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Autore: Blue Eich    28/07/2015    6 recensioni
Blue guardò ancora giù, cupa. Perché vivere? Si chiedeva. Perché vivere una vita dove era costretta a rubare le cose che le erano state sempre negate, tra il rimorso e l'invidia nel vedere bambini ridenti con al fianco i genitori, al calore di un focolare acceso? Poteva avere senso, una vita del genere, dove doveva persino fingersi qualcosa che non era, lasciando passare le critiche su di sé come un velo di pioggia?
Genere: Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Blue, Crystal, Green, Red, Silver
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Manga
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Orfanelli a Londra

1. Una notte di settembre ce ne andammo

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Erano tra i più piccoli, ma non per questo tra i più stupidi. Infatti loro, al contrario degli altri, ce l'avevano fatta. Le pozzanghere d'acqua piovana facevano flop al loro passaggio. L'aria, anche se sapeva un po' di smog, aveva un sapore meraviglioso. Il sapore della libertà, della gioia.
Si fermarono soltanto all'interno di un vicolo, così buio che non riuscivano a vedere quanto fosse profondo, né a scorgere i tratti l'uno del viso dell'altra.
Blue, tra gli ansimi, mise le mani sulle spalle a Silver e s'inginocchiò per essere alla sua altezza. «Hai visto, fratellino? Ce l'abbiamo fatta! Ora nessuno ci farà più del male!»
Il bambino annuì lentamente, mostrandole un timido sorriso. Poi afferrò l'orlo del suo vestito, per ottenere l'attenzione che desiderava.
«Che cosa c'è? Hai sonno? Anche io, sarebbe meglio andare a nanna…»
La bocca di Silver si aprì di poco, e da essa uscì un suono. Un suono dolce, tremolante, speciale: «…Blue.»
La bambina alzò la testa di scatto. «Aspetta… Hai… Hai detto il mio nome?» chiese, con occhi luccicanti d'emozione.
«B-lu-e» scandì il bambino, stavolta con un sorriso più vispo. Sì, perché nonostante tutto, quando erano insieme vivevano sempre dei momenti felici.
«Oh, fratellino!» Lo abbracciò stretto, più stretto che poteva, perché aveva paura che scomparisse, trascinato via da un soffio di vento.
Lui inclinò la testolina, confuso, dopo aver sfiorato con la punta del dito una delle lacrime calde che le rigavano le guance. Come risposta lei scosse il capo e riprese a singhiozzare. Era… Bello, sentirsi importante per qualcuno. Qualcuno come lei, che aveva bisogno dello stesso affetto di cui sentiva tremendamente la nostalgia.
 

Blue, pur essendo in collegio da poco tempo, era molto intelligente, per cui aveva già imparato come funzionavano le cose. Bastava girarsi un attimo che il vicino ti rovesciava il piatto di minestra addosso, o ti strappava prepotentemente il giocattolo che avevi scelto dalle mani. Bambini schivi, che covavano un profondo odio dentro, convinti che far stare male gli altri più di quanto stessero loro li aiutasse a sentirsi meglio. A proposito di odio: odiava la gonnellina scozzese, le calze pesanti e i mocassini della divisa. La facevano sentire insignificante. E poi era una cosa un po' senza senso: solo le persone cattive, che finivano in prigione, dovevano indossare gli stessi indumenti. Quindi iniziava a chiedersi se anche quella fosse una specie di prigione.
Ogni giorno, durante i pasti, chiudeva gli occhi e pregava sottovoce l'aiuto di qualche angelo, rivolta alla croce di legno appesa nel refettorio. Era certa che prima o poi l'avrebbero aiutata, però gli angeli sono pur sempre angeli e forse c'erano molte persone in coda prima di lei ad aver espresso un desiderio importante.
Le venivano i brividi ripensando a quel giorno. Era nella sua cameretta, a giocare con il suo pupazzo preferito, l'unico in mezzo a tante bambole: un mostriciattolo tondo con grandi occhioni verde acqua. L'aveva scelto per il suo ultimo compleanno alla bottega dei giocattoli. Ce l'aveva sempre a portata di mano, anche allora. Aveva sentito la porta spalancarsi di botto, le opposizioni disperate della mamma, dei passi così violenti che avrebbero potuto spaccare le assi del pavimento. Poi degli uomini dallo sguardo torvo l'avevano presa per le ascelle, trascinandola via, a dispetto dei suoi calci e lamenti straziati. L'ultimo ricordo che aveva dei suoi genitori erano le loro lacrime. Non capiva che le sue richieste di aiuto li facevano soffrire ancora di più.

