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Autore: WYWH    17/07/2015    1 recensioni
"What If" sugli avvenimenti di Furisode. E se Kojiro sopravvivesse all'incidente? Come si evolverebbe il rapporto tra di loro attraverso lo sguardo di chi gli sta attorno? Riuscirebbero a superare e ad andare avanti? Come?
“Riparare con l’oro”, il Kintsugi, è una pratica giapponese che consiste nell'utilizzare oro o argento liquido per la riparazione di oggetti in ceramica andati distrutti. Questo ne aumenta sia il valore economico che quello artistico, dato che la casualità con cui si rompe l’oggetto darà vita ad un oggetto unico.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Danny Mellow/Takeshi Sawada, Kojiro Hyuga/Mark, Maki, Yayoi Aoba/Amy
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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- Questa storia fa parte della serie 'Oriente & Occidente'
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7: Al tramonto … gli amici di Lui

 

Sia io che Takeru vedemmo chiaramente la frustrazione di Kojiro mentre tirava il pallone a scacchi.

Tutto era iniziato come un gioco: gli avevamo fatto visita, e dopo aver chiacchierato a lungo in casa avevamo deciso di fare qualche “scambio” e tiro in porta, e inizialmente era divertito all’idea, recuperando un vecchio pallone, assicurandosi che non fosse uno di quelli di “allenamento”.

Vederlo con un vecchio pallone sgangherato, la maglietta con le maniche tirate, il cappello sulla testa e un sorriso divertito sulla faccia fu davvero un tuffo indietro nel tempo.

Prendemmo l’autobus come da ragazzini, correndo perché stavamo rischiando di perderlo, come al solito; ci prendevamo in giro, ricordavamo gli allenamenti del coach Kira, le partite, la nostra rabbia e la nostra gioia ogni volta che eravamo su quel campo. Ogni volta, per noi, era una battaglia da vincere, ad ogni costo.

Arrivati al campetto, ad un tratto, Kojiro si bloccò, la sua stessa risatina scemò velocemente, tanto da portarmi a guardarlo, stupito.

E vidi, nel suo sguardo, un’ansia cupa e silenziosa. Ci aveva parlato dell’incidente, ma ci aveva assicurato che non sentiva quasi più dolore, che l’attività fisica non era un problema, e che avrebbe giocato più che volentieri; ora, di fronte a quello sguardo, forse aveva compreso che neanche lui era certo se aveva detto o meno una bugia.

Dopo qualche secondo lasciò cadere il pallone a terra, muovendolo con i piedi, e io e Takeru ci limitammo a seguirlo, ad accompagnarlo silenziosamente dentro il campetto deserto. Gli scambi con cui scaldammo le gambe erano fatti in silenzio, erano i nostri piedi a parlarsi.

Quelli di Hyuga, come al solito, erano forti, nervosi, e sembrava che si stessero risvegliando dal letargo, compiendo quei movimenti, apparentemente semplici, con entusiasmo, anche impazienza; Sawada, dei tre, era il più preciso, era in grado di passarla in modo perfetto, con la giusta forza, in modo che la palla arrivasse docilmente ai nostri piedi. Io, dei tre, mi ritenevo il meno abile, anche perché io utilizzavo molto le mani, e anche se avevo giocato in un altro ruolo per un certo periodo, non mi permettevo mai di fare chissà quali acrobazie.

Il sole, alle spalle di Kojiro, andava verso un tramonto splendido, tanto che mi distrasse, facendomi alzare la testa e perdere la palla, recuperata velocemente da un attento Takeru mentre venivo ripreso dal “capitano”.

-Beh, ti distrai?-

-Se lo spettacolo vale la pena, si.-

Si girò a guardare il tramonto, e guardai la sua schiena farsi scura.

La schiena del mio migliore amico. Vivo.

Quando seppi dell’incidente, ero così sconvolto che volevo soltanto raggiungere l’ospedale dov’era stato ricoverato; fortunatamente, la mia compagna Yasu era rimasta salda per entrambi, e mi fece calmare, aspettando il mattino dopo per avere notizie. La sua famiglia ci accolse sollevata, e ci portò a vederlo, era ancora in coma farmacologico dopo l’operazione di emergenza.

Ora era in piedi, davanti a me. Vivo.

-È bello averti ancora con noi.-

Kojiro si voltò a guardarmi, sorpreso della mia confessione; percepii Takeru affiancarmi, con un colpo di punta spinse il pallone in mano, tenendolo tra le mani, e anche lui si unì a quella dichiarazione.

