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Autore: LarcheeX    20/07/2015    1 recensioni
Un impercettibile sorriso comparve sulla sua faccia, e per quanto fosse sadico, non potè sembrarmi più dannatamente sincero.
“Il nome è Sherlock Holmes. Sono il primo consulente investigativo al mondo."
~~~
“Ti sei ripreso da ieri?”
Era Watson.
Da vicino era ancora più stanco e acciaccato di quanto avessi constatato in precedenza, e sembrava profondamente annoiato, o semplicemente era il suo viso. Eppure sembrava che si aspettasse qualcosa da me.
{ Teen!lock || Storia a quattro mani }
Sherlock's POV: Larcheex
John's POV: DoubleDisasterDi
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Parto io? Salve popolo! Siano tornate! Scusate se ci mettiamo del tempo, ci sono stati gli esami di mezzo. Ma la nostra Sherlock alla fine ce l'ha fatta e ora è qui col quarto capitolo. John e Sherlock affrontano il loro primo caso assieme...un caso che - in qualche modo - tutti noi conosciamo...

scusate davvero per l'assenza, ma lo studio, sapete... spero che il caso in questione sia di vostro gradimento ^^

E mi raccomando, ricordatevi che non spariamo mai definitivamente! Saremo con voi fino alla fine *musica epica di sottofondo*
Buona lettura e alla prossima!

p. s. ho ingrandito il carattere dei capitoli perché quando sono andata a rileggere non vedevo una ciosba, spero non dia fastidio!

Buona lettura ~~~

 

4. Carl Powers died in the pool
 
Father Mckenzie, writing the words of a sermon
That no one will hear
No one comes near
Look at him working, darning his socks in the night
When there's nobody there
What does he care?

All the lonely people
Where do they all come from?
All the lonely people
Where do they all belong?

{  The Beatles – Eleanor Rigby }

“Mi annoio!”
John, al contrario, seduto su di una sedia attaccata al soffitto, mi guardò con l’aria esasperata di chi non sapeva più che inventarsi per movimentare il pomeriggio di due adolescenti senza occupazioni: “Abbiamo giocato a scacchi,”
“Noioso!”
“Risiko,”
“Noioso!”
“a carte,”
“Noioso!”
“non so più che inventarmi, Sherlock!”
Sbuffai con tanta di quella forza che la polvere del divano su cui ero sdraiato si sollevò in una nube che mi annebbiò la vista e le vie respiratorie, costringendomi a posizionarmi in un modo accettato dalle norme sociali e non sbragato a testa in giù. Perché diamine mia madre o qualcuno degli altri inquilini con cui ero costretto a dividere i miei spazi non aveva pensato a dare una pulita a quella soffitta? Ero molto abituato al disordine e alla polvere, ma quando era troppa anche per me le condizioni erano più che gravi.
Mi alzai dalla mia posizione storta, dirigendomi verso l’unico armadio di legno di quella soffitta ricavata tra le travi del tetto: era un mobile dove Mycroft aveva riposto tutti i giochi da tavolo una volta diventati troppo noiosi per entrambi, quindi già sapevo quale fosse la mia sentenza a loro riguardo, ma speravo che la presenza di John potesse movimentare il piatto e già conosciuto sistema di gioco. Volevo passare del tempo con lui, volevo trovasse qualcosa, qualsiasi cosa, per farsi trattenere più a lungo possibile, ma gli impieghi da lui ideati erano assai più lenti del mio cervello, che speravo non immettesse in lui la voglia di andarsene prima. Dovevo trovare qualcosa al più presto. Ormai avevo intuito e sapevo che la sua situazione familiare non fosse proprio il luogo a cui John tornava con piacere, ma avrei preferito che anche il soggiorno da me non fosse scontato di malavoglia.
“Cluedo?” feci, adocchiando la scatola tra la pila di altre più colorate: “Non l’abbiamo ancora provato, no?”
