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Autore: Sara Saliman    20/07/2015    8 recensioni
Dopo un lungo silenzio, la fronte di Zeus si spianò.
-Sta bene, Ade. A me la Superficie, a Poseidone il Mare. A te, qualunque sia il motivo, il Sottosuolo.-
Così si ebbe la divisione del Mondo, come ancora lo conoscono gli umani.
E così ebbe inizio la mia storia, sebbene allora io non fossi ancora nata.
Genere: Drammatico, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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“Sogno colleziona nomi come altri collezionano amici, ma si concede pochi amici"
Sandman, Neil Gaiman
 
 
Ormai sto disegnando
mentre racconto ciò 
che raccontando si profila.
E' come se una nube
arrivasse ad avere
forma di nube.

Valerio Magrelli, Da Ora serrata retinae
 
-Prendi le mie mani,- disse Alifto. -E non lasciarle.-
Le obbedii.
Fiamme azzurre divamparono dall’orlo della sua veste e ci avvolsero entrambe. Il fuoco non emanava calore, ma la sua luminosità mi costrinse a serrare le palpebre. Quando riaprii gli occhi, Alifto e io ci trovavamo sul fianco erboso di una collina, sotto la luce slavata di uno sterminato cielo vuoto.
L’erba sotto i nostri piedi era di un verde talmente carico da virare a tratti verso il blu, a tratti verso il turchese. Era tenera sotto le mie dita, ma odorava di polvere. Lasciai le mani di Alifto e ruotai lentamente su me stessa, i capelli e la veste gonfiati da una brezza gentile.
Il castello di Ade non si scorgeva da nessuna parte; anche il lago del Cocito era sparito. Diversi metri sopra di noi, il prato lasciava il posto ad arbusti sempre più fitti, fino a diventare un vero e proprio bosco che si estendeva sulla sommità della collina.
Ninfe avernali si protendevano timidamente dai pallidi tronchi degli alberi: la loro pelle era chiara, addirittura bluastra, i capelli fluenti e scuri come quelli di Minta. I loro occhi, grandi e sporgenti, sembravano papaveri in fiore: la sclera di un rosso vivace conteneva un’iride nera, che si chiudeva su una pupilla puntiforme, colore dell’oro.
Non appena mi voltai nella loro direzione, le ninfe sparirono nel tronco degli alberi: ai loro occhi terrificanti, io ero una creatura aliena e spaventosa!
Sotto di noi, il pendio erboso digradava dolcemente verso valle. In quella  conca, circondata dalle colline circostanti come da alte mura, si adagiava la città più strana che avessi mai visto. Da quella distanza le sue strade apparivano tortuose, delimitate ora da pareti di roccia, ora da grovigli di siepi. I viali si intrecciavano come serpenti, si diramavano in viuzze intricate, che spesso finivano in vicoli ciechi.
Al centro esatto della città, sorgeva un castello.
La voce di Alifto mi raggiunse da tergo e io trasalii: mi ero dimenticata di lei.
-Siamo nel punto più vicino alla Superficie di tutti i Campi Elisi. Quello che hai davanti è il regno e la dimora del Sogno.-
-Oniro vive… in un labirinto?- Non riuscivo a staccare gli occhi dal castello. Guardando i suoi angoli impossibili e le sue strane propaggini, mi rendevo conto che quella costruzione non avrebbe dovuto restare in piedi. –Come arriveremo al centro?-
-Come tutti: un passo alla volta.-
Alifto mi oltrepassò, incamminandosi lungo il pendio. Dopo un istante di esitazione, le corsi dietro.
-Dobbiamo annunciare la nostra presenza?-
-Oniro sa che stiamo arrivando. Non è stato lui stesso a suggerirti di cercarlo?-
Ripensai ai miei sogni degli ultimi tempi: visioni oscure e vischiose che mi restavano attaccate addosso ben oltre il risveglio.
-Credo di sì.- ammisi. –Eppure, Oniro e io non ci conosciamo.-
-Pochi lo conoscono: Il Sogno visita i mortali, piuttosto che gli altri dei. Purtroppo per lui, l’amore tra mortali e dei non va mai a finire bene.-
Mi voltai di scatto, sorpresa.
-Mi stai dicendo che Oniro ama una mortale?-
Di fianco a me, Alifto mi offriva il suo profilo integro.
-Il Sogno ha molti Aspetti, quasi quanti ne ha il Sottosuolo. Uno di questi Aspetti ama una mortale, sì.- Mi parve sul punto di aggiungere qualcosa, invece disse soltanto: -Siamo arrivati.-
Le mura del Labirinto non sembravano costruite di mattoni, ma ricavate da immensi lastroni di roccia sorti direttamente dalla terra, inframmezzati da altissimi obelischi.
