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Autore: Amachodidaskalos    29/07/2015    0 recensioni
Basta poco. Basta un lampo, un fascio di luce. Il mondo, apparentemente immutato, si trova ad affrontare la peggiore delle sorti: l'isolamento. Ce la faranno i grandi eroi delle storie a salvarlo? No, semplicemente perché non esistono. Il delicato compito di portare l'equilibrio questa volta non viene affidato a paladini senza macchia o potenti stregoni dai cappelli a punta. Costretti insieme dagli eventi, un gruppo di individui dalla morale più o meno dubbia si vede consegnata tra le mani da nientemeno che la Morte in persona un'ultima disperata occasione: dodici giorni per salvare il mondo. Ma in fondo non è meglio superare la propria natura malvagia che nascere buoni?
Se avete un deja-vu, non temete: il Matrix è in ordine. Piuttosto questa storia, che era arrivata al sesto capitolo, sè stata accidentalmente cancellata, e quindi la stiamo ripostando. In realtà, Shades è il resoconto di una campagna di D&D 3.5 tuttora in corso, ma non temete, profani: è perfettamente leggibile anche per chi non sa nemmeno cosa sia un tiro sulla Tempra; per i navigati di GdR sarà solo un poco più intrigante.
BuonaLettura.
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo XXIV: Scontro alla porta

Timis si alzò in piedi, con la testa che ancora le girava. Entrare in un albero era già stata di per se un’esperienza strana: non era come diventare incorporei e scorrere attraverso la materia come se ci si muovesse attraverso l’aria. Si percepivano distintamente le fibre del legno che scricchiolando o si aprivano al contatto con la carne, lasciando passare il corpo dell’ospite e che si richiudevano dietro di esso, inghiottendolo e sigillandolo in una camera oscura, in cui si aveva la sensazione di galleggiare pur sentendosi compressi tra strette pareti. Quando aveva rivisto la luce, il mondo si era le si era dischiuso davanti agli occhi con un cigolio ed uno schiocco di frusta, e lei era tornata a vedere. Lupo Grigio le aveva avvisate che avrebbe potuto portare soltanto due persone alla volta, e che l’incantesimo non era progettato per essere preciso, ma la vista che accolse lei e Lia riuscì comunque a spaventarle: il pino da cui erano uscite era un alto, magro sempreverde, scortecciato dal sale e piegato dal vento, proprio sul ciglio di una scogliera rocciosa a strapiombo sul mare in tempesta. Nessuna delle due avrebbe saputo dire quale fosse la forza che permetteva a quell’unico albero striminzito di resistere in quel luogo inospitale, abbarbicato sulla nuda roccia ed esposto alla furia degli elementi, che sollevavano spruzzi salati ben sopra i quaranta metri dello strapiombo, diffondendo sull’intero altopiano una pioggia innaturale, fredda e pungente, che aveva scoraggiato la crescita di qualsiasi altro vegetale entro un centinaio di metri dal mare. Oltre quella distanza, la Pineta Maggiore le guardava silenziosa, accettando il predominio dell’altra forza naturale.
Un po’ per il metodo di viaggio, un po’ per l’impatto adrenalinico con quello scenario terrificante, sia la mezzelfa che la mercenaria avevano immediatamente iniziato ad accusare i sintomi di una profonda nausea, e si erano sedute sulla roccia liscia ad aspettare, dopo essersi prudentemente allontanate dal bordo della scogliera. Il paesaggio era avvolto da una nebbia densa ed opaca, che ignorava le scariche di vento che spazzavano irregolari la scogliera, ma quando il vento mutò improvvisamente intensità trasformandosi in una piccola tempesta quella coltre pesante cedette con riluttanza il posto ad uno spettacolo ancora più sorprendente.
«Wow…» aveva mormorato Lia sollevandosi in piedi «Roccasale, eh? Un nome azzeccato.».
