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Autore: Ornyl    20/07/2015    1 recensioni
Anno 2040: le poche risorse energetiche rimaste sono in mano ai potenti delle varie Regioni, i cosiddetti Migliori. Nella Regione Thebe il regime pare vacillare alla morte improvvisa dei governanti Oedipus e Giocasta, che hanno lasciato orfani i quattro Principi Ereditari: due maschi, Eteocle e Polinice, e due femmine, Antigone e Ismene. La loro morte pare l'occasione giusta per i ribelli per instaurare la Prima Repubblica, ma si insedia al trono Kreon, fratello della defunta regina, e per i sovversivi parono complicarsi le cose. In loro soccorso però giunge, inaspettatamente, il principe Polinice, animato da ideali di libertà e giustizia per la popolazione, ma si contrappone a lui il fratello reazionario. I due muoiono durante uno scontro e Kreon concede onori funebri solo al nipote Eteocle e ordina di abbandonare all'oblio il cadavere del traditore, pena la morte. Ma una delle due Principesse, Antigone, dopo aver letto di nascosto le riflessioni del fratello e animata dall'intenzione di garantirgli giusta sepoltura, si allea ai ribelli del gruppo di lotta clandestino "Sfinge Rossa" e decide di combattere un regime che anche lei considera opprimente. Anche il suo animo però è in lotta, diviso tra famiglia e nuovi ideali di libertà.
Genere: Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Stava rannicchiata sul letto, con il vento che l'accarezzava. Si chiedeva da cosa e perchè scappasse: dall'estrema frivolezza e falsità di quel mondo dorato in cui era nata? Da un ruolo e da un'identità che sentiva sempre meno? Scappava perchè Polinice era morto per difendere chi meritava davvero di essere difeso? Perchè voleva giocarsi la vita sul filo del rasoio e portare via il suo corpo dall'area sorvegliata? Forse non lo sapeva ancora. Sapeva soltanto di voler scappare da quel gigantesco palazzo, la sua casa, quella casa in cui era nata e cresciuta. E forse era il momento di abbandonare il nido. Forse perchè era appunto diventata grande, cercò di rispondersi: era cresciuta troppo in quel mondo luccicante e ora voleva scoprire l'altra sua faccia. Poi scacciò questo pensiero dalla mente: se avesse voluto vedere il mondo avrebbe semplicemente chiesto a zio Kreon di organizzarle un viaggio nelle varie Regioni e poi mandarla alla Colonia Lunare o al Satellite 54. No, il viaggio che voleva intraprendere riguardava le periferie, sporche e piene di smog. E, ancora, non sarebbe stato un viaggio di piacere.
Tirò fuori il diario con l'intenzione di voler cercare una data che indicasse il primo incontro di Polinice con la Città Bassa. Sfogliò le prime pagine ma non trovò nulla. Forse era scappato anche lui di notte, riuscendo a trovare un metodo con cui togliere il chip e a descriverlo poi nel proprio diario. In particolare lesse questa parte con attenzione, parola dopo parola, e cercò di memorizzare ogni passaggio: il taglio della pelle del polso, la disattivazione del chip e la cauterizzazione della ferita. Non aveva mai tenuto dei bisturi in mano e l'idea di tagliarsi la pelle non la entusiasmava tanto, soprattutto senza anestesia. Fece un respiro profondo: se l'aveva fatto Polinice per scappare senza farsi notare, l'avrebbe fatto anche lei.
Aveva trovato un motivo per scappare, pensò. E un modo per togliere il chip e dunque fuggire. E per fuggire avrebbe raggiunto i Giardini e passato attraverso la piccola apertura che raggirava la Grande Corte. Era lì da sempre, coperta dall'edera: Polinice l'aveva colpita con la palla, facendo scostare un mattone più debole che aveva permesso a quelli intorno di staccarsi. Quando papà faceva i suoi discorsi di buon anno all'Acropoli e si metteva sul suo palco, grandi cerimonie in pompa magna alle quale i bambini della casa reale non potevano ancora partecipare, lei, i suoi fratelli ed Emon spiavano da lì; a volte permettevano anche ai figli dei domestici di spiare da quella piccola breccia e di riempirsi d'orgoglio insieme a loro. Poteva esserci ancora, si ripetè. Doveva esserci ancora.
