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Autore: Helena Kanbara    19/07/2015    2 recensioni
Sono stata una bambina ubbidiente per ben sedici anni, poi ho smesso improvvisamente di eseguire gli ordini del “mondo” e mio padre ha cominciato a chiedersi dove avesse sbagliato con me. Ecco perché sono qui in isolamento, insieme ai delinquenti. Ecco perché passo le mie giornate sola in questa schifosissima cella ad aspettare il mio diciottesimo compleanno per essere giustiziata. Perché non ho voluto seguire gli ordini. Sapete cosa penso? La vita sull’Arca fa schifo. E preferirei di gran lunga la morte.
Genere: Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: John Murphy, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'The heart wants what it wants'
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11.   WHEN YOU’RE GONE
 
 If we
don’t end war,
war will end
us.
 
Di radio ne avevo viste tante, sull’Arca. Ma mai avevo provato a toccarne una. Smanettare con quegli aggeggi non faceva per me: sebbene stessi seguendo il corso di Ingegneria all’Accademia, avevo ben altri obbiettivi, molto diversi dall’occuparmi della sala di controllo e dei collegamenti radio tanto importanti per le comunicazioni tra le varie stazioni. Non avrei mai immaginato di potermene pentire tanto.
Erano passati due giorni dallo scoppio della bomba preparata da Raven e dalla conseguente distruzione del ponte a cui quest’ultima aveva portato. Immaginavamo tutti che i Terrestri fossero stati colpiti dal nostro attacco e sapevamo che prima o poi avrebbero risposto con una vendetta dieci volte più violenta, ma fino a quel momento non si era vista l’ombra di nemici. E anche se questo avrebbe dovuto tranquillizzarci, al contrario eravamo tutti tesi come corde di violino. Non potevamo certo dire di adorare l’effetto sorpresa tanto quanto sembravano farlo i Terrestri.
“Stazione Alpha, mi ricevete?”, domandai all’improvviso, ponendo per l’ennesima volta quell’inutile domanda.
Sapevo già che sarebbe rimasta senza alcuna risposta, che la mia voce flebile si sarebbe persa nell’infinità dello spazio. Dal Giorno dell’Unità avevamo perso qualsiasi tipo di collegamento con l’Arca, e non c’era stato assolutamente niente che né Raven né Monty potessero fare per risolvere quel problema. La radio era andata. Ma io ancora non avevo intenzione di arrendermi. Non proprio quel giorno.
Mi riappropriai del panno improvvisato che avevo trovato nella tenda di Raven, spolverando un’altra volta ancora la radio fuori uso. Districai i fili già in perfetto ordine e controllai l’auricolare asciutto. Erano ore che mi scervellavo su quell’aggeggio infernale: l’avevo ripulito da cima a fondo – asciugando l’acqua che, grazie ad una infiltrazione della tenda, aveva inzuppato l’auricolare – districando i fili e assicurandomi che tutto fosse, almeno all’apparenza, a posto. Ma nulla era servito a riportare in vita quell’ammasso di ferraglia.
“Stazione Alpha. Se mi sentite, cercate di stabilire un contatto”, parlai ancora, decidendo che quella sarebbe stata l’ultima volta.
Misi da parte l’auricolare con fin troppa forza, mettendomi in piedi così bruscamente che quasi vidi Raven e Monty – insieme a me lì nella tenda – sobbalzare dallo spavento. Non osai cercare i loro occhi, intimidita. Avevo provato a rendermi utile con quella maledetta radio, ma avevo fallito. E sapere che loro ne fossero consapevoli mi fece all’improvviso sentire piena di vergogna.
“Brayden”, provò a richiamarmi Monty, ma non lo degnai di uno sguardo mentre correvo velocemente fuori da quella tenda, lontana da loro.
Non potevo aiutarli, sebbene lo volessi con tutta me stessa. Ero brava a costruire armi e avevo imparato a sparare, ma non ero in grado di rimettere in sesto la radio, pur avendo frequentato per anni lezioni di Ingegneria Meccanica. Penoso, no?
Continuai a correre via da quei problemi ancora per molto, senza guardare bene dove andavo almeno finché la mia fuga non fu bruscamente interrotta da un corpo che impattava violentemente contro il mio. Quell’ostacolo improvviso mi fece quasi ringhiare infastidita, mentre istintivamente portavo le mani di fronte a me per proteggermi.
“Ehilà, Ginger”.
No. Non poteva essere. Non…
Sollevai alla velocità della luce gli occhi chiari su quelli di John Murphy. Ma certo. Tra tutte le persone sulle quali sarei potuta fatalmente inciampare, chi volevate che mi capitasse? Allontanai le mani dal suo petto all’improvviso, come se mi fossi scottata, indietreggiando tanto da far sì che le mani di John fossero a distanza di sicurezza dai miei fianchi. Poi, ancora in assoluto silenzio, gli riservai un’occhiata inespressiva. Ma lui capì tutto comunque.
“Giornata storta?”, domandò, tuttavia senza insistere, cosa che – ahimè – apprezzai moltissimo.
Sospirai, distendendo le spalle per sciogliere un po’ della tensione che mi trascinavo addosso, poi distolsi lo sguardo dal viso di Murphy per incamminarmi verso ancora non sapevo bene dove. Lui mi seguì senza farselo ripetere due volte, anche se aveva un’aria stanchissima – Bellamy l’aveva messo a lavorare nell’affumicatoio, e non c’era stato nulla che John potesse fare per rinunciare a quell’ingrato compito.
“Oggi sarebbe stato il compleanno di mia madre”.
Non so ancora perché lo dissi. Semplicemente aspettai di trovarmi con John lontana dal campo e dalla folla di ragazzi che lo riempiva quanto bastava a sentire un silenzio confortante circondarci. Un silenzio nel quale il mio sussurro si presentò quasi come un urlo disperato. Non osai guardarlo in viso, sentendomi addosso tutto l’imbarazzo che avevo provato la prima volta che avevamo affrontato quel doloroso argomento. Per quanto avessi imparato a conoscere e apprezzare John, non pensavo sarei mai riuscita a parlargli di mia madre in modo tranquillo. Non c’ero mai riuscita con nessuno.
