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Autore: Harshlove    17/07/2015    1 recensioni
LAYLOR – anche se a prima vista non si direbbe.
Jane ha ventitré anni. Jane non ha idea di cosa significhi stare nel mondo dello spettacolo, eppure quasi per caso ci finisce dentro e fa amicizia con una serie impressionante di attrici, persone che erano già abituate a tutto quello, compresa una certa Taylor. E, dal punto di vista di Jane, noteremo le dinamiche fra la fredda e furba quanto segretamente frustrata Laura Prepon (credo sia un parere di parte della scrittrice, chiedo venia) e la dolce, folle e lunatica Taylor Schilling. Jane è puerile, insicura, drammatica, paranoica. Troppi pochi peli sulla lingua, secondo la sua stronza madre. E, per quanto io possa odiare dal profondo del cuore la mamma di Jane, Dio, se ha ragione.
Ho provato a scrivere questa storia secondo il punto di vista di qualcun altro, e non Taylor o Laura, per rendere la storia più credibile, meno inverosimile. Sinceramente, so che è una pazzia e mi sto buttando in qualcosa che forse non raggiunge neanche le mie capacità, ma traendo una regale ispirazione da Fitzgerald alle quattro di notte di qualche giorno fa, ecco che è uscita questa ideona.
Enjoy!
Genere: Angst, Comico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, FemSlash | Personaggi: Alex Vause, Nuovo personaggio, Piper Chapman, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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I WASN'T READY, TAYLOR!

Capitolo 5
Non ero pronta


Pausa pranzo.
Dopo quel «levati» io e Taylor semplicemente non ci eravamo più rivolte la parola, né ci guardavamo direttamente negli occhi. E, quando dovetti interagire su di lei col trucco waterproof – necessariamente, perché aveva la faccia di una persona davvero stanca –, tenne gli occhi bassi, mentre io esaminavo il suo viso cercando di far finta che fosse stato qualcun altro, qualsiasi altro. 
Con la coda dell'occhio notai che il suo abbagliante celeste era più vivido del solito. Aveva pianto, per chissà quanto tempo. E ancora non riusciva a non lacrimare, di tanto in tanto.

Andai a mangiare al tavolo dei truccatori. Per un attimo, il mio umore funereo si confuse con una risatina quando notai che mangiavamo nella stessa sala mensa delle detenute. Quel giorno era deserta, perché era il turno, per così dire, di Miss Ghiacciolo e Taylor. Avrebbero girato la scena del flashback in doccia, l'incontro fuori dalla porta della prigione e una scena in lavanderia, appartenente a tutt'altro episodio.

Per simpatica ironia della sorte, con me c'era solo Aaron e un altro tizio, che a quanto pareva si occupava dei capelli della Prepon. Era l'unica ad avere un parrucchiere personale in tutto il cast; questo la diceva lunga.
I loro discorsi vertevano su quanto di più superfluo al mondo: parlavano di personal trainer, della palestra che frequentavano rispettivamente facendo a gara su quale fosse la più costosa, «quel bonazzo al centro di bellezza» dove si erano recati il giorno prima, si lamentavano dei chili di troppo e, quando sbuffai alle loro continue moine esasperate, mi riservarono anche qualche parola poco gentile.

“Non è giornata, oggi. Crescete”.
“La ragazzina sa parlare, quindi?”, ridacchiò l'hair stylist. 
Alzai gli occhi al cielo. Iniziavano a prudermi le mani. Dato che non potevo picchiarli sul serio, azzardai qualcosa di infinitamente stupido.
“Voi checche isteriche mi fate venire il voltastomaco”.  Lo dissi con così tanta violenza che potevo percepire la carica che mi arrivava al cervello. Mi alzai e li guardai dritti negli occhi. Poi mi girai, andando nella direzione opposta ma senza meta, e mormorai un: “Froci di merda”.

