Fanfic su artisti musicali > Justin Bieber
Segui la storia  |       
Autore: stereohearts    11/07/2015    4 recensioni
Carter Harvey è un concentrato di rabbia, acidità e dolore. Dopo un passato – che non sembra essere poi così ‘passato’ - particolarmente tormentato, un incendio misterioso alle spalle ed un fratello in carcere sta cercando di spostare la sua vita su una strada più rettilinea e con meno dossi possibili, concentrando l’attenzione su scuola, amici ed un secondo fratello, Elia, spesso assente per lavoro.
Justin Bieber - che ha il suo bel da fare con una famiglia, residente a Stratford, decisamente assente ed una zia, vedova, caduta nel baratro di alcool e fumo - è un ventenne dalla bellezza disarmante, incline al perdere molto facilmente il controllo della situazione ed un caratterino pungente, corroso dai segreti che porta con sé ed una, poco salutare, dipendenza dalle sigarette.
 
San Diego.
Un incendio misterioso.
Due vite che si scontrano irreversibilmente.
_____________________________________________________________________________________
'Con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera di questa persona, né offenderla in alcun modo'
_____________________________________________________________________________________
In revisione.
Genere: Mistero, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Justin Bieber, Nuovo personaggio
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A







25.
 







 
Carter.
 
 
 










 
 
Risvegliarmi nel buio totale mi disorientò per qualche secondo.
Ma sapevo con certezza dove mi trovavo - più o meno; il mio stomaco rumoreggiava di rabbia e sentivo un mal di testa tremendo - impossibile capire quanto dipendesse dalla stanchezza e quanto dal colpo che dovevo aver preso.
Sulle prime pensai che fosse ancora notte; c’era buio, e me ne accorsi senza neanche aprire gli occhi. Ma quando avvertii una fitta alla testa e un dolore sconosciuto alla schiena notai il piccolo raggio di luce che filtrava dalle tapparelle abbassate – forse era stato proprio il dolore a svegliarmi.
Ero sdraiata sulla superficie morbida di un materasso, ma rannicchiata su me stessa com’ero non riuscivo a stare comoda: sentivo pulsare fastidiosamente la schiena e i fianchi.
L’aria era diventata calda e afosa, e l’umidità non faceva altro che renderla ancora più fastidiosa; ero sudata, e la maglietta mi si era completamente appiccicata alla pancia come una seconda pelle.
Avevo il respiro pesante, e l’orrenda sensazione che il mio cuore non avesse smesso di battere così furiosamente nemmeno per un momento, durante il mio stato d’incoscienza; sentivo il petto dolorante, e lo stomaco in subbuglio.
Schiaffeggiando l’aria, al buio, riuscì a toccare il collo di una bottiglietta d’acqua sul comodino; ne strappai via il tappo e mi ci avventai con foga, mandando giù più della metà del suo contenuto in un sol sorso.
La gola era secca, e probabilmente tutta quell’impazienza mi avrebbe causato qualche problema, ma in quel momento non m’importava particolarmente.
La stanza – che solo allora, guardandomi attorno, mi accorsi fosse quella di Elia - era piena dall’eco dei miei respiri affannati; sforzandomi di domarli, tesi le orecchie per sentire se ci fosse dell’altro.
Pericolosamente vicino a me, sicuramente alla mia destra, sentii un respiro silenzioso e regolare; nonostante mi fosse molto familiare, non riuscì a fare a meno di spaventarmi nel notare la figura ingombrante di Keaton accasciata su una sedia lì affianco.
Era stretto su se stesso in una posizione visibilmente scomoda: con le braccia incrociate al torace, la testa penzoloni su una spalla, e le gambe sollevate al petto.
Forse fu il cambiamento del mio respiro a svegliarlo; o forse fu soltanto perché i nostri ritmi si erano ormai sincronizzati. Ma pochi istanti dopo vidi la sua sagoma avvolta nel buio sussultare.
