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Autore: steph808    11/07/2015    2 recensioni
Cinque amiche in università, alcuni animali che fanno pasticcio, la nascita di un amore travolgente… e nessuna trama sensata.
In brevi capitoli di circa 80 righe (su un normale programma di scrittura) questa storia racconta alcune scene di vita in università e improbabili avventure semiserie liberamente tratte dalla vita reale e dalla fantasia più sfrenata, con l'obiettivo di divertire, poi di intrattenere e infine di far riflettere, perché anche le storie senza trama hanno un filo conduttore.
Genere: Comico, Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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capitolo6
Capitolo 6
Nel corso del quale si indagano i pensieri reconditi di un innamorato
 
Aveva pensato spesso a quella studentessa. Più ci pensava più si accorgeva di essersi innamorato a prima vista. Paolo non aveva mai avuto difficoltà con le donne. Piaceva, e sapeva di piacere.
Tuttavia, non aveva mai trovato la ragazza giusta.
Da qualche parte dentro di sé aveva il presentimento che proprio quella studentessa potesse essere la ragazza giusta. Sicuramente era bellissima, perché riusciva a distinguersi tra le sue amiche, che pure erano una più incantevole dell’altra. Era intelligente, bastava guardare il sorriso con cui le si era illuminato il volto e aveva sottolineato il più importante dei suoi ragionamenti.
Era sicuro che avesse delle qualità nascoste, perché una ragazza così carina e intelligente doveva avere un animo sensibile. Forse era un’artista. Sì, un’artista! Aveva sempre sognato di condividere la casa – e la vita – con un’artista. Lui, così razionale e studioso, futuro professore universitario, avrebbe amato abitare in un loft che fosse anche uno studio creativo, di pittura o di scultura, tornare la sera e trovare lei con i capelli scompigliati e le dita sporche di pittura ad olio, impegnata a ritoccare il suo ultimo quadro. Baciarla con tenerezza e pensare di aver trovato la donna più straordinaria della terra.
Eppure non sapeva nemmeno il suo nome.
Doveva incontrarla di nuovo, conoscerla. Paolo rifletté in che modo poter attuare il proposito.
Nessuna università è tanto grande da non poter incontrare due volte la stessa persona. Doveva fare di tutto per rivederla.
Sapeva che l’avrebbe riconosciuta ovunque. Occhi verdi e capelli color miele intenso.
Doveva imporsi di non pensare troppo a lei, o avrebbe fatto qualche follia. Tipo chiederle di sposarlo.
«Buongiorno signorina! Si ricorda di me? sono l’assistente del professor T.»
«Buongiorno, dottore» avrebbe risposto lei.
«Mi chiedevo… vuoi sposarmi, mia adorata?»
No, così non poteva funzionare. Doveva adottare una strategia più elaborata. Puntare sul suo fascino e innanzitutto sperare che lei non fosse impegnata.
Una fitta di gelosia lo travolse. E se fosse già stata innamorata di un altro? Era un pensiero intollerabile. Trovare infine la ragazza giusta e vedersela portar via da un altro uomo. In altri tempi avrebbe sfidato a duello il suo avversario, ma sapeva che le donne non sono oggetti che si possono vendere e comperare. No, avrebbe dovuto conquistarsi l’affetto e l’amore di quel cuore sincero.
Rifletté che non aveva visto anelli alle sue dita. Non era un indizio decisivo, ma meglio che niente.
Sì, poteva essere una pittrice. Unghie tagliate corte ma con uno smalto verde chiaro. Un contrasto molto interessante tra la praticità e l’eleganza. E indossava una gonna, un indumento molto femminile ma quasi raro in università. Quella gonna significava molte cose: che era bella – ma questo ormai Paolo lo riteneva un dato di fatto – che non aveva paura di distinguersi dalla massa, che era una ragazza elegante e di buon gusto. Purtroppo indossava anche un paio di quelle scarpe piatte che piacciono tanto alle donne ma fanno disperare gli uomini. Dei tacchi sarebbero stati molto più adeguati. Eppure, concluse dopo un momento, aveva ragione lei: meglio tenere un basso profilo, vestirsi elegante quanto basta ma senza sfrontatezza, perché la vera bellezza non sta mai nell’eccesso.
Era una ragazza da scoprire. Doveva assolutamente conoscerla.
Girò per alcuni giorni nei corridoi sempre con lo sguardo all’erta. Indugiò alle macchinette dell’ingresso, dove c’è sempre molta gente, si attardò in biblioteca sperando di riconoscere quei capelli corti chini sui libri.
Passò una settimana, sette giorni lunghi come sette anni, perché il tempo non passa per chi ama.
Paolo sperò che il professor T. gli avrebbe di nuovo chiesto di sostituirlo ma non fu così. Pensò che se lei frequentava sempre le lezioni, allora l’avrebbe incontrata diretta all’aula. Era come avere un appuntamento!
Il suo cuore perse alcuni battiti quando la vide. Era lei, nessun dubbio. Indossava dei pantaloncini e aveva delle gambe magnifiche. Non solo quelle, in realtà. Camminava a testa bassa, concentrata sullo schermo del telefonino. Avrebbe voluto salutarla, richiamare l’attenzione, ma era distratta. Nel frattempo sorrideva e Paolo non poteva resistere al suo sorriso. Prese una decisione improvvisa, quasi drastica. Si piazzò proprio davanti a lei, come fosse sbucato all’angolo del corridoio, e si fermò.
 
