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Autore: Helena Kanbara    29/07/2015    1 recensioni
Sono stata una bambina ubbidiente per ben sedici anni, poi ho smesso improvvisamente di eseguire gli ordini del “mondo” e mio padre ha cominciato a chiedersi dove avesse sbagliato con me. Ecco perché sono qui in isolamento, insieme ai delinquenti. Ecco perché passo le mie giornate sola in questa schifosissima cella ad aspettare il mio diciottesimo compleanno per essere giustiziata. Perché non ho voluto seguire gli ordini. Sapete cosa penso? La vita sull’Arca fa schifo. E preferirei di gran lunga la morte.
Genere: Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: John Murphy, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'The heart wants what it wants'
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12. LOVE THE WAY YOU LIE

 
On the first page of our story, the future seemed so bright.
Then this thing turned out so evil, I don't know why I'm still surprised.
Even angels have their wicked schemes and you take that to new extremes. 
But you'll always be my hero, even though you've lost your mind. 
 
“Abbiamo eseguito tutte le simulazioni. Abbiamo apportato tutte le modifiche possibili al sistema. La nuda e cruda verità è che tra cinquantuno ore, vivere sull’Arca non sarà più possibile. Personalmente mi consolo con un dato di fatto eccezionale. I membri sopravvissuti dei Cento hanno dimostrato di essere più forti di quanto avremmo mai potuto immaginare. La nostra eredità verrà portata avanti. E di questo non solo sono riconoscente, ma anche fiero”.
Marcus Kane sedeva di fronte al Cancelliere, le braccia abbandonate sulle gambe e un’espressione che tradiva insofferenza sul volto. Da quando Thelonius aveva convocato quella riunione dell’ultimo minuto, il Consigliere non aveva fatto altro che dedicargli occhiatine infastidite del genere. Ma Jaha non gli aveva dato corda, com’era prevedibile che fosse. Si era limitato invece a sproloquiare come suo solito, riversando sulla folla di membri del Consiglio parole vuote che Marcus avrebbe davvero tanto voluto non dover ascoltare.
“Che cosa dovremmo dire ai nostri elettori?”. Mariah fu l’unica in quella stanza a preoccuparsi di rompere il silenzio sceso verso la fine del discorso di Jaha, muovendo un passo nella sua direzione sotto lo sguardo – ancora infastidito – di Marcus.
Avrebbe preferito che rimanesse zitta anche lei, proprio come tutti nella sala riunioni. Avrebbe preferito che il silenzio fosse imperituro: non voleva più ascoltare niente né nessuno.
Ma Mariah aveva bisogno di conferme, e Jaha era lì per dargliele.
“Cosa facciamo adesso?”, Marcus la sentì che chiedeva al Cancelliere, con un vago tono implorante.
Voleva da Jaha una soluzione per lei impossibile da raggiungere. E lui, sotto lo sguardo offeso di Marcus Kane, non se lo fece ripetere due volte. Offrì ai membri del Consiglio le parole di incoraggiamento che sapeva bene questi anelassero più di ogni altra cosa, spingendoli a godersi le loro ultime ore di vita prima che l’Arca perisse per sempre. Il Cancelliere si era arreso.
Codardo, pensò Marcus, continuando a fissarlo, perdendosi un altro dei suoi inutili sermoni strappalacrime.
“Darò tutte le risorse disponibili ai cittadini sopravvissuti dell’Arca. Non verrà più effettuato alcun razionamento. Ciò che abbiamo appartiene a tutti noi”.
Stupido.
Marcus dovette trattenersi con tutte le sue forze per non urlargli quell’insulto contro. Non poteva credere che quello che aveva di fronte fosse sul serio il Thelonius Jaha che conosceva da una vita. Quello che non si arrendeva mai. Sapere che sarebbe morto di lì a poco l’aveva sul serio cambiato così tanto? L’aveva davvero paralizzato nella paura assoluta, impedendogli di combattere fino all’ultimo alla ricerca di uno spiraglio di salvezza?
“Tutto bene, Abby?”.
Solo quando sentì quel nome abbandonare le labbra di Jaha, Marcus si riscosse finalmente dal suo torpore e distolse molto più velocemente di quanto si sarebbe aspettato, gli occhi dalla pelle scura del suo amico di sempre. Voltò il capo a destra, dove sapeva che avrebbe trovato Abigail Griffin. Fin dall’inizio di quella riunione lei era stata lì – come sempre – il muro a sostenerla e un’espressione indecifrabile sul viso. Marcus la guardò ancora una volta e i loro sguardi si fusero per un attimo brevissimo, prima che lei stessa riportasse la propria attenzione a Jaha, pronta a dargli la risposta che quest’ultimo cercava affannosamente.
“Sto bene”, annuì, non osando più donare a Marcus la minima attenzione.
Lui recepì subito l’antifona, perché distolse lo sguardo dal viso della Dottoressa e puntò nuovamente gli occhi in quelli scurissimi del Cancelliere. Si finse disattento a ciò che disse in seguito Abby, ma in realtà sentì tutto benissimo: l’incrinarsi del suo tono, il sospiro sconfitto che liberò poco dopo e infine il rumore dei suoi passi concitati verso la porta. Stava scappando, Abby, e Marcus la seguì con lo sguardo finché non fu del tutto sparita dalla sua visuale – di nuovo. Poi riportò gli occhi sul codardo.
“Signore”, cominciò, forzando un tono rispettoso che ormai secondo lui non aveva più troppo senso utilizzare. “è saggio da parte nostra sprecare razioni utili quando ancora non siamo del tutto sicuri di ciò che ci aspetta?”.
Al suono di quella domanda, Jaha gli riservò un sorrisino enigmatico dei suoi. Se fosse perché aveva capito quanto fosse costata a Marcus quella domanda o perché semplicemente provasse pena per lui, il Consigliere non riuscì a capirlo mai.
“Ma noi siamo del tutto sicuri”, pronunciò, con la sua solita aria disfattista che Marcus ormai proprio non riusciva più a reggere.
“Be’, io non riesco a… starmene qui seduto a far niente”, sbottò, alzandosi in piedi molto più velocemente di quanto avrebbe creduto possibile. “Devo trovare una soluzione”.
Devo salvare l’Arca. Devo salvare me. Non posso semplicemente accettare l’idea che non rivedrò Brayden mai più. Non morirò tra poco più di due giorni. Non prima di aver salvato anche mia figlia.
Marcus avrebbe voluto aggiungere tutto quello, ma evitò. Si tenne quelle parole per sé mentre fissava Jaha con aria confusa. Vide il Cancelliere seguirlo in piedi alla velocità della luce e posizionarsi di fronte a lui, in modo che Kane si ritrovò all’improvviso privo della possibilità di scappare.
“Ehi”, lo richiamò, prima che questo potesse provarci ancora. “So che è dura accettarlo, ma se ti va di trascorrere il poco tempo che ti rimane da vivere eseguendo simulazioni, puoi farlo senza problemi. Io invece lo trascorrerò con la mia famiglia e una bottiglia di scotch invecchiato di novantasette anni”.
Quale famiglia?, avrebbe voluto chiedergli Marcus. Ma contro ogni aspettativa se ne rimase in silenzio, mentre il suo amico di vecchia data – uno dei Cancellieri migliori che l’Arca avesse mai visto, nonostante tutto – gli batteva una mano sulla spalla e poi lo abbandonava coi suoi opprimenti pensieri. Thelonius non ce l’aveva una famiglia, ma Marcus non se l’era sentita di pronunciare l’ovvio ad alta voce come in realtà avrebbe voluto. Jaha non aveva una famiglia, proprio come non ce l’aveva Marcus – non più – e non c’era certo bisogno di rendere ancor più penosa la situazione di quanto già non lo fosse. Ecco perché se ne rimase zitto, lasciando per un attimo soltanto che i suoi pensieri corressero a Brayden, ai ricordi che ancora custodiva gelosamente nel fondo del suo cuore. Pensò ai suoi rossi capelli lunghi, che si rifiutava sempre di tagliare; alle innumerevoli t-shirt nere che Marcus aveva sempre odiato, ma delle quali invece la sua primogenita proprio non riusciva a fare a meno; e ai suoi sorrisi genuini, sempre così poco frequenti ma non per questo meno sinceri. L’ultima cosa che Marcus pensò prima di scuotere la testa via da quegli atroci ricordi fu che, se non avesse fatto nulla per impedirlo, probabilmente non avrebbe mai più visto Brayden sorridergli nel modo che lui amava tanto. Ritornò consapevole all’improvviso di doversi rimettere a lavoro per cercare di risolvere quell’ennesimo problema e salvarsi la pelle.
Per far sì che ciò succedesse, di certo non poteva passare il resto del suo tempo a rimuginare, oppure a bere scotch con una famiglia che non aveva più, come si sarebbe concesso di fare Thelonius Jaha.
 