Personalmente, so che fu molto ipocrita da parte mia. Ero una lesbica sotto copertura, che non aveva il coraggio di uscire allo scoperto per una miriade di motivazioni, decenti o meno. Ero nata in una società dove «frocio» era un insulto, in una famiglia dove era considerato tabù parlare di «quel tipo di persone», e dove appena si apriva il discorso si guardava dall'altra parte. Niente di più e niente di meno di un posto rintanato agli estremi della civiltà.
So che potrebbe non convincere come giustificazione, ma ero davvero arrabbiata. Il mio essere cresciuta in un ambiente negativo defluì all'esterno così improvvisamente che ci misi un paio di secondi io stessa per realizzare la portata del danno. 
No, sinceramente il fatto che fossero né più né meno al livello di ragazzine mosse unicamente dagli ormoni per quanto riguardava gli esseri di sesso maschile, non mi irritava affatto. Non sopportavo che fossero così stupidi e piacevoli come l'orticaria, però.

“Oh, l'idiota è omofoba quando è la truccatrice di una transessuale e di una lesbica, avete sentito?”.
Aaron si era alzato in piedi, urlando quella frase così aspramente che mi sentii, letteralmente, scivolare nelle mattonelle con motivo a scacchiera. Quando mi girai, tutti i presenti mi stavano fissando, senza avere belle espressioni. 
Fra tutte, risaltò un ghigno divertito di Miss Ghiacciolo. Fu il colpo finale.


Ero davanti alla porta principale della struttura, un vecchio ospedale psichiatrico per bambini ormai chiuso, seduta sulle scalinate ghiacciate. Di per sé, l'umore che si creava guardando un edificio del genere non era granché positivo. Nelle mie condizioni, calde lacrime mi scesero sulle guance pallide, rendendole quasi brillanti.
Il cielo neanche sembrava essere granché contento. Le nuvole color antracite si raggruppavano sempre più velocemente in cielo, favorite da un vento che sferzava contro qualunque cosa. Faceva spezzare i rametti più deboli degli sparuti alberi affianco alla strada, impiantati nel marciapiede, mentre piegava con violenza quelli più resistenti. L'odore di tutta quella natura attorniata da cemento e freddo mi fece venire i brividi. Dov'era il sole quando serviva?

Il rumore di un portone che si apre a fatica.
Ecco, ora Aaron era venuto a spaccarmi la faccia per reclamare i suoi diritti da omosessuale libero.

Mi sentii un braccio bollente cingermi le spalle.
Taylor guardava l'orizzonte, sebbene l'orizzonte non fosse altro che un altro muro di cemento armato piantato a terra. Aveva ancora le extension; questo me la fece vedere come una mia coetanea. E, grazie al cielo, stavolta era vestita.
I suoi occhi, dinnanzi a un panorama così cupo, assumevano una leggera sfumatura più scura: il celeste mutava in blu con ricami d'argento. Aveva un sorriso calmo in volto. Non era un sorriso vero e proprio, teneva ad esserne un'imitazione.

“La vita fa davvero schifo, a volte”, sentenziò.
Sospirai, distogliendo lo sguardo.
“Non riuscivo a girare la scena – l'abbiamo rifatta circa dieci volte – perché mi sentivo troppo in colpa. Sono stata incommentabile con appena tre sillabe”, scosse la testa, ancora con quel sorriso calmo quanto amaro sulle labbra. Sembrava non riuscire a rendersene conto.
“Non fa niente”, riuscii a dire dopo un po'. La voce si era arrochita dal pianto; me la schiarii, fissando poi a terra. I miei piedi mi sembrarono enormemente interessanti.
“Invece fa”. Non sapevo con che faccia l'avesse detto, ma dal tono non era qualcosa di positivo. “Non pensare ad Aaron, è un idiota, tutti lo sa-”.
“Sei davvero lesbica?”. Continuai a fissare a terra.

