Questo
capitolo è
stato un parto: ho tagliato e riscritto interi pezzi, senza considerare
che “il
cattivo” del capitolo è stato cambiato una decina
di volte e non parliamo del
titolo, il finale è un po' a casaccio invece,
perché non ero certa di come
dovesse finire. Ed anche un po' turpe, credo, oltre questo
c'è da dire che da
ora cominciano le “botte” (all'incirca, Heather non
farà nulla di chè) e
contemporaneamente le giustificazione per il colore del rating.
Approfitto per
chiedere umilmente scusa, che faccio schifo nello scrivere di lotte.
Ci
tengo a
ringraziare chi legge e segue; ed ovviamente chi recensisce: summer_time
e AliNicoKITE,
voi mi rendete
davvero una persona felice.
Note
a fondo
pagina, importanti da leggere, dopo.
Buona
lettura,
RLandH
Il
Crepuscolo
degli Idoli
Quando
sei un mezzosangue anche una corsa per schiarirsi le idee
può essere una cosa
degna di fama.
July
II
La
carnagione di Jake era
mediterranea, spiccava sotto il lenzuolo bianco. Era un bel ragazzo,
con i
capelli scuri, sottili e disordinati, gli occhi grandi e neri, come il
carbone.
Nonostante gli arabeschi bianchi ne levigavano la pelle, rovinando la
vaga
illusione di un’adolescenza normale. Jake portava sulle
guance, sulla carne, su
ogni centimetro di se, il labirinto. Marchiato nelle cicatrici, nelle
occhiaie
scure – delle notti insonni – e in ogni sguardo
disincantato dal mondo.
E
respirava piano Jake, al suo
fianco, con la bocca appiccicata alla sua guancia. “Lo sai
qual è la mia più
grande beffa?” le chiese sornione, con le labbra carnose
arricciate in un
sorriso da gatto del cheshire, mentre con le dita ridefiniva cauto la
linea del
suo profilo. “Non ho idea neanche chi sia tra i due il mio
genitore divino” le
disse poi, spento. S’era voltata per incrociare i suoi occhi;
allora gli aveva
detto, prima di baciarlo frettolosamente che non era importante. In
quel
momento, la July del Dopo Manhattan, avrebbe voluto dirgli di rimanere
in quel
letto con lei per tutta la vita, che davvero tutto il resto non
importava.
Come
il ricordo di quella notte
era venuto, improvviso ed angosciante, alla stessa maniera era andato
via.
July
da sotto il lenzuolo d’un
caldo ricordo, s’era ritrovata vagabondare per un parco. La
brina primaverile
inumidiva il letto d’erba, verde brillante, per celebrare la
rinascita della
primavera. “Non c’è da
stupirsene” costatò lei, “La terra
stessa sta
rinascendo” aveva aggiunto, con molta meno allegria. Non gli
era decisamente
chiaro quale fosse il Piano Malefico della Madre Terra, ma il suo piano
– Eris
permettendo – non era cambiato affatto: trovare anche il
più fetido dei buchi e
nascondercisi fino alla fine dei tempi.
Madre
Gea veniva dopo, però.
Aveva di gran lunga la priorità
scoprire in quale angolo di mondo si fosse svegliata, perché
certamente non era
lo stesso in cui s’era stesa la notte prima. Aveva affondato
il viso nel
cuscino di Torrigton, bella stesa sul letto che con molta eleganza e
una certa
reticenza il ragazzo s’era ritrovato costretto ad offrirle,
in nome di un
qualche codice cavalleresco, soppresso da secoli. Ed in quel momento
era in un
parco. Di quelli con ampi spiazzali verdi per il picnic, con alteri
secolari,
con tronchi ampi e rami resistenti, da poter sorreggere il peso di una
persona.
Non lontano spiccavano altalene ed altri giochi per bambini; eppure
July aveva
l’impressione che l’intero ambiente per quanto
bello, fosse coperto da un
sottile strato di nebbia, che offuscava anche gli occhi più
attenti.
Il
silenzio finì per infrangersi,
nel delicato suono dolce d’un flauto. Una melodia delicata,
preziosa, timida,
come fosse stata la metafora della primavera rinascente, della natura,
timorosa
ad aprire gli occhi sul mondo, per accertarsi per davvero della fine
del gelido
inverno.
Seguì
cauta il suono, inoltrandosi
in quello che aveva l’aria di un piccolo bosco. A seguito del
dolce suono, era
venuto alle orecchie anche le frizzanti risate femminili. July
s’era nascosta
dietro il tronco d’una quercia, spiando attenta
ciò che gli si era aperto
davanti: un gruppetto di ninfe, con vestiti di fogliame, rideva e
ballava al
tempo di quella litania. Erano allegre driadi, non c’era
nulla di così
sospetto. Poi si accorse del suonatore, era più distante,
sistemato sotto un
pino, dagli aghi verdissimi ed acuminati, era un satiro. Accomodato
sull’erba
brina, agiato nella sua nudità, aveva capelli biondo sabbia,
lisci, da cui
spuntavano due fiere corna da caprone, un viso affilato e pallido,
labbra
sottili costrette in una posa strana1 per soffiare l’aria
attraverso i giunti
di un flauto di pan. A quella distanza July non riusciva a scorgere
particolarità nell’oggetto, solo le cannucce non
sembravano essere di legno.
“Sono
colpita” aveva detto
un’altra figura, avvicinando al satiro, era una donna matura,
aveva la pelle eburnea
come una statua. I capelli erano poco visibili sotto un manto carminio,
ma risultavano
dello stesso colore della pelle e rigidi, come se fossero stati
scolpiti nella
roccia. Lei era stretta in un lungo abito di satin rosso, con ghirigori
e
pennacchi dorati. Sebbene il vestito non stringesse sul fisico,
mantenendo un
panneggio morbido, il corpo della donna ne era ugualmente valorizzato,
grazie
ai fianchi tondi ed il seno gonfio, nonostante non fosse più
così giovane e
così soda era comunque una bellezza. Solo che non sembrava
umana, sembrava
qualcosa di diverso, tranne gli occhi di un colore non chiaro, una
sorta di
miele sporco. Il satiro non sembrò all’apparenza
curarsi di lei, continuando la
sua dolce nenia, però aveva aperto gli occhi, sotto le
ciglia chiare, si
nascondevano iridi castane piuttosto anonime. Aveva guardato appena la
donna,
senza curarsi di risponderle. “Non ti ho ancora visto
muoverti” aveva stabilito
quella, sedendosi accanto al satiro, ogni sua azione era compiuta con
una certa
regalità, “Non starai pensando di accettare la
proposta di Gaia?” aveva
indagato la donna, sotto le luci del mattino, un filo d’oro
spesso quanto un
dito riluceva attorno alla fronte. “Io potrei”
aveva convenuto, sorridendo
accondiscende, “Ma voglio prima vedere Apollo ed Artemide
soffrire come ho
sofferto io” aveva stabilito, chiudendo un pugno con forza,
la pelle si era
come crepata lungo il braccio come se fosse stata fatta di terracotta o
ceramica.
Il
satiro terminò la sua litania,
“Lascia a me l’Orfeo in divenire” aveva
stabilito quello, aveva una voce
delicata, sottile ed antica, “Ma la Pazza ha detto
già chi ucciderà la Regina
della Pestilenza” si era lagnata la donna, ringhiando, anche
agli angoli della
bocca erano comparse crepe, “E allora?” aveva
risposto seccato il satiro, “Ci
sono interi campi che pullulano di progenie di Apollo” aveva
risposto seccato,
prima di inclinare il capo, come se cerchiasse di scrocchiare il collo,
July
ebbe l’impressione guardasse nella sua direzione.
“Lo ucciderai così?” aveva
ammiccato la donna, indicando con il capo più in
là, allora la figlia di Eris
si accorse che le allegre risa delle driadi erano cessate, come elle
stesse, un
cerchio di morte, erano tutte riverse sull’erba, sventrate,
soffocate,
tumefatte. Loro
si erano uccise a
vicenda?
