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Autore: Nina Ninetta    31/07/2015    3 recensioni
Yumiko ed Eri, due donne, una trentenne e una quindicenne, una madre e una figlia, catapultate dall’altra parte del Mondo, costrette a ricominciare tutto d’accapo, a confrontarsi con una cultura completamente diversa, lontane anni luce dal loro Paese d’origine: il Giappone. Ma Yumiko quel nuovo Paese lo conosce già in un certo senso, ha imparato a conoscerlo attraverso i racconti del padre di Eri.
N.B. Il titolo è tratto dalla canzone di Malika Ayane “E se poi” così come i titoli di ogni capitolo saranno presi da frasi del medesimo testo.
Genere: Generale, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 12
Tremare come foglie


 
Ricardo Salas uscì dall’ufficio infuriato come una belva, percorse a grandi passi il corridoio del night club, stringendo il foglio che gli aveva mostrato Antonio (con un ghigno di compiacimento). L’avrebbe preso volentieri a pugni, se ne avesse avuto il tempo, se non urgesse correre a chiedere spiegazioni per una cazzata simile. Poteva fregarsene, certo, niente gli impediva di lasciar correre, ma non ci riusciva, era più forte di lui. Aveva trascorso le ultime due settimane a fingere che non provasse niente per quella ragazza giunta da lontano con gli occhi a mandorla. Dopo il loro ultimo approccio, quando lo aveva respinto davanti all’entrata degli spogliatoi femminili, i tentativi di riprendere un rapporto più o meno amichevole erano stati vani. All’inizio le sfiorava le dita con le proprie quando gli porgeva il bicchierino di liquore, facendo sembrare quei tocchi involontari e casuali. Yumiko allora si imbarazzava e si chiudeva a riccio, rispondendo a monosillabi – spesso in giapponese – alle domande che le rivolgeva. Era dunque passato all’attacco con complimenti e inviti che travestiva da semplici programmi fra amici. Una sera era arrivato addirittura a chiederle se le piacesse la cucina italiana, lei aveva risposto che non l’aveva mai provata e lui ne aveva approfittato per proporle di andarci insieme qualche volta, conosceva un ristorantino niente male. Yumiko non si era neanche degnata di rispondergli, si era voltata di spalle e aveva ripreso il suo lavoro.
La notizia che aveva appena appreso però gli pareva una cosa prettamente personale, una specie di soluzione vigliacca alla situazione ingarbugliata che si era creata fra loro. Che affronti la realtà, si disse mentre camminava fumando dalle narici come un toro imbestialito, che abbia il coraggio di guardarmi in faccia mentre mi spiega i motivi di questa scelta, che mi dica di non provare niente per me!
 
Ricardo non poteva sapere che la causa determinante della scelta di Yumiko si era scatenata solo la sera precedente, quando aveva temuto che il mondo perfetto - costruito per proteggere sua figlia Eri dalla verità che sua madre era la barista di un night club - rischiava di crollare come un castello di sabbia.
Il venerdì era il suo giorno libero e avrebbe dovuto trascorrerlo con Eri, ma questa le aveva inviato un messaggio per informarla che sarebbe rimasta a scuola a seguire il corso di spagnolo anche quel pomeriggio e di non preoccuparsi, sarebbe tornata a casa prima di cena. Un po’ Yumiko iniziava a insospettirsi, oramai quel corso di spagnolo era diventato un impegno quotidiano e non più solo sporadiche lezioni di recupero, tanto che lei e sua figlia non riuscivano a farsi quelle lunghe chiacchierate di una volta, va bene che stava crescendo e aveva bisogno dei suoi spazi, ma cominciava a sentirne la mancanza. Per la prima volta da quando si era trasferita lì, Yumiko provò l’orribile sensazione della solitudine e l’assenza di un’amica con la quale sfogarsi e raccontarle tutte le paure che la stavano mandando di matto in quell’ultimo periodo. Ogni pomeriggio era diventato una specie di purgatorio, dalle quattordici in poi non faceva che guardare l’orologio e contare i minuti che la speravano dal momento in cui si sarebbe recata a lavoro e avrebbe incontrato il suo datore, fantasticando su quello che sarebbe potuto accadere. Senza rendersene conto si ritrovava a siglare dei patti, con chi poi non lo sapeva, forse con il suo dio, o forse il dio di qualcun altro, fatto sta che mentre faceva le pulizie di casa diceva fra sé:
«Se riesco a fare centro, Ricardo stasera mi sorriderà» così raccoglieva il cartone del latte, lo accartocciava e provava a fare canestro nel secchio della spazzatura. Qualora ci riuscisse esultava anche, poi comprendeva ciò che stava facendo e se ne vergognava come una ladruncola. Il problema era che ci azzeccava sempre, anche se non faceva centro, giacché lui sembrava avere un nuovo scopo nella sua vita, e cioè quello di farla uscire di senno - come se non ci fosse già riuscito. Yumiko lo beccava spesso ad osservarla da lontano e la cosa che più la scombussolava non era quando le sorrideva, ma quando al contrario non lo faceva, ostinandosi a fissarla con intensità, senza distogliere lo sguardo dal proprio, intanto che lei avvampava e non riusciva più neanche a distinguere il rum dal whiskey. Per non parlare delle volte che per sbaglio le sfiorava le dita con le sue – o volutamente, ma questo Yumiko non l’avrebbe mai ammesso, nonostante quella vocina fastidiosa dentro di lei l’avesse insinuato più di una volta. Poi da una sera all’altra le aveva proposto di andare a mangiare in sette ristoranti diversi, spaziando dalla cucina italiana a quella tailandese. Inviti che lei aveva gentilmente ma fermamente rifiutato. Con tutta onestà non capiva perché il suo superiore continuasse a darle corda, la solita fastidiosa vocina una o due idee se l’era fatta e gliele aveva avanzate, ma Yumiko non ci credeva: non poteva piacergli. Molto più credibile era l’ipotesi che fosse una sorta di capriccio, l’ennesima donna da conquistare, sedurre e abbandonare. Forse era solo curioso di vedere come era fatta una giapponese e, pensò Yumiko, sarebbe rimasto alquanto deluso, poiché era esattamente come tutte le altre.
 