 
“Forza, queste buche non si scaveranno da sole”.
Quasi ringhiai in risposta al tono infastidito di Bellamy. Dio, quanto mi irritava alle volte. Non faceva altro che fissare tutti dall’alto del suo piedistallo mentre borbottava ordini, ma mai una volta l’avevo visto darci l’aiuto del quale tutti avevamo bisogno – seppur nessuno avesse veramente voglia di ammetterlo.
“Ti ci seppellirò, in una di queste buche”, soffiai, quando Bellamy fu lontano da me abbastanza da non potermi sentire.
Strappai una risata divertita a Jasper, che mi guardò mentre scuoteva la testa, come a dire: “Lascialo perdere”. Non gli dissi nulla – cosa diavolo avrei potuto o dovuto dire? – semplicemente ripresi a scavare dopo aver riservato sia a lui che a Raven una breve occhiata. Sentivo le braccia dolermi come non mai, ma non mi sarei fermata. Non volevo guadagnarmi i continui rimproveri di Bellamy, il quale sembrava essersi trasformato all’improvviso in una donna mestruata. Se non l’avessi conosciuto tanto bene da capire che quello fosse il suo modo di nascondere quanto male stesse in realtà – ora che Clarke, Finn e Monty erano praticamente spariti nel nulla – l’avrei sul serio sepolto vivo nella buca alla quale stavo lavorando da davvero troppo tempo.
“Spera che le tue mine funzionino, Reyes. Con tutta la polvere da sparo che stiamo sprecando per lasciartele costruire, potremmo fare delle altre granate”.
Ed ecco che lo stronzetto torna all’attacco. Strinsi un po’ più forte le dita sulla vanga, riservando a Bellamy un’occhiata di fuoco delle mie. Un’occhiata che lui, ovviamente, ignorò. Fortuna che almeno Raven riuscì a dargli ciò che si meritava.
“Vuoi venire qui a provarne una?”, la sentii chiedergli, e non potei fare a meno di mettere su un sorrisino soddisfatto.
Ormai volevo a Raven Reyes molto più bene di quanto mi sarebbe piaciuto ammettere.
Capivo che Bellamy fosse in crisi – lo eravamo tutti, d’altronde – ma ciò non lo autorizzava a trattarci come suoi schiavi. Non l’avrei accettato. E nemmeno Raven, evidentemente.
“Mi serve che questa sezione sia completamente minata entro domattina. Poi passerete subito a Sud”.
Detto questo, Bellamy fece per andar via, ma Raven lo fermò. Si alzò in fretta e furia dalla buca fangosa nella quale era stata immersa fino ad allora – concentratissima nel suo lavoro come sempre – e raggiunse Bellamy, arrestando la sua camminata con un semplice strattone alla sua giacca.
“Ti ho detto che domani andiamo a cercare Finn, Clarke e Monty”.
“E io ti ho detto che nessuno può lasciare questo campo”.
Bellamy fece di nuovo per andarsene – voleva chiudere la scomoda questione al più presto – ed io osservai Raven rincorrerlo ancora, determinata ad impedirglielo, col cuore salitomi all’improvviso in gola. Erano passati di già fin troppi giorni dalla sparizione di Clarke, Finn e Monty. E ancora non c’era stato niente che potessimo fare per riportarli al campo. Il pensiero che fossero morti mi uccideva letteralmente, ma per quanto meschino fosse, ero d’accordo con Bellamy. Insomma, c’avevo pensato a lungo e a cosa sarebbe servito abbandonare quel campo e morire mentre cercavamo di salvare tre ragazzi che nemmeno sapevamo fossero vivi sul serio? A nulla.
Continuai a fare pensieri simili almeno finché il rimbombo di un proiettile non mi riportò bruscamente alla realtà, una realtà nella quale Raven ancora fronteggiava Bellamy e sembrava ben intenzionata ad ucciderlo a mani nude. Già all’erta, scattai in piedi, le dita ben strette sull’impugnatura del pugnale improvvisato che portavo legato alla coscia, stretto da una vecchia bandana che avevo ritrovato nella tenda di Finn. Non che un pugnale sarebbe potuto servirmi granché contro un’arma da fuoco, ma era sempre meglio di niente.
Quando vidi Bellamy correre in direzione di un ragazzino del quale non ero mai riuscita ad afferrare il nome, realizzai ciò che fino a quel momento – paralizzata dalla paura – non mi era ancora saltato alla mente, per quanto semplice e scontato fosse. I Terrestri non avevano fucili. Noi delinquenti sì.
“Che diavolo ti è preso?”, urlò Bellamy nella direzione del ragazzino di vedetta, il quale gli riservò nient’altro che uno sguardo mortificato mentre si stringeva forte al petto il fucile.
“Mi dispiace, mi sono addormentato un attimo e…”. Si interruppe, terrorizzato dallo sguardo infuocato di Bellamy. “È tutto il giorno che sono sveglio”, continuò dopo un po’, sperando ingenuamente di poter risolvere la situazione con quel suo vittimismo spicciolo.
Quella scusa fece invece – com’era prevedibile che fosse – infuriare Bellamy ancor di più. Lo osservai mentre afferrava il ragazzino per la giacca, costringendolo contro l’albero alle sue spalle con uno spintone violento che subito mi spinse a richiamare Bellamy, preoccupata. Non era proprio il momento giusto per cominciare ad ammazzarci l’un l’altro.
Siamo tutti in piedi da tutto il giorno”, sibilò Bellamy contro il suo viso, ignorandomi totalmente. “Quel proiettile significa un Terrestre vivo in più”.
“Bell. Octavia richiamò l’attenzione del fratello prima che questo cominciasse a dare totalmente i numeri. “Li stai spaventando”, disse, cercando di mantenere un tono cauto anche se lei in primis era terrorizzata.
Lo eravamo tutti, lì al campo. Così all’improvviso che quasi stentavamo a crederci. Raramente avevo visto Bellamy in quelle condizioni, raramente l’avevo visto così agitato e preoccupato. Sembrava ad un passo dal crollo, e realizzai il perché solo quando lo sentii parlare di nuovo. Desiderai immediatamente che non l’avesse mai fatto.
“Dovrebbero avere paura!”, urlò, guardando Octavia solo per pochi secondi prima che tornasse a fronteggiare tutti noi.
Anche se non me lo sarei mai aspettato, tremai sotto l’intensità del suo sguardo lucido. Bellamy Blake era distrutto. E mi sentii andare a pezzi anch’io mentre lo sentivo parlare e il respiro accelerava da morire e gli occhi mi si riempivano di lacrime e la gola di singhiozzi.
“La bomba sul ponte ci ha dato del tempo per prepararci, ma quel tempo è scaduto! I Terrestri sono là fuori proprio adesso. Aspettano che lasciamo il campo per eliminarci uno ad uno. Clarke, Finn e Monty sono andati. Probabilmente sono morti. E se volete essere i prossimi, io non posso fermarvi. Ma nessun’arma lascerà il campo! Questo posto è l’unica cosa che ci tiene in vita!”.
E dopo essersi esposto così tanto – come mai prima d’allora – cosa volevate che facesse Bellamy? Semplice: scappò. Scappò proprio come mi aspettavo che sarebbe successo, mentre realizzavo con un singulto trattenuto a malapena di quanto avesse – ancora una volta – maledettamente ragione, purtroppo. Immobilizzata, lo osservai mentre correva via fingendo che non fosse successo niente di che, e all’improvviso rividi in lui la Brayden in cui mi ero trasformata durante l’assenza di Murphy. Capii che stessimo provando lo stesso esatto dolore, un dolore dal quale io mi ero ripresa abbastanza bene ma che Bellamy al contrario non aveva idea di come avrebbe dovuto affrontare – non completamente da solo com’era. O meglio, come credeva di essere.
 