La Falce aveva annuito debolmente, guardando meravigliata il tozzo edificio bianco che era emerso dalla nebbia, arroccato sul ciglio del dirupo. Il versante che dava sull’entroterra aveva l’aspetto di una fortezza solida, con le mura lisce e regolari, prive di finestre di alcun genere, il cui colore strideva con la piattaforma di dura pietra nera su cui poggiava. Era un bianco totalmente diverso da quello del castello di Uukart: se quello era composto di puro candore, appena un poco ingiallito all’esterno ma di una lucentezza immacolata, questo era un bianco freddo, cristallino, a tratti opaco ed a tratti translucido, che rifletteva a placche discontinue la poca luce che filtrava sotto lo spesso strato di nubi. Più che di vera e propria pietra, la struttura sembrava intagliata nel quarzo. Il lato che dava sul mare, invece, non somigliava per nulla a qualcosa di costruito dall’uomo: era composta dello stesso materiale dell’altro versante, questo era evidente, ma il cristallo qui non si disponeva su superfici lisce e regolari, ma anzi si ammassava in un illogico conglomerato di bubboni bianchi, di forma vagamente cubica, che tempestavano come ascessi di una malattia l’intera facciata dell’edificio, fino a condensarsi in un'unica colata bianca che si tuffava giù dalla scogliera, aderendo alla parete fino ad arrivare al livello delle onde, dove si assottigliava lentamente, fino a sparire in esili stalattiti. Sul tetto piatto del castello, tre guglie grottesche e sproporzionate levavano i loro pinnacoli aguzzi al cielo, portando sui loro fianchi recenti e profonde incisioni, come se un enorme orso avesse voluto marcare il territorio graffiando la corteccia degli alberi.
«Dici che è davvero fatta di sale?» domandò Timis alzandosi al fianco della compagna «Chi può averla costruita?».
Lia stava per rispondere che pensava di essere lì per scoprirlo, quando un secondo schioccò annunciò che Lupo Grigio era tornato, e dallo stesso albero pericolante dal quale erano arrivate uscirono, assieme al druido, anche Leo e Miros. Il ragazzo aveva l’aspetto di uno straccio: le occhiaie già profonde per la notte passata insonne a temere che da un momento all’altro l’altro Leo avrebbe potuto torcergli il collo risaltavano ancora più scavate sul colorito verdastro che aveva assunto il suo viso, e la sua andatura barcollante tradiva ben di più di un semplice attacco di nausea.
«Woah, amico,» fece Lupo Grigio voltandosi preoccupato quando capì cosa attirava lo sguardo delle due donne «ti senti be…».
Non fece in tempo a finire la frase che Miros si afflosciò a terra, privo di sensi. «Maestro!» gridò Leo disperato gettandosi al suo capezzale «Maestro, non mi lasciate!».
«Allontanati, imbecille!» sbraitò seccata Timis inginocchiandosi di fianco dell’elfo «Guarda, sta rinvenendo.».
«Amico?» lo chiamò sottovoce il druido, stendendo il collo per vedere meglio «Amico, ci sei? Ti senti bene?».
Lentamente, portandosi una mano alla fronte ed una sulla tempia, Miros aprì gli occhi, cercando di mettere a fuoco la piccola folla di individui che gli si erano radunati intorno. «Io… io penso di stare bene,» biascicò «non mi sento niente, però è… è come…».
“Mi dispiace,” sussurrò flebile Loreth nella sua mente “è colpa mia, non tua. Non sopporto i teletrasporti, non li ho mai sopportati, ma non pensavo che potessi soffrirne anche tu.”.
«Beh,» si lasciò sfuggire lui con un risolino, senza curarsi dell’espressione dapprima perplessa e poi diffidente della mezzelfa sopra di lui «quando io mi ammalo ti ammali anche tu, no? Evidentemente la cosa funziona anche nel senso opposto.».
Leo annuì senza motivo, sorridendo soddisfatto. «Shhhh, sta parlando con la sua vocina.» spiegò alla Falce continuava a guardar male il ragazzo.
Quello alzò appena la testa, mordendosi il labbro colpevole. «Lo sai già, vero?» chiese a Timis in tono piatto: suonava più un’affermazione che una vera e propria domanda.