Percepii un balzo nel suo sguardo: evidentemente non vedeva l’ora di cosa mi sarei potuto inventare in un gioco così adatto alle mie passioni, ma avevo modo di pensare che sarebbe rimasto abbastanza deluso, dato che quello era solo un pretesto per un’attività diversa, cioè la gara tra me e mio fratello a chi avrebbe potuto progettare l’omicidio perfetto.
Stavo distribuendo tutti gli ammennicoli quando la voce di mia madre sopraggiunse dal piano di sotto: “Sherlock, è ora di cena, scendi?”
“No!” esclamai, urlando al pavimento e alla botola chiusa. C’era John, e non pensavo che l’avrei voluto condividere con qualcuno, soprattutto con Mycroft. Non l’aveva più rivisto dalla volta in cui aveva provato a estorcergli informazioni, ed ero certo che, dato che a tavola difficilmente avevo la possibilità di saltargli addosso e fargli ingoiare le parole prima che le pronunciasse, avrebbe provato ad acquisire qualche dato sulla mia vita da John.
Sentii mia madre fare qualche passo indietro, e gettai un’occhiata a John per spiare la sua espressione, probabilmente una delle più stupite del mondo. Forse, data la condizione familiare del mio amico, non avrei dovuto trattare i miei genitori troppo male, sarebbe risultato abbastanza ingrato, e avrebbe stonato agli occhi di chi una famiglia non la sentiva come un sostegno, ma come un peso.
“Ma’!” gridai, poi: “John si ferma a cena!”
 
“Ti prego non farlo più.” Esalò John la mattina dopo, quando ci incontrammo alla fermata dell’autobus per andare a scuola: “In che senso?” grugnii. Ero ancora mezzo addormentato, dato che la notte non avevo fatto altro che cercare su internet qualche caso che mi potesse interessare, aggiornando di tanto in tanto il mio blog, e la mia voce ancora faceva fatica a uscire dalla mia gola.
“Invitarmi a cena.”
“Cosa? E perché?”
Sembrava non vedesse l’ora di lamentarsi, perché esplose: “Perché?! Perché tua madre continuava a farmi domande invasive, magari pensando anche che fossi il tuo ragazzo, perché Mycroft non faceva altro che estorcermi informazioni su come ogni volta ti metti nei guai con i professori e autorità varie ed eventuali, e perché tuo padre non riusciva a capacitarsi che fossi un ospite continuando a fissarmi come se fossi uno scassinatore e continuava a mormorare qualcosa come ‘il coso di chi?’, neanche fossi un’apparizione extraterrestre!”
Oh, quello. Beh, forse non avevo notato tutta quella roba inutile perché per me era diventata ordinaria amministrazione, e oramai passava nel mio cervello senza lasciare tracce degne di nota.
John sembrava sul punto di esclamare qualcosa contro il mio mancato commento al suo sfogo, ma fortunatamente l’autobus era arrivato in fermata e lui s’interruppe per cercare il biglietto nella tasca dei pantaloni.
Ultimamente aveva cominciato a tenere di più al proprio vestiario, avevo avuto modo di notare mentre seguivo i movimenti della sua mano: le cuciture della tasca, prima lente e rovinate, erano state o rimpiazzate o rifinite, così anche per le altre, mentre la stoffa sembrava essere stata lavata a mano con del detersivo delicato e lucidante. Anche le magliette erano più curate: i colori erano più brillanti, e le maniche avevano riacquistato un contorno regolare, non essendo più stropicciate. Evidentemente aveva cominciato a lavare e stirare i propri capi da solo.
Mi chiedevo perché l’avesse fatto: l’idea di essere preso in giro non gli dava fastidio, non lo sfiorava nemmeno, non ci perdeva nemmeno rabbia o frustrazione, quindi non era di certo per non essere richiamato dal bulletto di cui non ricordavo il nome.
Avevo intenzione di chiederlo, ma lo vidi sporgersi verso il finestrino e aggrottare le sopracciglia. Seguendo il suo sguardo, feci vagare il mio fuori dall’autobus: eravamo in vista della nostra scuola, ma non mi si era proposto il solito noioso paesaggio con il cortile e il piatto e rettangolare edificio.