 
Jasper Jordan guardò il contenitore di polvere da sparo con un brillio sospettoso negli occhi. Gli era appena balzata in mente un’idea geniale – una delle sue – ma nessuno se ne rese conto, dal momento che era solo. Dopo la sfuriata di Bellamy, Jasper aveva preferito farsi lontano dalla sezione Nord e rinunciare al lavoro che gli era stato imposto senza che potesse sperare di avere una ricompensa. Che senso aveva spaccarsi la schiena a scavare se poi Bellamy non voleva nemmeno provare a cercare Monty? Ce l’aveva con lui e non poco. Ma non c’era spazio per i litigi, in quel momento, doveva semplicemente mettere in atto il suo piano e cercare di salvare i suoi compagni. Perché era giusto così.
Ecco perché afferrò subito la polvere da sparo, stringendola tra le mani come se fosse la sua unica fonte di salvezza – e forse era proprio così. Infilò la scaletta che sapeva l’avrebbe portato al piano di sotto della navicella, quello che sperò fosse ancora vuoto come l’aveva lasciato. In quel momento, Jasper desiderava essere solo come quasi mai prima d’allora. L’unica presenza che avrebbe accettato al suo fianco sarebbe stata quella di Monty, ma il suo migliore amico era là fuori chissà dove e…
Prima che il dolore diventasse nuovamente troppo da digerire – per fortuna o meno, Jasper fatica ancora adesso a dirlo – un rumore alle sue spalle lo distolse da quei pensieri deleteri, e subito il ragazzo si voltò a spiare dietro di sé per scoprire che solo non lo era affatto.
Al primo piano della navicella vi era infatti John Murphy, piegato sulla figura di un Myles dall’aria ancora malaticcia. Jasper non ebbe tempo di chiedersi cosa diavolo ci facesse proprio Murphy lì, perché lo vide allontanarsi di scatto dal corpo di Myles mentre nascondeva alla bell’e meglio una busta di plastica nera e all’improvviso gli fu tutto dolorosamente chiaro.
“Ha smesso di respirare. Stavo…”. Murphy comunque tentò – ancora – di salvarsi in calcio d’angolo, fingendosi preoccupato e soprattutto sincero.
Jasper realizzò all’improvviso che se fosse sceso solo un secondo più tardi, perdendosi così la busta che Murphy ancora stringeva tra le mani – l’arma del delitto – molto probabilmente avrebbe creduto alle sue parole senza nemmeno pensarci un po’ su. Quel bastardo era un asso nella recitazione. Roba da Nobel.
“Cercavo di aiutarlo”.
Jasper non poté far altro che annuire, stringendo forte le dita sul vasetto di polvere da sparo nella speranza che questo potesse trasformarsi all’improvviso nel collo di John Murphy. L’avrebbe ammazzato, se solo avesse potuto. Ma ricordò subito di essere disarmato: solo pochi minuti prima, per fare dispetto a Bellamy, aveva lasciato il proprio fucile esattamente a pochi metri dalla figura di Murphy. Quando si voltò brevemente a guardare l’arma, la trovò ancora lì dove l’aveva abbandonata, quasi a sorridergli beffarda.
Murphy era molto più sveglio di quanto non sembrasse e Jasper peccò di stupidità nel non capirlo subito. Seguì infatti gli occhi di Jordan sul fucile e non se lo fece ripetere due volte prima di afferrarlo e puntarglielo contro, dimostrando a quest’ultimo di essere almeno cinque passi davanti a lui. Ancora una volta.
Sotto la mira del fucile di Murphy, Jasper imprecò mentalmente e realizzò che questo avesse anticipato le sue mosse troppo facilmente perché potesse provare a metter su uno qualsiasi dei suoi trucchetti. Trattenendo un tremito imbarazzante, Jasper posò la polvere da sparo da parte, senza mai distogliere gli occhi dal viso di Murphy. Non c’era via d’uscita, per lui. A meno che…
“Murphy. Metti giù il fucile”, quasi lo pregò, pensando che magari valeva la pena di provare anche quella via.
Non era sicuro che tenerselo buono sarebbe servito granché a calmare Murphy, ma doveva comunque provarci. Quando il braccio che quest’ultimo aveva fino a quel momento stretto spasmodicamente contro il fucile si rilassò lungo i fianchi, Jasper per poco non sospirò di sollievo.
Murphy si voltò alle sue spalle per donare un’ennesima occhiata al corpo morto di Myles e Jasper pensò immediatamente che in quel momento, distratto com’era, avrebbe potuto facilmente metterlo KO. Ma si rese conto anche del fatto che i muscoli non fossero ormai più in grado di rispondere ai comandi del cervello, paralizzati com’erano dalla paura del momento.
“Ha cercato di uccidermi”, osservò Murphy all’improvviso, ritornando a cercare la figura di Jasper con gli occhi chiari inaspettatamente pieni di lacrime.
Al ragazzo sembrò anche che gli tremasse la voce, ma non si sarebbe fatto fregare da quell’ennesima recita. Murphy era un ottimo attore e Jasper ne aveva avuto la conferma solo pochissimi minuti prima.
Senza che riuscisse ad impedirselo – e per quanto stupido fosse – cominciò a muovere dei minuscoli passetti all’indietro, un po’ più vicino all’uscita ogni millisecondo che passava. Ma lo sguardo attento di Murphy non lasciò correre nemmeno quel particolare.
“Ehi!”, Jasper lo sentì che gli urlava contro, mentre subito il fucile tornava al suo posto, puntato contro il petto di Jasper, “Non muoverti”.
Il ragazzo si immobilizzò immediatamente.
“Okay. O-Okay”, balbettò, alzando le mani al cielo in segno di resa. “È tutto a posto”.
Mentì, perché non era niente “tutto a posto”, ma in quel momento una bugia era tutto ciò che potesse riservare a Murphy. E quest’ultimo le bugie era bravissimo a raccontarle, ma non a crederci.
“No, non lo è”.
 