“Mi hai detto di non averla mai conosciuta”, mormorò lui dopo qualche attimo di assoluto silenzio, facendosi più vicino a me ma lasciandomi comunque lo spazio di cui avevo bisogno.
Nella sua voce non c’era traccia di accusa, era solo confuso e anche un po’ curioso, sebbene stesse cercando di frenarsi per non risultare invadente. Voleva solo conoscermi, e si ricordava ancora di quanto gli avessi detto quelli che sembravano secoli prima. Dovetti con immensi sforzi trattenere un sorriso intenerito.
“Infatti. Ho letto la sua data di nascita nel suo fascicolo”, osservai, utilizzando con immensa gratitudine un albero come appoggio.
Il peso di quella confessione che mai avevo fatto a nessuno – nemmeno a mio padre – rischiava di farmi capitombolare a terra, totalmente priva di forze. Murphy probabilmente se ne rese conto, perché non aggiunse nient’altro. Semplicemente si limitò ad avanzare ancora un po’ nella mia direzione, riservandomi un’occhiata vagamente preoccupata. Io dal mio canto cercai di regolarizzare il respiro prima di riprendere a parlare. Sapevo che ciò che avrei detto di lì a poco avrebbe cambiato tutto.
“È per questo che mi hanno incarcerata”.

 
∞ 
 
Brayden sedeva a gambe incrociate sul pavimento, le lunghe trecce rosse ad adornarle il viso piccolo e dalla carnagione chiarissima. Stringeva tra le dita una Barbie nuova di zecca – un regalo che la nonna le aveva procurato direttamente dal mercato degli scambi – sorridendo felice mentre giocava insieme ad un suo nuovo amico. Marcus spostò lo sguardo dalla sua primogenita al bambino che le sedeva di fronte con aria imbronciata: il suo nome era Kyle Wick ed era, almeno da quanto aveva capito, poco più grande di Bray. I due si erano conosciuti diverso tempo prima all’Accademia: frequentavano gli stessi corsi e Brayden era riuscita subito a legare con lui, proponendogli addirittura di accompagnarla a casa quel pomeriggio.
Marcus le riservò l’ennesima occhiata, non riuscendo a trattenere un sorriso. Brayden era una bambina particolare: non le piaceva vedersi circondata da gente e al contrario, sembrava fare sempre di tutto per evitare il contatto umano che tanto la innervosiva. Era cresciuta sola, ma non pareva esserne disturbata. Al contrario, amava la propria solitudine più di ogni altra cosa. Non aveva mai avvicinato nessuno dei suoi coetanei, escluso Kyle. Guardandolo ancora una volta, Marcus capì che doveva proprio aver fatto colpo perché Brayden gli permettesse di starle accanto.
“Uffa, vuoi giocare sì o no?”, la sentì sbuffare qualche minuto dopo, e subito ritornò ad adocchiare la situazione – pur senza farsi notare.
Vide Brayden che stringeva più forte la bambola tra le dita, mentre il ragazzino che aveva di fronte la fissava con aria annoiata e le braccia incrociate sul petto.
“No”, le rispose dopo un po’, e Marcus subito aggrottò le sopracciglia. Avevano discusso, per caso? Cosa c’era che non andava? “Non sono una femminuccia, te l’ho detto”.
Bastarono quelle parole a farglielo capire. Il Consigliere trattenne una risatina divertita, fingendosi nuovamente alle prese con delle pulizie delle quali non avrebbe dovuto sul serio preoccuparsi. Era lì solo per tenere d’occhio i bambini, e aveva ormai capito bene cosa stesse succedendo. Brayden, da ragazzina qual era, avrebbe semplicemente voluto giocare con le Barbie e divertirsi con Kyle, ma lui – giustamente – non si stava rivelando granché soddisfatto da quel progetto. Tuttavia aveva preferito non dirglielo fino all’ultimo, forse per non farla indispettire. Cosa che comunque successe.
“Sei una scocciatura”, borbottò Brayden infatti, gonfiando le guance con aria stizzita mentre metteva da parte la sua preziosa bambola. “Cosa vuoi fare allora?”.
Kyle sembrò pensarci un po’ su, poi balzò in piedi e disse: “Devo andare a casa”.
Marcus lo guardò con la coda dell’occhio mentre si dirigeva verso la porta d’ingresso, cercando di restare tranquillo anche di fronte all’urlo agitato che tirò fuori Brayden.
No!”, lo ammonì difatti, mettendosi in piedi per raggiungerlo. Riuscì subito nel suo intento, perché Kyle si fermò nell'ingresso e riprese a guardare la sua piccola amica. “Cioè”, continuò Brayden dopo un po', ben consapevole del fatto che Kyle non aspettasse nient'altro che una spiegazione da parte sua. “non essere arrabbiato con me. Possiamo cambiare gioco”.
Marcus attese la risposta di Kyle con – forse – ancora più ansia di quanta ne avesse Brayden. Sempre fingendosi disattento e disinteressato, si fece più vicino all’ingresso e continuò a tenere d’occhio la situazione. Quando vide Kyle dedicare alla sua primogenita un ampio sorriso, quasi sospirò di sollievo.
“Non sono arrabbiato con te”, la rassicurò, facendosile vicino per scompigliarle giocosamente i capelli rossi. “Però devo tornare a casa: mia madre mi aspetta”.
Brayden gonfiò nuovamente le guance e provò a sistemare l’acconciatura che lei stessa aveva fatto quella mattina con infiniti sforzi. Ma ormai Kyle gliel’aveva rovinata totalmente – era sempre il solito – e Brayden decise di arrendersi con un ultimo sospiro sconfitto.
“E non puoi dirle di aspettare ancora un po’?”, domandò all’amico, stranamente poco incline all’idea di lasciarlo andar via.
Che non volesse più stare sola?
Di fronte a quella proposta ingenua, Kyle sgranò gli occhi.