“Una
specie” aveva sentenziato il
satiro.
La
prima cosa che July aveva fatto
era stato vomitare, il problema fu, che nonostante la buona
volontà non era
arrivata neanche alla porta del bagno di Al, finendo per svuotare lo
stomaco
sul pavimento. Accasciandosi, con sommo disgusto lì accanto.
Il sogno era stato
oltremodo indigesto. Era quasi ridicolo che un gruppetto di driadi
morte
l’avesse colpita a tal punto, specie per lei, che aveva visto
gli orrori del
labirinto, che aveva tenuto sul grembo il viso defunto del suo amante
ed era la
figlia della discordia stessa. “Juls!” aveva
strillato Torrington, comparendo
sull’uscio della porta, in boxer con i pois ed il fisico da
polletto, gli occhi
verdi sgranati.
“Stai
bene?” aveva chiesto il
ragazzo, tenendola su dalle spalle, “Che non lo sai che
quando le persone
stanno bene vomitano?” lo bacchettò lei, mostrando
i denti. “Dei celesti!
Perché ho dato retta ad Howard e non ti ho lasciato per
strada?” s’era
lamentato piccato il ragazzo, chiudendo gli occhi, profondamente
seccato.
“Perché siamo buoni?” aveva proposto una
voce da un’altra stanza, con allegra
onestà. Alabaster aveva aiutato July a tirarsi su, lanciando
uno sguardo
piuttosto critico alla chiazza di vomito sul pavimento,
“Pulisco io” aveva
bisbigliato flebile lei. Aveva fatto le pulizie per mantenersi negli
ultimi
tempi, infondo – aveva pulito cose peggiori. Torrington non
aveva dato cenni di
averla ascoltata, “Non esagerare Howard! Sei sempre stato ben
lontano da essere
un essere umano anche solo vagamente decente” lo aveva
pungolato invece, con
una mano attorno alle spalle di July e l’altra sul proprio
fianco.
“E
l'unica volta che ti sei mosso
per aiutare qualcuno sei morto” aggiunse, scortando la
ragazza fuori dalla
stanza, “Prego! Prego!” rispose Horward ridendo
– non avendo preso sul serio la
questione della sua morte.
July
sorrise. Il lare personale di
Al, anche se il ragazzo s'era guardato bene dal definirlo
così, era decisamente
più accomodante e spesso simpatico dello stesso proprietario
di casa, sebbene
piuttosto superbo.
Alabaster,
nonostante tutti i suoi
cattivi pensieri, l'accompagnò fuori dalla stanza, tenendola
per la vita,
delicata. “Ho sognato qualcosa di brutto” aveva
rivelato lei con voce mogia,
gli occhi chiusi, nel riflesso delle palpebre le ridenti driadi morte.
Erano
arrivati in cucina e July
aveva occupato la stessa sedia della sera prima, ritrovandosi davanti
al viso
la bottiglia che le aveva regalato sua madre, racchiuse le dita attorno
alla
fronte con gli occhi strizzati, doveva darsi una calmata, nella sua
vita aveva
visto nella sua vita molte cose brutte … come il labirinto.
Allungò una mano e
raccolse la bottiglia, era fredda, come se fosse stata in frigorifero
per tutta
la notte, ma July sapeva fosse stato su quel tavolo tutta la notte ed
il giorno
precedente e quello prima ancora.
Alabaster
le aveva piazzato una
mela verde e lucida davanti, coperta da goccioline d'acqua e s'era
accomodato
di fronte lei, con gli occhi spenti, cerchiati da occhiaie rosse; July
aveva
morso la mela con un movimento lento e disinteressato, Al le aveva
sottratto la
bottiglia dalle mani, s'erano sforzati di riuscire ad aprirla ma non
avevano
cavato un ragno da un buco. “Forse è come
Excaliburn” aveva scherzato Horward
qualche giorno prima.
“Ho
parlato con Bernie LaFayett”
aveva sussurrato alla fine il ragazzo, continuando a tenere la
bottiglia. July
aveva sollevato le spalle, la presa della mela le era quasi sfuggita,
tutta
rigida e morbosamente curiosa, se pensava all'ultima volta che aveva
veduto la
ragazza in questione era stato durante la battaglia di Manhattan,
Bernie era in
seconda linea, vestita di pelle, con l'armatura oplitica semi
indossata, spada
e scudo alla mano, il groviglio di ricci raccolto appena sulla
sommità del capo
ed il viso sicuro – più di quanto fosse lei. Non
erano mai state amiche, erano
state compagne però, July s'era addestrata nell'uso delle
armi con sua sorella
Bell, che era una selvaggia pantera con gli occhi di fuliggine e
nessuna pietà
in duello, l'aveva vista ferire senza remore e vergogna chiunque
– anche nella
battaglia, tranciare statue e semidei, nonostante la paura, che mai le
era
appartenuta, appiccicata al viso, rifulgente di oscurità.
Gli era venuto in
mente come Carter si rivolgeva sempre a loro, Le terribili figlie della
Notte,
la progenie di Nyx, oscuri e pericolose, anche se July non riusciva a
dare
nessuno di quei due aggettivi a Bernie.
“Lei
non è riuscita a dirmi niente
… il contatto si è interrotto, qualcosa la ha
attaccata” aveva mormorato vacuo
Alabaster, gli occhi verdi piantati nel vuoto, la bottiglia tra le
dita, “Le ho
detto dove ero, lei sa trasportarsi nell'ombra” aveva
sussurrato cauto. July
aveva annuito, la manipolazione della nebbia e dell'ombra sembrava
l'unica cosa
in cui Bernie eccellesse alla sorella, “Quanto tempo fa
è stato?” aveva chiesto
lei, “Neanche tre ore fa” aveva risposto secco lui,
“Ho provato a contattarla,
ma non ci sono riuscito” aveva confessato tetro. Forse era
morta, ipotizzò con
sgomento July, per niente volenterosa di aggiungere un altro nome alla
lista
delle persone che aveva conosciuto in quelle dei morti, forse era stato
per
quello che per un anno se ne era tenuta fuori, non sapere a volte
poteva essere
meglio. S'alzò dalla sedia, “Io vado a fare una
corsa, ne ho bisogno” aveva
stabilito, prima di lasciarle la stanza a passo frettoloso,
“Dimenticati di
Bernie, pensa alla bottiglia” aveva sussurrato frettolosa,
forse anche un po'
ingiusta.
Era
figlia della dea Eris infondo.
Alabaster
si alzò con lei, tenendo
la bottiglia tra le dita affusolate, “Il sogno!”
aveva commentato il ragazzo,
richiamando alla sua memoria la melodia del flauto di Pan,
“Pensavo mi avresti
ricordato di pulire il vomito” scherzò lei, con le
labbra appena piegate in un
sorriso amaro, Al strinse le labbra e trattenne una risata, appena. Era
carino
Alabaster, in un certo senso, un po' allampanato, con efelidi su tutto
il
corpo, un viso scarno, incavato, e capelli corvini intrecciati sugli
occhi
verdi. Indossava la maglietta del pigiama a mezza manica e dei
calzoncini
rossi, per nulla a disagio a starsene con le sue secche gambe nude
davanti ad
una ragazza, più grande per lo più.
July
prese un sospirò e raccontò
tutto.
“Un
satiro, una donna dal viso
crepato, ninfe morte ed un flauto di Pan” aveva ricapitolato
Howard che aveva
sentito l'intero discorso, era un uomo di mezza età, con i
capelli sale e pepe
ed un naso grosso a patata, insolitamente avvolto da una luce violacea,
era un
entità di sola nebbia. In mancanza di tasche, Al se ne stava
a braccia
incrociate e spalle incassato, “Dimentichi il desiderio di
morte per i figli di
Apollo” aveva aggiunto, osservando l'uomo.