“Carter …?” bisbigliò, facendo scattare su la testa. Spalancò d’improvviso gli occhi, drizzandosi con un scatto talmente secco e rumoroso che fece strusciare le gambe della sedia sul pavimento; al buio, con soltanto la debole luce che filtrava dalle tapparelle a schiarirgli il volto, i suoi occhi azzurri solitamente rassicuranti mi fecero sobbalzare.
Scossi invisibilmente la testa, strizzando con forza gli occhi mentre mi lasciavo scivolare verso il bordo del materasso, leggermente frastornata.
“Carter … Ter … stai bene?” mi domandò cauto, sporgendosi in avanti; appoggiò i gomiti sulle ginocchia, cercando gentilmente di entrare in contatto con il mio sguardo ostinatamente fisso sul pavimento.
Mi passai le mani sulla faccia, come se quel gesto bastasse da solo per poter cancellare dalla mia memoria gli avvenimenti delle ultime ventiquattrore: Dante era uscito di prigione.
Dante era davvero tornato. E, maledizione, avevo anche rischiato di piantargli una pallottola in testa.
Ma, per quanto potessi essere irritata, disgustata, adirata, rancorosa e incazzata, in quel preciso momento l’unica cosa che riuscivo realmente a sentire era del puro, ardente e semplice … dolore.
Quel tipo di dolore molto simile a quello di milioni di tagli con la carta, di quelli che mi procuravo sempre con le pagine sottili dei libri di scuola.
Di quelli che capitano in un brevissimo attimo e fanno male per giorni e giorni. Solo che quel dolore durava da cinque anni, e ogni volta che mi svegliavo la mattina ed erroneamente i miei pensieri si dirottavano su mio fratello, era come se qualcuno versasse più e più alcool sulle ferite.
Con il suo indesiderato e inspiegato ritorno, Dante, però, sembrava essere riuscito a aprire altri innumerevoli squarci sulla mia pelle già dilaniata.
E quella consapevolezza, - sentire quel dolore ritornare a bruciarmi il sangue di nuovo a causa sua – ironicamente, mi faceva ribollire di rabbia; ed era proprio ciò che cercavo disperatamente.
Preferivo di gran lunga essere livida dalla rabbia, piuttosto che da qualche altro sentimento scomodo e frustrante.
La rabbia era un po’ come una muraglia fortificata che nessuno, in alcun modo o in alcun caso, sarebbe mai riuscito ad abbattere, o anche solo aggirare. Mentre il dolore … il dolore era un po’ come lo zerbino d’ingresso con l’inutile scritta ‘benvenuti’ sopra: permetteva a chiunque di calpestarti, come se quello fosse il tuo unico destino.
In quel momento desideravo, come non mai, con tutta me stessa, di non riuscire più a sentire nient’altro.
Perché, dannazione, avevo scelto di riprendere a provare delle emozioni così distanti dalla rabbia proprio in quel periodo?
Me l’ero cavata egregiamente in quegli ultimi anni nei panni dell’insensibile; ero riuscita a sopravvivere benissimo per tutto quel tempo nella mia bolla ristretta di emozioni limitate, senza alcun danno, prima che Justin riuscisse a rompere l’equilibrio che avevo creato.
Gli ultimi mesi passati assieme a lui - litigi, urla e spintoni compresi - erano stati così freschi e … pieni di vita che m’avevano fatto dimenticare per quali motivi non avrei voluto avere nella mia vita quel ragazzo; e uno di questi era proprio lo spaventoso e inspiegabile legame che lo univa a mio fratello.
Keaton mi rivolse uno sguardo implorante, in attesa di una mia risposta. “Ter … parlami …”
Tirai l’orlo della maglietta giù per le cosce, asciugandomi i palmi sudaticci delle mani sul copriletto celeste.