Mi stavo avvicinando all’aula. Non so se capita anche a voi di mettere il pilota automatico. Avevo ordinato “avanti mezza” e lasciato che la memoria facesse tutto da sola, perché le donne sono multitasking e quindi leggevo dal telefonino, pensavo a cosa fare quella sera, sorridevo tra me e me per alcune stupidaggini che mi erano venute in mente e che avrei dovuto scrivere prima di dimenticare e infine ascoltavo un po’ di musica, perché nel mio cervello c’è sempre musica che scorre. Ho la radio incorporata, io, e se non viene dall’esterno me la invento da sola.
Mi vanto di conoscere l’università come le mie tasche e di poterla percorrere a occhi chiusi. Sarei arrivata a destinazione a occhi bendati, come previsto e senza intoppi, ma qualcuno si piazzò sulla mia strada.
All’improvviso sbattei contro un ostacolo e lo investii in pieno. Come il Titanic con l’iceberg, come la Concordia con l’isola del Giglio. Allarme collisione! Abbandonare la nave!
La borsa, in precario equilibrio sul braccio, rovinò a terra. Ho già detto che ho le mani di burro: il telefono decise di continuare verso l’aula da solo, schizzò via, finì sul pavimento e si sparpagliò nel corridoio con la custodia da una parte e la batteria dall’altra.
Ebbi solo il tempo di dire: «Ahia!» e riconobbi il mio iceberg. Il dottor Paolo!
«Signorina…» iniziò lui.
«Oh! Mi scusi! Mi ero distratta.»
Mi precipitai a raccogliere i pezzi del mio cellulare.
«Si è rotto?» domandò lui, premuroso.
«Spero di no» riposizionai la batteria. «La prego, non si disturbi, lasci fare a me…» Stava raccogliendo la mia borsa.
«Funziona?» domandò di nuovo.
Avevo riacceso il telefono. Alzai gli occhi e me lo ritrovai davanti, vicino, preoccupato di vedere se lo schermo dava segni di vita.
Sorrisi perché la custodia aveva assorbito l’urto e tutto sembrava in ordine.
«Per fortuna» disse lui. «Scusi ma… per caso ci siamo già visti?»
«Settimana scorsa. Ha sostituito il professor T. a lezione. Io ero in aula!»
«Lei era con quelle ragazze che mi hanno fatto delle domande.»
«Esatto!»
«Sta andando a lezione?»
Annuii.
Si offrì di accompagnarmi. Dissi che non c’era bisogno. Rispose che anche lui andava nella stessa direzione, quindi accettai. Mancavano solo poche decine di metri. Più una porta. Io non mi ricordo mai se bisogna spingere o tirarla per aprire. Ovviamente dipende dal contesto: da un lato bisogna tirare, dall’altro spingere. C’è anche un cartellino sopra la maniglia, ma io non bado a queste minuzie.
Oltretutto, proprio in quel momento lui disse: «Ha poi pensato alla tesi?»
Si ricordava della nostra conversazione? Della tesi? Vidi la porta e non mi accorsi che voleva aprirmela per cavalleria. Afferrai anch’io la maniglia senza riflettere.
Lui spinse, io tirai.
Nella combinazione dei vettori di forza applicati allo stesso punto, il battente non si spostò, ma in compenso gli finii addosso un’altra volta.
  
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