Mentre
i due ne discutevano July
s'era cambiata, lasciando la porta aperta perché potesse
sentirgli, liberatasi
del pigiama che Alabaster aveva fabbricato con la nebbia – o
forse sottratto –
in favore di una vecchia tuta, forse troppo pesante per quella
stagione, che
aveva trovato in un fondo di una vecchia cassettiera. S'era chiesta,
per un
minuto o due quando era entrata lì nella prima volta, di chi
fosse in realtà
quella casa.
“Io
vado a correre” aveva annunciato,
infilando la lima per unghia nella tasca dei pantaloni larghi della
tuta, d'un
roso bruno, “Vuoi la mia pistola cara?” aveva
chiesto il fantasma, “No, grazie
signor Horward” aveva risposto, non sapeva usare un'arma da
fuoco, era
piuttosto brava nel corpo a corpo e nell'utilizzo di una lancia, ma la
sua si
era spezzata a Manhattan contro il busto di una statua;
“Dottor, cara, Dottor
Horward” lo corresse quello. Parecchio narcisista per essere
un fantasma.
“Hai
pulito il vomito?” chiese
invece Alabaster, “Si” mentì lei, s'era
limitata a stenderci sopra uno
straccio. S'era diretta spedita verso la porta dell'abitazione,
passando per
l'ampio salotto, vicino la porta del microscopico androne, vicino
l'appendiabiti c'era uno specchio, come ogni volta, July s'era
guardata,
concedendosi il suo più grande vizio, la sua vena vanesia
– neanche fosse stata
progenie d'Afrodite.
S'era
sempre amata, ma per molto
tempo, dopo il labirinto, aveva provato disgusto per il suo corpo
martoriato,
pieno di cicatrici, che solo Jake avrebbe potuto amare,
perché era spezzato
come il suo.
Ma
nello specchio non aveva
ritrovato la sua carnagione ambrata con i capelli rovinati, chiari al
fondo e
neri alla cute, ma il viso latteo cagliato, incorniciato in una chioma
bruna
ondulata e gli occhi cattivi. “Madre” si
lasciò sfuggire, “Smettila di perdere
tempo” aveva ringhiato la donna, con una voce sottile,
stridula. “Certo devo
cercare l'arma, il ragazzo con il sonno apparente” aveva
ricordato July, le
parole dell'uomo mascherato e di sua madre, con una certa incertezza.
No, lei
voleva trovarsi un posto sicuro dove aspettare la fine del mondo e
pregare di
sopravvivere, non era abbastanza forte per quel mondo.
Il
viso di Eris era una maschera
di furore, aveva a differenza dell'altra volta, i capelli raccolti in
molte
trecce e nastri bianchi legati in esse, macchiati di un rosso scuro e
secco;
“So cosa stai pensando: Non sono
capace, gnegne” aveva aggiunto lei,
con un sorriso sornione. July
aveva passo un passo indietro, finendo con il sedere contro il
cassettone
vicino la porta, “Lo diceva anche Walter ma alla fine ha
scoperto di essere un
vero artista” aveva aggiunto la dea Eris, chiudendo gli occhi
appena,
“Pungolata a sufficienza la mia stirpe non conosce
confini” aveva soffiato; non
s'era sprecata a dire altro, di Eris nello specchio erano rimasti solo
gli
occhi nocciola, gemelli ai suoi, il resto era il suo contorno.
“Ho
sempre pensato a te come una
figlia di Afrodite” confidò Alabaster, posandosi
con la schiena al muro e spiandola
attraverso lo specchio. July non si voltò, limitandosi a
fissare gli occhi
verdi del ragazzo tramite il riflesso. “La mia
vanità ti ha tratto di inganno”
- s'aggiustò un ciuffo di capelli biondi dietro l'orecchio -
“Direi che non ci
sei neanche andato vicino, Al” aveva risposto sorniona,
aprendo le labbra in un
sorriso, “Tu, dici?” aveva chiesto quello, alzando
un sopracciglio. “Ehm … si”
aveva risposto lei, con una certa perplessità.
“Sia Eris sia Afrodite sono dee
bisbetiche, vendicative e piuttosto crudeli, sebbene alla Dea
dell'Amore
piaccia fingersi gentile” aveva chiarito quello, standosene
con un sorriso
tirato, che non prometteva nulla di buono sul viso, “Tutti
gli dei lo sono”
aveva ribattuto lei, prima di mordersi il labbro inferiore,
“Rischiamo di
inimicarci tutti parlando così” aveva osservato
poi July, ottenendo da Al una
semplice alzata di spalle, “Tanto io sono già
odiato da tutti” aveva chiarito
lui.
“Inoltre
Eris è la compagna di
battaglia prediletta di Ares ed Afrodite la sua amante per
eccellenza” aveva
aggiunto Alabaster, staccandosi appena dal muro, “Amore e
guerra sono sempre
compagne” aveva ribattuto July, ricordando vagamente le
lezioni di letteratura
quando ancora frequentava la scuola, “È la
Discordia è l'antitesi dell'amore” aveva
ribadito lui.
Al le
era davvero
vicino, avrebbe potuto
quasi avvolgerla in un abbraccio. “Sai continuo a trovare
strano che tua madre
sia venuta, ti abbia fatto dei regali e scaricato qui senza una
ragione” aveva
fatto notare intelligentemente quello, perché per quanto
July si divertisse a
denigrare chiunque, doveva solo ammettere che il ragazzo che aveva
davanti –
tecnicamente alle spalle – era piuttosto intelligente, doveva
essere almeno una
settimana che quella curiosità frullava nella sua mente.
“Oggi hai avuto un
sogno” aveva aggiunto, “Tutti i mezzosangue ne
hanno” aveva risposto
prontamente lei, “Non ricordi? Carter e Chris ne parlavano
sempre, anche tu sei
stato al campo” aveva aggiunto immediatamente lei. Anche Jake
Evandor ne
parlava ogni tanto, un giorno le aveva confidato che non ne aveva
più, che i
suoi sogni erano lunghe oscurità pacifiche o silenziose,
July aveva chiesto se
questo lo rendesse felice, ma aveva ricevuto in risposta il nulla.
“Sono gli
dei a mandarci i sogni, Goldenapple” aveva risposto quello.
“Na
parliamo dopo” aveva
sentenziato lei frettolosa, “Devo correre” aveva
raggiunto.
Sua
madre l'aveva scaricata a
Keesville proprio davanti al market dove Alabaster C. Torrigton il
più
brillante figlio di Ecate che la storia avesse mai visto da
… sempre, per una
ragione – ed anche ben precisa. Al era finito nel preciso
mirino della dea
della discordia, come chiaro aiuto a lei, ma July era fermamente
convinta che
il suo piano fosse più funzionale di quello di sua madre -
che non s'era degnata
neanche di spiegarle a dire il vero, aveva solo l'indizio dell'uomo
mascherato
– ovvero quello di nascondersi da qualche parte ed aspettare
pazientemente, e
passivamente, la fine. E di sicuro July dopo Jake e Mary non aveva
affatto
voglia di affezionarsi a nessun altra persona al mondo, che potesse
andarsene
di nuovo, lasciandola spezzata ancora, o peggio ancora avrebbe potuto
darle
motivo di voler lottare per quel mondo. Ma Alabaster era stato un
compagno
d'armi e meritava che almeno il crepuscolo dell'era degli Eroi se la
facesse in
pace in compagnia di quel suo lare tutto matto.
Aveva
seguito il corso della
strada in maniera automatica, lasciandosi guidare dal movimento lesto
delle
gambe, quando s'era fermata a riprendere fiato, non s'era neanche
accorta dove
avesse deciso di far sosta. Con le mani sulle ginocchia e piegata sulle
gambe
aveva ripreso un po' di fiato, sollevando appena gli occhi,
ritrovandosi
davanti un parco, per un secondo aveva pensato d'essersi ritrovata nel
suo
incubo, ma s'era accorta il parco fosse molto diverso, giusto un attimo
dopo.
Alcuni bambini giocavano nella sabbia ai giochi, qualche coppietta si
godeva la
prima luce di primavera sul parco, vecchi davano da mangiare ai
piccioni e
tutto sembrava così tranquillo ed autentico. Sorrise appena.