“Senti … lo so che tutta la situazione ci è un po’ sfuggita di mano, ed è normale che ti senta strana all…”
“Strana, dici?” sbottai, interrompendolo, sollevando glaciale lo sguardo su di lui. “Io mi sento strana quando un libro non finisce come voglio, o quando non fumo una sigaretta dopo alcuni giorni. No, io non mi sento strana. In questo momento mi sento fottutamente arrabbiata, incazzata nera con il mondo intero.” Mi sbattei il palmo della mano sulla coscia, sibilando un’imprecazione tra i denti. “Lui non doveva tornare, okay? Doveva restarsene nel suo piccolo mondo fatto di bugie dietro alle sbarre, o dovunque cazzo volesse lui, purché talmente lontano da me che non correrei il rischio d’incontrarlo nemmeno se volessi!”
“La domanda successiva sarebbe stata chiederti come l’avessi presa, ma sei stata piuttosto esauriente quindi …” mormorò nervosamente in risposta, sfregandosi la mano contro il mento.
“Perfetto!” ringhiai a bassa voce. “E lascia che ti risponda anche alla domanda successiva: no. Non sono disposta a ragionare con calma sulla cosa. E no, maledizione, non ho intenzione di rivedere la sua fottuta faccia, grazie mille per l’interesse!”
Il mio migliore amico si ritrasse contro lo schienale della sedia, scuotendo molto lentamente il capo; in effetti mi sentivo un po’ in colpa per aver usato quel tono così aggressivo contro di lui, ma non riuscivo proprio ad evitarlo - la nube fuligginosa di rabbia che avevo dentro stava cancellando ogni più piccola traccia del dolore provato inizialmente, lasciandosi dietro una landa desolata, dominata dall’ira e dalle sue più varie e colorate sfaccettature.
La mia vita verteva, da cinque anni a quella parte, attorno ad un’unica esigenza: tenere Dante Ethan Harvey fuori da essa ad ogni costo. E non avevo certo intenzione di smettere di farlo proprio con il suo ritorno.
Ma lo scrigno di Pandora della famiglia Harvey si stava comunque aprendo, portando a galla con se tutti i suoi segreti, e questo ci avrebbe inevitabilmente sommersi tutti quanti. L’unica cosa che potevo fare era tentare di sopravvivere al naufragio il più illesa possibile.
“Non riuscirai ad evitarlo in eterno, Carter” mi ammonì Keaton, seguendomi a ruota fuori dalla camera.
Dal piano inferiore non avvertivo nessun rumore, il che mi portò a presumere che se ne fossero – fortunatamente – andati tutti quanti via.
“Oh, si che ce la farò. Sai che sono maledettamente brava in questo” bofonchiai in risposta, tastandomi i polsi alla ricerca di una molletta per i capelli.
“Non se vuoi che ti dica tutta la verità una volta per tutte.”
“Non devo per forza avere a che fare con lui di prima persona per sapere, Keaton!”
“Gli hai ficcato una pallottola nella spalla, Carter!” mi ringhiò dietro il biondo. “Quando hai perso i sensi la pistola è caduta, ed è partito un colpo. Per poco non gli ha preso il cuore! Il minimo che tu possa fare è vederlo! So che non puoi essere così stronza, Ter.”
“Lui ha dato fuoco a casa nostra. Ha … ha ammazzato la mamma! Porca puttana, se non fossi stata a casa tua quella sera avrebbe ammazzato anche me!” Arrestai la mia camminata a metà scale, allargando le braccia all’aria. “E’ vivo, okay? Non è morto, e di certo il colpo non l’ho fatto partire io di mia spontanea volontà. La mamma invece … non c’è più. Ed è stato lui con le sue stesse mani ad appiccare il fuoco! Sapeva perfettamente quello che stava facendo, a cosa andava incontro, ne era consapevole. Ma lo ha fatto lo stesso; ha scelto comunque di rovinare non solo la sua vita, ma anche la nostra. Ci ha trascinati con se nel suo oblio, senza lasciarci altra scelta! E sai qual è la cosa … la cosa che più mi fa rabbia? Non ha mai chiesto scusa per questo, mai! Non ha mai chiesto scusa a lei per averla uccisa. Perché dovrei … dovrei essere dispiaciuta? Non servirebbe a niente esserlo, comunque. Non a me. Quindi, di grazia, per quale diamine di motivo tu continui a volerlo difendere, eh?”