-Non sarebbe mai stato lo stesso senza di te.-

Ci sorrise con gratitudine, adesso aveva il sole alle sue spalle.

I suoi occhi, anche controluce, rivelarono tristezza, la punta di un iceberg che l’uomo era bravo a nascondere.

-… dai, riprendiamo a giocare, prima che diventiate troppo melensi.-

Ridacchiammo, e Takeru riportò la palla ai piedi.

-Giusto, devi tornare in forma prima di tornare in Italia.-

Quell’affermazione incupì immediatamente il suo sguardo. Lo notai immediatamente.

-Ti hanno richiamato?-

Scosse leggermente il capo, stringendo il pugno.

-Li ho chiamati io, dicendo che ero pronto a tornare. Pare che ancora non sono sicuri di rinnovarmi il contratto …-

-Che?!-

-Non li biasimo: io stesso non sono sicuro di quanto si sia ripreso il mio corpo dall’incidente.-

-Senti dolori? Continui a prendere i farmaci?-

Scosse il capo, ma mi rivolse lo stesso sguardo che aveva da ragazzo: furioso e ansioso. Non avrebbe mai lasciato che il dolore fisico gl’impedisse di proseguire il suo sogno, era fatto così.

Gli presi una spalla con la mano, stringendola con forza.

-Andrà tutto bene: sono convinto che, anche se non torni alla Reggiana, avrai altre offerte. Sei un grande attaccante, qui lo sanno tutti. E lo sanno anche in Italia.-

Il calcio europeo, nei confronti di noi asiatici, aveva sempre avuto un atteggiamento snob, trovandoci ancora “immaturi” rispetto al loro modo di giocare. Ma con Wakabayashi ad aprirci la strada, seguito da Ozoora, pian piano i musi bianchi si sono resi conto delle capacità di noi giapponesi; Shingo, Kojiro e Tomeya erano gli esempi di come l’Italia non ci prendesse più sottogamba.

Spostai la mia mano dalla spalla al berretto di Kojiro, prendendoglielo e calcandomelo in testa, avvicinandomi alla porta sgangherata del campetto.

-Ehi, quello è mio.-

-Dai prestamelo, che sono faccia al sole.-

Il primo a farsi sotto fu Sawada, che parai tranquillamente, mandando invece il pallone a Kojiro, che lo bloccò saldamente con il piede destro.

Mi guardò, o meglio mi squadrò, con quell’aria di sfida con cui aveva sempre cercato d’intimidire il portiere avversario, e poi caricò il tiro. Non impiegò molta forza, e io lo parai senza problemi, permettendomi di sfotterlo un po’.

-Oh-ho! Sono riuscito a parare un tiro del fortissimo Hyuga! Dai che sai fare di meglio.-

Gliela rimandai senza problemi, e lui sorrise divertito, passando però la palla a Sawada, il quale iniziò una serie di scambi.

Alla fine, Kojiro caricò di nuovo il tiro, e stavolta vidi chiaramente che ci stava mettendo forza, e mi preparai a parlarlo, ginocchia piegate e mani avanti.

Il pallone fece una leggera curva, e io lo acchiappai al volo, sentendolo tentare di sgusciarmi via dalle braccia, la forza nervosa del mio capitano infusa dentro quel cuoio. Mi permisi di parlare solo quando ebbi la certezza che l’oggetto era fermo tra le mie braccia.

-Tiri come una donnetta!-

-Non puoi permetterti di dire queste cose: Yasu ha un tiro potente.-

Takeru mi ricordò la mia compagna, ed io sorrisi divertito, passandogli la palla.

-Ma a lei non puoi certo dargli della donnetta, con il carattere che ha!-

-Vedrò di dirglielo la prossima volta che la incontro.-

-Ah no, pietà!-

Ridevamo, divertiti all’idea di una delle sfuriate di quel terremoto, quando mi resi conto che eravamo solo in due a divertirci davvero; per quanto stesse sorridendo, infatti, Hyuga non era affatto dello stesso umore.

Spalle al sole, in controluce, la sua figura solitaria parve più scura dell’ombra ai suoi piedi.

Le risate calarono quasi bruscamente, era come se il tempo si fosse fermato in quei momento.

-Come sta Maki?-

Takeru ebbe più coraggio di me nel chiederglielo, con un leggero colpo passò il pallone ai piedi del nostro ex capitano, il quale la fermò semplicemente bloccandole la strada.

-Vorrei saperlo.-

Aveva un tono cupo, ma non proseguì oltre, perché caricò il piede, e stavolta lanciò una cannonata contro la porta; reagì d’istinto, e tentai di bloccarla, ma quella forza mi spinse indietro le mani, e il cuoio s’insaccò dentro la rete sgangherata dietro di me.