July
era invidiosa dei mortali,
non perché non avessero problemi – aveva vissuto
da ragazzina ricca e da
barbona, per sapere che la noncuranza era una brutta bestia, ma non
quanto non
avere i soldi neanche per mangiare – ma erano dotati di
quella genuina
immaginazione che gli rendeva così innocenti ai suoi occhi.
Sulla Principessa
Andromeda ne avevano parlato più volte, ricordava che le
gemelle LaFayette
avrebbero voluto avvertire i mortali sul mondo che gli circondava, come
era in
passato, che si sarebbero dovuti allenare come i mezzosangue, per
difendersi,
nessuno aveva compreso perché di quel comportamento. Carter
e Jake sembravano
orribilmente d'accordo. Lei no, come anche Alabaster, “Devono
già occuparsi di far funzionar il
loro incasinato mondo, per preoccuparsi anche del nostro” si
ricordava aveva detto il figlio di Ecate. Qualcuno aveva detto voleva
dare ai
mortali un posto sicuro nella loro età dell'oro, sembrava
stupido ma July non
riusciva a ricordare chi avesse avuto un'idea tanto sciocca quanto
bella
assieme. E poi si ricordava di Lip, che era più piccolo di
loro, sorrideva con
i denti coperti dal ferro dell'apparecchio che rideva, così
euforico di quel
mondo per cui era sempre stato preso per matto. Come Hobb, quando July
aveva
conosciuto il vecchio barbone a Los Angeles aveva avuto l'impressione
di
parlare con Lip, con cui a pensarci bene, non aveva mai scambiato
parole,
eppure il peso della morte del ragazzino gli era sul cuore. Lip era fin
troppo
innocente.
“Va
tutto bene?” aveva chiesto
qualcuno sorprendendola, July era salta, con la schiena ritta, prima di
identificare il suono della voce in un soggetto alquanto innocuo.
Il suo primo pensiero
era che una volta non si sarebbe mai fatta prendere così di
sprovvista, particolarmente
nel labirinto; le vennero i brividi. Il secondo pensiero fu che lo
sconosciuto
era piuttosto carino, forse più del tipo con il solenoide
– che purtroppo era
legato all'altro
mondo
- e le stava sorridendo. Era piuttosto alto, con l'incarnato olivastro,
aveva
un viso affilato e un groviglio di capelli neri, come il piumaggio di
un corvo,
era più grande di lei, di qualche annetto, aveva un aspetto
trasandato ma in
qualche modo attraente, come un poeta maledetto o quel genere
lì. “Ero
sovrappensiero” aveva risposto appena un po' imbarazzata,
sorridendo anche un
poco, il ragazzo, l'uomo, le sorrise di rimando, poi s'era spostato
posizionando un cavalletto con della tela, che July non aveva proprio
notato, o
quello almeno si disse.
July
s'avvicinò ad un panchina per
sedersi, con le mani infilate nelle tasche della tuta. Sua madre e
l'uomo
mascherato volevano che trovasse il Ragazzo
Con il Sonno Apparente, Alabaster voleva
sapere la verità e lei
sognava di Satiri che spingevano ninfe ad uccidersi a vicenda.
“Nefasti numi”
borbottò, “Volevo starmene in santa
pace” ringhiò, percependo vicino alle sue
dita un oggetto freddo, che giurava non doveva esserci stato quando
aveva
indossato la tuta quella mattina, svuotò la tasca per
trovarci una lima, anzi
la lima, il dono di sua madre – assieme all'inutile
bottiglia. Osservò di
sottecchi l'uomo che s'era bello messo a dipingere, aveva dita
affusolate che
teneva il pennello in maniera elegante, l'oggetto era di onice nero, quasi di styge,
il pennacchio
d'oro lucente. Sulla tavolozza c'erano solo due colori rosso bruno e
oro
brillante, eppure quando il colore toccava la tela, bianca come il
latte erano
altre sfumature ad appiccicarsi.
Mostrò
i denti, chiudendo la mano
sulla lima, come in cerca di un appiglio; era dannatamente certa lui
sapesse
perfettamente chi era lei, o per lo meno cosa era, e lei era disarmata
e troppo
lontana da Alabaster, non aveva neanche una dracma, per l'ira di Crono!
Il
pittore continuò la sua opera
indisturbato, come se di lei lì non importasse molto, anzi
si voltò e le
sorrise.
Un
corpo cadde al suo fianco,
seduto scomposto sulla panchina. Un odore pungente di fresie, July
voltò il
viso, con un espressione allarmata ancora prima di confermare
ciò che avrebbe
visto. Mary Beauchamp era seduta al suo fianco e le sorrideva
compiaciuta, con
le labbra sottili e gli occhi castani come il legno, “Tu sei
morta” riuscì a
sussurrare July con il fiato spezzato.
Il
viso di Mary non s'era
incrinato neanche di un momento, restandosene tutta tranquilla al suo
fianco,
“Lo sappiamo” sussurrò qualcuno negli
intorni, “ È stata
bruciata” disse qualcun altro, una
voce
femmine, bassa, “Il suo compagno
la uccisa, ho sentito”
sussurrò la prima voce, “No!No! È
stato il figlio di Gea”
s'aggiunse una terza voce, “ È
soffocata nel sangue, dicono” era la
quarta voce. July le sentiva
tutte intorno a lei, un brusio basso di voci che s'accavallavano per
urlare man
mano, alcune sottili, altre veloci, alcune forti e tonanti, altre lente
da
perdersi nelle parole, tutte insieme da farle esplodere la testa.
“Io
l'ho vista, questo occhio non mente, s'è
uccisa – pazza! Pazza!” era
riuscita a distinguere, “No” si lasciò
sfuggire July, Mary era troppo forte per uccidersi! “Queste orecchie
l'hanno sentita lamentarsi,
mamma mamma rispondimi!
Piangeva” qualcun altro s'era fatto
avanti nella confusione, July
sentiva le voci rimbombare nella sua testa, mentre il viso sorridente
di Mary
era davanti al suo, “Oh no!
Menti! July! July!
Chiamava” la voce era certa delle sue
parole, anche July sembrava
volenterosa nel credergli, “Che tragedia, July
perché mi hai lasciata da sola?”
aveva sussurrato una voce, ma questa lei era riuscita a capire da dove
venisse,
veniva dalle labbra sottili di Mary – ma non era la voce
della sua amica, non
che riuscisse a ricordarla chiaramente, ma era una voce troppo calma,
bassa e
lenta per esserlo, Mary era impregnata sempre di allegra
giocosità e scherno,
era la sua armatura contro la sua paura.
“Tu
non sei Mary” disse secca. Non
sapeva perché ma era stata certa che pronunciata quelle
parole l'inganno si
sarebbe sfatto, le voci avessero perso suono e lei si sarebbe ritrovata
a
fissare il viso d'un mostro. Non era successo nulla di tutto
ciò, le voci
avevano continuato a mormorate e far rumore e lei s'era trovata ancora
a
guardare una Mary indispettita. Comunque decise non poteva essere la
sua
defunta amica, sia per il fatto che non fosse cambiata di una virgola
in due
anni, sia per l'abbigliamento, la Finta Mary indossava una giacca
crema, un
foulard con le ancore e stivali beige di camoscio, dove erano i jeans
strappati, le maglie spiritose e le scarpe con le borchie?
Ed
anche perché Mary era morta,
anche se July era bloccata su un lettino nell'infermeria della
Principessa
Andromeda, quando avevano brucato una pira per lei, Carter non le
avrebbe mai
mentito, non
su quello almeno.
“Certo
che no, July, lei è morta”
aveva risposto con onestà la Finta Mary sorridendo in
maniera accondiscendente,
lei aveva schiuso le labbra sorpresa da quella incurante
onestà, “Mi hanno detto che
è nei Campi Elisi”
s'era imposta una voce, “No, no,
l'ho vista vagare persa nei Campi degli Asfodelli”
aveva dibattuto
un'altra, “Mentite. Questo
orecchio ha sentito i suoi lamenti nel Tartaro”,
“E
questo orecchio l'ha sentita ringraziare
i numi nelle Isole dei Beati” aveva
articolato qualcuno. “Dov'è?”
aveva chiesto July, cercando di recuperare il raziocinio, le orecchie
le bruciavano
e la mente stava esplodendo, come se un tamburo battesse nella sua
testa.