Keaton arretrò di un passo, passandosi il dorso della mano sulla fronte; un lampo di un’emozione indefinita gli attraversò gli occhi, ammorbidendogli lo sguardo mentre tornava a fissarmi. “Non mi aspetto che dimentichi, Carter.”
“Bravo, ottima intuizione!” sibilai, riportando le braccia lungo i fianchi. “Lui se n’è andato, ed è colpa sua. La mamma se n’è andata, ed è colpa sua. Io me ne sono andata, ed è colpa sua. Adesso è arrivato il momento che si prenda le sue responsabilità e sconti la sua pena. Qui, fuori, nella vita vera. Dove ci sono le cose che contano. In carcere è stato facile, perché non c’era nessuno che gli ricordasse costantemente ciò che ha fatto. Io ho avuto la sua faccia davanti agli occhi ogni singola e maledetta notte negli ultimi cinque anni, a ricordarmi che lui ci ha distrutti tutti. Io ed Elia abbiamo retto e scontato quelle che sarebbero dovute essere le sue, di sofferenze. Elia ha smesso di disegnare, ha dato fuoco a qualunque cosa gli ricordasse l’arte, nella speranza di non rivedere più il volto della mamma dovunque. Gli incubi mi tormentano ogni notte, come se non volessero farmi dimenticare lui e quello che ha fatto, quello che le fiamme mi hanno portato via per sempre. Una pallottola in una spalla non è niente in confronto. Adesso è il suo turno, invece.  Mi dispiace dirtelo ma io so essere molto più stronza di così, e non gli faciliterò di certo le cose adesso che è fuori.”
Strinsi di scatto le labbra in una linea dura, respirando profondamente dal naso; mi conficcai le unghie delle dita nelle cosce, cercando di spostare l’attenzione del mio cervello sul dolore fisico in quel punto preciso del corpo, dove le unghie mi graffiavano la carne.
Avevo parlato senza prendere aria, e sentivo che la gola era tornata di nuovo ad essere secca ed irritante.
Odiavo Dante.  Lo odiavo davvero, e odiavo anche me stessa perché lo odiavo così tanto. Odiavo quell’odio che aveva trovato dimora dentro di me, e che mi faceva sentire come se non avessi più il controllo su niente.
Keaton sbatté le palpebre un paio di volte, senza perdere nemmeno per un istante il contatto visivo con me; scese i due scalini che ci distanziavano, incurvandosi sul mio volto.
Piantò con decisione gli occhi nei miei, impedendomi con la sola forza di volontà di opporre resistenza; gli occhi di Keaton erano sempre stati bellissimi. Dal taglio tipicamente maschile, con un’infinita serie di lunghe ciglia scure – da far invidia a Kim Kardashian - che li incorniciavano; mi avevano sempre ricordato un po’ le acque dei laghi d’estate: di un blu scuro sui bordi, che sfumava pian piano in un celeste talmente pallido e chiaro da sembrare quasi bianco. Vicino alla pupilla si estendevano infinite varietà di pagliuzze vedognole, che alla luce accecante del sole sembravano quasi dorate.
Gli donavano quel tipo d’aspetto rassicurante che a scuola faceva capitolare qualunque ragazza.
In quel momento, però, c’era qualcosa di diverso in quelle due pozze azzurre che amavo così tanto: una luce più scura, minacciosa, quasi simile al … al rimorso, alla colpevolezza, rendeva i suoi occhi estranei alla mia memoria, più vuoti. Tristi. Lontani.
Un campanellino d’allarme si accese nella mia testa, colorandomi per un attimo la vista di un orrendo colore scuro; percepii il mio sangue congelarsi all’istante nelle vene, letteralmente.
Keaton mi passò un dito sulla guancia, delicatamente, come se al posto delle dita avesse i petali di un fiore, scendendo piano fino alla curva del collo; mi accarezzò l’interno del gomito, scalando il suo tocco verso le mie dita. Intrecciò la mano alla mia, poggiandomi un lungo e tenerissimo bacio sulla tempia. Il suo tocco mi risultò improvvisamente estraneo, distante e freddo.