Il campo di battaglia si era aperto davanti ai miei occhi.
“La polizia è nella scuola.” Mormorai, scendendo e osservando i nastri gialli che avevano piazzato per tener lontano i curiosi. John mi aveva lanciato un’occhiata a metà tra l’esasperato e il rassegnato, ma lo ignorai, affrettando il passo verso l’interno.
“Sherlock” mi chiamò John, ma non risposi. C’era una ressa di studenti e studentesse, docenti, la preside parlava in maniera concitata con il padre di Lestrade, che annuiva con un’espressione tesa sul volto e gettava occhiate preoccupate verso il corridoio e che portava alle palestre e alla piscina della scuola, c’erano alcune ragazze in lacrime, c’erano ragazzi che si abbracciavano per consolarsi a vicenda, c’erano poliziotti e medici legali che facevano avanti e indietro, armati di strumenti di rilevazione e una faccia scura e demoralizzata.
Dalla presenza della scientifica dedussi che era morto qualcuno, e quel qualcuno era un ragazzo, perché gli adulti assumono un’espressione amara e sperduta come quella che portavano in quel momento, quando moriva un giovane, una vita piena di aspettative tagliate in tronco.
E dalle rapide occhiate del padre di Lestrade capii che il cadavere era ancora sul luogo del delitto, o la palestra, o la piscina.
Scattai verso l’entrata, seguito a fatica da John, e confondendomi nella folla che i poliziotti stavano facendo evacuare riuscii a sgattaiolare nei bagni. Avrei aspettato lì fino al momento adatto per uscire.
John si scapicollò dietro di me, schizzando nel bagno non appena ne ebbe l’occasione: il suo viso era un guazzabuglio di pensieri, incertezza, curiosità, timore e preoccupazione si azzuffavano nei suoi occhi, cercando di prevalere una sull’altra. Evidentemente l’ultima vinse la contesa, perché la prima frase che udii dalla sua bocca fu: “Sherlock, che cazzo pensi di fare?! C’è la polizia ovunque!”
Voleva tornare indietro, probabilmente, ma mostrai la più determinata delle mie espressioni e replicai: “John, è l’evento più emozionante in settimane, finalmente posso divertirmi anch’io!”
John sembrava tutt’altro che persuaso dal mio argomento: “Sul serio, Sherlock, torniamo indietro, possiamo ancora salvarci…”
“Da cosa, dalla sospensione?!” esclamai: “E ritornare alla noia di ieri? Non ci penso nemmeno.”
Sbirciai dalla porta per controllare che non ci fosse nessuno in corridoio, ma quando vidi un agente passarmi davanti la richiusi, forse troppo in fretta. Fortuna che non notò il mio sguardo.
John era spaventato, pensai, mentre osservavo la sua figura appoggiata contro il muro piastrellato del bagno, le sopracciglia aggrottate e le labbra contratte. In fondo, questa era la prima occasione in cui poteva vedermi effettivamente in azione, con tutti i rischi del caso, e poteva non trovarsi d’accordo. Sbirciai di nuovo: corridoio vuoto.
Cercai di risultare più gentile di prima: “Senti John, io andrò comunque a scoprire di cosa si tratta, se non vuoi venire fa lo stesso.”
Non sarebbe stato affatto lo stesso, ma ero abituato ad essere lasciato da solo.
Gettata un’ultima significativa occhiata a John, ora dritto, impettito e interdetto contro di me, mi voltai e sgattaiolai al di fuori del bagno, lungo il corridoio, nascondendomi dietro qualche armadietto o dentro qualche classe ogni volta che udivo passi o voci troppo vicini.
Evidentemente ancora dovevano allestire e analizzare la scena del crimine, perché non c’era nessuno che controllava le vie d’accesso, ancora la scientifica non era arrivata e la presenza di agenti era ancora scarsa. Meglio per me, mi dissi, mentre scendevo le scale di corsa, la sciarpa che svolazzava dietro di me, ma non avevo calcolato la figura che mi si parò davanti prima che potessi balzar giù dagli ultimi scalini: “Sapevo di trovarti qui, psicopatico.”