«Sì.» tagliò corto lei, alzandosi a guardare Roccasale, dando le spalle al ragazzo.
«E?» la incoraggiò l’altro speranzoso.
«E penso che possa andare, che tu… che voi vi siate meritati la mia fiducia.» completò senza voltarsi «Andiamo, adesso: la nostra destinazione è laggiù.».
 
♠♠♠
 
Le mura della città si affollarono di soldati: i più erano armati di vecchie lance da addestramento, che probabilmente non avevano mai visto una battaglia, ma alcuni avevano iniziato a montare tra i merli grosse balestre a scorpione e le puntavano minacciose in direzione del carretto. Seduto sul sedile del cocchiere, Nether si grattava la testa come un forsennato, cercando di pensare rapidamente ad una soluzione.
«Pezzo d’idiota,» grugnì Nori con l’ultimo filo di voce che le era rimasto «pensavo che tu avessi un piano! Che diavolo speravi di ottenere avvicinandoti alle mura con un carro trainato dai non-morti?».
«I-ieri sera avevo un piano!» protestò balbettando il necromante «È colpa tua: sono dovuto rimanere sveglio tutta la notte per evitare che ti strozzassi con la fuliggine, diciamo che ho avuto cose più importanti a cui pensare. Me ne ero completamente dimenticato.».
«Quello malato qui sei tu:» lo attaccò la Dea della Morte fulminandolo con gli occhi febbricitanti «non ci si dimentica di praticare un’arte magica universalmente odiata! Come puoi pensare che una vista del genere sia normale per delle persone normali? Gira questo coso e scappiamo, sbrigati!».
Al cenno del padrone, i non-morti iniziarono a far ruotare il carro sulla larga strada maestra, ma entrambi i passeggeri capirono che scappare sarebbe stato inutile quando videro i battenti del grande cancello della porta aprirsi, con una piccola torma di cavalieri in armatura schierati sulla soglia, pronti a caricarli da un momento all’altro.
«Passerò le mie ultime ore in una cella buia.» si lamentò Nori affondando il volto tra le mani «Certo, se non saranno così pietosi da mettere fine alle mie sofferenze con un colpo di lancia. Ah, ma chi voglio prendere in giro? So benissimo cosa mi faranno prima!».
«Non è il momento, principessina.» la interruppe Nether incitando i cadaveri a fare più in fretta «Come sei messa? Riesci a combattere? Almeno con la magia, intendo.».
La Dea della Morte fece per replicare con un insulto, ma le parole le morirono in gola quando i lancieri a cavallo iniziarono davvero a galoppare nella loro direzione con le lance puntate. Rassegnata, chiuse gli occhi stringendo i denti in vista dell’impatto, ma
prima che quello potesse accadere sentì il suo compagno allarmarsi.
«Che diavolo…» lo sentì imprecare «Chi è quella?».
 
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Due-code saltò rapida da un merlo all’altro, ignorando le grida spaventate dei soldati semplici che la vedevano passare e concentrando la sua attenzione sul carretto a circa sessanta metri dalle mura: ci voleva coraggio a chiamare orda uno sparuto gruppo di massimo una dozzina di non-morti che cercavano con le loro andature impacciate di far ruotare un carro in mezzo ad una strada, quindi o si trattava di un assalto condotto anche da altre direzioni, o le guardie di Myrth erano più codarde di quello che pensava.
“Non l’ho già visto da qualche parte quel carro?” si domandò dubbiosa, prima di notare l’assetto da carica che i sei cavalieri in attesa di ordini dietro le porte avevano assunto.
“Oh,” ridacchiò tra sé e sé, compiaciuta “ma guarda tu se quello che il guida non è il grande Eldos in persona! Allora è davvero una questione importante.”.
Al segnale del capitano delle guardie, i cavalieri si lanciarono all’assalto, tutti armati di lance pesanti meno il massiccio mezzo-drago, che brandiva  il suo spadone color smeraldo, Dogma. Quella lama era tristemente nota all’interno di tutta la criminalità organizzata di Myrth, e l’alone di leggenda che l’ammantava era ben più vasto del piccolo tremolio energetico che si irradiava dal freddo metallo assiomatico, forgiato per punire e distruggere le creature che si opponevano alla legge.