Sentivo il mio cervello lavorare freneticamente: mi sembrava quasi di poter ascoltare il rumore degli ingranaggi che lavoravano, scontrandosi l’uno contro l’altro, riempiendomi l’udito.
“Carter, devi parlare con …”
“Io mi fido di te, Keaton” lo interruppi flebilmente. Non farmi del male anche tu. Una richiesta. Un’esigenza. Una preghiera. Una … supplica.
Lui era, sul serio, l’unica persona che conoscevo a non avermi mai, mai, nascosto niente, neppure se troppo doloroso o insopportabile da sapere.
Era un patto che avevamo fatto da bambini, una settimana dopo esserci conosciuti: la sua totale sincerità per la mia totale e cieca fiducia in lui. In noi, e in quella che sarebbe stata da quel momento in poi la nostra amicizia.
Keaton sobbalzò sul posto, sgranando impercettibilmente gli occhi; si morsicò con forza le labbra, fin quando un piccolo fiotto di sangue non sgorgò da esse, imbrattandogli la canottiera grigia.
Si lasciò sfuggire un ringhio animalesco dalla gola, che riecheggiò come in un film dell’orrore per tutta la casa, e l’attimo successivo piantò il pugno contro il muro alla nostra sinistra.
E a me sembrò di rivedere tutto al rallentatore: un attimo prima davanti ai miei occhi c’erano due bimbetti di cinque anni, uno con gli occhi azzurri e l’altra con i capelli corvini crespi e ribelli. Si stavano scambiando delle promesse, e mentre si parlavano i loro occhi non riuscivano ad abbandonarsi, come fosse un gioco a chi resiste di più. Lui si era chinato, sulle gambe cicciottelle, ed aveva raccolto da terra un piccolo Tirannosauro verde, con i denti in bella mostra. Lo aveva offerto alla bambina, con un enorme sorrisone a mostrare un dentino mancante, ed in cambio le aveva strappato di mano un orsetto giallo, malmesso, con un fiocchetto a pois al collo.
Lo aveva stretto nella manina per un orecchio, trascinandoselo malamente dietro, verso la classe.
L’attimo dopo avevo dinanzi agli occhi un ragazzo, un uomo, con solo degli occhioni azzurri a ricordare il bambino che era stato e che m’aveva strappato di mano quell’orso senza permesso, prendendosi la mia fiducia.
Del sorriso, della luce negli occhi e della sua lealtà non c’era più alcuna traccia; tutto svanito, in soli due secondi.
E una cosa era ormai lampante: Keaton mi aveva mentito. Era diventato come tutti gli altri.
Appoggiò la testa contro il suo braccio, mormorando una sfilza d’imprecazione che avrebbero fatto impallidire il Papa.
Continuò così per degli interminabili ed insopportabili minuti, permettendo a ciò che rimaneva del mio cuore di frantumarsi in milioni di pezzettini, proprio di fronte a lui.
Immobile, fissò ostinatamente lo sguardo a terra, come se riuscisse davvero  a vedere i pezzi sanguinanti del mio cuore che esalavano il loro ultimo battito sotto i suoi piedi; strinse la mano sinistra lungo il fianco, maledicendo a bassa voce qualcuno, come se avesse davvero potuto sentire le mie urla silenziose.
Come se fosse stato davvero capace di vedere nei miei occhi me, che lo pregavo, lo imploravo, di non farmi tutto quello.
Ma, purtroppo, era già tardi.
La catena salda e indistruttibile che ci aveva sempre uniti si stava disintegrando, proprio tra le nostre mani; sentivo i suoi anelli che mollavano la presa l’uno sull’altro, cadendo a terra in un mucchio di polvere che il tempo avrebbe spazzato via con un soffio di vento, portandosi via tutto ciò che eravamo stati. Ed era così doloroso, così straziante … come se mi stessero staccando le dita a morsi, una ad una.