Sbuffai talmente forte che un lembo di sciarpa mi cadde dalla spalla. Ovviamente, quella ragazza doveva essersi sentita in dovere di fermarmi, sapendo che avrei fatto di tutto per mettere piede sulla scena del crimine: stava ritta, con le gambe leggermente divaricate e le mani sui fianchi, pronta a balzare davanti alla porta che dava accesso alla piscina, la porta che mi separava dal mio caso, e considerati i suoi capelli ricci scompigliati, aveva pure corso per mettere in atto quella scempiaggine. Come se avesse potuto fermarmi.
“Donovan, se pensi che la tua presenza mi possa far cambiare idea, allora non mi conosci abbastanza.” Cominciai, gelido, sperando che bastasse essere scortese per smuoverla, ma lei non cambiò nemmeno espressione, e, anzi, mi schernì: “Perché, vuoi per caso picchiarmi?”
Non avrei mai sprecato un briciolo di energia per un essere umano che per la maggior parte del tempo nemmeno mi impegnavo a considerare, quindi non dissi niente e mi avvicinai alla porta.
Lei scattò indietro. Un sorrisetto nacque involontariamente sulle mie labbra: aveva davvero paura che la toccassi?
Donovan si riebbe subito, parandosi davanti alla porta con un cipiglio sempre più ostile, rafforzato dal fatto che non l’avessi ancora sfiorata né con un pugno né con uno schiaffo: “Non ti lascerò fare quello che ti pare anche a scuola!” gridò, osservando, più che me, il punto più alto delle scale. Voleva attirare gli agenti, e non potevo permetterlo.
Stavo per metterle una mano sulla spalla per spostarla, ma la porta della piscina si aprì dall’interno, facendole perdere l’equilibrio e crollare per terra a mio vantaggio.
“Ha ragione lei,” disse la voce di John, un secondo prima che lui stesso apparisse davanti ai miei occhi stupefatti: “pensi davvero che io ti lasci fare   quello che ti pare?”
Aprii bocca per replicare, ma lui m’interruppe, con la sua solita aria pacata e minacciosa allo stesso tempo: “Non senza di me, almeno.”
Con un sorriso soddisfatto, scavalcai l’esasperata e incredula Donovan, e mi avvicinai finalmente alla piscina.
Il corpo di un ragazzo dalle spalle larghe, la schiena muscolosa e ancora contratta per il rigor mortis, le gambe lunghe, coperto solo dal costume della scuola, galleggiava senza vita sul pelo dell’acqua, a pancia in giù.
Sia Donovan che John erano ammutoliti, e non riuscivano a far altro che fissare il cadavere con occhi sbarrati, come se non ne avessero mai visto uno. Anzi, era abbastanza probabile che non ne avessero mai visto uno.
“È morto.” Pigolò la femmina, alzandosi da terra tremante e sporgendosi lievemente verso la vasca. Le lacrime le stavano salendo sulle ciglia ed era improvvisamente impallidita. Io roteai gli occhi: “Ovviamente” che altro diamine pensava che potesse essere, una ballerina di danza classica?
Mi avvicinai al bordo e mi allungai per raggiungere il cadavere, ma era ancora troppo lontano, per cui mi girai alla ricerca di qualche strumento allungato: “John, mentre cerco qualcosa per afferrarlo, scattagli delle foto col tuo cellulare” dissi, ma lui non mosse nemmeno un dito. Era pietrificato allo stesso modo di Donovan. Anzi, molto di più, non riusciva a staccare gli occhi dalle spalle larghe del ragazzo.
“John” lo chiamai: “Cosa stai facendo?”
Si riscosse. Era vagamente sudato, e faceva fatica a parlare. “Sherlock, è un cadavere!” esclamò, stravolto e bianco: “Un ragazzo è morto nella nostra scuola!”
“Oh, grazie!” fu io a esplodere, esasperato: “Davvero, non lo avevo notato, ero entrato in piscina solo per la solita nuotatina mattutina! E ora che mi hai illuminato con questa brillante deduzione, scatta quelle foto.”