Chiuse gli occhi, cercando di aggrapparsi a qualcosa, ma il rumore
delle voci
accavallate, aveva portato la sua mente ad ideare un mondo desertico,
dal suolo
scivoloso, con bolle pulsanti e fiumi di fiamme, un enorme edificio di
bronzo
battuto s'apriva davanti a lei, nessuna finestra, solo porte rosse di
sangue,
di tutte le forme e di tutte le dimensioni, alcune aperte, altre
chiuse,
qualcuna semi aperte e le voci sembravano arrivare da lì, da
ognuna di quelle
porte. Il dolore l'ha riportò presto alla realtà,
qualcosa l'aveva colpita nel
pieno del ventre, sbalzandola lontana dalla panchina.
S'era
ritrovata sporca d'erba e
terra, supina e la Finta Mary eretta ai suoi piedi in tutto il suo
glorioso
splendore. July aveva chiuso le mani attorno alla zona dolente,
lasciando
cadere la lima per terra, ritrovandosi presto le mani sporche di rosso,
cinque
lunghe linee scarlatte erano aperte sulla sua pelle. Respirò
a fatica, con gli
occhi annebbiati dal dolore alzò lo sguardo verso la Finta
Mary, allora riuscì
a scorgere appena, coperte da nebbia molto densa delle ali. Le
più grandi che
July avesse mai visto, lunghe, dalle piume affilate come lame, d'un
rosso
brunastro, come il sangue rappreso, un colore disgustoso, che
s'abbinava bene
alle malformazione, perché tra ogni penna, sembravano
sorgere, e scomparire,
bulbi oculari con iridi di ogni sfumature, orecchie di diverso taglio e
carnagione
e labbra umane, che parlavano svelte, con altrettanto lingue rosse che
schioccavano al loro interno. Raccapricciante. “Cosa ... sei
… tu?” chiese July
a fatica, cercando di contrarsi per mettersi almeno sulla posizione
seduta, ma
i tagli scavavano l'addome.
“Cosa?”
aveva chiesto retorica la
Finta Mary perdendo tutto il suo tono morigerato, “Pensi di
avere a che fare
con un mostriciattolo?” aveva chiesto indignata, mostrando i
denti, acuminati.
“Certo,
noi lo vediamo, lei è un
mostro” una voce aveva cantilenato,
“Il
mostro più spaventoso, ho sentito, in grado di dilaniare
membra come fossero fatte di burro”
un'altra, “Mentite, il mio occhio
vede tutto, lei è
una dea” aveva sussurrato qualcun
altro, “Le dee sono belle, lei
è un mostro, l'ho
sentito ammetterl0” aveva ripreso
qualche altra voce, July vedeva
tutte le labbra muoversi a ritmi diversi e parlare ad un certo punto,
ascoltare
era diventato impossibile, le orecchie le dolevano da morire.
La
Finta Mary le aveva posato il
suolo della scarpa sulla trachea schiacciandola appena,
“Pensi che io sia un
mostro, stupida mezzosangue?” aveva chiesto quella,
guardandola divertita con
gli occhi scuri. July aveva sentito la rabbia montargli dentro, non per
l'epiteto o per il trattamento, ma per lo sguardo, non riusciva a
sopportare
che la sua amica Mary la guardasse così.
July
sollevò a fatica le mani per
raggiungere il piede della creatura, nel tentativo di allontanare la
suola
dalla gola per poter ritornare a respirare bene, la Finta Mary
continuava a tenere
un sorriso aperto sulle labbra, sentiva le dita, con le braccia,
formicolare
tutte, come se qualcosa si stesse risalendo sotto la sua pelle. Forza.
Era
forza. Il viso della creatura si ritrovò sconvolto,
accompagnato da un urlo di
dolore, quando July con più forza di quanto ebbe mai avuto,
torse il piede con
così tanta forza, da spezzare l'omero, che finì
per sfilacciare la carne ed
esporsi. La finta Mary s'era ritrovata presto stesa per terra, urlando
di
dolore, tenendo le mani premute sulla ferita zampillante, dal suo canto
la
figlia di Eris strillava per il bruciore, le sue mani erano ustionate,
sporche
del suo sangue e di velenoso icore dorato, “Se-sei ... una
… dea?” riuscì a
chiedere con una certa fatica, con le lacrime premute sugli occhi,
mentre
cercava di strisciare via.
La
Finta Mary s'era chinata per
stringere l'osso di nuovo alla gamba con il suo foulard, il viso aveva
ripreso
colore ed una discreta arrabbiatura, “Si piccola inutile
mezzosangue” aveva
ringhiato. Le voci per un attimo s'erano arrestate tutte e centinaia di
occhi
diversi, pupille tonde altre allungate, da felini e rettili, fissavano
intensamente July, tutte le bocche erano sigillate e lei si sentiva
stranamente
fremere per la forza. Solo che, non sapeva spiegarselo, era come se la
forza
fosse un essere vivente, annidato nella carne viva che si spostava
frettoloso e
formicolante sotto la pelle … e l'adrenalina, era venuta
così vivace da averle
annebbiato il dolore per le mani fumanti e le ferite sul torace, era
riuscita
anche a mettersi in una posizione genuflessa con meno fatica di quanto
avesse
sprecato un attimo prima per pronunciare tre parole scarse. Allora
s'era
accorta della lima per le unghia infilata nella tasca della tuta.
“Lei è una
dea certamente” aveva sussurrato una
voce, infrangendo il sinistro silenzio, “La
più amata e desiderata”
aveva aggiunto qualcun altro, una voce
tonate, “Tutti dovrebbero a lei
fare sacrifici” serpeggiava qualcuno,
lentamente July aveva potuto
scorgere le bocche ricominciare a schiudersi, le le palpebre chiudersi
e gli
occhi guardare in ogni dove, “Di
Eracle ha tessuto le lodi”,
“Ma
anche raccontato i suoi tumulti”,
“Di
ogni eroe ha detto il bene ed il male, così è
cosi va”,
“La
Fama è”, “Questi occhi hanno
visto gli eroi”,
“Queste
orecchie hanno sentito le
loro parole”, “Queste
bocche hanno narrato le loro storie”
- il brusio era tornato come
il suono d'un martello d'un incudine, così prepotente da
spingerla a chiudersi
le orecchie con le dita, “Non
sempre abbiamo detto il vero”,
“Noi
raccontiamo la realtà come la percepiamo”,
“Una storia è bella a
prescindere che sia vera o falsa, no July?” l'ultima domanda
era venuta dalla
Finta Mary, che sembrava ancora piccata per la ferita al piede.
Lei
cercò di tirarsi su nella
posizione eretta, finendo per ricadere atterra invece, la forza come
era venuta
sembrava essere scivolata via altrettanto, “Sei una
narratrice di storie?”
aveva chiesto July affaticata, sentendo nuovamente il dolore sul
addome, “Una
musa, forse?” aveva riprovato, avendo ottenuto dalla dea un
ringhio basso,
ottenne anche con la seconda domanda il nulla.
“Sei,
davvero, così ottusa piccola
semidea?” aveva chiesto la Finta Mary, mostrando i denti,
“Io sono Fama, figlia
di Gea, colei che porta notizia, che crea leggenda, colei che tutti
dovrebbero
ingraziarsi” aveva spiegato con un tono orgoglioso,
“E di grazia cosa vorresti
da me?” aveva chiesto a fatica July, cercando nuovamente di
sollevarsi sulle
gambe, una mano sul busto e l'espressione abbastanza tormentata dal
dolore.