“Stai scherzando? Va su tutte le furie quando faccio ritardo!”, esclamò. Poi si avviò nuovamente in direzione della porta, ma allora Brayden non ebbe bisogno di fermarlo. Kyle, prima di uscire, si voltò a guardarla di sua spontanea volontà. “Anche se tu non puoi capirlo, credo. Dal momento che una mamma non ce l’hai”.
A Marcus sembrò di sentire distintamente il rumore di qualcosa che si spezzava dentro Brayden. Probabilmente un pezzetto di cuore. O ancora, l’argine che lui con tanta fatica le aveva costruito attorno perché potesse vivere bene pur con la mancanza costante di una figura femminile. Marcus quel rumore non se l’era immaginato: aveva sentito tutto benissimo, non solo dentro Brayden ma anche dentro di sé.
A quel punto fu costretto a distogliere lo sguardo dalla sua bambina, da quella piccoletta che amava più di ogni altra cosa e che gli ricordava – anche se era dolorosissimo pensarlo – Alida, in ogni minima cosa che facesse. Marcus non vide i suoi occhi verdi velarsi di lacrime, né tantomeno le sue guance gonfiarsi dal disappunto e i pugni stringersi lungo i fianchi.
Ma: “Certo che ho una mamma!” la sentì strillare contro Kyle, e allora trattenere un gemito gli risultò molto più difficile di quanto si sarebbe aspettato.
“E allora dov’è?”, le domandò Kyle semplicemente, la mano ancora calcata sulla maniglia e l’aria di chi non le credeva assolutamente.
Di fronte a quella domanda difficile – molto più difficile degli esercizi di matematica della signora Holland – Brayden non poté far altro che boccheggiare come un pesce fuor d’acqua.
“I-Io…”, balbettò, poco prima di ritornare inaspettatamente all’attacco. “Be’, non lo so! Da qualche parte”.
Ma sul finale la voce le si affievolì nuovamente. Era consapevole di non poter parlare per certo. Non poteva rispondere a Kyle per le rime e tappargli quella boccaccia insolente una volta per tutte. Perché non sapeva. Non sapeva dove fosse sua madre, né tantomeno se ne avesse sul serio una. Non sapeva, Brayden.
“Come vuoi tu”. Kyle fece spallucce, poi aprì la porta d’ingresso e si catapultò fuori dall’appartamento in un batter d’occhio.
Non si rese mai conto di cosa davvero aveva fatto, di chi aveva risvegliato con quella sua osservazione smaliziata. Salutò Brayden prima di andare via, osservandola mentre se ne stava ferma sulla soglia a trattenere delle lacrime che non avrebbe mai pensato di poter versare proprio quel giorno. La lasciò completamente sola con quei demoni spaventosi arrivati all’improvviso a farle compagnia e la sola consapevolezza che l’unico modo per sapere davvero di sua madre fosse quello di porre a Marcus tutte le domande delle quali desiderava già poter conoscere le risposte.
 
 
“Ti hanno arrestata perché hai letto un fascicolo riguardante la tua stessa madre?”.
La voce di Murphy trasudava pura confusione, così come la sua espressione allibita. Potevo capire che fosse incredulo: la mia frase enigmatica poteva facilmente essere fraintesa. Dicendo che mi avessero arrestata per aver letto un fascicolo, sembrava quasi che non avessi fatto niente di che. Ma non era esattamente così.
“Era un file riservato. Lo tenevano nella Sezione Proibita della biblioteca”, spiegai difatti, ben consapevole di dover aggiungere quei particolari alla storia per far sì che John capisse sul serio di quale crimine mi ero macchiata per meritare di essere una dei Cento.
Non era così semplice come lui credeva. Sull’Arca davano sul serio punizioni esagerate, ma io mi ero meritata di essere rinchiusa negli Spalti del Cielo – o perlomeno, così dicevano sempre tutti. Io non credevo affatto di essermi meritata un anno di isolamento solo perché avevo provato a conoscere mia madre, ma cosa contava la mia parola – o peggio ancora quella di Murphy, che vidi intento a nascondere un’espressione infastidita – contro le autorità dell’Arca?
“Come hai fatto a scoprire del fascicolo?”, mi domandò lui dopo un po’ di tempo, evidentemente ancora confuso.
Di fronte a quell’ennesima domanda feci spallucce, rifuggendo all’improvviso il suo sguardo chiaro mentre mi fingevo interessatissima alla vegetazione fitta che ci circondava.
“Non vuoi saperlo sul serio”.
Sapevo di stare mentendo, ma dovevo provare quel contorto metodo di psicologia inversa perché speravo davvero con tutta me stessa che infine John avrebbe fatto come volevo, dandomi corda e ragione, dicendo che sul serio non volesse sapere come fossi finita in quel guaio né conoscermi. Ma Murphy al contrario voleva conoscermi, voleva sapere. E non c’era niente che potessi fare, ormai, per sottrarmi a quella confessione che già mi ero pentita amaramente di aver fatto.
“Certo che voglio saperlo, Brayden. Non sarei qui sennò”, mi disse infatti, facendo sì che dovessi trattenere a malapena un’imprecazione.
Mi ero messa in trappola con le mie stesse mani. E non potevo più scappare. Mi toccava dirgli la verità.
Passarono diversi minuti prima che riuscissi a raccogliere tutto il coraggio di cui mi riscoprii all’improvviso bisognosa, ma alla fine riuscii chissà come a cominciare col mio racconto e stranamente, le parole mi vennero fuori tutte insieme, molto più facilmente di quanto mi sarei mai aspettata. Tanto che alla fine per me fu difficile il contrario: fermarle.
“Per i primi sette anni della mia vita, circa, non ho mai pensato una volta a mia madre. Mai. Ero una bimbetta sola, cresciuta circondata da nient’altro che l’affetto di suo padre e della nonna migliore del mondo. Vedevo i miei coetanei correre dalle loro mamme, confidarsi con loro e volergli un gran bene. Sapevo di essere diversa, ma non me ne sono mai preoccupata granché. Ero felice così: avevo mio padre e mia nonna, cos’altro avrei potuto desiderare di più? Le cose mi andavano bene. Non sentivo di dover avere anch’io una madre. Almeno finché un giorno un mio… amico…”.