Donovan, nel frattempo, era riuscita a riaversi dallo shock e balzò in piedi: “Andrò a chiamare un professore!” esalò, e sparì dietro la porta dalla quale eravamo entrati prim’ancora che potessi aprire bocca per bloccarla. “Cavolo!” soffiai, stizzito: “John, muoviti con quelle foto, abbiamo poco tempo.”
Lasciai perdere ogni ricerca di strumenti per arrivare al cadavere, e mi diressi di fretta agli spogliatoi: se quel ragazzo era morto dentro la piscina, con il costume da bagno addosso significa che i suoi effetti personali si trovavano ancora nello spogliatoio, e qualcuno di questi poteva indicarmi una qualche causa della sua morte, che, a quanto pareva dallo stadio in cui si trovava, doveva essere accaduta almeno la sera prima, dopo l’orario di chiusura della scuola, dato che nessuno ancora lo aveva trovato.
Per ora gli scenari erano due: o si era sentito male, o era stato ucciso da qualcosa.
Si era sentito male: se ciò fosse accaduto in acqua, avrebbe avuto la cuffia addosso, o questa sarebbe stata ritrovata accanto al cadavere, mentre galleggiava, e questo non era accaduto. Aveva il fisico di un nuotatore provetto ed esperto, e dato che aveva il costume della scuola, era ben consapevole dell’obbligo di indossarla per entrare in vasca. Se fosse accaduto fuori dall’acqua, ma comunque abbastanza vicino da fare in modo che lui cadesse, la cuffia si sarebbe trovata a bordo piscina, o da qualche altra parte nei pressi del suo corpo, ma non era così. L’ultima era che la cuffia si trovasse in spogliatoio, e che lui si fosse sentito male lì e si fosse trascinato fuori e fosse caduto in acqua per sbaglio.
Trovai la cuffia nella doccia. Il ragazzo aveva finito di allenarsi, si stava lavando, e all’improvviso si era sentito male. Il percorso dallo spogliatoio e le docce alla piscina era troppo lungo e pieno di curve perché un principio d’infarto o soffocamento permettesse di percorrerlo.
Il corpo era stato trascinato.
Omicidio.
Nessuna persona avrebbe buttato un cadavere in acqua e poi sarebbe scappata, non se si trattava di una persona con qualcosa da nascondere. E quella persona era un assassino. Ma in che modo aveva ucciso il nuotatore? Non avevo visto nessun segno particolare sul corpo.
Mi avvicinai alle sue cose, le uniche presenti nello spogliatoio: per terra c’era un asciugamano umido – lo aveva usato per asciugarsi, una volta uscito dalla doccia, valorizzava la mia tesi – e la sua borsa era semi aperta, appesa per un manico all’attaccapanni, e lasciava intravedere un cambio pulito di vestiti, un paio di calzini e un libro di scienze del terzo anno maltrattato e raggrinzito per i frequenti contatti con l’acqua. Il cellulare era in una tasca attigua, ma era spento e non avevo il tempo per decrittare il codice di accesso, se ne avesse avuto uno.
Mi abbassai per analizzare le scarpe, ma non le trovai.
Non c’erano scarpe.
Com’era possibile?!
Feci giusto in tempo a fare due foto, quando il professore di letteratura inglese, la preside e un gruppo di agenti irruppero nello spogliatoio: “Holmes!” esclamò la donna, strabuzzando gli occhi: “Cosa ci fa qui?”
“Ah, dovrei specificare che non sono stato io a uccidere il ragazzo” puntualizzai, senza scompormi più di tanto. Ficcai il cellulare nella tasca della giacca e feci un passo verso il gruppo di adulti, dietro il quale spuntava la testa ricciuta di Donovan: “non avrei davvero avuto il tempo di farlo, dato che è un cadavere da almeno qualche ora.”
“Cosa stai dicendo, ragazzo?!” proruppe uno degli agenti, quello che, a quanto pare, era di più alto grado: “Carl Powers si è sentito male durante l’allenamento in tarda sera.”