Fama
sorrise, mostrando la
dentatura affilata, “Fin ai confini del Tartaro è
arrivata la voce che tua
madre ti abbia assoldata per trovarle un'arma” aveva risposto
con onesta, “Non
sappiamo dove veleggia Eris, ma non vi sarà
possibilità che una mortale
qualsiasi possa trovare qualcosa che mia madre voglia” aveva
soffiato,
deturpando il viso di Mary con un espressione carica di ira.
A
July venne da ridere, nonostante
nel farlo finì per sputare un po' di sangue e farsi dolere
ancora di più il
ventre, “Scherzi?” aveva chiesto, “Gli
dei mi odiano ed ora anche Madre Terra?”
aveva chiesto irritata, “Be, che vadano tutti al Tartaro a me
non importa
nulla” aveva soffiato, riuscendo a tirarsi su.
Il
piano non cambiava era sempre
lo stesso: aspettare con calma la fine del mondo – Gea, Eris
e Fama potevano
anche andarsene a ninfe.
Fama
aggrinzì le sopracciglia,
nere come la fuliggine e spesse, come a Mary piaceva portarle.
“Tu non sei
interessata?” aveva chiesto confusa, anche le voci s'erano
zittite e le
orecchie sembravano ritte, pronte a catturare le sue gustose parole,
“Di mia
madre me ne infischio, gli altri dei gli disprezzo e di tua madre me ne
curo
anche di meno” aveva sentenziato sicura di se July,
stringendo il pugno sulla
lima con così tanta forza che il ferro aveva tagliato il
palmo della mano,
“Voglio vivere il resto della mia breve vita in
pace” aveva aggiunto. “Sei una
delusione” sentenziò Fama,
“Racconterò in giro che hai combattuto con onore
se
vuoi, che sei stata una vera gloria” aveva aggiunto,
“O forse dirò che ti sei
nascosta pavida come un coniglio” aveva detto, prima di
lanciarsi su di lei, in
volo – avendo la gamba offesa – con le dita ad
uncino ed unghia acuminate come
artigli neri, che si conficcarono senza troppa remora nella sua spalla,
stracciando la maglia e lacerando la carne della spalla.
Imprecò in greco
antico, forse … ritrovandosi presto stesa sulle terra con la
dea a cavalcioni
su di lei, seduta sulle sue ferite, le unghia conficcate nella carne e
l'altra
mano piantata sulla sua gola. “Si
dirà che piangeva July Goldenapple”
sussurrò una bocca lasciva, “Questo occhio ha visto
le sue lacrime e
questo orecchio ha sentito le sue suppliche”
aveva aggiunto,
“Disperata e patetica come la sua Mary” s'era unita
al coro di voce quella di
Fama.
July
percepì ancora una volta la
forza arrampicarsi sulle sue ossa, come scosse continue, nonostante il
dolore
lancinante alla spalla e la presa ferrea sulla gola, che rendeva ogni
respiro
di fuoco. “S-sta … zitt-ta”
bisbigliò appena, stringendo con forza la presa
sulla lima, prima di recuperare un tale vigore al braccio per farlo
scattare
verso il viso della dea, conficcando la lametta nell'occhio di
quest'ultima.
Fama rotolò d'un fianco strillando di dolore, liberandola
dalla presa, July
schiacciò il capo per terra, respirando ampiamente,
percependo nelle grandi
boccate d'aria dei forti bruciori ai solchi sull'addome, ma aveva
ancora così
tanta forza in corpo da poterlo sopportare e riuscire a mettersi in
piedi,
percependo un profondo senso di vertigine. Abbassò lo
sguardo, dove la sua
lametta grondava d'icore dorato; il bulbo oculare distrutto era vicino
la sua
scarpa.
Una
risata la distrasse, July
cercò il fautore di quell'azione, trovandola nel giovane
artista del parco, di
cui s'era completamente dimenticata; il pittore era ancora
lì, con il
cavalletto davanti ed il pennello tra le dita, “Non andava
usata così, ma è un
inizio” aveva sentenziato quello, con un certo scherno, con
un sorriso bianco
come una fila di perle, “Cosa … tu...”
s'era dimenticato quello che stava per
dire a causa del dolore, era tornato di improvviso, bruciando l'addome
e la
spalla, “Cosa, per il tartaro, sta succedendo?”
riuscì a ringhiare, sentendo
l'aria nei polmoni di fuoco. Il pittore la guardò appena,
“Vedi ecco, potrei
spiegarti queste scariche di forza facilmente e risparmiarti molta
fatica”
aveva detto quello con molta tranquillità. “E non
lo farai” aveva rantolato
July sentendo qualcosa scorrere lunga la guancia, non era certa fosse
sangue,
sudore o lacrime.
Perchè
nasciamo, viviamo e
moriamo soli, pensò.
Fama
era riuscita a sollevarsi a
fatica sulle ginocchia, con le dita strette sulla cavità
vuota dove era stato
l'occhio sinistro, il destro bruciava di collera, “Volevo
essere gentile con
te, ma di te non resterà ne polvere ne memoria”
aveva ringhiato, mostrando i
denti, July non aveva avuto tempo di comprendere ciò che era
successo fino a
che non aveva visto Fama volarle in picchiata addosso, con un occhio
spalancato
ed entrambe gli artigli delle unghia sfoderate, nere ed acuminate.
Cercò di
arretrare appena, ma il dolore l'aveva fatta cere appena, dandole le
gambe
molli, cercò stupidamente di difendersi con la mano con cui
stringeva la lima,
voltando il capo e chiudendo con gli occhi. Non avene alcun impatto.
Schiuse le
palpebre, trovando le unghia di Fama infilzate contro uno scudo tondo
di ferro
lucido, che July stringeva da un laccio di cuoio – non aveva
più la lima in
mano.
Fama
aveva l'unico occhio
sbarrato, sconvolta, la stessa espressione, “Cosa
…?” aveva mormorato appena,
“Un marchingegno di Eris” sveva commentato prima di
sorridere ancora, “Uno
scudo?” aveva mormorato sconvolta lei, sua madre le aveva
donato uno scudo?
“D'etere” aveva considerato Fama ammirata,
“L'etere
è il materiale degli dei”
aveva detto una delle bocche nascoste
nelle ali, avendo ricominciato a parlottare dandole alla testa, allora
lo scudo
aveva cominciato a muoversi quasi fosse fatto d'argilla lucente
riprendendo la
forma di una lametta. “Se vuoi saperlo è etere
polimorfo” aveva detto il pittore
alle sue spalle.
“Questo occhio vede un
gioiello e questa bocca ne tesserà le
odi per sempre”, “Fabbricato
dalle attenti mani di Eris, dall'abilità di Efesto”
ed avevano
cominciato ad offuscare con le loro mille voci l'anima.
“Polimorfo vuol dire
più forme, vero?” chiese con una certa incertezza,
per osservare la lima non
aveva notato il pugno di Fama che s'era abbattuto sulla sua faccia.
La
lametta le era sfuggita dalle
mani, mentre lei s'era ritrovata a pochi metri di distanza con la bocca
ricolma
del suo sangue e denti e mascella a pezzi probabilmente.
“Prima regola in
battaglia non distrarsi mai” le disse il pittore con un certo
divertimento,
July saettò per un breve istante gli occhi di su di lui,
trovandolo solamente
interessato alla sua tela, neanche spostava lo sguardo dalle forme cui
si stava
dedicando. Sputò a terra sangue saliva ed anche qualche
pezzo di dente.
Rapidà
voltò lo sguardo verso Fama
che con gli artigli sguainati si stava buttando su di lei,
rotolò su un fianco
e la presa della dea finì contro l'erba, affondando le
unghia nel terriccio
mollo. “C'eri quasi” la prese in giro un poco,
pentendosene l'attimo dopo. Fama
aveva già alzato il pugno per colpirla di nuovo, July dopo
un microsecondo di
smarrimento, aveva reagito, memore della scarica di adrenalina,
placando il
pugno con la mano testa, rompendosi probabilmente qualche articolazione.