Dinanzi alle porte, un bambino di pochi anni si dondolava sui talloni, aspettando qualcuno. Aveva una carnagione color del latte e capelli ondulati dello stesso colore. Indossava una maglia troppo grande per lui, e pantaloni di un azzurro stinto, sdruciti, di un tessuto robusto che non avevo mai visto. Non appena ci vide arrivare, il bambino si sollevò sulle punte dei piedi nudi e agitò le braccia in ampi gesti di saluto.
-Eccovi! Da questa parte! Siete arrivate, finalmente!-
Man mano che ci avvicinammo, potei osservarlo meglio: sembrava umano, gli diedi cinque, forse sei anni. Al suo sorriso radioso mancavano gli incisivi superiori, che stavano ancora ricrescendo, eppure qualcosa nei suoi occhi verdissimi mi diede l’impressione che fosse più vecchio di quel che sembrava.
Alifto lo salutò con un cenno del capo.
- Sei molto cambiato: quasi non ti riconoscevo. È cambiato anche il tuo nome?-
-Certo!- Il bimbo spinse in fuori il petto in un’espressione di puro orgoglio. -Ora sono Il Bambino Bianco!-
-Mi sembra un buon nome.- approvò l’Empusa. -È stato il tuo re a mandarti?-
Il bimbo annuì, poi posò su di me gli occhi verdissimi.
-Signora, lui ti sta aspettando!-
-Allora guidaci,- gli sorrisi.
Il Bambino Bianco guardò Alifto con evidente imbarazzo. L’Empusa intese al volo il messaggio: ebbe un sorrisetto sarcastico e si sedette su una roccia.
-Andate pure, io aspetto qui.-
Il Bambino Bianco si intrufolò attraverso le porte, io invece mi attardai ad ammirarle: erano coperte di rampicanti fioriti: i primi fiori che vedevo, da quando avevo messo piede nel Sottosuolo!
Quando varcai l’ingresso del Dedalo, mi ritrovai in uno stretto corridoio di pietra che sembrava correre dritto sia alla mia destra che alla mia sinistra. Il piccolo umano sembrava sparito.
-Dove sei? Non ti vedo! Devo percorrere tutto il Labirinto? Ci vorranno ore!-
-Oh, no: non tu! Il Labirinto…- la voce del bambino proveniva dalla mia destra, così mi voltai in quella direzione. La voce si assottigliò fino a svanire, per poi ricomparire più squillante di prima, esattamente alle mie spalle -…gli umani!-
Mi voltai trasalendo, incontrando gli occhi ridenti del piccolo accompagnatore.
Aveva detto “il Labirinto è per gli umani”? O “degli” umani?
Non ero certa di volerlo sapere.
Il Bambino Bianco mi prese per un polso e mi strattonò dentro un muro con forza insospettabile. La parete ci inghiottì senza opporre resistenza, come non fosse reale. Sbucammo in una stradina lastricata di ciottoli, nel cuore di una cittadella.
-Seguimi!- trillò il Bambino Bianco, sparendo nell’ombra di un vicolo. Mi affrettai a obbedire, cercando di non perderlo nuovamente di vista. Mi guidò attraverso vie strette e tortuose, su cui si affacciavano basse case di pietra.
Le porticine dipinte di nero si dischiudevano al mio passaggio e piccole creature sbirciavano fuori: avevano arti sottili come ramoscelli; sul collo, al posto della testa, scintillava un nucleo di luce vivida, ma vuota.
Per quel che vedevo, quelle creature non avevano occhi né bocca, eppure sentivo addosso i loro sguardi, nella testa il vociare dei loro bisbigli.
-Cosa sono?- ansimai. Il Bambino Bianco era più veloce di quel che sembrava, e faticavo non poco a stargli dietro.
-Sono i sognatori che si sono smarriti! Il Labirinto è un luogo di passaggio: esiste per essere attraversato. Chi si smarrisce per le sue strade, diventa così!-
-Quindi quelli sono esseri umani?-
-Quel che ne resta,- rise il Bambino Bianco. -Quel che ne resta!-
Eravamo finalmente giunti al castello. Il ponte levatoio era abbassato, la saracinesca alzata. Imboccai la strada senza pensarci due volte: solo quando l’oscurità dell’ingresso mi inghiottì mi resi conto di essere sola. Mi voltai indietro, verso la pallida luce del giorno.
-Non mi accompagni?-
Dall’altra parte del ponte levatoio, Il Bambino Bianco mi sorrise senza schiudere le labbra.