Solo a quel punto mi fermai, anche se già pensavo fosse impossibile che una cosa del genere potesse capitare proprio a me. Nonostante l’iniziale titubanza, difatti, una volta cominciato a parlare mi ero sentita finalmente in pace con me stessa così tanto da pensare che non avrei mai più smesso di farlo – non se mi faceva poi stare così dannatamente bene.
Tuttavia, la voce mi venne a mancare quasi del tutto quando l’immagine di un Kyle Wick bambino mi ritornò alla mente, colpendola con la violenza di un pugno nello stomaco. Dovetti per forza di cose fermarmi a riprendere fiato, tirando fuori quell’“amico” con non pochi sforzi.
Murphy mi aveva, fino a quel momento, ascoltata con estrema attenzione e in perfetto silenzio. Non aveva mosso mezzo passo nella mia direzione, lasciandomi i miei spazi e non osando interrompermi nemmeno per scherzo. L’avevo apprezzato moltissimo, proprio come mi era piaciuto da morire il vedere completamente assente sul suo viso qualsiasi traccia di compassione. Non provava pietà per me, solo del semplice e puro interesse. Ed era una cosa bellissima.
Ma di fronte a quella mia improvvisa titubanza lo vidi muoversi a disagio sul posto, mentre la sua espressione cambiava, diventando un po’ più preoccupata ad ogni secondo silenzioso che lasciavo scorrere. Terrorizzata all’idea di sentirlo porgermi qualche domanda, ripresi subito a parlare.
“Ecco, un giorno lui se ne uscì fuori con un «tu la mamma non ce l’hai». Così, all’improvviso. E io credo di averlo realizzato solo in quel momento, che sul serio una mamma non ce l’avevo. O perlomeno, così sembrava che fosse”, conclusi, la voce che mi si affievoliva sul finale e gli occhi di nuovo ben lontani dalla figura di John.
Non riuscivo a guardarlo – non mentre liberavo quelle confessioni così intime – ma lo sentii comunque mentre cambiava posizione con aria nervosa ancora una volta e capii che allora nulla avrebbe potuto salvarmi da ciò che avrebbe detto. Sapevo stesse per parlare, e temevo più di ogni altra cosa le parole che avrebbe potuto rivolgermi. Era una paura insensata, la mia, perché non avevo idea di cosa avrebbe potuto dire – quindi perché temere? – ma comunque non riuscii a scacciarla. Almeno finché Murphy non parlò sul serio.
“Si può sapere chi è questo deficiente?”, chiese, una nota ben evidente di irritazione nella voce.
Con quella sua domanda molte delle mie paure volarono via, e liberai un agognato sospiro di sollievo prima di rispondergli.
“Kyle era solo un bambino. Molto più sveglio di me, dato che si era reso conto da subito di ciò che io invece avevo sempre ignorato, per buona pace di mio padre e nonna Vera”. Difesi il mio amico, perché era giusto così. Sapevo che John difficilmente sarebbe stato d’accordo con me, ma dovevo perlomeno provarci – anche se non era quello il punto. Non era Kyle il problema. “Marcus non ha mai voluto che sapessi di mia madre. Non appena ho cominciato a fare domande, la vita per lui è diventata un incubo vero e proprio. Si è sempre rifiutato di rispondere a qualsiasi mio quesito, e come lui anche mia nonna e Callie – sebbene quest’ultima fosse più permissiva, con me. Non ho mai capito perché mi volessero all’oscuro”.
Ma anche quella era una bugia, e Murphy lo capì forse anche prima di me. Trovai chissà dove il coraggio di cercare ancora una volta i suoi occhi coi miei, e lo vidi riservarmi uno sguardo che diceva molto di più di quanto riuscissi a decifrare. Aveva ancora una volta capito tutto – o perlomeno, quanto bastava a mettermi con le spalle al muro.
Sconfitta, sospirai lievemente e distolsi lo sguardo dalla sua figura, fingendomi nuovamente interessatissima alla vegetazione che ci circondava. Sapevo che, di nuovo, ciò che avrei detto di lì a poco avrebbe cambiato tutto. Perciò avevo bisogno di una grande scorta di coraggio prima di poter parlare ancora.
“Forse erano tutti convinti del fatto che sarei crollata di fronte alla consapevolezza che mia madre era un’assassina”.
Sapevo che sarebbe arrivato il silenzio pesante che seguì quella mia rivelazione, eppure non potei che sentirmene un po’ sorpresa. Forse nel profondo mi ero stupidamente illusa che Murphy avrebbe avuto una reazione diversa da quella che mi aspettavo. Ma ciò non successe – com’era giusto che fosse – ed io semplicemente me ne rimasi di fronte a lui, piena di vergogna, mentre lo osservavo boccheggiare alla ricerca infruttuosa di parole giuste da dire. Allora era lui quello incapace di guardarmi.
“U-Un…”, balbettò, trovando impossibile il proseguire. “Cosa?”.
Feci spallucce come se nulla fosse. Dopo aver confessato tanto, nulla più mi spaventava. Come se tutto il resto contasse niente. E in effetti era proprio così.
“Ho letto anche questo nel suo fascicolo”, mormorai, apparentemente tranquilla, poco prima di recitare a memoria quelle parole oscene che da ormai troppo tempo avevo impresse a fuoco nella mente. “«Alida O’Neil. 10 ottobre 1967. Guardia Ingegneristica dell’Arca. Accusata di tentato omicidio. Morta suicida». Vorrei dirti di più, ma non so altro. Sono riuscita a leggere solo queste poche righe prima che l’allarme scattasse. Ricordo che il Comandante Shumway fu un fulmine: accorse in biblioteca e mi beccò con le mani nel sacco. Mi portò da mio padre e lo obbligò a denunciarmi. Infine eccomi qua”.