“Cosa? No!” ebbi solo modo di dire, ma fui condotto fuori dalla stanza senza avere la possibilità di spiegarmi ulteriormente. Anche John era stato messo alle strette, ma mi fece segno di aver scattato tutte le foto possibili.
“Come fate a dire che si è sentito male, non avete nemmeno analizzato il corpo!” gridai, cercando di divincolarmi.
“Sono venuti alcuni medici dell’ospedale, è certo che abbia avuto un attacco durante l’allenamento.”
“Ma la cuffia è nella doccia, era fuori-”
“Holmes, la smetta, non peggiori la sua situazione, o invece di una punizione le affibbierò una bella sospensione!” mi riprese la preside, in un vano tentativo autorevole che non considerai. Stavo per essere cacciato fuori da quella che era una scena del crimine, solo che nessuno sembrava essersi accorto dei particolari che avevo notato io, e non potevo permettere che la situazione rimanesse irrisolta: “Non ci sono le scarpe della vittima!” esclamai, cercando di essere il più convincente possibile: “Non è strano? Cercatele, potrebbero essere la soluzione!”
Fui sbattuto fuori in poco tempo, a fianco a John, che mi guardava incuriosito, di sicuro si aspettava che io facessi qualcosa di plateale, ma non osava parlare.
L’unica cosa che riuscii a fare fu socchiudere la porta e cercare di origliare.
“Perché diamine a Donovan viene permesso di rimanere!? È una gallina senza cervello, non è assolutamente utile!” sibilai.
“Sherlock…” mormorò John: “Ora basta, abbiamo un sacco di materiale.”
Per la prima volta da quando eravamo a scuola, lo osservai attentamente: era ancora pallido e vagamente tremante, la pelle attorno agli occhi era talmente tirata che lo faceva sembrare molto più vecchio di quanto fosse: “John?” lo chiamai.
Lo sguardo che mi rivolse fu talmente eloquente che persino uno come me riuscì ad afferrarlo: il cadavere lo aveva traumatizzato, ma perché?
Quella domanda riportò la mia memoria al primo dialogo che ebbi con lui, e ci misi poco a capire tutta la faccenda: “Oh.” Fu l’unica sillaba che uscì dalle mie labbra quando provai a immaginare come vedere il proprio padre morire davanti ai propri occhi potesse influenzare la vita e la psicologia di un ragazzo “normale” come John.
“Già.” Fu la sua risposta.
 
“Cosa stiamo facendo?!”
“Cercando.” Risposi, con un tono scocciato che lasciasse intendere quanto fosse inutile la domanda di John mentre mi sporgevo verso il cassonetto per spostare oggetti di scarso interesse.
“Cosa?!” continuò lui, sempre più esasperato. Era stanco, si vedeva chiaramente, e il sole di quella giornata anomala per essere inverno in Inghilterra non aiutava certamente, soprattutto perché alla stanchezza si aggiungeva l’irritazione di non sapere cosa stesse succedendo. Io ero troppo indaffarato a rovistare tra la spazzatura per illuminarlo.
“Sherlock!”
“Scarpe!” esclamai, cominciando a percepire a mia volta l’esasperazione.
“Perché?”
Sospirai talmente forte che la polvere nel cassonetto si alzò verso il mio naso facendomi tossire, ma mi girai comunque verso John, allargando le braccia in un atteggiamento sorpreso e deluso: “Come perché!? Perché sono la soluzione all’omicidio di Carl Powers, ecco perché!”
Nel cassonetto non c’era nulla, balzai su quello accanto e cominciai a rovistare di nuovo. Si sarebbe sporcata la vecchia giacca di Mycroft, quella che mia madre mi costringe a mettere quando fa freddo, ma non mi importava. Dovevo trovare quelle scarpe.
“Nei rifiuti?”
“Se non ci sono nello spogliatoio significa che l’assassino le ha prese e se n’è liberato dopo, quindi sì, nei rifiuti.”
“Sherlock, non potremmo andare a casa? È stata una giornata pesante per tutti, è quasi ora di cena e questo cappotto è troppo pesante!”