Due-code non perse tempo: con un rapido balzo scese dalle mura, atterrando leggiadra sul tetto della casa più vicina all’esterno della cerchia, e da lì riprese a correre al massimo della sua velocità, distanziando in breve tempo i cavalli pesantemente bardati. Quando ebbe accumulato un certo un vantaggio si gettò di lato, ed atterrò elegantemente al centro della via, bloccando la strada alla carica ordinata dei lancieri a cavallo. Il capitano ebbe il buon senso ed i riflessi abbastanza pronti per frenare, ma i due cavalieri laterali si lasciarono trascinare dal loro impeto, senza riuscire a perdere sufficiente velocità.
“Andiamo, venite più vicino.” gongolò mentalmente la divoratrice aspettando che entrassero nella portata della sua trappola: quando ormai i due cavalli in corsa si trovavano a poco più di un metro da lei, sbatté violentemente un piede per terra, facendo scaturire dal terreno un turbine dei suoi tentacoli neri, che l’avvolsero come una crisalide, riparando il suo corpo dall’urto e tagliando, sfregiando e dilaniando ogni essere nel raggio di tre metri. Gli animali si imbizzarrirono sotto la pioggia incessante di punte acuminate e si impennarono in aria, disarcionando i loro cavalieri per poi ricadere a terra con un tonfo, ansimanti e coperti di ferite letali.
Il mezzo-drago smontò furioso da cavallo, facendo cenno agli altri tre lancieri di tenersi in disparte. «Non esistono molte persone in grado di abbattere due lancieri senza muovere un muscolo, in questa valle,» ruggì infuriato smontando da cavallo «ma c’è solo una diceria che parla di una donna che combatte in quel modo. Devo pensare di trovarmi di fronte all’infame Due-code, la bestia della Nube, non è vero?».
I riflessi dorati sul suo muso danzarono quando scoprì la fitta chiostra di denti simili a pugnali. «Che significa tutto questo? Ci siete davvero voi dietro a questa storia, o vi siete solo trovati dei nuovi amici?».
Due-code percepì l’incantesimo di camuffamento dissolversi intorno alla sua pelle, e
si calò quanto più possibile il cappuccio sul viso mentre una coda nera, simile ad una versione più larga e spessa dei suoi tentacoli, iniziava ad arricciarsi nell’aria, partendo dalla base della sua schiena. Era già abbastanza essere stata riconosciuta, non voleva che il suo vero volto diventasse di dominio pubblico: per la maggior parte dei cittadini, lei era ancora l’innocente Kuza, l’elusiva giovane donna che aveva perso un braccio in un incidente e che si prestava ad ogni tipo di lavoretto per mantenere la sua famiglia fuori città.
 «Mi conosci.» rispose a testa bassa, piantando la punta della coda nel lastricato della via e raccogliendo le gambe a mezz’aria, restando in equilibrio su quel supporto sottile «Questo vuol dire che qualche volta qualcuno riesce a sfuggirmi per raccontarlo. Quando è stato?».
«Le voci corrono da sempre.» sibilò Eldos levando facendo un cenno agli altri tre cavalieri alle sue spalle «Toglimi una curiosità, demone: perché attaccate ora? Perché qui? Perché con un gruppo così piccoli di non-mort…».
Il mezzo-drago si fermò, mentre i suoi occhi verdi si allargavano stupefatti, colti da una rivelazione. «È un diversivo!» gridò, voltandosi ad additare ad uno ad uno i tre  soldati a cavallo dietro di lui «Tu! Torna immediatamente in città, da’ l’ordine a tutti di tornare alle proprie postazioni lungo il perimetro, massima allerta! Tu va’ ad avvisare mio fratello, digli di attivare le difese, e tu…».