Non so bene perché glielo chiedi così di getto. Non mi faceva piacere che lei fosse venuta a guardare la reginetta del ballo in lacrime cercando di consolarla; nonostante tutto, restavamo estranee che per una sera avevano fatto finta di essere molto amiche, perché ci faceva comodo e perché Taylor voleva convincersi di essere più giovane della sua età. Ma non lo eravamo. Non sopportavo il suo braccio intorno a me, non volevo essere consolata. Ce l'avevo troppo con me stessa e con quel cazzone, per essere consolata. Era stata una brutta sequenza di giornate che avrei voluto unicamente rimuovere.

Più del solito, trovai insopportabile l'assenza di qualcuno di veramente importante. 
Non avevo nessuno che volevo chiamare per parlargli dei miei problemi, nessuno con il quale volermi sfogare. Volevo farlo, ma semplicemente quando lo immaginavo, si creava un'immagine occasionale di uno sconosciuto senza volto che adoravo. C'era un tremendo senso di vuoto nella mia vita.

Silenzio.
Taylor cominciò con la sua sequenza di «uhm», più fievoli del solito.
“E tu sei davvero omofoba?”.
“Hai appena detto che Aaron è un idiota, mi pare”.
Alzai gli occhi verso di lei. L'avevo spiazzata. 
“Innamorarsi di una persona e non del suo sesso, e renderlo così bianco o nero… definire il mio amore intorno al genere…. Non ha granché senso. È più di tutto questo”.
Finì per spiazzarmi lei.

In quel momento tutto sembrò più chiaro: non voleva consolarmi, voleva scusarsi. Pensava che stessi piangendo anche per lei ed il senso di colpa l'aveva fatta ridestare, venendomi a cercare. 
Tra l'altro, aveva avuto il coraggio di dirmi fra le righe che le piacevano anche le donne. Magari anche più degli uomini. Perlomeno, la mia parte più immatura e idiota sperò fosse così.

“Perdonami”.
Plic, plic, plic. 
Gocce molto più fredde rispetto a quelle che cadevano mestamente dalle guance caddero a terra, facendo sfogare definitivamente il cielo.
“Se non mi rispondi mandi all'aria questa giornata di lavoro, Jane”, mormorò lei, guardandomi le labbra per poi risalire agli occhi. Per interromperla, la spintonai con la spalla, ridendo nervosamente e asciugandomi gli occhi. Non avevo ancora notato che fosse semplicemente un vizio che riservava a chiunque.
“Certo che ti perdono”, risposi. Le sorrisi, alzando un sopracciglio come segno di sfida.
“Per conoscerci meglio, ti porterò nel mio bar preferito. Hai da fare oggi?”. Sembrava eccitata all'idea, forse anche perché era contenta della svolta del mio umore.
“No. Ci sto. E penso che vuoterai il sacco”. Alle mie parole, accennò un sorriso soddisfatto. Quando sorrideva, indicava sempre un sì, in un modo o nell'altro.

La pioggia stava diventando sempre più violenta. Taylor scoppiò a ridere – con quella sua lunga, raggiante risata a singhiozzo – e non rispose, dandomi una spinta a sua volta e alzandosi da terra; si diede qualche colpetto sul suo piccolo culetto tonico, poi entrò nell'ex ospedale psichiatrico, rivolgendomi un'occhiata divertita.
Mi trovai a seguirla per i corridoi della ormai prigione, come un cagnolino affettuoso. 

Guardai Taylor e Laura interagire da nude sotto una doccia provvisoria. Ero paonazza in viso – causato ovviamente dal mio enorme, sconsiderato imbarazzo e anche un pizzico di curiosità che tenevo a tacere. 
Fu strano, perché Laura certamente non era più Laura. Quando entrava nel personaggio di Alex Vause, era uno sdoppiamento di personalità vero e proprio: acquisiva movimenti che una stupida etero non avrebbe mai potuto acquisire, uno sguardo e un modo di toccare Taylor che fu totalmente sensuale, senza osare comunque nulla di realmente provocante. Ma, ancora una volta, mi sbagliavo. 