 
Dannazione”.
Sollevai gli occhi dalla carta fine della mia agenda solo al suono di quell’imprecazione, pronunciata a voce molto più alta – ci avrei scommesso – di quanto Bellamy in realtà avesse voluto.
Gli riservai un’occhiata timida, sperando che non mi vedesse almeno finché non avessi deciso cosa fare. Avvicinarlo o no? Alla fine a convincermi fu il vederlo chinarsi per raccogliere il bicchiere di latta che aveva fatto cadere, sprecando dell’acqua. Era ancora agitatissimo.
“Ehi”, mormorai nella sua direzione, liberandomi in fretta e furia delle mie cose prima di raggiungerlo finalmente. Indicai con un cenno il poco d’acqua che c’era rimasta. “Non ne abbiamo da sprecare, Capo”.
Stavo scherzando, ovviamente, ma Bellamy non colse affatto l’ironia.
“Mi dispiace”, si scusò, rifuggendo il mio sguardo smeraldino.
Non potei fare a meno di sgranare gli occhi. Lui che si scusava? Con me?
“Stavo scherzando, Bellamy”.
Mi sentii in dovere di dirglielo, perché all’improvviso mi sembrava di essere stata una stronza tremenda con lui che non se lo meritava affatto. Non in quel momento.
Ma Bellamy non mi rispose. Si limitò a muovere le mani in direzione della riserva d’acqua, provando inutilmente e più volte a riempire il contenitore di latta. Prima che potesse nuovamente lasciarselo sfuggire glielo tolsi, sfiorandogli inavvertitamente le mani e realizzando con un sobbalzo improvviso quanto diavolo stessero tremando.
Trattenni un singulto, rifuggendo lo sguardo scuro di Bellamy mentre gli riempivo d’acqua il bicchiere. Ero consapevole del fatto che se mi avesse ancora guardata in viso, avrebbe capito che sapevo e non volevo che una cosa del genere succedesse. Sapevo che Bellamy non avrebbe retto. Non quella volta.
“Tieni”, mi limitai a dire perciò dopo qualche secondo, porgendogli il contenitore colmo d’acqua.
Evitavo ancora di guardare il viso di Bellamy, ma dovetti rinunciare quando lo sentii rifiutare la mia offerta.
“Non è per me”, mormorò, scansando la mia mano e stupendomi non poco. “Myles non sta bene”.
Oh.
C’era solo una cosa che potessi dire a quel punto.
“Vuoi che me ne occupi io?”. Bellamy non mi stava più guardando in viso da ormai un po’ di tempo, ma glielo chiesi comunque. Gli offrii il mio aiuto perché sapevo quanto in fondo ne avesse bisogno.
E allora se ne rese conto anche lui, perché immediatamente riportò gli occhi nei miei e lo vidi riservarmi una delle occhiate più grate che mai gli avessi visto metter su da quando lo conoscevo. Bellamy annuì, facendo per rispondermi. Ma prima che potesse riuscirci, sfortunatamente una voce a me fin troppo conosciuta interruppe quello strano momento, cambiando tutto ancora una volta.
Sai cosa mi succederà se lo dici a Bellamy”.
Solo nel sentirsi chiamato in causa, quest’ultimo sembrò riacquistare finalmente tutta la lucidità che sembrava proprio aver perso. Mentre i miei occhi si sgranavano sulla sua figura confusa, lo vidi sobbalzare vistosamente prima che capisse da dove era provenuta quella voce improvvisa. Bellamy mise mano al walkie-talkie, e prima ancora che me ne potessi rendere conto sul serio, stava parlando ad ancora non sapeva bene chi.
“Dire a Bellamy cosa?”, domandò, confuso, prendendo a camminare verso chissà dove.
Gli fui subito dietro, afferrandogli un braccio affinché rallentasse. C’era una cosa che dovevo chiedergli a tutti i costi, per quanto pronunciare le parole che avessi in mente sarebbe stato doloroso.
“Era John, quello?”, pigolai alla fine, il demone di una bruttissima sensazione che già si nutriva delle mie paure.
Sapevo di aver ragione e lo sapeva pure Bellamy, in fondo, anche se preferì non dirmi nulla mentre attendevamo una risposta.
Murphy ha un fucile, ha ucciso Myle–”.
Jasper. Riuscii a pensare solo a quello mentre Bellamy imprecava nel ricevitore ed io gli stavo dietro, nonostante quanto fosse difficile per me.
Murphy aveva ucciso Myles. Si era dimostrato finalmente per ciò che sapevo non fosse affatto, rovinando tutto. In fondo avevo sempre saputo che una cosa del genere sarebbe successa: c’erano fin da tempo parecchi dettagli preoccupanti che però avevo preferito ignorare, credendo ingenuamente che tutto andasse bene e non ci fossero più problemi – non ora che John era tornato al campo e sembrava così diverso. Avevo creduto fosse cambiato, e lo era sul serio – in peggio, però.
“MURPHY! Apri la cazzo di porta!”.
Le urla di Bellamy mi riscossero dal mio torpore, e mi accorsi solo in quel momento di essergli ancora al fianco – nonostante tutto. Osservai con occhi inespressivi il portellone della navicella che si chiudeva di fronte a noi, lasciandoci nessuna possibilità di provare a salvare Jasper. Per quanto bene avesse finto di non avercela più con nessuno dei Cento, Murphy non aveva perdonato. No, lui non era il tipo da “lasciar correre” e tutt’a un tratto mi sentii una stupida terribile per non essermene resa conto prima.
“Se provi a fare l’eroe, Jasper muore!”. Lo sentii urlare nella direzione di Bellamy, e il suono della sua voce mi fece salire alla gola un gemito che proprio non riuscii a trattenere.
Bellamy si voltò subito a guardarmi, allarmato, ma io finsi che non fosse successo nulla. Liberai le labbra dalla mano con la quale le avevo coperte e mi imposi che mai – per nessuno motivo al mondo – sarei dovuta scoppiare a piangere in quel momento. Poco importava quanto lo volessi.
Mi schiarii la gola con aria determinata e poi riportai gli occhi in quelli di Bellamy. Sapevo cosa dovevo fare.
“Fammici parlare”, ordinai, allungando una mano nella sua direzione.
Pretendevo che mi lasciasse il suo walkie-talkie e non avrei assolutamente accettato un no come risposta.
“Non credo che…”.
“Bellamy”, lo interruppi, avvicinandomi a lui ancor di più.