L'orologio segnava le undici e mezza. Sentì la porta della camera di Ismene aprirsi e chiudersi, poi i lenti passi di lei e il silenzio; Emon si sarebbe sicuramente recato nella propria stanza dopo la palestra, senza girovagare per il palazzo; zio Kreon era già a letto da un po'. I cadetti avevano montato la guardia alle undici, sorvegliando tutto il perimetro del palazzo e le mura, ma la piccola fessura di solito non veniva controllata perchè non cadeva nell'occhio, coperta com'era dall'edera. Con qualche piccola accortezza, si poteva sperare nell'avere il campo libero. Ma ora tempo di fare i bagagli.
Corse in bagno a togliersi il trucco, senza lasciarne una traccia sul viso. Poi raccolse i capelli in una treccia, andò nel guardaroba e tirò fuori un'enorme borsa da viaggio, vecchio souvenir di un campeggio alla Colonia Lunare: vi mise un paio di pantaloni marroni, un paio di stivali, una cintura, una vecchia camicetta beige che di solito utilizzava come pigiama e un cardigan verde scuro, poi tornò in bagno per prendere delle tovaglie, spazzolino e dentifricio e un flacone di bagnoschiuma; cercò di mettere da parte anche qualche spicciolo per acquistare il biglietto, conservando dentro un piccolo portamonete circa due dracmes divise in oboloi. Cambiò la camicetta con una tshirt grigia e la gonna a con un paio di jeans stinti, messi da parte da chissà quanto tempo e mai buttati, e indossò delle consunte scarpe da tennis vecchie almeno di due anni, ma ancora calzanti a pennello; poi tirò fuori, nascosta anche questa da chissà quanto, una felpa che Emon aveva lasciato nella sua stanza, comoda e sufficientemente grande a coprirla per intero. Poi cacciò fuori dal cassetto un foulard nero e lo mise intorno al viso, all'altezza degli occhi, e guardò la propria opera allo specchio. La Principessa Antigone pareva già sparita, sostituita da una ragazzina esile con un gran paio di occhi cangianti, che aveva tentato di dormire all'ombra del palazzo o di realizzare stupidi, orrendi graffiti dedicati a chissà quale amore. Una ragazzina delle periferie scappata dal suo inferno, da quelle baracche avvelenate e malmesse, con un borsone più grande delle sue stesse braccia, dall'aria strana ma non pericolosa, magra com'era.
Gli ultimi oggetti che mise dentro il borsone furono l'orologio da taschino e il diario di Polinice, che sarebbero stati le prove delle sue buone intenzioni, poi si guardò intorno e pensò a quel piccolo bagaglio che si portava dietro. Un'ultima idea le balenò nella mente: prese alcuni vestiti, li infilò alla rinfusa sotto le coperte e infine pose su di essi un foulard marrone molto spesso. Quel fantoccio sarebbe bastato per una notte abbondante, finchè zio Kreon non fosse andato a chiamarla e avesse scoperto l'amara sorpresa. Fu a lui che dedicò l'ultimo pensiero prima di andare: si sarebbe preoccupato, sarebbe andata a cercarla e qualcuno avrebbe trovato il chip abbandonato all'infermeria. E magari avrebbe messo sottosopra l'intera Thebe per cercare la sua nipotina fuggitiva. Ma Thebe era già abbastanza grande da setacciare, con quelle strade che culminavano poi in monumenti e piccole aree ristoro. Non si sarebbe mai immaginato che la nipote fosse fuggita nelle Periferie per aiutare quegli sporchi disgraziati, dacchè non ne aveva mai espresso l'idea nè aveva dato strani segni di cambiamento, quelli che zio Kreon chiamava potenziali eversioni di rotta.
Apollineus aveva già chiuso le porte dell'infermeria a quell'ora. Aprì un cassetto, frugò velocemente tra le varie cianfrusaglie e trovò un coltellino svizzero appartenuto un tempo a papà: con qualcuno dei suoi strumenti avrebbe sostituito egregiamente la sua chiave, non essendo nemmeno monitorata dalle telecamere.
Spense la luce, spalancò la finestra, imbracciò il borsone e salì sul davanzale, tenendosi per le vetrate: una folata di vento la investì in pieno volto, caricandola di adrenalina. Le sue gambe oscillarono per qualche istante, poi saltò giù atterrando su tutti e quattro gli arti, come un gatto, e ridacchiò. Si guardò intorno, fece un respiro profondo e iniziò a camminare lentamente verso l'infermeria, girandosi talvolta per vedere se qualcuno la seguisse nel silenzio. L'orologio del giardino, alla luce lunare, indicava la mezzanotte: i rintocchi avrebbero coperto il rumore dei suoi passi e riuscì a camminare più velocemente, raggiungendo rapidamente l'infermeria. Mancavano gli ultimi sei, lenti rintocchi: tirò fuori il coltellino svizzero, infilò una delle lame nella toppa e si mise a forzarla velocemente, incalzata dal rimbombare dell'orologio. Finalmente il lucchetto scattò, la serratura si aprì e riuscì ad entrare, chiudendosi la porta alle spalle e accendendo una piccola lampada, sufficiente a farle luce.