-Lui ti aspetta, ma io devo fermarmi qui. Lui non gradirebbe se entrassi fin dentro il Castello.-
-Perché? Che cosa gli hai fatto?-
Il bambino chinò il capo, evitando il mio sguardo. Una ruga di concentrazione comparve tra le pallide sopracciglia, come se lui stesso faticasse a ricordare.
-Una volta, quando ero un altro me stesso e avevo un altro nome, io l’ho ucciso. Voglio dire: ho ucciso un Aspetto di lui.-
Per un istante, sotto le sue ciglia slavate, mi parve di scorgere un’oscurità senza fondo.
-Oniro non si è vendicato? Non ti ha esiliato?-
Il bambino sollevò lo sguardo di scatto.
-Oh, no: no davvero! Io sono un Aspetto della donna che ama!-
I suoi occhi erano di nuovo verdi, verdissimi. Non c’era traccia di tenebra in lui: l’avevo solo immaginata?
Avrei voluto chiedergli di raccontarmi meglio la sua storia, ma non feci in tempo.
La saracinesca del castello si abbassò sferragliando e la realtà si sgretolò intorno a me, tagliando fuori tutto il resto.
 
§§§§
 
In quelle stesse ore, mentre io mi spingevo fino all’estremo confine dei Campi Elisi e penetravo nel cuore del Labirinto per incontrare Il Sogno, altri intorno a me vivevano la loro storia, contribuendo ciascuno a tracciare la fisionomia del Mondo.
Mi riferisco a Leucippe, che si rannicchiava sotto il suo albero implorando pietà, chè non era colpa sua se qualcuno mi aveva presa, chè lei non era presente e non mi aveva mai persa di vista quando era con me. Nei miei incubi riesco a vederla mentre l’ombra di mia madre si allunga su di lei e le sue belle gambe si saldano sotto la veste in un’unica coda, coprendosi infine di fittissime squame. Odo le sue grida di orrore crescere sempre più acute, e infine spegnersi in un pianto roco e disperato mentre viene strappata al suo frutteto e scaraventata in mare in forma di sirena.
Mi riferisco a mia madre, fuori di sé per l’angoscia, che lasciava il nostro giardino e vagava sotto il cielo azzurro della Sicilia chiamando il mio nome, il volto rigato di lacrime e le gonne sempre più lacere ad ogni passo.
Mi riferisco a Zeus, che dall’alto dell’Olimpo si tormentava in silenzio la barba, chiedendosi come spiegarle e quali parole usare.
Mi riferisco a Minta, troppo orgogliosa per piangere, che rifaceva con rabbia il mio letto e alla fine, al colmo della frustrazione, scagliava il mio cuscino contro il muro e lo sventrava.
Soprattutto, mi riferisco ad Ade. Il dio passò tutto il giorno barricato nel proprio studio consultando uno dopo l’altro decine di libri, sfogliandoli con un cipiglio sempre più cupo e occhi sempre più inquieti, mentre, fuori dalla porta, Ipno scambiava brevi sguardi con l’impassibile Thanatos, senza che nessuno dei due osasse bussare.
-Non troverai lì ciò che cerchi!- proruppe Ecate spalancando le vetrate e facendo praticamente irruzione nello studio.
-Grazie per questo illuminato parere,- sussurrò Ade. Con una mano a sostenere il mento e l’altra a sfiorare la pagina, non si lasciò distogliere dal volume che stava consultando. –La prossima volta che decidi di venirmi a trovare, sentiti libera di entrare dalla porta.-
Ecate gli scoccò un’occhiata di fuoco… che andò sprecata, visto che il dio non la stava guardando.
-Questa non è una visita di cortesia, fratello. Arrivo dalla Superficie: lì sopra sta succedendo qualcosa che riguarda anche te!-
Ade agitò due pallide dita in un gesto vago.
-Provo a indovinare: Demetra si è accorta che sua figlia è sparita.-
Ecate si fermò dalla parte opposta della scrivania e premette i palmi sul piano di legno.
-Questo non ti preoccupa? Non ti domandi come reagirà?-
-So esattamente come reagirà Demetra.- rispose Ade voltando pagina.
-Adesso Vedi il futuro?-
-Io non Vedo: io osservo e, soprattutto, ragiono. È molto diverso.- Ade chiuse con uno scatto secco il libro che aveva in mano, poi lo adagiò sul pavimento assieme agli altri. Solo allora poggiò i gomiti sulla scrivania e chiuse i pugni uno dentro l’altro, a sostenere il mento. Guardò Ecate negli occhi. – Demetra cercherà Persefone per tutta la Superficie, come farebbe qualsiasi madre. E, poiché la cerca in Superficie, non la troverà.-
-E in tutto il tuo estenuante osservare e ragionare, non ti è passato per la mente di dirle che hai reclamato in sposa sua figlia?-
Il dio si accigliò.