“Non finché avrò trovato quello che cerco.”
Avevamo perquisito tutti i cassonetti vicino alla scuola, quelli del quartiere e del vicinato. Dovevamo allargare il raggio: avevo già mandato un messaggio a Wiggins e agli altri, speravo in risultato al più presto, prima che John mi mollasse per tornarsene a casa.
Niente nemmeno in quel cassonetto.
Saltai giù e mi diressi verso la via accanto, talmente immerso nei miei pensieri che non mi accorsi del ragazzo contro cui mi scontrai fino a che John non gli corse dietro per raccoglierlo.
Era un individuo sul metro e settanta, magrissimo e mingherlino – ecco perché era caduto solo sbattendomi contro – con i capelli di un biondo pallido tenuti in una coda e due occhi azzurri molto simili ai miei. Si era rialzato, tremante, e mi aveva guardato con occhi timidi, impauriti e timorosi, ma intuii immediatamente che io fossi la persona che stesse cercando, perché cambiò immediatamente espressione: “Oh, ecco!” disse, alzandosi e slanciandosi verso di me: “Sherlock Holmes!”
“Sono io.”
“S-sono un amico di Carl.” Mormorò, abbassando lo sguardo: non doveva essere particolarmente virile o forte caratterialmente, perché solo nominare il da poco deceduto ragazzo gli aveva fatto salire le lacrime. Anzi, dai suoi movimenti da bambino pauroso e quelli dei muscoli del viso potevo chiaramente intuire un carattere debole, fin troppo altruista, pronto a mettersi nei guai per chiunque e spaventato da se stesso. Uno dei tanti tipi di persone che non solo reputavo irritanti, ma anche dannose, per me, per la società e per se stessi. Non che degli ultimi due elementi mi importasse più di tanto.
Ma, irritante o meno, dovetti starlo a sentire, perché ero sicuro che avesse del materiale da consegnarmi o delle informazioni da darmi. “Dimmi in fretta, non ho tempo per starti dietro.”
Ignorai l’espressione stupita e arrabbiata di John e mi concentrai sul tipo, che sembrava tanto titubante quanto spaventato, ma non disse nulla e tirò fuori dalla borsa un paio di scarpe.
Anzi, il paio di scarpe.
“Un vostro amico mi ha detto di consegnarle a voi perché sarebbero state utili.”
Wiggins aveva fatto centro.
 
Riuscii a risolvere il caso in brevissimo tempo, con quelle scarpe tra le mani. Le analizzai col microscopio della scuola, di notte, con John e Molly come complici: lei aveva rubato le chiavi del laboratorio, dato che il professore di chimica l’aveva nominata sua assistente, (“non penso di poterlo fare, Sherlock” – “certo che puoi, mi fido di te” – “oh. se è solo per un pochino... penso di... che va bene, ecco”) e John aveva controllato che non ci fosse nessuno, per cui ebbi tranquillamente modo per constatare che Carl Powers adorava quelle scarpe, data la cura che ci metteva nel mantenerle, e che soffriva di eczema, perché c’erano un sacco di tracce di pelle morta sui lacci, e che era stato avvelenato, dato che dalle tracce di epidermide individuai il clostridio botulino.
Dissi a Lestrade di trovare qualcuno che volesse la morte di un ragazzo sui diciotto anni, e saltò fuori che il padre era indebitato con un giro di malavita che per mandare un messaggio aveva toccato i familiari.
“Sei soddisfatto, ora?” fu la domanda di John, quando tornammo alla solita mia soffitta, appena concluso il caso.
“No, non era molto soddisfacente.”
“Come sarebbe a dire?”
“Insomma, non c’è stata molta adrenalina.”
“Sei incontentabile.”
Mi alzai, guardai John: era sempre esasperato, sempre teso per le mie reazioni, ma nonostante tutto non poteva certo dire che avere a che fare con me lo annoiasse, anzi, era stimolato e intrigato almeno quanto me. Ecco perché eravamo noi due in quella soffitta.
Mi mossi verso il solito armadio, misi mano a una ben nota scatola verde: “Cluedo?”
  
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