Poggiò il borsone su un lettino, lo aprì e tirò fuori la pagina sull'estrazione del chip. Seguendo la procedura indicata nel diario, prese dapprima un bisturi e una pinza, li disinfettò per bene e li poggiò su una superficie sterile; poi passò del disinfettante sulla zona del chip e  preparò un bicchierino di alcol: il circuiti del chip si sarebbero bruciati, se immersi nel liquido, e il piccolo affare sarebbe stato pressochè inutilizzabile. Iniziò a incidere lentamente sulla zona indicata, seguendo con precisione tutte le informazioni indicate: il bisturi doveva tagliare la zona interessata e il taglio scoprire solo la superficie del chip, nè più nè meno, indicativamente di un centimetro. Mordendosi le labbra per il dolore quasi fino a farle sanguinare, realizzò l'incisione e allargò con la lama la ferita: il chip era lì, senza lanciare lampi bluastri o strani rumori. Poi impugnò bene la pinza e la immerse nell'alcol: la sostanza avrebbe già iniziato a bruciare i primi circuiti, disattivandolo momentaneamente. Afferrò l'estremità superiore del chip, trattenendo quelle urla che altrimenti avrebbe lanciato, e lo staccò pian piano dalla sua carne, lasciando un piccolo buco che sanguinava copiosamente. Gettò il chip nell'alcol, l'affare lanciò piccoli lampi e poi si spense del tutto: era libera.
L'orologio segnava appena mezzanotte e mezza, ma voleva ottimizzare i tempi. Aveva paura che quel piccolo trambusto sarebbe stato udito e quindi sarebbe stata scoperta, con i suoi piani tutti andati in fumo, bloccata con il polso sanguinante e dolorante.
Bisognava disinfettare immediatamente i bordi della ferita, poi sigillarla con ago e filo o cauterizzarla, e Polinice indicava più sicura la cauterizzazione. Corse a prendere delle bende, cercò di fasciarla alla bell'e meglio e poi si mise in fretta a cercare un cauterio, trovandolo dopo aver messo sottosopra diversi cassetti. Gettò via le bende e vide la fiammella del cauterio brillare: solo un altro po' di sofferenza, pensò, e dopo sarebbe stata libera, libera davvero. Avvicinò la fiammella al polso, stringendo i denti e cercando di avvicinare le estremità della ferita: quel minuto che impiegò per chiuderla le parse lungo un'eternità, con la mano che tremava per la stanchezza e il dolore e il polso rosso di sangue e calore. Un piccolo segno marrone percorreva il suo polso. Aveva terminato. Era libera.
Una meno un quarto. Gettò bende, bicchiere e chip nella spazzatura, disinfettò velocemente bisturi e pinza e ripose il cauterio nel suo cassetto. Con gesti rapidi riprese il diario e il borsone, spense la luce e corse via dall'infermeria.
Era libera. Libera davvero, finalmente. Persino la luna, le piante e gli alberi illuminati da quella luce irreale, la fontana di quarzo e il selciato apparivano diversi, quasi visioni, quasi assurdi ai suoi occhi. Era come se quel chip si fosse portato via la sua vita precedente, fatta di terribili lutti ma anche di feste, abiti raffinati, gioielli e privilegi. La Principessa Antigone Spartes Labdakou, chip n°7, era morta: esisteva ormai solo Antigone, Antigone la libera, Antigone la fuggitiva, Antigone la ragazzina esile che si recava a passi lenti, con quel cappuccio nero sulla testa, verso il buco sulla parete coperto dall'edera.