Immaginai, alla fine, che lo ritenessi così sorprendente solo per il fatto che non avevo mai conosciuto un'attrice o attore oltre i personaggi che interpretava. Pensavo da sempre che per interpretare un certo tipo di individuo, una persona dovesse essere comunque in un certo senso portata. Non so quale delle due versioni fu la più vera: ossia se Laura fosse portata oppure era semplicemente sorprendentemente brava.

Taylor restava Taylor. E questo mi fece riflettere molto più a lungo.

Dopo aver visto Taylor cercare di essere amica con Laura – cioè, Piper cercare di essere amica con Alex, terminata anche la scena della lavanderia – io e Taylor ricevemmo il permesso per svignarcela.
Mentre Taylor recuperava le sue cose nei camerini delle attrici, notai un numero a non so quanti zeri di messaggi e chiamate perse. Sgranai gli occhi, mentre rievocavo l'immagine e pensavo a quella «C» onnipresente. Carrie, pensai. La stessa Carrie che aveva fatto infuriare così tanto Taylor.

All'uscita, c'era una Jenji disperata che stava parlando con qualche altro che si occupava della storia. Le puntate non erano di certo tutte già perfettamente visualizzate; come le scale di Hogwarts, a Jenji piaceva cambiare. In quel caso, la sentimmo borbottare un: “Non mi convince per nulla… chiamare semplicemente The Litch il primo episodio, sminuisce tutta la storia di Piper. Che è quello di cui ci occuperemo maggiormente”.
“Ma io lo trovo perfetto!”, sbraitò scocciata una donna con dei lunghi occhiali rettangolari, rasata.
“Tutte le altre alternative sono patetiche, Jenji. OITNB è irriverente per definizione, non possiamo...”. Un altra tizia sembrava essere perfettamente d'accordo con quella dall'aria di martire, elencando tutte le ragioni per le quali non potevano.
Mentre io e Taylor uscivamo dalla nostra bellissima prigione penitenziaria, ci guardammo con due sorrisetti sarcastici, perfettamente complici. Mandai anche un messaggino per avvisare Angelina, sperando più che altro che si interessasse abbastanza a me da chiedersi dove fossi finita.

“Comunque, The Litch? Lo trovo fuori luogo anch'io, e non ci capisco un cazzo”, borbottai, accomodandomi per la seconda volta nell'Audi della mia biondissima amica, stavolta senza extension.
“Vogliono semplicemente trovare un titolo”, spiegò Taylor, facendo spallucce e mettendo in moto. “Jenji assilla tutti con il primo episodio giorno che ha deciso di mettere in atto la serie. L'ha chiesto anche a me, figurati. Vuole qualcosa di spettacolare”. Quando finii di informarmi, stavamo già sfrecciando per le strade newyorkesi. 

Mi portò in uno di quei squallidissimi bar standard dove se ordini acqua ti buttano un fiasco di birra addosso, con la pistola a pressione. Era così logoro, sporco e frequentato da brutta gente che ebbi l'impressione che mi avesse portata lì, nei meandri di New York, per farmi violentare e poi riscuotere i soldi. In realtà, fu un'idea che mi passò solo dal cervello, ma fu abbastanza terrificante, per quanto di breve durata.

