcosa? Ma sembrava non ne trovasse il coraggio, pensava Cloud.

“Aerith, cosa c’è?”

“Cloud…” disse la ragazza, triste. “Tu non verrai con me.”

Un attimo dopo, la donna gli puntò nuovamente contro la pistola, e mentre sentiva uno sparo riecheggiare per il deserto cimitero privato di Midgar, capì che il destino non era stato creato per essere messo in discussione.

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Voilà! Eccomi con una nuova fan fiction che avevo in mente da Ottobre (e che finalmente ha visto la luce!). Dunque, devo dire che per creare la trama di questa fan fiction ho passato notte insonni, ed adesso, spero che sia appena decente! So che dal prologo molte cose non sono sembrate chiare, ma tranquilli: presto verrà spiegato tutto!

Devo dire che è strano cimentarsi con l’Alternative Universe: è il mio primo tentativo in questo nuovo campo, spero di non aver combinato un disastro!

Vi dico anche che non credo che il secondo capitolo verrà tanto presto: chissà, potrebbero volerci due settimane, così come due mesi! Ma cercherò comunque di fare il prima possibile, impegni personali permettendo >.>

Che altro dire, spero che questo “prologo” vi sia piaciuto (personalmente vi dico che è stato difficile da scrivere ed emotivamente stancante XD), e se si, sperate che il prossimo capitolo arrivi presto!

Ciao a tutti!

   
 
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