 
Una foglia di edera era rimasta incastrata in una tasca. La sfilò lentamente, tenendola con i polpastrelli, e la conservò nel borsone. Le mura che circondavano il castello erano troppo alte per permettere ai cadetti di scorgerla dall'alto e di lanciare l'allarme, e i suoi vestiti scuri erano un ulteriore vantaggio. Quasi non riusciva a credere ai propri sensi: le suole marce delle sue scarpe toccavano il selciato della Grande Corte e i suoi occhi fissavano, davanti a sè, la città addormentata e illuminata dalla luna, con quegli alti palazzi di ferro, cristallo e marmo luccicanti come sogni, con lo Sky Needle che si ergeva alto con i suoi riflessi argentei e azzurrini, e le sue orecchie captavano le risa e la musica allegra che provenivano dagli attici poco distanti, lo sfrecciare sibilante delle aeromobili di lusso e delle aerolimo. Tutto il suo corpo, tutto il suo essere, respirava libertà a pieni polmoni e quella sensazione la rinfrancava, riempiendola di adrenalina e positività. Era andato tutto bene, si disse, almeno fino a quel momento. C'era una piccola speranza che sarebbe proceduto allo stesso modo, coperta e irriconoscibile com'era. D'altronde, anche se si fosse scoperta il viso, nessuno l'avrebbe comunque riconosciuta: la gente la ricordava soltanto truccata e ingioiellata nelle occasioni ufficiali, nelle foto dei tabloid e nelle foto ricordo che alcuni tenevano, quasi paragonandola a divinità, ai loro capezzali. La Quarta Principessa Ereditaria, Antigone Spartes Labdakou, era una celebrità, nume protettore di quella Thebe scintillante come uscita da un sogno, ma lei era Antigone dal viso magro e gli occhi cangianti, con un borsone sulla spalla e una felpa sulla testa, era solo un misero fantasma nella notte, una fuggitiva lontana da casa . E se la principessa aveva tutto, lei non aveva niente nè le assomigliava. Lei era libera, libera di essere uguale agli altri, libera di essere uguale agli altri e di essere se stessa.
Camminava sciolta, col naso all'insù come una turista. Non aveva mai visto la Grande Corte dal basso e ciò la riempì di gioia: era una cittadina come tutti, come tutti quelli di Thebe Alta, come un giorno anche quelli di Thebe Bassa. E Thebe Alta quella sera era più bella che mai, ma non poteva essere ammirata a lungo: doveva recarsi alla piazzuola d'atterraggio, prendere un aerobus e lasciarsi quello splendore alle spalle. Il Senato, nelle sue Disposizioni di cittadinanza, aveva previsto il massimo controllo sugli aerobus: biglietto obbligatorio, sorveglianza ventiquattro ore su ventiquattro nei mezzi all'andata e al ritorno. Ma nessuno, in piena notte, controllava davvero gli aerobus, perchè era anzitutto impensabile che qualcuno dell'Acropoli si recasse alle Periferie di notte e perchè quelli che vi ritornavano erano di solito piccoli sguatteri e piccole cameriere senza nemmeno la forza di tener gli occhi aperti, tanto erano stanchi. La Piazzuola si raggiungeva dopo aver percorso tutto Corso Ponente, un lunghissimo viale inalberato che terminava alla cancellata limite tra l'Acropoli e la Piazzuola. Con un mezzo era anche possibile attraversarlo in meno di cinque minuti, ma a piedi una mezz'ora abbondante, mentre l'orologio segnava già l'una e mezza. Doveva essere lì prima dell'alba.
Iniziò a camminare a passo veloce, rasente i muri meno illuminati, guardando da lontano le insegne scintillanti, i neon colorati e le aeromobili cromate che sfrecciavano ad alta velocità. Era tentata di chiedere un passaggio e di farsi lasciare a metà strada, ma quando una vettura guidata da tre tipi evidentemente ubriachi stette quasi per investirla sullo stesso marciapiede cercò di cancellare quell'abbozzo di piano per ottimizzare i tempi. Accelerò il passo, convincendosi a non soffermarsi troppo sulla bellezza abbagliante dei grattacieli, e addirittura si mise a correre col cuore in gola nei posti più silenziosi, tenendo con un braccio quel piccolo fardello che aveva addosso e fermandosi talvolta per riprendere fiato.
Erano le due meno un quarto e aveva percorso già metà del viale. Aveva sete. Alla Piazzuola in genere c'era una piccola fontana d'acqua potabile. Non aveva una borraccia con sè, ma bere qualche sorso sarebbe bastato sicuramente a ridarle un po' di carica.
Man mano che il viale procedeva i grattacieli si facevano sempre più rari, sostituiti da piccole botteghe di robivecchi, monumenti cadenti e panchine. Antigone decise quindi di spingersi al massimo, iniziando a correre a pesanti falciate, quasi a sollevare l'asfalto, e dopo cinque minuti riuscì a scorgere le pallide luci segnaletiche della Piazzuola. Non doveva fermarsi. Si spinse ancora, correndo a perdifiato e tenendo ben stretto il proprio bagaglio, mentre il cancello e la macchinetta dei biglietti si facevano sempre più vicini.