“Sai perché siamo qui?”, mi chiese, alzando le sopracciglia. Iniziava a farlo da quando aveva visto Laura farlo – lo trovai orticante come Aaron. Sembrava perfettamente a suo agio, su quello sgabello schifoso, così preso di mira dallo sporco (e cercai di non immaginare quale tipo di sporco) che sembrava iniziare a consumarsi a causa di esso.
“Dovrei? È orribile, Taylo-Taylo”, la presi in giro, per dissimulare la mia preoccupazione. “Cioè, sul serio? L'ostrica assassina”, dissi, riferendomi al nome del bar. “E io pensavo che tu fossi una tipa da cupcake e cornetti congelati, gin e caviale”. Lei sbuffò, ridendo.
“Lo sono, di tanto in tanto. Ma comunque, ti ho portata qui perché non c'è il pericolo di...”, mi guardò, con quei suoi occhioni celesti pieni di paura. Si sporse verso di me, facendomi segno di imitarla. “Incontrare i peggiori in circolazione”.
Ebbi davvero paura.
“E cioè cosa?”, le domandai, trattenendo il respiro.
“I paparazzi”, disse. Scoppiò in una di quelle sue risate fragorose, piegandosi a terra. L'unica cosa certa fu che non stonò con l'atmosfera del bar.

Fui così spontanea nel dire «brutte attrici troie», a braccia conserte ed evidentemente imbronciata, che lei continuò a ridere per circa altri quindici, intollerabili minuti. Ma la sua capacità di girarmi come voleva fece di nuovo capolino, quindi nell'arco di un tempo molto minore mi trovai di nuovo a dire stupidaggini con lei.

“Chi pensi che sia Carrie?”, disse, ad un tratto.
Aveva ordinato uno Jägermeister ghiacciato, mentre io ero scampata al getto di birra con la pistola a pressione prendendo un liquore molto dolce al gusto di fragola che mi aveva scelto Taylor, azzeccando i miei gusti. Ora, lei stava allegramente sorseggiando il suo Jäger, mentre io mi bloccai a mezz'aria col mio liquore in mano. Tanto per cambiare.
Rimasi interdetta, incapace di rispondere – almeno, non subito.
“La tua amante”, dissi dopo con un tono sexy, per sciogliere quella insostenibile tensione, facendo una faccia stupida e sporgendomi verso di lei. Mi fissò, abbozzando un sorrisetto. Non stava dando risposte. La guardai, in attesa. Niente. Continuava a ridere sotto i baffi.
“È la tua amante?”.
“Accidenti Sherlock, che intuizione”.
Avrei voluto rispondere qualcosa facendo riferimenti a Watson, ma semplicemente non ne fui capace.

La tensione del discorso scemò, ed iniziammo a parlare di cose molto più trascurabili, tipo di quanto fosse stato stronzo Aaron, e dell'indifferenza che circondava me così come circondava lei. Nessuno in realtà sembrava interessarsi ai crolli emotivi altrui, escluse noi due. Per un motivo o per un altro, fummo contente così.
Ora sapevo che eravamo amiche, super compatibili sotto molteplici punti di vista. Ora sapevo di potermi fidare, sapevo che Taylor iniziava a significare qualcosa di concreto nella mia vita. E mi interessavo sinceramente a cosa le accadeva, davvero mi stavo trastullando cercando di indovinare cosa le fosse accaduto in quel cervello di Golden Retriever, quella mattinata. E lei sembrava comunicarmi lo stesso.

“È che non ero pronta. Non ero pronta, Taylor. Non ero pronta”, stavo dicendo, riferendomi alla mia prima e distruttiva giornata di lavoro.
Mi guardò con quel suo sguardo assorto, incredibilmente lontano. Gli occhi le presero vita.
Non ero pronta… Oddio, ma certo! Jenji ne sarà entusiasta!”, trillò.
“Cosa?”. Mi lasciava sempre sbigottita, e il sentirmi perennemente un paio di passi indietro iniziava a darmi sui nervi.
“Per la prima puntata! E la bionda sono io”.
“Non sei molto chiara, Golden Retriever”.
“Smettila, o non ti farò dare la ricompensa da Jenji, piccolo chiwawa fastidioso”.
“Ricompensa?”.
“Sono sicura che accetterà le mie condizioni. Ti farò dare una ricompensa per aver trovato un nome così assurdamente perfetto per la prima puntata!”.

In tutti i casi, la ricompensa non fu esattamente come me la aspettavo.
   
 
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