Alla fine fu costretto a cedere. Lasciò la radio nelle mie mani ed io la strinsi subito tra le dita, come se fosse un appiglio della massima importanza in quel momento. Non avevo un discorso pronto né intendevo prepararne uno: avrei detto a Murphy quanto serviva a salvare Jasper. O almeno così speravo.
Bellamy non accennò a lasciarmi sola e nonostante tutto lo apprezzai, sebbene il suo sguardo scuro su di me che prendevo respiri profondi prima di “andare in azione” mi stesse innervosendo e non poco.
“Murphy”, soffiai infine, già stanca come se stessi parlando da ore.
Lasciai andare il walkie-talkie al rallentatore, preda di emozioni contrastanti che mai avrei creduto di poter provare. Da una parte desideravo non ascoltare mai più la voce di Murphy, dall’altra volevo che mi parlasse immediatamente e mettesse fine a quel supplizio.
“Ehi, Ginger!”, lo sentii trillare all’improvviso, e al suo tono leggero – parlava come se nulla fosse – non potei far altro che sobbalzare vistosamente. “Sono un po’ occupato, al momento. Ci sentiamo più tardi”.
Occupato. Era occupato. A tentare di uccidere Jasper.
Trattenni un singhiozzo con non so quanti sforzi.
“Murphy, ascoltami”, ordinai, la voce che mi si spezzava nonostante quanto mi impegnassi per mostrarmi poco colpita da tutto quell’orrore. “Cosa diavolo stai facendo?”.
Dall’altro capo della linea mi giunse una risatina divertita.
“Non è ovvio? Sto facendo giustizia”.
Giustizia?”. Sgranai gli occhi, incredula. Non... Non poteva essere.
“Non dirmi che ancora non ci sei arrivata”.
Avrei voluto che fosse così. Invece, sotto lo sguardo vagamente confuso di Bellamy, liberai un sospiro sconfitto e premetti di nuovo il pulsante.
“Cosa aveva fatto Myles di male?”.
“Oltre a legare il cappio col quale mi hanno impiccato, intendi? Immagino nulla”.
Serrai gli occhi all’improvviso, una tremenda ondata di bile che subito mi risaliva alla gola. Deglutii a fondo, stringendo il walkie-talkie tra le dita così forte da credere che l’avrei rotto. Scacciai dalla mia mente le dolorose immagini di quella giornata: dovevo pensare al presente, senza rimuginare su un passato che ancora – proprio come Murphy, a quanto pareva – non ero riuscita a superare, per quanto provassi a convincermi del contrario.
“Dimmi che non è vero, Murphy”, quasi implorai, riaprendo gli occhi su uno scenario immutato.
La navicella aveva ancora il portellone serrato, e dall’altra parte del muro Jasper stava – probabilmente – già soffrendo le pene dell’Inferno. Mi morsi un labbro a sangue, spaventata a morte dalla mia impotenza totale.
“Non puoi essere serio”, continuai dopo un po’, la voce che mi si spezzava ancora e gli occhi colmi di lacrime.
“Non immagini nemmeno quanto sono serio, Ginger”.
L’ennesima pugnalata. L’ennesima ferita. Mai come allora avevo sofferto tanto. John Murphy mi stava distruggendo. Ma non gli avrei permesso di averla vinta, avrei continuato a rialzarmi finché non avesse cambiato idea. Dovevo farlo ragionare. O perlomeno provarci.
“La tua non è giustizia. Non puoi… Non puoi andartene in giro ad uccidere gente!”.
“Certo che è giustizia. Loro volevano uccidere me. Io sto semplicemente ricambiando il favore. Ho già ucciso Connor, e ora anche Myles è fuori dai giochi. Immagino di poter eliminare dalla lista anche Charlotte e Clarke–”.
Lo interruppi prima che potesse continuare, premendo le dita sul pulsante malridotto alla velocità della luce. Di nuovo chiusi gli occhi di scatto mentre sentivo il fiotto di bile risalirmi in gola. Quella volta non sarei riuscita a mandarlo giù. Il disgusto che provavo era davvero troppo perché potessi digerirlo di nuovo.
“Dalla lista?”, dovetti chiedergli però, masochista come pochi. O forse semplicemente illusa. Ancora speravo fosse tutto uno scherzo. Magari avevo solo frainteso. Magari…
“Oh, sì. Ne ho stilata una, sai? C’è sopra anche il nome di Bellamy. Scommetto che è lì vicino a te”.
Il singhiozzo che liberai abbandonò le mie labbra in una maniera molto più violenta di quanto mi sarei mai aspettata. Non riuscii proprio a nasconderlo. E nemmeno ci provai, sinceramente. A che pro fingersi ancora forti e invincibili? John Murphy, il ragazzo che credevo un amico… Lui aveva ucciso due dei nostri compagni. E non si sarebbe fermato lì. No. Le sue mani erano macchiate di sangue. E con quelle mani aveva toccato me, come se niente fosse. Come se…
Prima che potessi crollare – e quella volta sul serio – Bellamy mi si avvicinò, tentando inutilmente di togliermi il walkie-talkie di mano. Avrebbe voluto intervenire, sentendosi chiamato in causa, ma io avevo bisogno di un altro po’ di tempo prima di mollare.
Mi fai schifo”, soffiai semplicemente, incapace di dire cosa più vera di quella.
“E dai, Ginger. L’abbiamo già avuta questa scena. Non fare la santarellina con me. Tu stessa avresti voluto uccidere Charlotte. Me l’hai confessato, ricordi?”.
Sobbalzai nuovamente al suono di quelle parole, cercando subito gli occhi di Bellamy anche se ero terrorizzata all’idea di ciò che avrei potuto trovarci. Mi sentivo all’improvviso colpevole, e lo sguardo inespressivo del ragazzo che ancora mi stava al fianco non mi aiutò per nulla.
“Ero in preda alla rabbia”, dissi, parlando sia a Murphy che a Bellamy, dato che non avevo ancora osato interrompere il nostro contatto visivo.
“E credi che io non sia arrabbiato? Cazzo, se sono arrabbiato”.
“No, tu sei fuori di testa”, lo corressi, sentendo – finalmente – qualcosa di molto simile ad una rabbia cieca prendere a montarmi dentro. Non poteva giustificarsi così, non con me. “Lascia andare Jasper o giuro che…”.
Quella volta fui io ad essere interrotta.
“Che cosa?”, ridacchiò Murphy, un’aria divertita nella voce che mi disgustò ancor di più. “Cosa potresti mai fare?”.
Nulla.
Lo realizzai immediatamente, ma evitai di dirglielo. Non avrebbe avuto ancora altre soddisfazioni.
“Questo non è ciò che sei”.
“Ti sbagli, Ginger. Questo è esattamente ciò che sono”.
 