Cadde tra di noi dell’altro silenzio, ma quella volta non me ne dispiacqui granché. Dopo quell’infinita confessione avevo bisogno di un po’ di pace, di starmene tranquilla e per conto mio anche se non ero sola – e sinceramente, andava bene così. Seppur fosse difficilissimo per me ammetterlo, avere John accanto in quel momento mi piacque molto più del lecito. Con quelle scomode rivelazioni l’avevo messo in una situazione imbarazzante, eppure lui non scappò via a gambe levate come avrebbe fatto – credo – chiunque. Al contrario rimase lì di fronte a me, alla continua ricerca di qualcosa di adatto da dire. Una ricerca che dopo diversi minuti risultò più che infruttuosa.
“Non so nemmeno cosa dovrei dire”, mormorò difatti Murphy, con un’aria vagamente sconfitta che quasi mi intenerì. “Penso che un mi dispiace sia troppo banale, ma… Davvero, Ginger, mi dispiace”.
Liberai un debole sorriso, scrollando le spalle mentre muovevo un passo nella sua direzione.
“Non è colpa tua”, dissi, consapevole di stare dicendo nient’altro che la verità. “A proposito. Tu perché sei finito dentro? Non me l’hai mai detto”.
Quella volta toccò a Murphy fingere che non fosse nulla.
“Non vuoi saperlo sul serio”, sussurrò, cercando di dissimulare.
E anche se non era vero per niente, non riuscii proprio a negare quella che a John sembrava nient’altro che l’evidenza.
 
 
“Quello lì dentro era tutto il cibo che avevamo!”.
Lo strillo innervosito di Octavia Blake contribuì e non poco a rendere ancor più grave la situazione che si profilava di fronte ai nostri occhi, la scena surreale dell’affumicatoio colmo di carne cacciata con immensi sforzi che andava letteralmente a fuoco. In quella stanzetta di legno c’era tutto il cibo che avessimo a disposizione per sopravvivere, ed io lo guardai diventare inutilizzabile senza che potessi far nulla per impedirlo.
Bellamy, ovviamente agitato, chiese subito spiegazioni – voleva assolutamente sapere come fosse potuta succedere una cosa del genere – ma io mi persi le successive parole di Murphy, troppo concentrata com’ero ad osservare il più attentamente possibile il suo viso incrostato di sporco e sangue. Non sapevo spiegare cosa fosse esattamente, ma quell’incendio sembrava aver risvegliato all’improvviso dentro me una consapevolezza del tutto nuova. C’era qualcosa che non andava. Ma non ebbi tempo di pensarci granché – per buona pace di quel poco di sanità mentale che ancora m’era rimasta – perché sia Bellamy che Clarke decisero di comune accordo che saremmo andati a caccia per recuperare almeno un po’ del cibo che avevamo perso, ed io mi ripresi dalla mia trance fitta di dubbi appena in tempo per capire che si stessero organizzando dei team per quell’uscita improvvisata nei boschi.
“Dove stai andando?”.
La camminata spedita che stavo portando avanti in direzione della navicella venne subito arrestata da un paio di dita che si strinsero in modo nient’affatto doloroso intorno al mio polso. Anche se non l’avessi sentito parlare, avrei riconosciuto il tocco di John Murphy tra mille.
Mi voltai a fronteggiarlo quasi con un diavolo per capello – all’improvviso la sua presenza mi rendeva stranamente nervosa – infastidita dal suo volermi rallentare mentre già quasi tutti gli altri tiratori si erano offerti di aiutare con la caccia. Sebbene fossimo più di novanta ragazzi, lì sulla Terra, solo in venti avevano imparato a sparare e – per fortuna o meno ancora non avrei saputo dirlo – io ero tra questi. Grazie agli allenamenti con Bellamy ero anche diventata piuttosto brava, quindi perché non aiutare?
“Lo sai dove sto andando”, borbottai qualche minuto dopo, trovandomi – ahimè – ancora irrimediabilmente bloccata tra il corpo di John ed una delle pareti della navicella che credevo non avrei mai raggiunto – non se andavamo di questo passo. “Bisogna che usciamo a caccia se non vogliamo morire di fame”.
Non avevo nient’altro da aggiungere e andavo visibilmente di fretta, perciò non appena finii di parlare feci per divincolarmi e scappare, ma ancora una volta John me lo impedì. Prima che potessi farmi lontana dal suo corpo, lui compì un altro passo nella mia direzione e me lo ritrovai così vicino – così all’improvviso – che per me non sollevare gli occhi verdi nei suoi con aria vagamente spaventata fu impossibile. Non ero più abituata ad averlo così tanto intorno. Non reggevo più quel contatto fisico.
“Non andare”, pregò Murphy, e solo la sua voce mi distolse da quell’imbarazzo arrivato a fare di me la sua preda così all’improvviso.
Non ero comunque tranquilla – impossibile per me esserlo con lui così vicino a me, tanto che quando parlò nuovamente il suo fiato caldo si scontrò direttamente con le mie labbra screpolate – ma l’irritazione genuina di cui mi riempii di lì a poco fece sì che riuscissi ad accantonare almeno per un attimo qualsiasi pensierino fuori luogo per potergli rispondere a tono, proprio come si meritava.
“E restare qui con te a fare cosa, esattamente?”.
Ahimè, capii ben presto che quello fosse proprio il genere di domanda che John si aspettava gli ponessi. Ormai mi conosceva molto meglio di quanto mi sarebbe piaciuto ammettere. Lo vidi tirare fuori il suo solito odioso mezzo sorriso mentre azzerava completamente la distanza che ci divideva, posandomi le mani sui fianchi.
“Io ho in mente un paio di idee interessanti”, sussurrò, ad un passo dalle mie labbra.
Quella volta toccò a me ghignare divertita. Se pensava che fosse così facile si sbagliava di grosso.