Esitò un instante prima di dare l’ordine, girandosi a guardare la sua avversaria, che attendeva paziente che lui facesse la prima mossa. «Tu resta qui:» concluse infine con voce cupa «comunque vada, oggi ci sarà un cadavere da raccogliere.».
«Che parole audaci!» commentò Due-code facendo sciamare i suoi tentacoli neri intorno a lei, mentre i cavalieri ubbidivano agli ordini «Io preferirei evitarlo, sai? Se ci lasci andare via, ti prometto che noi…».
Un quadrello sfrecciò verso la sua faccia, ma lei fu abbastanza rapida da intercettarlo a mezz’aria, afferrandolo con la mano non senza lasciarsi sfuggire un gridolino di sorpresa. «Chi…» chiese guardandosi intorno, ma la risposta apparve subito chiara: uno dei due cavalieri disarcionato, con il volto coperto di sangue e la gamba bloccata sotto il peso morto della sua cavalcatura, stava ricaricando ansante una piccola balestra pieghevole, facendo continuamente danzare lo sguardo dalle sue mani tremanti alla donna incappucciata.
«No!». Con un grido, Eldos si lanciò verso la sua nemica, che stava per scagliare tutti e sei i tentacoli neri contro la guardia malcapitata, caricando il suo fendente di pura forza bruta. Il colpo andò a segno: la spada magica del mezzo-drago stridette a contatto con la pelle corazzata della Divoratrice, ma il suo proprietario ruggì trionfante quando la lama smeraldina riuscì ad aprirsi una via all’altezza della spalla, scavando un profondo solco dalla base del collo fino alla tempia, che cominciò subito a sanguinare profusamente. Due-code fu scalzata via dalla sua posizione a trespolo, e strisciò a terra per un paio di metri, lasciando una scia di sangue.
«Ugh,» ringhiò dolorante puntellandosi sul braccio sano «questa me la paghi.».
I tentacoli ripresero l’assetto d’attacco, e sfrecciarono verso il mezzo-drago sibilando nell’aria: quello riuscì a deviarne uno con la spada, ma gli altri trovarono una facile via d’accesso negli interstizi della sua armatura di piastre. Eldos sentì i suoi muscoli cedere come fili d’erba ed aprirsi sotto la spinta del bordo affilato delle punte dei tentacoli, ma strinse i denti e sopportò il dolore: con un ampio movimento di Dogma tranciò di netto i loro corpi piatti, che si ritirarono contorcendosi mentre le punte all’interno del suo corpo svanivano in fili di fumo nerastro.
La Divoratrice accusò nuovamente il colpo, sussultando, ma non perse tempo: facendo leva sulla coda nera, si rialzò da terra con un movimento fluido, oscillando lentamente sul suo supporto. Il piano originale non prevedeva uno scontro brutale, ma ora che si trovava costretta alla lotta si rese conto di non poter mettere il capitano delle guardie di Myrth, figlio del potente drago Arcados, a confronto con un blando mercenario necromante ed il suo servo, o con uno qualsiasi dei nemici che aveva ucciso fino ad allora.
“Non mi è neanche permesso di ucciderlo,” pensò mentre percepiva distintamente l’ira ferale della sua specie che le montava nel petto “Calcos mi vorrebbe morta.”.
Il mezzo-drago si era rimesso in posizione di attacco, ma si vedeva che anche solo respirare regolarmente gli costava grande sforzo e dolore. «Allora funziona così, eh?» grugnì sputando un grumo di sangue «Il taglio sulla testa già non ti si vede più.».
«Sorpreso?» lo schernì lei, cercando di prendere tempo mentre teneva sott’occhio i suoi tentacoli, che andavano lentamente rigenerandosi «Se proprio ci tieni, ho qualche altro trucchetto da mostrarti.».
Eldos rise, una risata profonda, cavernosa e gutturale, accompagnata da piccole gocce di sangue che schizzavano dalla gola. «Ha!» gridò «Se per questo anch’io!».