E senza che riuscissi davvero a rendermene conto, un singhiozzo – molto più simile al rantolo lamentoso d’un orso – mi risalì, con studiata lentezza, su per la gola; strappò il silenzio sulle nostre teste con un colpo secco, riversando anche su Keaton tutto il mio panico ed il mio dolore.
“Merda, Ter …” Keaton sembrò riscuotersi all’improvviso da un brutto incubo ad occhi aperti, scattando in avanti; io sobbalzai all’indietro per lo spavento, e le sue dita riuscirono a malapena a sfiorarmi una coscia, ma mi sentivo come se quel punto preciso che aveva toccato si fosse carbonizzato irrimediabilmente.
“Ter … Carter … non è come sembra. Io … Cristo, volevo solo proteggerti. Ho scoperto tutto solo un paio di mesi fa, quel giorno che hai beccato me e Justin a casa tua. E avrei voluto dirtelo, davvero, lo giuro, ma … non potevo farlo. Non era compito mio dirtelo e … non volevo si arrivasse a questo punto, lo giuro.”
“Ma era compito tuo impedire a tutti loro di farmi questo!” gli gridai contro, sentendo il mio labbro inferiore iniziare a tremare.
Allora mi conficcai brutalmente i denti nell’interno della guancia, sperando che il dolore fisico m’avrebbe aiutata a non perdere il controllo su me stessa; il labbro però continuava a tremare, e la vista stava iniziando ad essere meno nitida, offuscata da un velo lucido che m’irritava le pupille.
“Ho sempre cercato di proteggerti, Carter, ma …”
“Che cosa sai?” lo interruppi, cercando di mandar giù il groppo che avevo in gola. Arretrai sulle scale, cercando di distanziarmi il più possibile da lui.
“Che inten …”
“Che cosa sai!”
Keaton esitò, fissandomi a bocca aperta; come se non riuscisse a riconoscermi. Come se fossi stata io quella ad avergli spezzato definitivamente il cuore, senza più possibilità di rimetterlo apposto.
E poi la pronunciò.
Quella parola. Quelle due sillabe. Quelle cinque lettere. “Tutto.” Mormorò in un soffio, voltando la testa di lato. “So … tutto.”
Fu allora che successe; che la bomba ad orologeria che ero diventata esplose. La vista mi si annebbiò completamente, rendendo i contorni del suo volto poco nitidi e sfocati; il respirò mi si spezzò dolorosamente nel petto, come se mi avessero appena presa a pugni, e le lacrime iniziarono a rigarmi come fuoco le guance. Scendevano in fretta, furtive come la pioggia, marchiandomi la pelle a furia di percorrere sempre lo stesso tragitto: giù dagli occhi, per le guance, a solcarmi il labbro superiore, fino ad arrivare sul mento, da dove gocciolavano sul petto.
E più strizzavo le palpebre nel tentativo disperato di farle smettere, più loro continuavano a scorrere copiose giù dagli angoli dei miei occhi, moltiplicandosi e dividendosi, prendendosi gioco del mio dolore.
“Carter … ti prego, non piangere. Possiamo risolvere tutto, basta che ti calmi.”
“No!” ringhiai tra i singhiozzi, portandomi una mano alla gola; volevo strapparmi la pelle, bucarmela con le unghie, purché l’aria ritornasse a circolarmi normalmente dentro, liberandomi la gola da quella sensazione di pesantezza che mi rendeva impossibile parlare. “No! Oh mio Dio tu sapevi. Hai sempre saputo e .. mi hai mentito! Hai giocato allo stupido gioco di Dante per tutto questo tempo!E non hai preso nemmeno in considerazione le conseguenze sulla nostra amicizia … su di me, cazzo! Come hai potuto farmi una cosa del genere? Eh? Come, cazzo!”
Keaton si tirò i capelli, mugugnando altre imprecazioni oscene a bassa voce. “Carter, senti, non so come … è complicato, okay?” mormorò, gonfiando il petto per apparire più minaccioso e sicuro di se. “Ma, ti scongiuro, smettila di piangere e …”
“Ci sto provando, pezzo di merda! Ci sto provando, ma non ci riesco! Ed è tutta colpa tua!” gli urlai contro, portandomi le mani al collo; mi graffiai le spalle, strizzando furiosa gli occhi, cercando di strappare via dal mio corpo quella sensazione. Ma non ottenevo altro che graffi profondi e bruciore.