Era una mattina come un'altra.
«Smettila di fare la stupida!» Suor Sabrina diede una violenta manata a Blue, da cui lei si riparò incrociando le braccia sulla nuca. «Altrimenti, la prossima volta, quel mostro orripilante finirà nella stufa… Altro che dargli un nome!»
Blue corse via come un fulmine, con la bocca contorta in una smorfia e gli occhi lucidi. Il suo peluche era il più bello del mondo, non un mostro… Era suor Sabrina il vero mostro, il suo incubo, che sapeva solo gridare e picchiare.
«È mio amico…» mormorò, così piano che nessuno riuscì a sentirla, fermandosi in mezzo al corridoio. Sollevò la palla di pezza rosea, la cui bocca mal cucita era eccessivamente sorridente, sempre, qualsiasi cosa succedesse. Anche lei avrebbe voluto sorridere sempre, perché papà diceva che era bellissima quando sorrideva. Ma adesso, se provava a sorridere davanti allo specchio appannato dei bagni, non si sentiva più carina. Era come se la sua bellezza si stesse lentamente consumando, man mano che il tempo passava.
Il flusso dei suoi pensieri malinconici fu interrotto da una voce roca. Il signor Surge aveva intrappolato un bambino molto piccolo in un corridoio senza uscita e gli sorrideva con malizia, avvicinandosi a grandi ma lente falcate verso di lui.
Il signor Surge era il bidello peggiore del collegio, quasi sempre brillo, perché teneva perennemente in tasca una fiaschetta di vodka. Secondo i pettegolezzi, se lo incontravi da solo in corridoio eri davvero sfortunato: lui ti afferrava per le gambe e, ridacchiando con perfidia, ti osservava dimenarti invano a testa ingiù, finché la faccia non ti diventava rossa come un peperone, spesso punzecchiandoti con la ramazza che aveva usato un'ora prima per pulire i gabinetti. Così, per divertirsi.
«Vieni qui, piccolino…» Tendeva quelle sue manone tozze in avanti, mentre la sua vittima, impaurita, ormai era arrivata ad appiattirsi contro la parete.
Blue si accigliò. Non le andava che qualcuno si prendesse gioco di un bimbo così piccino, incapace di difendersi. D'istinto lanciò un urlo acutissimo, che avrebbe potuto spaccare un vetro, a pugni stretti, usando tutto il fiato che era riuscita a immagazzinare nei suoi piccoli ma forti polmoni.
Surge si guardò attorno, con il briciolo di lucidità rimasto nella sua mente nebulosa, chiedendosi da dove venisse quel rumore insolito.
Ciò diede la possibilità al bimbo di sgusciare velocemente via dalle sue grinfie.
L'uomo, rigirandosi, non vide più nessuno nel suo campo visivo. Perciò raccolse secchio e moccio, bofonchiando qualcosa d'incomprensibile mentre cambiava direzione, con la sua andatura barcollante.
«Stai bene?»
Il bambino fece un sussulto e si rannicchiò di nuovo contro il muro. Era proprio carino. Il suo faccino paffuto paffuto era in contrasto con la carnagione cerea e una frangia rosso cremisi gli copriva la fronte. Aveva avvolto le manine morbide alle ginocchia, come a volersi isolare e proteggere.
«Adesso è tutto finito! Ti accompagno in camera tua, va bene?» Davanti alla mano tesa di Blue, il bambino rimase perplesso. Poi avvicinò piano la sua, che lei strinse forte. «Da oggi in poi ho deciso che sarai il mio fratellino! Andiamo, fratellino! Ah, lui è il mio peluche!»
Lui la guardava confuso e un po' a disagio, perché una bimba così bella non l'aveva mai vista. Era la prima volta che qualcuno si comportava in modo gentile con lui, a parte papà. Già, papà… Chissà quando sarebbe tornato a prenderlo.
Quello fu un bel giorno. Da allora, infatti, diventarono inseparabili. Silver, il bambino, ancora non sapeva parlare, ma in compenso regalava dei sorrisi dolcissimi. Non si aveva la certezza che quello fosse il suo vero nome, però era il colore dei suoi occhietti e la sigla sul fazzoletto che portava sempre in tasca. Non si fidava di nessuno all'infuori di Blue: nel suo mondo esisteva solo Blue, la sua vocetta allegra, la sua mano dal tocco di velluto. Rappresentavano proprio il blu, lei e i suoi occhioni, che riuscivano sempre a calmarlo. Il resto era grigio: grigie le pareti in cui erano rinchiusi, grigio il suo umore, grigio il cielo fuori dalla finestra, grigi i cancelli invarcabili del collegio. E se non era grigio era marrone: marrone il brodo di pollo della mensa, marrone l'armadio buio e soffocante dove ti chiudevano per punizione, marroni le coperte dei letti pesanti come macigni che pizzicavano la pelle e puzzavano di naftalina.