-Ho già informato Zeus, secondo le leggi della Superficie. Quanto al resto, mi costringi a far presente che ciò che accade lì sopra non è di mia pertinenza.-
Ecate si protese sul piano della scrivania.
- Ti dico cosa Vedo io, invece: ogni azione compiuta in Superficie ha delle conseguenze, e le tue azioni non fanno eccezione. Demetra invoca il nome della figlia come una domanda: calca le strade della Superficie in cerca di risposte, e non si fermerà finchè non le avrà trovate. Il Mondo non può, per sua stessa natura, rimanere sordo a una ricerca condotta con simile urgenza.-
Gli occhi felini di Ade si ridussero a due fessure color selce.
-Stai parlando del Mondo, Ecate? O stai parlando di te?-
Un lampo di autentico dolore attraversò lo sguardo orgoglioso della dea.
-Io sono tutti i bivi, tutte le soglie, tutte le strade buie in cui ci si avventura con le mani tremanti e il cuore in gola, guidati dall’urgenza di una domanda.-
-So perfettamente chi e cosa sei, sorella: ci sono io, in fondo a quelle strade e oltre quelle soglie!-
-Allora capisci che agirò secondo la mia natura.- Non fosse stato per il portamento orgoglioso e lo sguardo fiero, la risposta della dea sarebbe suonata implorante.
Ade masticò con cura le parole, prima di pronunciarle tra i denti.
-Sta bene, sorella. Anche io agisco secondo la mia.-
 
§§§§

Quando la realtà intorno a me smise di incresparsi come acqua e si ricompose, mi trovavo in una sala senza eguali. Scale di pietra sfidavano il vuoto inclinate in angoli assurdi: talvolta conducevano a piattaforme  sospese nel nulla, talvolta si congiungevano ad altre scale che risalivano o scendevano in direzione opposta, talvolta si interrompevano a metà, sullo strapiombo di cui non vedevo la fine. Magnifici archi sorgevano talvolta dai piazzali, talvolta dall’incontro di due scale sospese, talvolta addirittura dalle pareti, dando l’impressione che i muri fossero pavimenti con un’inclinazione sbagliata, e che il pavimento su cui poggiavo i piedi fosse, a sua volta, la parete portante di qualcosa.
Provai a far spaziare lo sguardo e ad abbracciare la sala tutta insieme: la testa cominciò girare nello sforzo di dare una logica a quegli angoli incoerenti e a quelle scale senza uscita.
Indietreggiai per allontanarmi dal bordo, ma la piattaforma si rivelò meno profonda di quel che pensavo, e i miei talloni incontrarono il vuoto.
Per un istante rimasi sospesa sull’orlo del precipizio, agitando le braccia per non cadere all’indietro. Persi comunque l’equilibrio e…
Qualcuno alle mie spalle mi strattonò per la veste.
Serrai gli occhi e gridai, ma, invece di cadere nel vuoto, mi ritrovai ancora in piedi. Sbattei le palpebre, sconvolta: avevo effettivamente oltrepassato il bordo ma, invece di cadere, mi trovavo in piedi sulla faccia inferiore della piattaforma, quella rivolta allo strapiombo.
Mi voltai tremando, e mi trovai a fissare un viso spigoloso e due occhi spaiati: uno azzurro come il cielo estivo, l’altro grigio come un freddo crepuscolo invernale.
-Ma… ma siamo a testa in giù!- balbettai.
-Ma davvero?- Il dio gettò indietro i capelli biondi e arruffati e mi lanciò un’occhiata sprezzante. -Magari lo eri prima, a testa in giù, e adesso sei diritta. Ci hai pensato?-
Non riuscii a capire se fosse divertito o irritato dalla mia ottusità. Il dio si premette una mano guantata sopra il giustacuore e mi rivolse un impeccabile inchino.
-Piacere di rivederti, Signora. Ti aspettavo.-
La sua voce era roca e suadente, così piacevole da mandarmi piccoli brividi lungo la schiena.
-Tu sei lui, vero? Sei il Sogno!- Il dio sorrise, chiaramente compiaciuto di essere stato riconosciuto. -Io ti conosco,- balbettai, cercando di difendermi dal turbamento che mi causava. –Ma noi due non ci siamo mai incontrati!-
-Non in questo Aspetto,- concesse Oniro, passandomi accanto.- Tuttavia, la nostra è la più antica delle amicizie.-
Aveva parlato in tono piacevole, eppure intuii che la mia vicinanza lo innervosiva.