Recuperai, diedi la palla a Kojiro, e senza neanche passarla a Takeru, caricò nuovamente il destro.

Tiro della Tigre. Oramai mi bastava un colpo d’occhio per capire che tipo di tiro mi avrebbe fatto Hyuga.

In quel caso ero quasi sicuro che avrei fatto fatica, e probabilmente non sarei riuscito a pararla.

La bomba mi arrivò dritta in petto, e d’istinto le diedi una manata, per farla cambiare direzione, ma accidentalmente le feci colpire il palo; la palla schizzò così all’indietro, e Sawada fu costretto ad andarla a riprendere, correndo.

Mi voltai verso Kojiro, e ancora una volta ritrovai la sua rabbiosa ansia, era uno sguardo che lo aveva sempre accompagnato. Ma ora, in quel momento, era molto cupo, e non presagiva nulla di buono.

Takeru, nel frattempo, tornò con la palla tra i piedi, ma invece di farsela passare per tirare, Hyuga decise di andarsela a prendere, e tra i due iniziò una sfida di piedi; quelli di Sawada erano precisi, faceva sempre in modo di avere la palla sotto il controllo di una delle due estremità, e non aveva sempre bisogno di guardare il gioco di gambe, tenendo d’occhio il suo avversario.

I piedi di Kojiro, come all’inizio, erano impazienti, rabbiosi, e soprattutto tenaci: non avrebbero mai mollato, sarebbero riusciti a prendersi la palla ad ogni costo. Difatti, alla fine, con un colpo di punta riuscì a penetrare il “balletto” di Sawada, e si voltò verso di me, iniziando a correre, per darsi maggiore spinta.

Io tremai leggermente, come mi capitava ogni volta che doveva affrontare un suo tiro: l’emozione, dentro il mio corpo, scatenava un brivido.

Ma non era mai paura.

Era aspettativa. Il desiderio di riuscire, questa volta, a parargli una sua cannonata.

Lo vidi caricare il tiro. Raiju Shot.

Piegai le gambe il più possibile, aspettandomi il colpo, e all’impatto sentii qualcosa di simile ad uno schiocco; il bolide arrivò rasoterra, ma non mi buttai in avanti, aspettando che compisse la curva che lo faceva alzare. A quel punto, provai a gettarmi addosso, afferrandolo con le braccia, ma non mi aspettavo una curva così stretta, e il cuoio mi colpì il mento, la mia testa andò all’indietro, e il pallone fu libero d’infilarsi in rete.

Guardai la palla agitarsi ancora dentro la vecchia porta, questa addirittura slittò leggermente indietro, facendo una gran fatica a contenere quella forza. Quando alla fine, con un ultimo guizzo di vita, la palla decise di arrestarsi, mi voltai a guardare Kojiro assieme a Sawada.

 

Io e Ken, da bambini, ci eravamo giurati che saremo sempre rimasti fedeli al nostro capitano; eravamo compagni di squadra, e lo saremo continuati ad essere anche nella vita.

Lo so, suona molto come “promessa infantile”, di quelle fatte in un tramonto con Mr.Fuji come sfondo e una musica ad accompagnarci, per poi scoprire nella vita adulta che non puoi mantenere una simile promessa, perché la vita avrebbe diviso le nostre strade; ma nonostante la realtà ci abbia separato, io sono sempre stato convinto di quelle parole, e ora più che mai risuonavano dentro il mio corpo mentre vedevo il mio capitano stringere i denti e i pugni, a frenare una rabbia crescente.

Io mi limitai a fare cenno a Wakashimazu, facendomi ripassare la palla, e con altrettanta calma a la ripassai a Kojiro; la fermò con il blocco, e si voltò a guardarmi. Inizialmente sembrava che volesse uccidermi con lo sguardo, ma lentamente quella rabbia si sciolse, diventando una grande sofferenza, un dolore di cui non riusciva a liberarsi

Non avevo bisogno di fargli alcuna domanda: se voleva parlare, lo avrebbe fatto. Non sentivo neanche il bisogno di dirgli frasi tipo “andrà tutto bene”, “passerà” o “se hai bisogno, noi ci siamo”: lui sapeva che poteva contare su di me e Ken, così come noi avevamo sempre contato su di lui. La nostra amicizia era oltre un pallone a scacchi, le battaglie perse e vinte, i nostri sogni. Era diventato un legame soldi e imprescindibile.