How long have we been spinning out of control?
You lose yourself to a dream.
And then one day you can’t tell where the dream ends and real life begins.
But either way you know: it’s going to end.
 
“Murphy, so che puoi sentirmi. Tutto il cibo che abbiamo e le munizioni sono nella navicella: lo sai. Così siamo vulnerabili di fronte ad un possibile attacco. Ed io non posso permetterlo”.
Ritornai pienamente cosciente solo di fronte a quelle parole improvvise, che abbandonarono le labbra di Bellamy proprio nel momento in cui me le aspettavo di meno. Dopo il mio fallimento piuttosto scontato – sebbene mi fosse piaciuto fino all’ultimo illudermi all’idea di avere almeno un po’ di potere su John Murphy – non avevo potuto far altro che chiudermi in un mutismo esagerato, guardando cosa mi succedeva intorno senza vederlo davvero. Octavia Blake era tornata da chissà dove solo pochi minuti prima, prendendo ad inveire contro tutto e tutti come compresi avrei dovuto fare io, ma anche lei si era persa nel mio stato di trance, proprio come tutto il resto. Tranne che per Bellamy, il quale si stava rivolgendo di nuovo a Murphy.
“Nel caso non l’avessi notato, non sei proprio nella posizione di dare ordini”, lo sentii dire dopo un po’, il solito tono astioso e piccato che raramente gli avevo sentito utilizzare – soprattutto con me.
Ma quello non era più il Murphy che avevo conosciuto, o che comunque avevo creduto di conoscere. Solo che rendersene conto era ancora troppo difficile perché potessi riuscirci.
“Andiamo, Murphy. Non vuoi fare del male a Jasper: vuoi fare del male a me. Quindi che ne dici di uno scambio?”.
Non appena sentii quell’ultima spaventosa parola, non potei far altro che sgranare gli occhi sulla figura all’apparenza tranquilla di Bellamy. Quando l’avevo sentito richiamare l’attenzione di Murphy, non avevo idea di dove volesse andare a parare, ma a partire da quel momento cominciarono a profilarsi nella mia mente gli scenari più nefasti – sapevo benissimo e all’improvviso cosa avesse Bellamy in mente, e sapevo che sarebbe finita male. Non potei far altro che continuare ad ascoltare la loro conversazione, comunque, ancora totalmente impotente mentre Octavia sussultava e cercava di dissuadere inutilmente il fratello.
“Dovrai soltanto lasciare andare Jasper ed io prenderò il suo posto”, propose a Murphy, che prima di rispondere ponderò bene l’entità di quella offerta, come mi suggerì l’intenso silenzio che calò.
“Come?”.
Prima che Bellamy potesse rispondergli, Octavia gli si parò contro, cercando di farlo desistere. Ancora una volta sentii che avrei dovuto fare come lei, ma ne ero totalmente incapace.
“Se lo fai davvero, Murphy ti ucciderà”, mormorò la piccola Blake, e in quelle parole c’era così tanta verità che all’improvviso sussultai.
“Se non lo faccio, ucciderà Jasper”.
L’ennesima stoccata, un altro sobbalzo. Avevano ragione entrambi. Uno tra Jasper o Bellamy rischiava di morire. E c’era solo una cosa che potessi fare a quel punto.
“Non se lo uccido io per prima”, mormorai di colpo, muovendo un passo deciso nella direzione dei fratelli Blake.
Nonostante tutto, la voce non mi tremò nemmeno per un attimo e suonai alle mie orecchie decisa tanto quanto dovetti sembrare a loro. O perlomeno ad Octavia, la quale mi riservò un’occhiata terrorizzata delle sue. Bellamy invece non parve granché colpito dalla mia presa di posizione – non credeva che avrei ucciso Murphy? Non era convinto del fatto che ne fossi capace? – perché ci ignorò totalmente e riprese a parlare con John.
“È semplice, Murphy. Tu apri la porta, io entro, lui esce”.
Calò nuovamente il silenzio, uno ancora più pesante di quelli che l’avevano preceduto. Infine comunque, per quanto stentassi a crederci, l’imponente portellone della navicella cominciò ad aprirsi di fronte ai nostri occhi sbarrati e ci fu poco che potessi fare per convincermi del fatto che tutto quello stesse succedendo sul serio. Non riuscivo ad accettarlo.
Mentre sentivo Murphy che dall’interno urlava a Bellamy di entrare solo e disarmato, avvertii l’improvviso bisogno di catapultarmi lì. Non avevo armi né idea di cosa avrei fatto: sapevo solo di voler entrare a tutti i costi in quella navicella, volevo guardare John Murphy in viso ancora un’ultima volta e sentire cosa mi avrebbe provocato quella situazione. Volevo avvicinarmi a lui anche se sapevo che sarebbe stato capace di uccidermi.
Ma Octavia mi fermò subito, stringendomi un braccio tra le dita mentre mi chiedeva se non fossi impazzita in un borbottio agitato. Per salvare me dovette lasciare andare Bellamy, che sparì dietro il tendone della navicella, lasciandosi dietro un Jasper sconvolto. Octavia gli corse subito in contro, mentre l’immenso portellone si chiudeva di nuovo di fronte a noi ed era libera di lasciarmi in pace perché sapeva che non avrei avuto più occasione di entrare lì dentro.
Ancora una volta mi richiusi in un lungo mutismo, valutando attentamente – per quanto potessi esserlo in quel momento, dato che mi sentivo ancora piuttosto scossa – le possibilità che mi si paravano di fronte. Era vero: avevo perso la mia occasione per affrontare Murphy vis à vis, ma potevo ancora farlo fuori come avevo annunciato solo poco tempo prima ai fratelli Blake. Mi bastava solo raggiungere Raven.
Feci per muovermi non appena realizzai quella cosa. Non ero ancora del tutto consapevole di ciò a cui i miei gesti avrebbero portato sul serio, sapevo solo di dover fare ciò che andava fatto. Ma quando vidi Jasper anticipare i miei movimenti, qualsiasi pensiero venne spazzato via dalla mia mente e presi a fissarlo con le sopracciglia aggrottate finché non riuscii a fermare la sua camminata.
“Dove stai andando?”, gli chiesi, confusa e non poco.
Fino a due secondi prima annaspava e sembrava in punto di morte: cosa gli era preso?
“Mi sembra ovvio. C’è un bastardo da fare fuori”.
No”. Quella parola mi venne fuori in un soffio che Jasper subito fraintese. “Devo farlo io”.
Ma non ero convinta, non lo ero mai stata – e come avrei potuto? – e Jasper lo capì subito, tanto che mi salutò con un sorriso amaro prima di andar via, non dopo però di avermi riservato la stoccata finale.
“Sappiamo entrambi che non ne saresti mai capace”.
L’amore è un gioco, no? Ed io ne ero appena uscita sconfitta.
 