Arpionò
con le gambe quelle di
Fama che s'era ritrovata a terra stesa al suo fianco, per qualche
fortuita
coincidenza. July quando assestò una ginocchiata sulla
femminilità della dea
realizzò quanto vantaggio aveva sprecato fino a quel
momento. A parte le ali,
il gusto del vestiario ed il sorriso cattivo – ed ovviamente
un certo
quantitativo di forza – Fama aveva in tutto e per tutto il
corpo di Mary, non
era solo un'illusione, probabilmente la dea era una di quelle senza
volto, come
Nemesis che riflettevano per ogni persona qualcuno, ma era in qualche
modo più
tangibile, aveva le stesse ossa sottili ed allungate di Mary ed il suo
intero
corpo, contro cui July aveva passato giornate intere a cuocersi nelle
armature,
sotto il sole, sul ponte della Principessa Andromeda durante gli
allenamenti.
Colpì
con un calcetto la parte
offesa della bassa gamba, issandosi a cavalcioni sul basso ventre,
sottili e
magro come quello della sua migliore amica, prima di arricciare le mani
attorno
al collo di Fama, per ricambiarle la simpatica cortesia, cominciando a
stringere la gola, dotata di quella straordinaria forza a scariche
– prima che
s'esaurisse – sfortunatamente solo una mano riusciva a fare
il lavoro bene, ed
era rallentata dal fatto che fosse al fondo del braccio legato alla
spalla dove
Fama aveva affondato gli artigli, l'altra mano aveva le dita rotte,
nonostante
lei non ne provasse particolarmente dolore, ma solo un leggero
formicolio,
sintomo dell'apatia che terminava. Non era neanche certa che si potesse
strangolare una dea.
Fu
costretta repentinamente a lasciare
la presa quando la scarica di forza venne meno e la mascella
cominciò ad andare
a fuoco, da impedirle di tenere anche la bocca aperta e le dita della
mano
offesa dolevano così tanto da farle desiderare di strapparle
lei stesse a morse
e l'attimo dopo anche la spalla torna a flagellarla ed anche il ventre,
dove
linee le artigliate hanno scavato la pelle e la carne viva. Fama si era
alzata
a fatica e stordita, ma gli occhi di brace fissi sulla sua pelle, le
unghia
sporche di sangue, pronta ad ucciderla finalmente. “Narreremo della tua
forza, figlia di Eris” ripete
una bocca infilata da qualche parte tra le acuminate piume arance, le
bocche
parlano assieme e veloci, con toni diversi, lingue serpeggianti e July
sente i
loro sibili e le loro urla, alla medesima potenza rimbombargli nella
testa.
“Ci
siamo divertite abbastanza”
aveva commentato Fama e con quelle parole ed il sorriso piuttosto
giocoso a
July aveva ricordato davvero Mary. Aveva sentito la rabbia montargli
dentro, in
maniera diversa da come facevano l'adrenalina e la forza, qualcosa di
più
personale, meno magico, tremendamente reale. July poteva sopportare
ogni cosa
nella sua vita, ma non che ad ucciderla fosse qualcuno con l'aspetto di
Mary, o
peggio ancora, che qualcuno indossasse il viso della sua Mary con
così tanta
ignominia. Tremolante incerta aveva raggiunto con una mano la tasca dei
pantaloni, trovando la lima lucente d'etere polimorfo, al tatto fredda,
ma
malleabile. “Una vera guerriera” aveva
sghignazzato, le labbra ghignanti i denti
incastrati come punte acuminate. July s'era auspicata nell'ultimo anno
di avere
il resto della vita pacifica, che fosse d'un mese, d'un anno o di
cento, senza
reagire particolarmente, lasciandosi trasportare nella pacatezza e
nell'indolenza, ma davanti alla morte, vivida come nel labirinto, July
s'era
ritrovata a scoprire quanto attaccata alla vita era e quanto orgogliosa
– come
la progenie di Eris doveva
essere – era, intenzionata ad andarsene combattendo.
Gli
occhi di brace di Fama nei
suoi. Ed il soffio della morte dietro il suo orecchio, sul collo, tra i
capelli
pagliosi. Il viso di Mary, troppo cattivo per essere il suo.
“Fatti sotto
Gallina Starnazzante” aveva scandito bene, con gli occhi
ridotti a fessure, la
mano stretta attorno alla lima, che morbida come la plastilina d'un
lucido
argento andava a mutare la sua forma in qualcosa di più
consono, una lancia –
finalmente si sentiva completa, da molto tempo.
Aveva
sollevato lo sguardo, per
fissarli bene in quelli di Fama. Il viso della morte.
E
Jake da qualche parte sorrideva
forse, perché a breve si sarebbero rivisti.
Fama
urlò in una maniera
animalesca, disumana, bestiale, mentre la maestosa ala sinistra
s'accasciava
sull'erba, in uno zampilli d'icore dorato ed ossa pallide recise,
“Che creatura
interessante” aveva esclamato qualcuno,
“Più di Lamia, concorderai con me Al”
aveva aggiunto, allora July aveva riconosciuto l'incorporeo contorno
violaceo
del Dottor Horward. In compagnia di un ragazzo splendente, allampanato,
con una
zazzera nera, jeans scoloriti, felpa viola e giubbotto antiproiettile
mimetico,
con simboli incandescenti su tutti i vestiti ed entrambe le
mani chiuse su
una spada d'oro lucente, dalla cui lama cola l'icore. July
aveva faticato
non poco a riconoscere il famigliare viso di Alabaster. “Dei
del cielo, grazie”
aveva sussurrato appena, cadendo a fatica sulle ginocchia.
Fama
aveva il viso troppo vacuo e
confuso, con le dita strette all'arto – si poteva dire? -
amputato; “Scusa
Goldenapple ci stavi mettendo troppo” aveva detto Al con
tranquillità,
sorridendo. July pensò che non ci fosse da stupirsi che
Alabaster fosse uno dei
membri più eminenti dell'esercito, che non fosse una
semplice pedina
sacrificabile, Mary lo aveva detto: “È
il più intelligente, eppure Luke non ci ha neanche pensato
di mandarlo a
risolvere gli enigmi del labirinto”,
poi le aveva preso la mano e
s'erano fatte quatte, camminando lentamente e vicine, Chris stoico in
avanti
con una camminata fin troppo rigida per un ragazzo così
spontaneo e Jake con la
testa incassata nelle spalle e lo sguardo guardingo alle spalle,
bloccati in
una stanza delle torture in vita, in continua espansione, senza tempo e
loro
privi della speranza di tornare a vedere il chiaro sole.
La
dea le dava le spalle, una
schiena mutilata, tra i riccioli scuri di Mary, si intravedeva una
sanguinolenta ferita ed icore dorato a macchiare i brandelli d'abito
firmato ed
il crine. Fama era scoordinata nei movimenti, agitava la grossa ala
rimasta,
mentre le ossa delle scapole innaturalmente cercavo di imitare il
movimento
nell'amputazione, menava artigliate a destra e manca, ma Alabaster
sembrava
danzare con lei, evitando i colpi come in un'articolata corografia,
senza
neanche degnarsi di usare la spada per difendersi – o
attaccare. Sorrideva
anche il mezzosangue, godendosi la sofferenza della sua avversaria.
Sull'erba
smossa, l'ala recisa
continuava ancora ad agitarsi, come la coda d'una lucertola dopo essere
stata
staccata, tra le piume i bulbi oculari si stavano seccando e patinando,
con le
pupille rivolte al cielo e le palpebre a mezz'asta, le orecchie erano
annerite
colte da una fulminante cancrena, le labbra coperte di grinze e le
lingue
spaccate, denti marci e gialli, ma ancora in movimento a sussurrare
cantilene
che July non riusciva a distinguere.