Ultimo sforzo, si disse, ultimi cento metri. Corse come non aveva mai fatto in vita propria, poi il cancello si fece sempre più vicino insieme alla macchinetta dei biglietti. Scorse la fontanella, la azionò da un pulsante e accostò le labbra all'acqua che scorreva. Poteva festeggiare così quella sua prima, piccola, grande vittoria.
 
- Per acquistare un biglietto, inserire un obolos nell'apposita fessura e premere il tasto "acquista"-
La voce metallica della macchinetta le indicò cosa bisognava fare. Estrasse un obolos dal portamonete, lo inserì nella fessura e premette il tasto indicato. La macchina si mise a vibrare e dopo pochi secondi emise un biglietto rettangolare, giallo e rosso, con data e ora della stampa.
-Le ricordiamo che il biglietto dura novanta minuti. Esibire il biglietto se richiesto. Grazie per aver scelto Aerobus Inc. e buon viaggio-
Si congedò dalla macchinetta e le ante di vetro del cancello scattarono davanti a lei, allontanandosi l'una dall'altra con un sommesso sibilo. La Piazzuola d'atterraggio era uno spazio di circa dodici metri su cui era tracciata un'enorme H di vernice bianca , con due sporche panchine di legno marcio e un cestino per la spazzatura arrugginito e colmo fino all'orlo. Un lampione lanciava un debole fascio di luce biancastra su una coppia smagrita che sedeva su una delle panchine, mentre un orologio col quadrante giallastro, sporco da chissà quanto tempo, segnava le due. Si sedette su una delle panchine e guardò il cielo, poi il cancello che si era lasciata alle spalle: lo Sky Needle brillava da lontano, scintillante come una stella, riusciva ancora a sentire il rumore ovattato che proveniva dagli attici e dagli appartamenti e persino le mura del palazzo illuminate dalla luna. Sospirò e fu quasi presa da una strana nostalgia: aveva lasciato l'Acropoli da nemmeno una notte, ferma com'era in quello spazio terra di nessuno, e già sentiva la mancanza di Ismene, Emon e zio Kreon. Pensò allo stupore e alla paura che li avrebbe colti la mattina seguente, pensò a zio Kreon impallidito che avrebbe i cadetti a cercarla per tutto il palazzo, poi al possibile utilizzo della squadra cinefila. Uno fremito di paura la prese da capo a piedi: non voleva mettere in pericolo nè se stessa nè gli abitanti delle periferie.
Quasi fu tentata di tornare sui propri passi. Polinice era morto, si disse. Era morto davvero, Antigone, tentare quell'assurdo viaggio in un mondo che non era il tuo non lo avrebbe riportato in vita. Non avrebbe riportato in vita nemmeno Rebecca, nè avrebbe permesso ai bambini sguattero dei grattacieli di vivere una vita migliore e più degna. Era soltanto una gita per una principessina viziata amante del pericolo e del rischio.
Non si accorse del sibilo dell'aerobus notturno, una gigantesca vettura di ferro e plastica gialli e rossi che si adagiava lentamente e rumorosamente sulla pista d'atterraggio. Non si accorse nemmeno della coppia che si alzava lentamente, prendeva le proprie misere cose e prendeva posto sul mezzo.
-Hei, ragazzina, svegliati! Se devi tornare a casa spicciati a salire, non ho tempo da perdere con i barboni addormentati!-
Un autista in uniforme bluastra, con gli occhi gonfi di stanchezza, la guardava con disprezzo dalla sua postazione.
Era come se le sue gambe volessero raggiungere spontaneamente quel mezzo e salirci sopra, era come se le sue braccia assumessero una volontà propria nel prendere il bagaglio e montarlo in spalla, era come se la sua schiena avesse voglia di provare gli scomodi e sporchi sedili in plastica degli aerobus, era come se la sua fronte volesse appoggiarsi all'umido vetro sporco di quella vettura: era come se il suo corpo volesse essere già lì, lontano da quella città luccicante che man mano si allontanava dalla sua vista, convinto di esser capace di trascinare anche quella voglia di fuggire che pareva venir meno.
Scivolavano via lentamente, uscendo fuori dalla cupola protettrice. E se le stelle erano ormai invisibili sotto la cappa di smog in cui si erano ormai immessi, Thebe Alta continuava ancora a brillare di riflessi bianchi, argentati e azzurrini, riflessi che divennero puntini minuscoli fino a perdersi in dense, scure nuvole di fumo grigiastro.

 
   
 
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