 
Bellamy continuò a seguire gli ordini di Murphy, incapace di fare altro con quest’ultimo che gli puntava il fucile contro in ogni momento ed era più che pronto a sparare colpi minacciosi a destra e a manca. Non riusciva a credere che tutto quello stesse succedendo sul serio, gli sembrava incredibile. Ma era la realtà: una realtà dalla quale non poteva scappare. Non finché Raven non avesse trovato una soluzione.
“Cosa vuoi che ti dica, Murphy? Vuoi che mi scusi? Mi dispiace”.
E a Bellamy dispiaceva davvero, nonostante il tono all’apparenza derisorio col quale pronunciò quelle ultime due parole. Era dispiaciuto anche se sapeva di sbagliare, ma aveva riconosciuto i suoi errori ed era pronto ad ammetterlo.
“Non hai capito niente, Bellamy”, mormorò Murphy allora, ridacchiando sul finale con un’improvvisa aria divertita che sconvolse Bellamy ancor di più. “Non voglio che tu dica nulla: voglio che tu senta ciò che ho sentito io, e poi… E poi voglio che tu muoia”.
Se l’aspettava, Bellamy, ecco perché non sobbalzò di fronte a quelle parole. Semplicemente continuò a fare ciò che gli diceva Murphy – annoda il cappio, sali sullo sgabello, stringi il cappio attorno al collo – mentre pregava a bassa voce che Raven si desse una mossa e che qualcuno arrivasse ad aiutarlo. Aveva bisogno di aiuto, Bellamy, per quanto difficile da ammettere fosse.
“Tutto questo è assurdo”, si lamentò, dall’alto dello sgabello sul quale Murphy l’aveva costretto.
Ma le sue parole vennero interrotte sul nascere.
“Mettiti il cappio attorno al collo”, ordinò Murphy, puntandogli ancora il fucile contro.
A quell’ordine Bellamy non aveva ancora ubbidito, ma a quel punto non poté più scappare. Infilò la testa nel misero cerchio di stoffa rossa, sentendosi già soffocare. Era tutto così orribile che stentava quasi a crederci.
“Contento, adesso?”, chiese a Murphy, fingendo strafottenza.
Quest’ultimo gli riservò una lunga occhiata dal basso, accompagnata da un sorriso divertito che si accentuò ancor di più quando tirando verso di sé la corda che già premeva contro la gola di Bellamy, lo vide annaspare alla ricerca d’aria.
Adesso sì che sono contento, pensò, non accennando a voler allentare la stretta mentre si godeva quella visione paradisiaca. Bellamy stava soffrendo, e John avrebbe fatto di tutto perché quella tortura durasse il più a lungo possibile. Erano solo all’inizio.
“Sei così coraggioso, Bellamy. Voglio dire: sei venuto qui dentro convinto di poter ribaltare la situazione, credendo di essere più forte di me oppure che qualcuno dei tuoi amici sarebbe corso ad aiutarti. Be’… Adesso cosa pensi, Bellamy?”.
Nessuno l’avrebbe aiutato, non quella volta. Murphy lo sapeva e, ancor più soddisfatto, tirò la corda un po’ di più, aumentando il dolore e la sofferenza di Bellamy, che provava a dimenarsi senza buoni risultati. Ed era all’improvviso incapace di dare aria alla bocca.
Prima di riprendere a parlare, Murphy si godette a lungo quel silenzio quasi magico.
“Sai, devo ammetterlo. Li hai ingannati tutti. Ti rispettano quasi quanto rispettano Clarke”. Lo vide chiaramente sussultare a quel nome, e se ne compiacque ancor di più. “Ma noi due sappiamo la verità, no? Sei un codardo, Bellamy. L’ho imparato il giorno in cui hai tolto lo sgabello da sotto i miei piedi. Ma d’altronde stavi solo dando alla gente quello che voleva, no?”.
Così aveva detto. Così si era giustificato. Codardo come pochi.
“Avrei dovuto fermarli”. Non cambiava mai.
Murphy soffocò una risata amara, poi ritornò a cercare gli occhi di Bellamy.
“Ora è un po’ tardi per questo”, mormorò.
“Non capisco cosa credi di fare. Sei convinto del fatto che dopo avermi ucciso, gli altri ti faranno uscire da qui come se niente fosse?”.
Murphy scrollò le spalle, le mani ancora strette sulla cintura rossa.
“Io credo che la principessa sia morta”. Un altro sussulto da parte di Bellamy. La verità fa male. “E so per certo che il re sta per morire. Quindi chi guiderà queste persone se non me?”.
Inaspettatamente, quella volta fu Bellamy a dover soffocare una risatina divertita. Murphy lo fissò a lungo nell’attesa di sapere cosa lo facesse tanto ridere, indispettendosi sempre più ad ogni secondo di silenzio che passava.
“Sei solo un povero illuso se credi che si faranno guidare da te”, annunciò Bellamy infine, fingendo una sicurezza che già non gli apparteneva più da diverso tempo. “Nel momento in cui metterai piede fuori di qui, i delinquenti ti uccideranno. Brayden per prima”.
Quella volta toccò a Murphy sussultare. Lo fece al suono di quel nome, al ricordo della ragazza che… aveva distrutto totalmente. Aveva distrutto tutto.
“Non lo farebbe mai”, si risolse a dire infine, riappropriandosi della cintura che nel frattempo – per la troppa sorpresa – gli era sfuggita di mano.
Punì Bellamy, perché aveva fatto il suo nome – il re non era l’unico ad avere una debolezza, per quanto la sua fosse molto meno evidente – e perché aveva tentato di scappare, perché l’aveva quasi fatto uccidere… Lo punì tirando la corda sempre più, finché non lo vide annaspare disperatamente alla ricerca d’aria e non si sentì quasi pienamente soddisfatto.
“È troppo pura”, continuò a spiegare poi, ad un Bellamy che credeva nemmeno l’avesse sentito.
Ma Bellamy non si era perso una parola di quel discorso, e non appena Murphy chiuse bocca riportò gli occhi nei suoi, riscoprendoli sorprendentemente lucidi. Parlò col respiro corto e facendo fatica, ma non stette zitto. Al contrario, snocciolò una delle più grandi verità di sempre.
“Tu la sottovaluti. E non la meriti”.
Quella volta Murphy non replicò. Perché, sorprendentemente, lui e Bellamy Blake erano di nuovo d’accordo su qualcosa.
 