Ebbi paura della sua paura. Perchè mai qualcuno avrebbe dovuto temermi?
Cosa vedeva, quel dio, quando posava su di me i suoi occhi spaiati?
Quali Aspetti dissonanti coglieva in me, che io stessa non conoscevo?
Dopo qualche passo, il Sogno sparì sotto un arco. Mi affrettai a seguirlo, ma mi ritrovai di fronte un altro strapiombo (o era lo stesso strapiombo di prima, ma capovolto?)
Con estrema cautela mi sporsi oltre il bordo, cercando di scorgere la punta dei suoi stivali.
-Quello che mi hai mostrato nei sogni… L’incontro con Ade, la caduta, le Parche… era reale?-
La voce graffiante di Oniro risuonò intorno a me senza una direzione.
-Definisci “reale”.-
Mi raddrizzai e mi guardai intorno. Il dio era sul lato opposto della sala, sotto un arco perpendicolare, in linea d’aria, a quello sotto cui mi trovavo. Non avevo idea di come ci fosse arrivato e il solo pensarci mi faceva venire le vertigini.
-Voglio dire, -annaspai- Ciò che mi hai mostrato è accaduto davvero? Io ho davvero incontrato Ade, in passato?-
Il Sogno stava scendendo una rampa di scale.
-Ciò che esiste in Superficie proietta un’ombra qui nel Sottosuolo. E ogni ombra, qui nel Sottosuolo, presuppone in Superficie qualcosa che la proietti. Come sopra così sotto. Come in alto così in basso. Come dentro così fuori. Tutto è reale. Ma se sia già accaduto o debba ancora accadere… o entrambe le cose insieme… è impossibile dirlo.-
All’ultimo gradino, la scala di pietra si interruppe nel vuoto. Oniro fece un passo più lungo e si ritrovò a percorrerla a testa in giù, nella direzione opposta.
Eravamo lontani adesso, ma potevo distinguere il pallore dei suoi zigomi, la sua espressione altera.
-Perchè Ade mi ha reclamata?- domandai.
-Non poteva non farlo!-
Una sensazione sgradevole mi punse tra le costole: somigliava molto alla delusione.
-Allora lo ha fatto solo perché è stato costretto?-
Oniro ebbe una risata sprezzante.
-Niente potrebbe costringere Ade a fare qualcosa, se in primo luogo lui non lo volesse!-
Mi sentii frustrata come quando avevo parlato con Ade: sembrava che io e loro parlassimo lingue differenti!
-“Siamo ciò che siamo, siamo ciò che rappresentiamo, siamo ciò che sappiamo di essere”- tentai ancora.-Fin da bambina conosco questa formula: chi me l’ha rivelata?-
-Tu l’hai rivelata a te stessa. O la rivelerai.-
-Quello che dici non ha senso!- sbottai, picchiando un piede a terra.
-Ah, non ha senso?- Oniro sparì dietro una curva, ricomparendo su una piattaforma pochi metri sopra di me. Si puntellò le mani sui fianchi, sporgendosi con aria di sfida. – Le risposte che ottieni non hanno senso, perchè le tue domande sono sbagliate! Passato! Presente! Futuro! Causa ed effetto! Sono Aspetti della Superficie. Tu cerchi di applicarli all’Averno, ma non puoi: il Sottosuolo ha leggi diverse, sebbene altrettanto rigorose!-
-Allora spiegami! Quali sono le leggi del Sottosuolo?-
Il Sogno spiccò un salto dalla piattaforma, atterrando in piedi davanti  a me.
-Tanto per cominciare, non è il Sottosuolo fuori di te: sei tu dentro di lui- disse, e capii che lottava con se stesso per evitare di indietreggiare.
-Cos’altro puoi dirmi?- lo incalzai.
- Nel Sottosuolo, ogni evento si propaga in tutte le direzioni, come i cerchi dell’acqua quando ci butti dentro un sasso. Per questo motivo non esiste alcuna barriera tra ciò che accadrà e ciò che è già accaduto... e viceversa. Nulla si cancella, ma tutto ritorna e, tornando, si riscrive, fino a diventare ciò che è sempre stato. Gli eventi non corrono in un’unica direzione: si avvolgono su loro stessi e disegnano… -
-…una Spirale.- Pensai al mio sogno, alle figure che non erano esattamente me, ma quasi me, e mi osservavano cadere. –Ma se qui non esistono barriere tra passato, presente e futuro… se persino i concetti di causa ed effetto sono così labili, su cosa posso contare?-
-Su te stessa!- sibilò Oniro, al limite della pazienza.