Rovesciò all’indietro la pesante testa squamosa, per poi soffiare in direzione della Divoratrice un'unica folgore dorata, che sfrigolò nell’aria fino a centrare in pieno il suo obbiettivo, che non fece in tempo a scansarsi, e fu avvolta dall’attacco elettrico. Furibonda, e con la pelle pallida  che fumava per avere in gran parte assorbito il danno, Due-code rinunciò a trattenersi: incurante delle conseguenze, diede sfogo ai suoi istinti, ed un familiare formicolio alla base della schiena le confermò che la sua arma finale, la sua ultima risorsa, era pronta ad essere estratta. Con un ghigno sadico, si abbandonò alla sua sete di sangue, ed un liquido vermiglio molto più denso del normale sangue esondò dall’attaccatura del bacino, volteggiando nell’aria come dotato di vita propria, per poi raggrumarsi nel lungo e massiccio tentacolo rosso striato di venature nere che costituiva la sua chela di Divoratrice. Inspirò a fondo, percependo la stessa sostanza di cui era composta la sua arma iniziare a scorrerle nelle vene e nelle arterie, moltiplicando i suoi sensi, rinforzando i suoi muscoli ed accelerando la sua rigenerazione.
Senza dire una parola schiantò tutto il peso della coda rossa contro l’avversario, che dovette scartare di lato per evitarlo. «Notevole,» ruggì Eldos stringendo la presa su Dogma «d’altra parte mi chiedevo quale fosse la seconda coda.».
Senza aspettare che la nemica ritraesse l’enorme tentacolo per un secondo colpo, partì alla carica, mirando al cuore della Divoratrice: quella gli restituì uno sguardo euforico, quasi assente, mentre si gettava all’attacco a sua volta, facendo vorticare tutti i suoi tentacoli neri intorno al braccio sinistro a formare un’unica punta rotante, con la coda rossa arcuata come quella di uno scorpione. Eldos credé di aver avuto la meglio nel suo brutale scontro quando l’intera lama della sua spada lunga affondò nel ventre di Due-code, facendola sussultare e sbavare un rivolo di sangue, ma fu costretto a ricredersi rapidamente: con la spada incastrata nelle carni della strega, che cominciarono subito a rigenerarsi intorno ad essa stringendola in una morsa, si trovava completamente alla mercé di questa.
Due-code si spinse verso di lui, avvinghiando le gambe intorno alla vita del mezzo-drago in una morsa d’acciaio, e lo colpì con il suo vortice tagliente proprio all’attaccatura del braccio destro, che reggeva la spada, sollevando una nube purpurea di sangue vaporizzato quando le spire affilate dei suoi tentacoli ridussero in frammenti la piastra dell’armatura e maciullarono l’intera spalla, trasformandola in un ammasso sanguinolento, e poi calò la coda rossa, conficcandone la punta nella schiena di Eldos, che non poté fare altro che mollare la presa sulla spada per cercare di scrollarsela di dosso con il braccio sano.
Quando si separarono, la pozza di sangue che si era raccolta ai loro piedi li fece scivolare all’indietro, entrambi barcollanti, ma entrambi ancora in piedi. Digrignando i denti per resistere al dolore, Due-code estrasse lentamente Dogma dal suo corpo, mentre le sue ferite iniziavano immediatamente a rimarginarsi. Strinse gli occhi, tentando di recuperare lucidità, ma l’istinto di divorare vivo il suo avversario era forte, alimentato dall’odore di sangue che impregnava l’aria. Ansimante, rivolse lo sguardo verso il capitano delle guardie, che versava in uno stato ben più pietoso: senza la possibilità di curarsi rapidamente, tutto ciò che poteva fare era premere forte con la mano sinistra sullo scempio che era la ferita alla spalla, e senza più la sua spada, senza poter ripetere il soffio di fulmine, si rese conto di essere inerme, completamente alla mercede della sua nemica.
«Ho vinto io,» proclamò la Divoratrice mentre la sua coda rossa danzava alle sue spalle, ansiosa di bagnarsi di nuovo del sangue della preda «non c’è bisogno di continuare. Per favore, ritirati.».