“Grazie, ma no”, declinai, trattenendo a stento una risata mentre facevo pressione sul suo petto per far sì che mi lasciasse lo spazio personale che tanto anelavo. Alla fine, chissà come, riuscii ad ottenere ciò che volevo e mi liberai dalla sua presa piacevolmente soffocante con un ultimo: “Ci vediamo più tardi”.
Ma non la scampai nemmeno quella volta, proprio come avrei dovuto immaginare. Murphy infatti non se lo fece ripetere due volte prima di ri-attirarmi a sé, quella volta facendo pressione su una delle maniche della mia giacca pesante. Allora però non ebbi occasione né tempo di lamentarmi o provare di nuovo a scappare, perché prima ancora che potessi sul serio rendermene conto, John mi strinse il viso tra le mani e le sue labbra si posarono sulle mie alla velocità della luce.
Successe tutto in un battito di ciglia, tanto che mi resi conto di cosa stavo facendo con decisamente troppo ritardo. Sgranai gli occhi all’improvviso, rendendomi conto ahimè di non avere nemmeno metà di tutta la forza che mi sarebbe servita per respingerlo. Non riuscii ad allontanarlo, perché non volevo. Non sapevo ancora se potevo fidarmi di John: anche se sembrava essere cambiato un sacco, ero piena di dubbi su di lui, e non era giusto che un cumulo enorme di attrazione fisica oscurasse la mia razionalità. Ma in quei momenti non riuscii a pensarci sul serio, non mentre lui mi baciava nuovamente e in modo così diverso dalle altre volte. Sembrava cauto – come se fosse pienamente consapevole del fatto che avrei potuto respingerlo, se solo avessi voluto – e mi stava baciando in maniera così lenta e dolce che non potei far altro che rilassarmi sotto il suo tocco, spegnendo finalmente il cervello e godendomi il momento fino in fondo.
O meglio, almeno finché la tranquillità che ero riuscita a guadagnarmi con infiniti sforzi non fu bruscamente interrotta dalle mani di John, che sentii distintamente attraversarmi la schiena con delle carezze che si lasciarono dietro non pochi brividi prima che ne raggiungessero la base, pronte a scendere sempre più giù a meno che non l’avessi fermato io stessa. Il che fu proprio ciò che feci.
“Ti piacerebbe”, sorrisi sulle sue labbra, afferrando le mani di Murphy proprio un momento prima che queste potessero chiudersi sulle mie natiche, come lui sperava – ci avrei scommesso.
Mi feci lontana dalle sue labbra con un ultimo bacio a stampo, ridacchiando divertita da nemmeno sapevo cosa esattamente. Ero all’improvviso euforica: ogni volta mi lasciava in quello stato.
John probabilmente se ne rese conto, perché mi sorrise soddisfatto, per nulla offeso dal mio averlo stoppato. Quella volta sembrava molto più che intenzionato ad andare oltre, ma io ancora non ero pronta a concedergli tanto.
“Mi piacerebbe da morire, in effetti”, lo sentii sussurrarmi all’orecchio, poco prima che – inaspettatamente – si facesse lontano da me per lasciarmi lo spazio di cui avevo disperatamente bisogno.
Non potei far altro che alzare gli occhi al cielo con aria fintamente infastidita. In realtà mi stavo trattenendo da morire per non scoppiargli a ridere in faccia.
“Mia nonna diceva sempre che la pazienza è la virtù dei forti. Magari col tempo otterrai ciò che vuoi”, gli dissi dopo un po’, incamminandomi finalmente verso la navicella nella quale sapevo avrei trovato un’arma da poter utilizzare per la caccia.
Murphy, inaspettatamente, mi seguì subito.
“Lo sto già ottenendo, Ginger”, mormorò all’improvviso, con un tono allusivo che di nuovo mi riempì di dubbi.
Arrestai la mia camminata, voltandomi a fronteggiarlo così velocemente che per poco non gli finii nuovamente addosso.
“Si può sapere cosa mi nascondi?”. Incrociai le braccia al petto con aria vagamente infastidita e vidi subito dipingersi sul viso di John un’ombra di finta incredulità che mi indispettì ancor di più.
Io?”, pigolò anche, fingendosi l'innocentino che non era affatto.
“Sì, tu. Da quando sei tornato ti comporti in modo strano. Alle volte stento a riconoscerti”. Interruppi quella mia confessione piena di dubbi prima che potesse trasformarsi in qualcosa di molto più grave. All’improvviso piena di vergogna, distolsi lo sguardo dal viso di Murphy, perdendomi perciò l’espressione mortalmente seria che mise su di lì a poco.
“Non sto combinando niente, Brayden”, annunciò, obbligandomi a fissarlo negli occhi ed evitando nomignoli e cose varie.
Era serissimo, o almeno così voleva farmi credere. Ma ancora non sapevo se potevo fidarmi. Almeno non totalmente.
Avrei voluto aggiungere qualcos’altro – qualunque cosa – ma la voce di Raven interruppe quel momento di fastidioso stallo, e subito risposi alla sua chiamata facendomi lontana da John. L’avrei affrontato in un altro momento. O perlomeno così speravo.
Contenta di potermi distrarre almeno per un po’ da quei miei fastidiosi dubbi, corsi dalla Reyes e ascoltai la sua richiesta. Voleva che aiutassi lei e Monty a costruire dei walkie-talkie da utilizzare per agevolare le comunicazioni tra noi delinquenti. Li avremmo costruiti dalle rimanenze della radio fuori uso. Fu proprio quando Raven nominò quest’ultima che mi rabbuiai, al ricordo di come avevo fallito nel farla funzionare nuovamente.
“Non credo di potervi essere molto utile. Hai visto che disastro ho combinato prima. Non sono riuscita a riparare la radio”, osservai infatti, con voce sempre più flebile ad ogni parola.
Intimidita, rifuggii lo sguardo scuro di Raven, aspettandomi che lei mi desse ragione e decidesse – per il suo bene – di fare a meno del mio aiuto. Ma nulla di tutto ciò successe. Al contrario Raven rimase lì di fronte a me, determinata come solo lei sapeva essere, disposta a tutto per convincermi a collaborare con lei e Monty.