Così Hyuga caricò di nuovo la gamba, e di nuovo tirò; Wakashimazu provò a parlarla, e fallì, trattenendola a stento tra le mani. Io me la feci rimandare, e la passai nuovamente al mio capitano. Questo tirava, il portiere provava a fermare la palla, io la riprendevo, e di nuovo la passavo.

Mentre cominciava a fare buio, quel meccanismo diventava sempre più perfetto, i gesti erano sempre più veloci, gli sguardi sempre più concentrati, i piedi più calibrati, i tiri sempre più potenti, e le mani iniziavano a capire come respingere, far cambiare traiettoria alla palla, tanto che io e Kojiro cominciammo ad inseguire la palla: Ken la respingeva contro di noi, e la stoppavamo con piedi o petto, oppure le faceva cambiare traiettoria e farle colpire palo o traversa, e noi inseguivamo la sua parabola, riportandola indietro.

Non saprei dire, però, chi di noi si stesse effettivamente divertendo. Forse la palla stessa.

Hyuga, ad un tratto, la bloccò con il piede, ed io mi permisi di osservarlo: pian piano, avevamo iniziato ad intensificare, ed ora eravamo sudati e con il respiro un po’ affannato. Vedevo le sue spalle andare su e giù, i suoi occhi fissi sulla porta, come se vedesse qualcosa in essa; qualunque cosa fosse, era ciò che lui odiava di più al mondo.

Probabilmente erano gli uomini che avevano aggredito lui e Maki.

Sapevo della violenza fatta a lei tramite Yasu, quando ci eravamo visti per andare a trovarli all’ospedale, e lei lo aveva saputo dalla signora Hyuga. Allora, come in quel momento, ero sicuro che se Kojiro li avesse ritrovati da qualche parte, li avrebbe uccisi a calci. Si, con la sola forza delle sue gambe.

Caricò il tiro, e ancora una volta fu un Raiju, ma questa volta era diverso dai precedenti: l’odio e la rabbia, pian piano, avevano dato maggiore forza ad ogni colpo, fino ad arrivare a quell’ultimo, una cannonata verso la quale Ken neanche provò a parlarla, limitandosi a scansarsi. La palla colpì la traversa, e come una cometa schizzò all’indietro, superando la metà campo, continuando a rotolare fino a quando perse tutta la sua forza, superando la rete e finendo in mezzo all’erba alta.

Restammo in silenzio a guardarla, prima che l’urlo squarciasse il cielo viola.

-…VAFFANCULO!-

Mi voltai di scatto, e vidi Hyuga curvare la schiena in avanti, i pugni nuovamente stretti, le braccia tremavano nervose, e se lo portò verso la testa, respirando, prendendo fiato mentre io e Wakashimazu, lentamente, ci avvicinavamo.

Aspettammo, come sempre, che fosse lui a prendere la parola, pazienti e al tempo stesso ansiosi. Dentro di me, infatti, avevo avvertito la paura di perdere il mio capitano.

-… non la sento da due settimane. Non so cosa fare.-

Conoscendolo, aveva chiamato più volte il ryokan.

Si ammutolì, e noi non avevamo bisogno di altre informazioni: dalla spiacevole battuta che aveva fatto a proposito della compagna di Ken, avevo percepito il cambio di umore dell’uomo, molto più intenso di quello riferito al lavoro.

V’era molta più angoscia.

-Non si fida più di me.-

-Questo sai che non è vero.-

Conoscevo Maki, ero stato presente ai loro primi incontri, e lei si era spesso rivolta a me per chiedermi consiglio. Pertanto ero sicuro che la donna non avrebbe mai perso fiducia in Kojiro, ci mettevo la mano sul fuoco.

Lui si voltò a guardarmi, rabbioso. Io rimasi calmo, avevo imparato a non temere quello sguardo di fuoco, a non temere quell’uomo.

-Allora dimmi cosa devo fare.-

-Vai da lei.-

Ricordo perfettamente quella partita, quando si conobbero: la squadra femminile di baseball contro quella di softball. Ricordo che lei mi aveva chiesto di dire a Kojiro che avrebbe giocato, con un’aria così emozionata e contenta … che fin da subito pensai “sarebbe bello se il capitano potesse fidarsi di lei”.

Maki è sempre stata impavida.

Ma ora aveva bisogno di aiuto per riuscire a superare tutto questo.

-Sai perfettamente che non dovresti essere qui, ma lì con lei.-

Lo ammetto: inizialmente, avevo avuto anch’io un debole per quella ragazza. Era bella e solare, il tipo di persona con cui poter condividere anche i dolori della vita senza che questa perdesse la voglia di andare avanti.