“Mary Beauchamp
è morta da eroe, lo diremo, lo diremo”
una voce cercò di persuaderla, “Il
sangue del padre divino ricade sui figli mortali! Oh quanta morte! O
quanto
dolore” una di avvertirla sottile,
“La
sorella spezzata, sa dove è il ragazzo con il sonno
più profondo”
l'ultima era una voce rauca e rovinata. July non dava peso a nessuna di
quelle
parole, cominciava a sentire le dita formicolare ed anche il corpo,
come se la
forza che in precedenza aveva ricevuto dopo ogni colpo si fosse
improvvisamente
svegliata di nuovo, anche se non era stata offesa in alcun modo
… sebbene, il
fatto che Fama avesse il viso di Mary la offendeva e feriva
più di qualsiasi
altro colpo, si sollevò sulle gambe, mentre tutte le fitte
che attraversavano
il corpo si facevano più tenue. La dea le dava le spalle,
cercando di colpire
Alabaster, che manipolando la nebbia sembrava esserle attorno in ogni
dove,
senza che lei riuscisse a raggiungerlo.
E tutta questione di ciò che si vuol vedere
anziché su ciò che si vuol far
vedere, aveva sommariamente spiegato una volta
Alabaster, quando
aveva liquidato Jake e Ines – July non ne era sicura
– su come controllare la
nebbia.
Saettò
con le mani, la lama
acuminata di etere polimorfo aveva attraversato la carne della dea come
fosse
stata di burro, scavando una voragine nel centro della schiena ed
apprendo uno
squarcio sul seno destro … July si diede della vile per
averla attaccata alle
spalle e della stupida per non aver colpito il cuore. Quando era in
ballo la
vita stessa, si smetteva di essere eroici e cavallereschi, non che lei
lo fosse
mai stata, era una figlia di Eris, per la gloria di Crono!
Fama
sputò icore dorato dalle
labbra sottili di Mary, prima che Alabaster con tutta calma e praticita
aveva
sventolato la lama d'oro lucido, finendo per reciderle la giugulare con
un
movimento lesto, “Presto! È una dea, non siamo in
grado di ucciderla” aveva
risposto quello, rimettendo la lama nel fodero, ancora sporca di icore
d'oro,
tutti i simboli disegnati sui vestiti e sulla pelle, s'erano spenti,
lasciando
chiazze nere ed altrettanto velocemente erano scomparsi lasciando
solamente un
banale Al. July estrasse con sicurezza la lancia dalla schiena di Fama
che
incosciente era crollata sull'erba, aveva ignorato deliberatamente le
parole
dell'amico per voltarsi verso il pittore per vedere se avesse altro da
dirle –
o prenderla in giro – ma quello era scomparso avendo lasciato
solo un
cavalletto con sopra una tela dipinta, provò ancora di
più rabbia per quella
fuga, quell'omissione. Si voltò di scatto verso la dea che
faticava a
riprendersi, mentre le ferite inflitte sul corpo cominciavano a
rimarginarsi,
“Hai ragione, non possiamo ucciderla” aveva
risposto con crudezza, stringendo
le mani sulla lama, che s'era andata a mutare sotto la sua presa per
cambiare forma,
un'asta di una certa lunghezza, con il piatto di un'ascia sul fondo,
“Ma
possiamo rendere la sua rimarginazione un vero tormento”
sorrise nel dirlo,
pensando per un attimo sua madre sarebbe stata fiera di lei, infondo
era la
signora del dolore.
July
posizionò un piede sulla
spalla di Fama per assicurarsi non si muovesse ed abbassò
l'ascia sulla dea,
colpendola sul polso, lacerando la carne, “Sii”
esclamò Alabaster, “Quando
dicevo che ero già odiato dagli dei, non volevo per nulla
dare l'impressione di
volere altro rancore” aveva scherzato quello,
“Tranquillo, la nostra simpatica
amica, lavora per Gea! Si può dire stiamo facendo un favore
agli dei” aveva
aggiunto, prima di abbassare di nuovo l'ascia e lacerare la carne
all'attaccatura del gomito, non riuscendo però a segare
l'osso con un solo
colpo, dovendo ritentare ancora, “Potresti fare uno dei tuoi
simpatici Hocus
Pocus e far sparire le parti un po' da tutte le parti?”
chiese July senza
cortesia, Al alzò le spalle, “Dopo mi racconterai
tutto?” aveva contrattato il
figlio di Ecate, July aveva annuito ed una volta recisa anche
l'attaccatura
della spalla era passa alla gamba opposta, Alabaster s'era inchinato
vicino i
resti della sanguinolenta dea ed aveva fatto il suo lavoro, senza che
lei si
curasse di lui, passando dopo la gamba all'unica ala rimasta, cavando
occhi e
strappando lingue, poi all'altro braccio e all'altra gamba.
Molto
sangue, squartamenti ed
abracadabra dopo, erano solo lei, Alabaster, Horward ed un lago di
icore dorato
ad impregnare la terra, fino a seccarla per il veleno all'interno.
Nessun
mortale era stato turbato dalle disperate urla e l'atroce fortuna,
“Per un po'
potremmo dire che la Fama
Volabant, anziché Volant4”
aveva esclamato il fantasma con un certo divertimento.
July
s'era passata una mano sulla
fronte, sudata ed insozzata di icore e sangue, la lima della sua
consueta forma
stretta tra le dita, “Torrigton, recupera la tela”
suggerì, cominciando a
sentire tutti gli arti formicolare nuovamente, ammiccando all'opera
dello strano
pittore.
Il
dolore alla mascella era stato
il primo a tornare, seguito da quello alle dita rotte, poi alla spalla
ed
infine al ventre, non aveva visto se l'amico avesse eseguito il suo
ordine,
perché presto il dolore s'era fatto così vivo, da
percepire il cielo
schiacciarla e ridurla a nulla più che una poltiglia al
suolo.
Non
aveva mai provato così tanto
male, neanche nel labirinto, era come se tutto il dolore represso fino
a quel
momento, fosse esploso per reclamare il suo ruolo con gli interessi
– decisamente
salati.
“July”
riuscì ad udire, la voce di
Al, preoccupata, alta ed allarmata, prima che il mondo sprofondasse in
un sordo
silenzio ed un implacabile buio.
Note
a pie pagina:
-Il
Dr Howard
(Claymore) era un dottore, piuttosto arrogante ma molto intelligente,
anche
antisociale, poco amichevole, che praticamente l'unica azione altruista
della
sua vita è stata aiutare Alabaster e rimanerci secco (oltre
che far morire il
suo unico amico, Burly Black) per questo Ecate lo ha reso uno spettro
nebbiforme,
che risiede in una carta, in modo che faccia sempre compagnia ad
Alabaster.
July però sintetizza tutto in un Lare.
-Fama
allora è una
divinità “ideata” da Virgilio, che
rappresenta il pettegolezzo che vola di
bocca in bocca, vive ai confini del mondo, nel palazzo che July
intravede. Per
il resto è più o meno come la ho descritta.
Però c'è da dire che il motivo per
cui aveva l'aspetto di Mary, non so se avrò mai voglia di
spiegarlo – e
prettamente una manifestazione come intuisce July (Come Leo per Nemesis
vede
zia Rosa), in questo caso Fama prende l'aspetto della persona
più motivazionale
che conosce.
-Lamia,
be, Lama è
la creatura che ha ucciso Horward, contro cui Alabaster si è
scontrato.
-Si,
credo che H.
Riordan sia fan di SH, visto che descrive Alabaster disegnarsi prima di
uno
scontro delle rune sui vestiti, con qualche portere magico.
-Si,
Alabaster è
combatte con una spada d'oro imperiale (Sa fare anche tante altre cose
fighe,
di cui parlero)
Ps-
Riguardo i
“poteri” di July, non dico nulla per ora
(così come sul pittore) tranne una
cosa, per giustificare me, più che altro. Percy
“controllava” l'acqua anche
prima di scoprire di essere figlio di Poseidone, per July non
è così, ho sempre
avuto la romantica idea di Eris come si la signora del dolore, ma anche
una dea
in cerca di approvazione, per ciò ho ideato che avesse messo
come veto che i
poteri dei figli potessero essere attivati solo dopo essere
riconosciuti. Come
se tutto quel tempo fosse stata una prova per vedere se July ne era
degna.