Le settimane passavano e Blue stava iniziando a mettere da parte il dolore. Dopo i continui schiaffi di suor Sabrina, aveva imparato a rispondere, a trasformare quei momenti orribili in gioco.
«Non sei diversa dalle altre, fila subito via!»
«Io non ascolto una vecchia megera!» Le fece la linguaccia e, mentre quella imprecava lanciandole dietro una grossa copia della Bibbia che cadde a terra con un tonfo, corse via, ridente.
Doveva passare a prendere Silver. Camminava a passo svelto, canticchiando a bassa voce un allegro motivetto. Di solito, le prime ore del mattino bisognava andare tutti in cappellina per dire le preghiere. Ma lei e Silver avevano trovato un'attività alternativa.
Si accertò che la camerata maschile fosse vuota e, come al solito, lo trovò rintanato sotto al letto goffamente rifatto. Gli tese la mano per aiutarlo a uscire e cominciò a raccontargli della faccia buffissima di suor Sabrina e che era emozionata perché presto sarebbero arrivati i giocattoli nuovi. Silver, anche se capiva poco, annuiva e sorrideva quando sorrideva lei: se lei era felice, era felice anche lui.
Andarono, come al solito, sul retro del giardino. Nascosti da una siepe, giocavano a hopscotch, oppure si sedevano e Blue prendeva un bastoncino per disegnare qualcosa a terra. Sosteneva che i bastoncini fossero magici, perché le permettevano di creare tutto ciò che voleva. Però ancora non era brava a fare le magie vere: doveva esercitarsi e forse da grande ci sarebbe riuscita.
Quel giorno, Silver era seduto paziente davanti a lei. In ginocchio, Blue aveva riprodotto due imprecise faccine a propria somiglianza. La prima rappresentava happy, la seconda sad. Lui le osservò curioso, ma in silenzio. Non parlava mai, se non per dire , no, o al massimo guadda, bello o ancora gaccie.
Facevano così tutti i giorni, a parte il mercoledì, che veniva Koga il giardiniere: se li avesse beccati sarebbe successo il finimondo. Poi bastava raccontare con scioltezza che a dire le preghiere ci erano andati, però erano in fondo e, dato che erano così piccoli, nessuno li aveva visti.