Lo guardai stranita, come se mi avesse schiaffeggiata. Provavo un senso di vertigine, come se il Mondo si fosse capovolto.
Magari lo eri prima, a testa in giù, e adesso sei diritta. Ci hai pensato?
-“Siamo ciò che siamo, siamo ciò che rappresentiamo, siamo ciò che sappiamo di essere”. Che cosa significa questa frase?-
Oniro arricciò le labbra, mostrando denti piccoli e regolari, incredibilmente appuntiti.
-Non avrai una risposta da me! Non adesso, non qui dentro. Lo saprai quando lo saprai!-
Si ritrasse, come se volesse fuggire ma non osasse, o come se il mio sguardo lo inchiodasse al suolo.
-Mostrami le mani.- gli dissi in un soffio.
Il Sogno sollevò il mento e divenne, se possibile, ancora più pallido. Con oltraggiata lentezza si sfilò prima un guanto, poi l’altro. Li serrò per un istante nel pugno, poi aprì le dita e li lasciò cadere sul pavimento di pietra della piattaforma. Mi mostrò le mani: aveva un verme tatuato su un palmo, una stella tatuata sull’altro.
-Se la Signora ha visto abbastanza, chiedo il permesso di rivestirmi!-
Mi umettai le labbra, improvvisamente aride.
-Accordato.-
Con gesti pieni di dignità, Il Sogno si chinò a raccogliere i guanti e li indossò.
-Non hai motivo di temermi,- gli dissi. –Non ti farei mai del male. Non farei mai del male a nessuno!-
Oniro mi lanciò un’occhiata obliqua.
-Solo uno sciocco non temerebbe la Signora del Sottosuolo. E a detta di molti io sono pazzo, ma di sicuro non sono sciocco!-
Tu non sei pazzo, avrei voluto dirgli. Sei solo Diviso!
Ma sentivo che il dio degli incanti e delle illusioni non avrebbe tollerato di essere compreso tanto a fondo.
-Mi sdebiterò per l’aiuto che mi hai dato,- gli promisi con calore.
Oniro si inchinò, il volto composto in un’espressione indecifrabile.
-Tu mi hai già aiutato una volta, Signora. Sono io, oggi, che mi sto sdebitando.-
 
§§§§
 
Quando rimisi piede nel palazzo di Ade, era ormai pomeriggio inoltrato.
La luce azzurra di Alifto mi riportò indietro, poi l’Empusa sparì alle mie spalle senza proferir parola, lasciandomi nel corridoio buio.
Non ebbi il tempo di abituarmi alla mancanza di luce, che dita sottili si chiusero attorno al mio polso, strattonandomi senza garbo.
-Ti sembra ora di ritornare?-
Riconobbi la voce di Minta prima ancora di mettere a fuoco il suo viso contro il mio. I suoi occhi erano grandi e scuri come pozzi di tenebra, le sopracciglia aggrottate per il disappunto.
-Non mi ero resa conto di aver fatto così tardi,- balbettai. -Sono stata nel Labirinto di Sogno, e lì il tempo…-
-Certo, certo!- Minta dissipò le mie parole con un cenno della mano e mi trascinò verso la mia stanza. –Ma adesso sbrigati!-
La seguii incespicando, mentre i miei occhi si abituavano all’oscurità.
-Mi dispiace averti fatto preoccupare, ma avevo il benestare di Ade!-
La ninfa mi afferrò per le spalle e mi schiacciò la schiena contro la parete, inchiodandomi al muro. Tese una mano pallida, indicando il fondo del corridoio.
–Io non mi preoccupo affatto: non sono tua madre! Ma tra un’ora il mio signore si aspetta che tu scenda da quelle scale per cenare con lui, e quindi prendere possesso dei vostri appartamenti nuziali.-
Sbattei le palpebre, attonita.
-Prendere possesso…?-
Minta ebbe una risata cattiva.
-Guardati! Non sai nemmeno di cosa sto parlando, non è vero?-
-Mi aveva detto che non avrebbe aspettato, ma…-
-“Ma” cosa? Siete sposo e sposa: pensavi avesse cambiato idea? Lui?-
Osservai il bel viso di Minta, chino a un centimetro dal mio, sfigurato dal disprezzo che provava nei miei confronti.
Ti odio, pensai con semplicità, finalmente senza sentirmi in colpa. Ti odio!
In un angolo remoto della mia mente, immaginai una risata bassa e roca vibrare sulle spalle di Ade.
A quanto pare, Persefone, non sei poi così docile come ami pensare!
Ebbi un brivido di calore all’idea che la sua voce risuonasse così intima dentro la mia testa, mi fosse entrata già così profondamente sotto la pelle.