L’aria stava iniziando a diventare soffocante; le pareti della casa sembravano restringersi sempre di più attorno a me, come a volermi intrappolare in quella gabbia di dolore e panico.
E d’un tratto quelle quattro mura mi sembravano troppo piccole perché ci potessimo stare in due, per quanto piccola potessi essere io.
“Carter … Cristo, smettila. Ti prego, stammi a sentire. Non è così ..”
“Smettila!” gli ruggì sopra, tra un singhiozzo e l’altro, impedendo alla sua voce di continuare a sembrarmi così rassicurante e familiare. “Smettila! Non parlare, non voglio … più sentirti. Lasciami stare. Solo … lasciami in pace! Una volta per tutte! Non ti basta quello che hai fatto? Cos’altro … che cazzo vuoi ancora da me?”
Keaton molleggiò le braccia lungo i fianchi, la maglietta ormai imbrattata di sangue. “Non odiarmi, Ter” sussurrò, fissandomi. “Non lo sopporterei.”
“Io …” Scossi la testa,  combattendo contro la me aggressiva e rancorosa che mi urlava di dirgli di si, di fargli provare lo stesso dolore che lui stava costringendo me a sentire.
Istintivamente ricominciai ad arretrare sulle scale, fino a toccare con il tallone il pavimento del soggiorno; percepivo a pieno la presenza della porta a pochi metri dalle mie spalle, come unica via di salvezza da quel luogo. Dal passato e dal presente che si erano mischiati in un mix devastante.
Mi passai il dorso della mano sugli occhi, strofinandomi la pelle per riuscire a smettere finalmente di piangere; io non ero così debole. Ero capace d’essere più forte di così.
“E’ troppo tardi …” mormorai. E segretamente spero che questo ti spezzi il cuore.
Gli voltai le spalle e iniziai a correre verso la porta, a piedi nudi, senza preoccuparmi di indossare qualcos’altro oltre alla maglietta che a malapena mi copriva il fondoschiena.
Allungai la mano verso la maniglia, strofinandomi di nuovo gli occhi con quella libera; un passo, e tutto il peso del dolore che portava con se quella casa sarebbe scemato almeno un po’.
Ma prima che potessi abbassare quell’inutile pezzo di metallo, la porta si spalancò di scatto; rimasi ferma e immobile, decisa a non ritornare indietro nemmeno di un passo, nonostante quel pezzo di legno conficcato nel fianco.
Justin sollevò spaventato la testa, bloccandosi sull’uscio. “Porca puttana! Ti ho fatto male?” mi domandò allarmato, abbandonando la presa sul pomello per allungare una mano verso di me.
Impietrita, non sentii nemmeno il tocco leggero delle sue dita sulla pelle.
Guardarlo, così simile a Dante, riportava in vita un altro tipo di dolore che pensavo ormai seppellito nei meandri più profondi di me stessa. Come se avessi anche delle ferite sconosciute sotto la pelle che non avevano intenzione di guarire, anzi aspettavano solo l’occasione di riaprirsi.
Ma, per qualche assurda ragione, non riuscivo a fare a meno di guardarlo. Una parte di me, per quanto debole, aveva un disperato bisogno di guardarlo, di ascoltarlo, nella speranza che riuscisse a ridarmi quel pizzico di serenità che mi aveva regalato in quegli ultimi due mesi.
Il mio cuore e la mia testa erano dilaniati.
Neanche lui sembrava in gran forma: aveva l’aria stanca e le occhiaie, e perfino sotto quella luce schifosa sembrava un po’ pallido.
I suoi occhi si spostarono dietro le mie spalle, e il suo sguardo si rabbuiò ancora di più, se possibile.
Trasalì, ritraendo la mano. “Cosa … che cazzo le hai detto, razza di idiota?” ringhiò contro Keaton, digrignando i denti.