Eldos le sputò addosso. «Non ho idea di che mostro tu sia,» esordì rivolgendole uno sguardo di fiero odio «ma sappi che se mi lascerai vivo farò dello sterminare la tua razza infame il mio scopo di vita, senza fermarmi di fronte a vecchi, malati, e bamb…».
La coda rossa di Due-code arrivò dall’alto, schiantandosi con forza su di lui, e scaraventandolo a terra supino. La strega gli fu addosso istantaneamente.
«Avanti, finisci la frase,» lo sfidò ringhiando, nuovamente dimentica di tutti i suoi propositi «dammi un motivo per ucciderti.».
Il mezzo-drago resse lo sguardo omicida della Divoratrice, ed aprì la bocca per parlare, ma prima che potesse anche solo proferir parola la coda rossa calò di nuovo, penetrando nel lastricato bianco che pavimentava la via proprio di fianco alla testa di Eldos, che rimase stordito per l’impatto. Con un movimento rapido, Due-code balzò in piedi, cercando con gli occhi la sagoma del carretto per portare a termine il suo lavoro, abbandonando il capitano privo di sensi. Non dovette cercare a lungo: in tutto quel tempo il carretto aveva percorso ben poca distanza.
“Troppo poca perché siano ancora lì.” osservò mentalmente, mentre cercava di combattere la voglia di farne a pezzi gli occupanti. Di nuovo, la sua mente si annebbiò, e parve che tutta la sua sensibilità si fosse riversata nella chela, che non voleva saperne di rientrare nel corpo, vibrante di violenza repressa. Corse fino al carretto, mentre dietro di lei udiva chiaramente la folla di uomini in armatura che si stava radunando intorno al mezzo-drago caduto, ma quando finalmente balzò sul bordo di legno del veicolo, due piccoli dettagli ebbero il potere di incuriosirla e di farla infuriare allo stesso tempo: primo, come aveva già sospettato, era lo stesso identico carro dove sedeva il vecchio necromante quando aveva iniziato a massacrare i corpi di lui e del suo assistente, e secondo,  l’unico occupante era uno stupido non-morto dalla pelle verdastra, che le mugolò contro prima di ritrovarsi le cervella marce trafitte da un tentacolo. Rapida, localizzò un singolo, lungo capello nero, che afferrò con fretta quasi spasmodica. Dopo essersi voltata indietro per assicurarsi che nessun soldato o guardia la stesse braccando, estrasse il suo specchio d’argento, e vi strofinò sopra quell’unica traccia biologica.
«Mostra.» comandò, ma lo specchio le restituì solo uno sfondo nero.









Eh. Vabbé. Questa, amici miei, è... UNA MINIERA. No, Noc a parte, questa è hybris. Ci eravamo tanto vantati di aver postato due settimane fa nonostante le difficoltà, e poi settimana scorsa Internet ci tradisce in questo modo. Eh. Vabbé. Oggi non possiamo scrivere tanto. EDIT: sembra (sembra, potremmo aver già ringraziato) che adesso il nostro conoscente Ted Branson segua anche il teatrino delle ombre. Grazie, Ted, continua così.

Commento del Master: I pugni nelle mani. Oh, finalmente un po' di sano powerplaying. Perché quando la strategia di un pg è "mi faccio trafiggere e lo disarmo con lo stomaco" sai che, in fondo, è un po' powerplaying. Tuttavia devo dire che è più bilanciata di quanto pensassi come razza: è vero, ha tenuto testa senza difficoltà ad un personaggio di 7lv più alto di lei, però questo è soprattutto dovuto al culo sui numerosi tiri sulla volontà che la razza impone per non andare totalmente bloody-frenzied.

Commento dei Giocatori: La situazione era drammatica, ma ora, ad un secondo esame, ci pare quasi comica. Insomma, forse, dopo tanti capitoli i due gruppi si reincontrano e puf, quando Net e Nori arrivano in città gli altri se ne sono andati da venti minuti/ mezz'ora. He.

Bussola del lettore: Seguite il muschio sugli alberi per questa settimana, la connessione è inclemente e potrebbe lasciarci da un momento all'altro.
  
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