Lasciai che Minta mi accompagnasse nella mia stanza. Lasciai che mi svestisse e mi lavasse, che mi ungesse il corpo con oli profumati. Scelsi dall’armadio la veste più bianca che c’era e mi lasciai rivestire e colorare di carminio le labbra.
Nello spazzolarmi i capelli, Minta tirò un po’ troppo forte: non dubitai che lo facesse apposta, ma finsi di non notarlo.
Quando fece per raccogliermi la chioma sopra la nuca, sollevai una mano e la fermai.
Guardai il mio riflesso nello specchio.
Alla luce delle candele, la mia pelle conservava la sfumatura dorata che Helios le aveva conferito, ma le mie pupille erano così dilatate che i miei occhi sembravano più vicini al nero che al castano. I capelli mi ricadevano lucenti ai lati del viso, si inanellavano sul seno e lungo le spalle in onde compatte di oro purissimo.
-Sono pronta per Ade.- dissi.
-I tuoi capelli…- protestò Minta con una smorfia. -Non indossi un gioiello… nemmeno delle scarpe! Sei impresentabile!-
-Anche la mia ancella, in Superficie, direbbe lo stesso.- Tirai leggermente in su l’orlo dell’abito, fino a scoprire le punte rosa dei miei piedi. Un sorriso mi distese le labbra e un tenue rossore addolcì la linea dei miei zigomi. –Non temere: Ade non ne sarà deluso. Sa esattamente chi ha reclamato in moglie: finalmente comincio a capirlo.-
Minta mi fulminò con un’occhiata velenosa, che mi scrollai di dosso con un’alzata di spalle.
Mi posai una mano sul petto e sentii il mio cuore martellare furioso.
Calmati, pensai, distendendo le dita come se potessi accarezzarlo.
Uscii nella tenebra del corridoio e mi incamminai.
Mentre avanzavo, lo sentii: ero me stessa, ma non solo me stessa. Ero anche la Kore bambina che apriva una porta di quercia e la spalancava sul proprio destino. Ero la Persefone donna che mi aveva parlato da non so quale futuro, sussurrandomi all’orecchio una promessa.
Ero tutte le vite che avevo attraversato cadendo lungo la Spirale; ero tutte le storie in cui qualcuno veniva strappato alla luce del Sole e si inoltrava in un buio come questo, cercando a tentoni la strada.
In questo istante, io sono tutte loro. E tutte loro –dovunque si trovino, in qualunque epoca si trovino, qualunque sia il loro sesso o il loro nome- quando giungono a questo istante sono me.
Sfiorai con la punta delle dita i marmi scuri delle pareti. Sentii contro la pianta del piede il freddo levigato del pavimento.
Non è il Sottosuolo fuori di te. Sei tu dentro di lui.
Tutto ciò che fino ad allora mi era sembrato estraneo e distante, all’improvviso era reale e io ne facevo parte. Sentii i marmi tricromi del palazzo e il riflesso azzurrino delle fiaccole.
Fui gli affreschi sui soffitti e le ombre intorno a me che mi guardavano passare.
Fino ad allora i corridoi del castello mi erano sembrati grandi, silenziosi e vuoti: adesso mi rendevo conto che c’erano dei servitori –c’erano sempre stati, come in qualunque altro palazzo!- sebbene fossero incredibilmente silenziosi.
Sentii su di me i loro occhi d’argento, e per la prima volta anche io li guardai, salutandoli uno per uno con un cenno del capo.
-Bentrovati.- sussurrai. - Bentrovati a tutti.-
Al mio passaggio abbassavano il capo, eseguendo profondi, rispettosi inchini. Sentivo i loro bisbigli accompagnare i miei passi e lambire le mie caviglie.
È la nostra Regina!
È la nostra Signora!
Benvenuta, Regina!
Bentornata, Signora!
Ti stavamo aspettando!
Sempre ti abbiamo aspettato!
In Superficie, i loro volti cadenti e i loro artigli affilati sarebbero parsi mostruosi, ma quegli esseri non erano abitanti della Superficie!
Il Sottosuolo ha leggi diverse.
Giunsi alla sommità delle scale, e lì mi fermai. Nello stesso istante in cui lo cercai con lo sguardo, Ade emerse dall’ombra che mi stava di fronte.
I capelli ondulati gli sfioravano le guance; le ciglia abbassate tracciavano scuri arabeschi sulla linea regolare dei suoi zigomi. Le sue labbra sembravano fredde e immobili come quelle di una statua, ma quando le dischiuse ricordai quanto fossero state, invece, esigenti e morbide contro la mia bocca.