Blue non ci mise molto a rendersi conto che da lì dovevano assolutamente andarsene. Tra tutte le giornate no, ce n'era stata una terrificante. Una che tante volte aveva rivissuto, ancora peggiore, nei suoi incubi.
«Adesso mi hai proprio stancata, peste! Stanotte dormirai fuori!»
«No, non può farlo!» protestò vanamente, perché non poteva credere che suor Sabrina fosse così crudele. Ma, dal suo sguardo inviperito, non sembrava stesse scherzando.
«Stavolta se l'è cercata…»
«Così impara a fare sempre quello che vuole!»
Erano questi i borbottii malevoli delle sue compagne, sporte per guardare la scena, mentre suor Sabrina la prendeva per il colletto del maglione e le chiudeva la porta del camerone in faccia. Poi la sentì che trafficava con la serratura e, con un grugnito soddisfatto, si infilava di nuovo sotto le coperte.
Rimase a terra per un po', metabolizzando la situazione nuda e cruda. Di tutti i tiri mancini subiti da parte dell'arpia, quello era stato decisamente il peggiore. Sentiva il cuore pungerle, come se dentro vi si fosse conficcata la spina di una delle rose del giardino. Una parte di lei avrebbe voluto chiamare Silver, ma alla fine decise di non farlo. Lui, a quell'ora, era già nel mondo dei sogni. Probabilmente stava anche sognando qualcosa di bello, per cui non sarebbe stato giusto né interromperlo né addossargli i suoi problemi. Non c'era nemmeno il peluche con lei, rimasto nascosto tra le pieghe del materasso.
Prese ad aggirarsi tra i corridoi, a piedi scalzi, mogia mogia, con la bocca serrata. Un fantasma, con ancora l'anima, però svuotata da ogni emozione.
Passò davanti allo sgabuzzino delle scope, dove il bidello Surge alla luce di una candela rideva e beveva dal collo di una bottiglia, agitando le braccia come uno scimmione. Doveva trovare un posto più sicuro, dove l'indomani nessuno l'avrebbe trovata e svegliata malamente con un calcio. Passò anche davanti alla presidenza e lì si fermò. Delle voci confabulavano, così avvicinò l'orecchio per sentirle. Si pentì tutta la vita di averlo fatto.
«Ahahah! Stiamo facendo proprio un ottimo lavoro. La nostra organizzazione ha fatto un bell'affare con questo collegio…»
«Già, mantenere i marmocchi costa, ma il guadagno che ci fruttano i loro stupidi genitori per tenerli in vita è ancora maggiore… Ahahaha!»
«Mamma… Papà…» mimò con le labbra, mentre assimilava quel brutto concetto. L'ultima cosa che avrebbe voluto sentire. Le persone più importanti e buone per lei, stavano soffrendo. A causa sua. Perché lei esisteva.
«Come dice il nostro motto… Raid On the City, Knock out, Evil Tusks!»
Un'altra risata di gruppo, grossolana, maligna. Blue vide di sfuggita due occhi di ghiaccio, schermati da una maschera bianca che nascondeva un sorriso folle. Il preside Alfredo.
Iniziò a tremare dall'orrore e prima adagio, poi velocemente, corse via. Le lacrime le inondarono il viso e si persero luccicanti nell'aria, così come la sua voce spezzata, che però venne entro poco sostituita dal fischio cupo del silenzio. Segno che era inutile, che non c'era nessuno ad aiutarla, per quanto i suoi lamenti fossero forti.
Si chiuse in uno dei bagni. Non le importava dell'odore nauseabondo. Girò la levetta per chiudersi a chiave, rannicchiandosi a terra. Immaginò che invece di star stringendo le proprie gambe esili ci fosse il suo peluche, immaginò il calore delle mani dei suoi genitori per combattere il gelo che la scuoteva come una foglia, immaginò la voce soave della mamma che le cantava una dolcissima ninnananna, che fosse tutto un brutto sogno, di ritrovarsi nella sua camera accogliente al risveglio. Chissà se le sue bambole la stavano ancora aspettando, per giocare di nuovo a prendere il tè delle cinque coi bicchieri di plastica.
Ma purtroppo si svegliò con un mal di testa lancinante e gli occhi rossi, sempre lì, su quel pavimento gelido al contatto coi suoi piedini pallidi.
Fu dopo quell'episodio che Blue cambiò. I suoi sorrisi erano velati di malinconia. Quando suor Sabrina la sgridava e le prendeva il polso, lei si divincolava con rabbia, dicendo di voler essere lasciata in pace. La prima volta che era successo, suor Sabrina era rimasta colpita da quel tono, intriso di veleno, come lo sputo di una serpe. Ah, agli angeli non ci credeva più. Era Silver il raggio d'angelo delle sue giornate, la ragione che la spingeva a essere forte, a forzare quei sorrisi, per far in modo che almeno lui fosse felice.