“Certo che non ci sei riuscita”, stabilì, come se nulla fosse. “perché il tuo compito non è quello di aggiustare. A quello ci penso io, Brayden. Tu devi creare. Sei un’ingegnera, d’altronde. Con le armi hai fatto un ottimo lavoro. So che te la caverai alla grande anche coi walkie-talkie. Ti prego. Io e Monty abbiamo bisogno di te”.
Quelle ultime parole quasi mi commossero. Non conoscevo Raven così bene, ma non aveva esattamente l’aria di qualcuno ben disposto ad implorare per ricevere aiuto da una ragazzina che conosceva pochissimo. Doveva avere proprio bisogno di me, e quella consapevolezza mi fece sentire all’improvviso così utile – nel posto giusto al momento giusto, finalmente – che proprio non riuscii a trattenere un sorriso felice mentre annuivo nella direzione di Raven.
“Spiegami come intendete procedere”.
 
 
“Sono tornati tutti dalla battuta di caccia, tranne Clarke e Finn”.
Sollevai velocemente gli occhi sulla figura affannata di Octavia. L’avevo sentita distintamente correre nella tenda che occupavamo io, Raven e Monty, ancora tutti e tre concentratissimi sulla costruzione di quei maledetti walkie-talkie. La cosa si era rivelata molto più difficile del previsto, ma alla fine sembravamo esserne usciti vincitori. Gli apparecchi nuovi se ne stavano di fronte ai nostri occhi – e a quelli di Bellamy, che per tutto il tempo ci aveva osservati in assoluto silenzio – e avevano tutta l’aria, o perlomeno così speravo, di essere funzionanti.
Ma dai”, borbottò Raven dopo un po', distogliendo lo sguardo dalla piccola Blake con uno sbuffo infastidito.
Io continuai ad osservarla ancora con aria confusa. Non potevo credere che avesse corso fin lì solo per prendersi gioco di Raven, dandole l’ennesima conferma del fatto che ormai la relazione tra Clarke ed il suo ex-ragazzo procedesse a gonfie vele, tanto che questi avevano preferito appartarsi piuttosto che tornare subito al campo con del cibo che ci sarebbe stato più che utile. Doveva esserci qualcosa di più, sotto.
“Con loro c’era anche Myles”, affermò difatti Octavia di lì a poco, il fiato ancora corto e l’aria serissima.
Sapevo non stesse semplicemente scherzando, e se ne resero conto tutti di fronte a quell’ultima frase. Tre dei nostri compagni erano spariti nel nulla e all’improvviso ci ritrovammo tutti ad essere più che preoccupati. Bellamy fu l’unico che, tuttavia, riuscì a formulare una domanda.
“Non è tornato neanche lui?”, chiese alla sorella minore, speranzoso probabilmente di sentirsi rispondere di sì.
Ma Octavia si limitò a scuotere la testa. Anche Myles era disperso.
Non ebbi bisogno di pensarci due volte. Mi misi in piedi velocemente e, dopo aver fissato tutti i ragazzi nella stanza uno ad uno, riportai gli occhi verdi sui trasmettitori che avevamo costruito con tanta fatica.
“Credo sia giunta l’ora di mettere alla prova questi walkie-talkie”, annunciai, e subito tutti capirono cosa avessi in mente.
Nessuno si tirò indietro – com’era giusto che fosse – e nemmeno trenta minuti dopo già avevamo organizzato l’uscita nei boschi più veloce di sempre. Dovevamo trovare Clarke, Finn e Myles prima che fosse troppo tardi: non c’era tempo da perdere.
“Io vado a Sud”, proclamai quando sentii Raven e Monty discutere delle zone che avrebbero perlustrato.
Avevamo perso tempo ad armarci fino al collo, ma sembravamo finalmente pronti a partire. Restava solo da decidere chi avrebbe perlustrato cosa.
“A me rimane la zona Est, quindi”, mormorò Monty, con un’aria quasi abbattuta che per poco non mi fece sorridere intenerita.
L’idea di gironzolare da solo per i boschi in piena notte non lo affascinava granché, ma era pronto a mettersi in pericolo per i propri amici. Era un tesoro.
“Sei sicura di voler andare da sola?”.
Quella domanda mi riscosse all’improvviso, e distolsi velocemente gli occhi dalla figura di Monty per posarli su Bellamy. Era stato lui a parlarmi.
“Posso farcela”, lo rassicurai, vagamente sollevata all’idea che – almeno qualcuno – si preoccupasse per me. “E tu, Monty?”.
Il ragazzo annuì nella mia direzione, poi mi sorrise.
“Me la caverò”.
Non c’era nient’altro da aggiungere e lo capimmo tutti, separandoci pochissimo tempo dopo. Ognuno andò nella sua direzione, il fucile sempre pronto a sparare contro qualunque nemico e i walkie-talkie – funzionanti, per fortuna – utilissimi a comunicare tra di noi, anche se eravamo ognuno agli estremi opposti di quell’imponente foresta.
“Qualcuno sente questo segnale?”.
La voce di Monty mi distrasse all’improvviso dalla perlustrazione attenta che stavo portando avanti da non molto: mi era sembrato di sentire un rumore, nel fitto della vegetazione, ma nonostante quanto aguzzassi la vista non riuscivo ad individuare nessuno. Né un Terrestre né Clarke né Finn né Myles o nessun altro dei miei amici.
“Tieni gli occhi aperti, Monty”, borbottò Raven attraverso il walkie-talkie, e potei immaginarla mentre alzava gli occhi al cielo con aria infastidita.
Ma Monty non le diede ascolto.
“Penso sia lo stesso della scatola nera”, continuò, facendo agitare anche Bellamy.
“Dannazione, Monty. Fa’ attenzione. E dimmi cosa vedi”.
Anche se non potevo vedere gli altri, immaginai fossero tutti in attesa di una risposta da parte di Monty. Una risposta che però non arrivò. L’unico rumore a riempirmi le orecchie nel silenzio assoluto della foresta buia fu infatti quello di una sottospecie di interferenza fastidiosa che mi preoccupò non poco. Spaventata all’idea che in qualche modo la linea di comunicazioni fosse stata interrotta, recuperai velocemente il walkie-talkie dalla cintura e me lo portai alle labbra.