Ma ovviamente, un tipo come me non è proprio il massimo per una persona del genere.

Hyuga mi guardò con aria infastidita.

-Credi che non lo sappia?! Credi che mi faccia piacere stare lontano da lei in questa situazione?-

-E allora perché sei ancora qui, eh? Spiegamelo un po’.-

Quando, quel giorno che dovevamo tornare dalla nostra squadra, Kojiro scese dall’autobus, io mi sporsi a vedere, e vidi Maki arrivare di corsa, inseguendo l’autobus. Inseguito, vi rendete conto? Si è messa a correre dietro un autobus, per riuscire a salutarlo. Ve l’ho detto: era impavida.

E lo ammetto, invidiai il mio capitano.

-Spiegami perché non sei con lei a tirarla fuori dalla sua sofferenza.-

-Ci ho provato quando ero con lei, ma non riuscivo nemmeno a toccarla. L’ultima volta che l’ho abbracciata mi ha respinto, si è spaventata. Aveva paura di me, capisci?-

Mi fece quasi sorridere questa frase: da piccoli, Kojiro aveva sempre fatto paura a chiunque, ma questo lo usava come punto di forza per la nostra squadra, e anche successivamente cercava sempre d’incutere timore nei confronti di lui e delle sue capacità. Ora ne vedeva l’aspetto negativo.

-E io … io non so come comportarmi! Non sono in grado di usare le parole, come te.-

Come me?

-Io … sono un tipo pratico, devo mettere mano alle cose per farle funzionare. Ma questo … questo va oltre le mie capacità. Io … io non so come aiutare mia moglie.-

Il giorno in cui Kojiro mi annunciò che si stava per sposare, non ne rimasi affatto sorpreso: era solo una questione di tempo prima che i due compissero questo passo. Si trattava di aspettare più che altro che lui si decidesse; e tuttavia, il giorno prima delle nozze, Maki si rivolse a me, rivelandomi il suo più grande segreto.

“-Ho paura, Takeshi. E se … se non riuscissimo ad essere felici?-”

Avrei potuto farle cambiare idea, approfittarne, dirle dei miei sentimenti, ma non l’ho feci.

“-Maki, tu hai l’amore e il coraggio di arrabbiarti e litigare con Kojiro. Pertanto, qualunque cosa accada, sono sicuro che sarete in grado di andare avanti insieme.-”

Adesso avevo quella stessa occasione fra le mie mani: potevo suggerire a Kojiro di divorziare, di lasciarla perdere, potevo dirgli che era un’incapace, che non era tutto questo “grande uomo”. E avrei potuto sfruttare questa occasione per avvicinarmi a lei.

Se fossi stato quel tipo di uomo. Ma avevo fatto la promessa di restare fedele al mio capitano, e per quanto avessi amato Maki, vedevo e sapevo chiaramente che erano fatti per stare insieme.

Pertanto presi un profondo respiro prima di riprendere la parola.

-In questi casi non c’è bisogno di gesti fisici, o grande parole.

Kojiro, Maki ha bisogno della tua presenza, del sapere che ci sei lì, in quel momento, assieme a lei.

Non vuole telefonate; vuole te.-

Guardai l’uomo, e non lo vidi ancora convinto, e la cosa m’innervosii non poco, tanto che alzai la voce.

Lo ammetto, quando dissi quella frase, ebbi paura della sua possibile reazione: dopotutto, lo stavo provocando.

-Se non alzi quel grosso culo che ti ritrovi, vado io da tua moglie.

Io, non tu.-

Incrociai le braccia sul petto, e gli feci capire con lo sguardo che quelle parole non erano solo una minaccia campata per aria: sarebbero state una promessa. Dopotutto, quando dico una cosa, io la faccio.

Non saprei dirvi chi ebbe lo sguardo più sorpreso, se Kojiro o Ken, accanto a lui, ma quell’ultima frase sembrò iniziare a smuovere qualcosa dentro il mio ex capitano, e sorrisi divertito.

-Non te l’aspettavi, vero?-

Andai a riprendere la palla, lasciando che le mie parole facessero il loro lento, ma efficace effetto; il lampione poco distante mi aiutò ad individuare il cuoio a scacchi, e con i piedi lo riportai sulla terra battuta mentre sentivo i miei amici scoppiare a ridere.

Sorrisi a mia volta, camminando senza fretta, parlando ancora una volta.

-Allora, torniamo a casa? So che tua madre preparerà qualcosa di speciale per stasera.-

 

**

Una menzione speciale al personaggio Originale di Berlinene, Yasu. ^_^
   
 
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