Le lezioni di cucito erano obbligatorie per tutte le bambine e, anche se una non era capace e si bucava le dita con l'ago, non poteva smettere o lamentarsi. Alla suora interessava solo vederle con le mani occupate, in religioso silenzio, ascoltando lo sfrigolio metallico dei ferretti. Blue aveva cucito due paia di guanti, bianchi e neri, per lei e per Silver; così quando sarebbero scappati avrebbero avuto meno freddo. Lui li aveva guardati con meraviglia, come il più prezioso dei tesori.
C'erano anche momenti in cui chiamavano tutti a raccolta nel salone, davano a ciascuno un foglio e una cesta di vimini piena di pastelli per ogni tavolo. Quando Silver finiva il suo disegno, tutto scarabocchi, Blue si fingeva sempre impressionata, dicendogli che era bravissimo e – siccome era così bravo – di aiutarla a “ritoccare” il suo. Lei disegnava sempre cose che gli altri non avrebbero dovuto vedere, ad esempio la mappa del collegio o suor Sabrina coi baffi, quindi aveva bisogno di sbarazzarsene in fretta. Alla fine, Silver riduceva tutto a una macchia di colore informe. Quei momenti in cui poteva comportarsi da bimbo normale erano rari, ma gli facevano dimenticare per un po' la situazione che stava vivendo. Se per lui erano rari, per Blue lo erano ancora di più.
Una volta a settimana arrivavano dei sacchi di nylon pieni di giocattoli usati che la gente lasciava sulla soglia della chiesa insieme alle offerte. Tutti si accanivano subito sui più belli e a loro non restava quasi niente, ma si arrangiavano. Se gli toccava il pallottoliere di legno, contavano le volte che suor Sabrina strillava come una cornacchia. Se invece riuscivano a prendere una minuscola macchinina rovinata, Blue diceva che poteva volare in cielo o sul mare. Ed era anche più divertente così, infatti si beccavano un sacco di sguardi torvi e invidiosi, da chi una fantasia simile non l'aveva.
Stare in quel posto era pericoloso, dovevano assolutamente andarsene. Ciò che sarebbe successo dopo non era ancora importante, perché erano insieme. Silver era piccoletto, ma se qualcuno avesse cercato anche solo di sfiorare la sua Blue gli si sarebbe parato senza esitazione davanti, irremovibile, come un soldatino di stagno.



 

Angolo Autrice
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Hello! Spero che qualcuno apprezzi questa storia: è da molto che stava nascosta nel mio PC e oggi, finalmente, mi sono decisa a pubblicarla!
I capitoli saranno in tutto tre e ognuno avrà come titolo un pezzo della canzone
Io vagabondo di Nomadi
So che alcuni dettagli sono un po' inverosimili, ma ho cercato di mantenere la storia originale di Blue e Silver, adattandola in un altro mondo.
Non ho specificato l'anno in cui sarebbe ambientata, ma penso sia ovvio che non è ai giorni nostri.
Ah, il motto citato è quello originale del Team Rocket, non l'ho inventato io.
Forse ho esagerato un po' nel descrivere la loro situazione al collegio, ma volevo essere il più dura possibile.
Beh, non ho altro da dire! Alla prossima.
-H.H.-

 
   
 
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