Il volto del dio era bianco, la pelle diafana come la mia veste. La sua giacca era nera, chiusa da alamari d’argento; il colletto e i polsini erano tempestati di gemme. Abbassai lo sguardo sulle sue mani affusolate e notai che Ade portava anelli alle dita. Ebbi l’impressione che li avesse sempre indossati in mia presenza, ma che solo adesso fossi divenuta capace di vederli.
Era un dio spaventoso: lo era indiscutibilmente. Nero come ossidiana, tagliente come un diamante: talmente inflessibile che, se fosse stato necessario, non avrebbe avuto compassione nemmeno per se stesso.
Eppure, quando mi vide, l’oscurità nei suoi occhi si rischiarò, svelando un’emozione più grande di entrambi.
Avanzai di un passo e rimasi così: bianca e sottile contro il suo petto, in piedi dentro la sua ombra. Ade si chinò leggermente per guardarmi negli occhi; io, invece, dovetti reclinare il capo all’indietro per guardare nei suoi.
Sollevai una mano e le sue dita si chiusero sulle mie, le sue labbra mi sfiorarono le nocche.
-Sono felice che tu sia arrivata.- sussurrò.
Mi sfiorò con i pollici gli angoli della bocca e io distolsi lo sguardo, perché Ade non mi leggesse negli occhi il desiderio di baciargli le dita. Mi sollevò i capelli ai lati del viso, li lasciò scivolare tra le dita aperte.
-Sei bellissima.- disse, e mi sentii percorrere da un brivido, come se Ade fosse nota adamantina, e il mio corpo cristallo risonante.
-Anche tu stai molto bene.- dissi con un po’ di emozione.
Ade mi prese per un polso e guidò la mia mano sopra il suo braccio. Trovai la sua manica di velluto e la accarezzai: era morbida come la ricordavo, come era apparsa alle mie piccole dita di bambina. Ogni gesto ne richiamava un altro, e un altro, e un altro, come un gioco di specchi che non vedesse inizio né fine, come se ogni cosa fosse l’eco di un’altra, e al tempo stesso irripetibile nella sua unicità.
Iniziammo a scendere le scale, Ade che mi guidava sicuro in una penombra talmente fitta che riuscivo a stento a distinguere i gradini.
-Dunque sei stata da Oniro. Cosa ti ha rivelato?–
Magari lo eri prima, a testa in giù, e adesso sei diritta.
-Mi ha rivelato che per tutto questo tempo ho pensato al contrario.- Lanciai uno sguardo al profilo elegante di Ade. Il dio sapeva cosa stavo per dire: lo aveva compreso da tempo, forse già al momento della Tripartizione. -Ti ho accusato di avermi scelta contro il mio volere, ma mi sbagliavo: non sei stato tu a rendermi tua sposa, non più di quanto io ti abbia reso mio sposo. È semplicemente ciò che siamo. Quando mi hai vista, tu mi hai riconosciuta, allo stesso modo in cui io ho riconosciuto te, sebbene non ne capissi il motivo. Così, dopotutto, non mi hai rapita: mi hai riportata a casa.-
-È tutto corretto,- disse Ade. Le scale erano finite, e la sua voce increspava le tenebre come una carezza.-Eppure, dolce Persefone, c’è un Aspetto di questa vicenda che forse neppure le Parche avevano immaginato.-
-Cioè?-
-Da che ti ho vista in quella radura, non ho desiderato altra sposa che te.-
Eravamo giunti dinanzi a una porta e Ade abbassò la maniglia. -Benvenuta nel tuo regno, Persefone. Benvenuta a casa.-
Entrai nella sala senza sapere cosa aspettarmi.
E mi fermai dopo qualche passo, incantata.
 
§§§§
 
Note di dubbia utilità (fate la faccia felice, mi raccomando ^__^ ):
_Questo capitolo deve moltissimo a Labyrinth. Il primo amore non si scorda mai e io Labyrinth l’ho amato tantissimo, per cui, insomma, guardiamoci nelle palle degli occhi e diciamo le cose come stanno: era inevitabile che prima o poi saltasse fuori il crossover ^^;
_I pantaloni del Bambino Bianco sono di jeans. Non potevo scriverlo esplicitamente perché non credo proprio che Persefone conosca questo tessuto!
_La frase “Come sopra così sotto. Come in alto così in basso. Come dentro così fuori” riecheggia uno dei precetti di Ermete Trismegisto, ma io l’ho presa dalla storia di Petitecherie. Un grazie all’autrice per avermelo permesso.
_So che fa caldissimo, ma mi piacerebbe davvero molto sapere cosa pensate di questo capitolo.

 
Un saluto,
S.
   
 
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