Why do I wish I never played?
Oh, what a mess we made.
And now the final frame:
love is a losing game.



 

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Note
Sono così sfinita da non essere nemmeno in grado di fare un Angolo autrice decente, quindi soffritemi gli eventuali deliri. 
Niente, scrivere questo capitolo non è stato semplice. Scrivere questa storia non è stato semplice. Muffin è il mio personaggio preferito (ormai lo sapete) e guardando la serie non mi sono trovata in disaccordo con lui MAI. Ho sempre appoggiato le sue azioni, ho sempre appoggiato lui. Non sono mai riuscita a dargli contro, perché per l'appunto è il mio preferito e perché non riesco quindi ad essere obiettiva (e poi, diciamocelo, i Cento l'hanno trattato da cani ed io sono per "occhio per occhio, dente per dente").
Detto questo. Io sono io, ma Brayden non è me. Io sono riuscita a perdonare di tutto a Murphy (e continuerò a perdonargli di tutto) e ho gioito della sua "redenzione" perché sapevo che ci fosse molto buono, dentro il mio bimbo... Ma per Brayden è diverso. Lei stava cominciando a provare qualcosa di forte per John, si fidava di lui e credeva sul serio che potesse essere cambiato, che avesse messo una pietra sopra al dolore e perdonato i suoi "amici". Credeva che si fosse risolto tutto e che da lì in poi avrebbero ripreso semplicemente a vivere insieme, non felici ma perlomeno l'uno al fianco dell'altra. Ma era tutto un sogno, e i sogni prima o poi finiscono così come le fanfiction senza capo né coda. Quindi no, non credo di aver toppato con questo finale, anche se immagino che molte di voi non lo condivideranno. Il fatto è che conosco Brayden e conosco il suo dolore (l'ho provato insieme a lei mentre scrivevo) e so che la sua delusione, almeno per ora, è così tanta che per lei pensare ad un happy ending con Murphy ora è impossibile. L'happy ending non sempre c'è. E per ora, non credo ne avrete un assaggio. Sarebbe così nonsense che il solo pensiero mi fa arricciare il naso.
Poi però chissà, c'è sempre l'epilogo...




 

Alla prossima. E grazie.

   
 
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