“Monty?”, chiamai, preoccupata, ma quel nome si perse nell’agitazione dell’annuncio di Raven.
“C’è qualcuno nei cespugli”, mormorò, cauta, ed io non me lo feci ripetere due volte: mollai tutto e corsi il più velocemente possibile verso Nord, dove sapevo avrei trovato Raven e Octavia.
Speravo non fosse un nemico a nascondersi a pochi passi da loro: speravo di poterle aiutare. Ma scoprii di essere troppo lenta quando, una volta che le raggiunsi, vidi Bellamy già lì insieme a loro, entrambe alle prese con quello che – avvicinandomi lentamente – riscoprii essere Myles. A Raven e Octavia era andata bene. Non osavo immaginare cosa avrei fatto se si fosse trattato di un Terrestre.
Sentii Myles parlare a malapena e subito cercai la sua figura ferita e sporca di fango.
“Clarke e Finn”, esalò, il respiro corto e l’aria esausta, “li hanno presi i Terrestri”.
Nessuno si scompose, nemmeno io. Semplicemente sentii gli occhi riempirmisi di lacrime amare, ma me ne rimasi in silenzio di fianco ai miei compagni. Stavo per crollare, anche se non si sarebbe detto.
“Dobbiamo portarlo al campo e curarlo”, disse Bellamy all’improvviso, il primo a riprendersi dalla fastidiosa trance nella quale eravamo caduti tutti.
Octavia per poco non strillò dall’incredulità. Semplicemente voltò di scatto il capo nella direzione del fratello maggiore, riservandogli un’occhiata stizzita.
“E Clarke e Finn?”, gli domandò aspramente.
Ma non c’era risposta che Bellamy potesse o volesse darle. Perciò ci pensai io a parlare.
“Sono andati”, sussurrai, la voce che mi si spezzava – sebbene non lo volessi – su quell’atroce aggettivo.
Stentavo a credere che fossero morti – era troppo da accettare – ma se erano stati rapiti dai Terrestri quante possibilità c’erano che tornassero da noi sani e salvi? Pressoché zero.
Raven sembrò realizzarlo pienamente solo in quel momento: la osservai mettersi in piedi di scatto e farsi lontana da noi – provare a scappare. Io non riuscii a fermarla, ma Bellamy sì.
“Raven, mi dispiace”, affermò, ma lei come al solito fece finta di nulla, dileguandosi con una pessima scusa.
Bellamy sospirò abbattuto. Poi riafferrò il walkie-talkie e parlò direttamente a Monty, l’unico ancora assente. Anche lui.
“Monty, stiamo andando a casa. Mi ricevi? Monty, dove diavolo sei? Fai rapporto!”.
Dopo minuti interi di silenzio capimmo tutti cosa volesse significare tutto quello, ma nessuno ebbe il coraggio di dirlo ad alta voce. Tranne Octavia.
“È andato anche lui”, mormorò, prima di mettersi in piedi e sparire, diretta chissà dove.
Impotente e distrutta, cercai gli occhi scuri di Bellamy. Monty non se l’era cavata affatto.


 

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Ringraziamenti
Ad Avril Lavigne, perché con la sua 
When you're gone mi ha salvata dall'ingrato compito di dover scegliere un titolo per questo capitolo.
Chiedo scusa, ma proprio non ricordo da dove provenga la citazione pre-capitolo. Probabilmente l'avrà detta qualcuno dei Cento, ma dato che proprio non riesco a ricordarmi da dove diavolo l'ho tirata fuori, eviterò di fornire fonti.
CarolineF, ange e  MysteriousLabyrinth, che ormai sono tipo le mie recensitrici di fiducia. Vi adoro, girlz. 

Note
Be', finalmente sapete perché Brayden è stata incarcerata. Non sappiamo ancora niente di Muffin (né lo sapremo mai, suppongo), ma vbb. Ormai ci avviciniamo sempre più alla fine e comincia un po' tutto a "quadrare".
La seconda scena è, in caso non l'avesse capito, un flashback. E insomma, avete anche scoperto dell'amicizia che fin dalla più tenera età ha legato Kyle e Brayden. Scommetto che non l'avreste mai immaginato AHAHAH anche se devo dire che avevo lasciato qualche indizio qua e là. u.u
E a proposito di indizi... Ce ne sono anche in questo capitolo (ce ne sono sempre). Tipo il fatto che Brayden comincia all'improvviso a sentirsi piena di dubbi. Dubbi che, ahimè, si riveleranno fondati nel prossimo capitolo. Che tra l'altro, è il penultimo. La storia, ripeto, avrà tredici capitoli e poi adieu. Fine.
Ho pensato a lungo alla questione "scrivere un sequel o no", ma alla fine ho deciso che non ci sarà un continuo. Portare troppo alla lunga le vicende di Ginger e Muffin trovo non avrebbe troppo senso. Quindi nulla, ancora due capitoli e poi chiudo con questo fandom (almeno per ora). Tuttavia, ciò non esclude che ritorni con qualche shot qua e là: pensavo di scriverne sicuramente una riguardo l'incontro tra Brayden e papi Kane sulla Terra, ma c'è sempre da fare i conti con la mia ispirazione stronzetta. Preferisco quindi non farvi promesse inutili, ma vi assicuro che tornerò a scrivere di questi due bimbi: ho già abbozzato tre/quattro capitoli di una modern!AU col resto della banda (
) e aspetto solo di avere un po' di tempo in più per potermi dedicare alla werewolf!AU della quale sono già pazzamente innamorata (ci sarà Brayden anche lì, non disperate).
Be', per ora non posso far altro che dileguarmi. Spero che questa cosa possa piacervi tanto da spingervi a lasciarmi un parere piccino piccino.
Alla prossima (spero presto).

 

   
 
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