Quello fu ciò che mi bastò per tornare alla realtà.
Le lacrime, a quel punto, iniziarono a scorrere come un fiume in piena giù dai miei occhi; Justin, ricordai bruscamente, era come tutti loro.
Justin mi aveva mentito come tutti loro.
Con uno scattò felino gli passai sotto il braccio che teneva stretta la porta, sfuggendo finalmente a quella casa.
Attraversai come un fulmine il  breve tratto di giardino che separava la casa dalla strada; sentivo le urla di Keaton in lontananza e alcuni passi più pesanti dietro le mie spalle, ma non mi fermai.
Svoltai l’angolo della casa dei vicini e m’infilai tra i cespugli di un parchetto per bambini lì vicino, graffiandomi a sangue le cosce; il bruciore per quelle ferite annientò per qualche attimo il dolore, permettendomi di ragionare lucidamente su dove andare.
C’era solo una persona da cui potevo rifugiarmi.
Aggirai uno scivolo giallo e una giostra girevole a forma di fiore, prima di concedermi un’occhiata alle mie spalle: Justin era ancora dietro di me, ma comunque troppo lontano perché potesse anche solo sperare di fermarmi.
Saltai, con un po’ di fatica, un piccolo steccato dalla vernice bianca rovinata, attraversando di corsa la strada deserta.
Guardai prima a destra e poi a sinistra, cercando di orientarmi; in lontananza intravidi un familiare cartello celeste piegato per metà, quindi ricominciai a correre in quella direzione.
Quella volta era il mio turno di scappare.
















 
Writer's corner:
Okay, giù le armi.
Lo so, sono in un ritardone che di più non si può.
Ma, è di nuovo colpa del mio computer.
Purtroppo la visita precedente in assistenza non sembrava aessergli bastata, e così ha deciso di non funzionare di nuovo. Solo oggi è potuto passare il ragazzo che doveva portarmi quello nuovo - anche lui è in vacanza, comunque, ecco perchè così tardi - quindi automaticamente solo oggi sono potuta rientrare qui su EFP dopo così tanto tempo.
Non sapete quanto mi dispiace, davvero.
Ma, DANDAN, eccomi qui. E c'è pure il nuovo capitolo. Che è anche un pò più lungo degli ultimi.
So che speravate già in un incontro ravvicinato Carter-Dante, ma purtroppo, non è ancora il momento. Anche perchè la sorella gli ha piantato una pallottola in una spalla, quindi direic he sarebbe statod avvero poco adeguato farli incontrare.
In compenso, però, ci sono Carte e Keaton. O meglio, c'è Carter con il cuore a pezzi, e Keatonc he peggiora le cose rivelandole che le ha mentito.
So che a qualcuno potrebbe sembrare strana la reazione di Carter, ma se ci riflettete non lo è poi così tanto: Keaton è stato l'unico uomo nella sua vita che non le ha MAI mentito. Mai. E lei si fidava ciecamente di lui, gli avrebbe affidato la vita. Quindi scoprire che per tutti questi mesi le ha mentito, nascondendole di sapere tutta la verità - che poi chissà quale delle verità - l'ha giustamente distrutta. Qindi ecco spiegata la reazione.
Inoltre mi sarebbe sembrato un pò scontato raccontare lo scoppio emotivo di Carter a causato da Justin, non trovate? Anche perchè non è ancora finita, eh. Carter deve ancora farsi raccontare la verità da suo fratello - e quindi anche Justin, che è stato molto partecipe nella tragedia come già sappiamo.
Bene, non so come sia venuto il capitolo, ma spero comunque vi piaccia - nonostante il ritardone.
E mi scuso già per eventuali errori, che provvederò a correggere non appena li individuerò.
Quindi, sperando che vi ricordiate ancora di me lol, chiudo e ci vediamo alla prossima. Sperando che il capitolo sia di vostro gusto.
Bacioni ☺



 
   
 
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Justin Bieber / Vai alla pagina dell'autore: stereohearts