È inutile dire che i pomeriggi in cui Eri aveva mentito a sua madre li aveva trascorsi con il suo fidanzato Kingsley Rodriguez. La prima volta che lui le aveva chiesto di essere la sua ragazza – ed era capitato praticamente subito – era diventata tutta rossa e non riuscendo a controllare le emozioni era scoppiata a piangere, saltandogli al collo, baciandolo su tutto il viso e bagnandolo con le sue stesse lacrime. Kingsley l’aveva presa in braccio girando su sé stesso: una vera favola. Improvvisamente la filosofia secondo cui l’amore è portatore di dolore, che aveva visto in tante serie televisive e film al cinema, le sembrava una scemenza atta a rattristare la gente e allontanarla dalla felicità, perché lei era perennemente contenta, giorno e notte. Anzi, più di giorno che di notte dato che poteva stare con il suo amato. Questi sembrava dipendere completamente da lei e dall’aria che respirava, non che per la sedicenne orientale fosse diverso, ma Rodriguez sembrava proprio soffrire fisicamente quando doveva separarsi da Eri e tornare a casa.
Quel venerdì pomeriggio si erano rifugiati sul tetto della scuola, trasformatosi improvvisamente nel loro mondo perfetto, dove non avevano pensieri e il futuro appariva facile e felice. Di venerdì il luogo era spesso vuoto e se questa cosa metteva un pizzico d’ansia a Eri, Kingsley al contrario ne era contento. Proprio quella mattina suo padre era andato a buttarlo giù dal letto alle prime luci dell’alba, intimandogli di vestirsi e mettere due panni in valigia, dovevano tornare fra i poveracci, gente comune, operai che stavano scioperando da giorni e il Governo non poteva permettersi l’ennesimo ritardo nella consegna delle merci. Questa volta però il ragazzo aveva interrotto il monologo dell’uomo con un secco no! Il ministro l’aveva guardato con stupore che presto si era trasformato in odio e, afferrandogli i riccioli sulla testa, gli aveva tirato indietro il capo, costringendolo a guardarlo in faccia. Gli aveva parlato a pochi, pochissimi centimetri di distanza:
«Ti rendi conto che sei una nullità? Una cacchina nel bel mezzo della merda?»
«Dirò…» Kingsley aveva ingoiato la saliva, la gola secca «… dirò alla merda che frequenti quello che ho visto.» L’uomo lasciò la presa e indietreggiò. Non credeva veramente che quel pidocchio dalla R moscia avesse avuto il coraggio di farlo, ma aveva abbastanza anni alle spalle da sapere che la disperazione e la rabbia infondono un coraggio inaspettato nell’essere umano. Solo così Kingsley era riuscito a salvarsi dall’intraprendere il viaggio in compagnia di suo padre e non aveva alcuna intenzione di perdere altro tempo lontano da Eri, l’unica ancora di salvezza in quel Paese che iniziava a detestare seriamente. Lei era la sola a comprendere le sue ansie e i suoi timori di forestiero, l’unica a non giudicarlo per il colore della pelle o per l’accento aristocratico, e a trovare simpatica la sua treccina colorata. Nascosti sul tetto della scuola, dietro l’angolo a destra dove c’erano i motori dei termosifoni, i due ragazzi persero la cognizione del tempo nel bacio più lungo e passionale che si erano scambiati fino a quel momento. La ragazza teneva la schiena schiacciata al muro, un braccio avvinghiato al collo di lui, una mano saliva e scendeva dall’incavo del collo fino al petto, la treccia le solleticava il dorso. A prima vista Kingsley sembrava un adolescente magrolino con troppi riccioli sulla testa e le labbra carnose, ma quel pomeriggio Eri dovette ricredersi: oltre il sottile tessuto della T-shirt era fin troppo facile sentire i muscoli del suo corpo e la qual cosa la spaventava e insieme eccitava. Non aveva mai toccato un ragazzo, si era sempre chiesta se avesse provato vergogna o addirittura ribrezzo nel farlo, invece non ebbe neanche tempo di pensare, le cose si stavano evolvendo da sole e con estrema velocità. Il ragazzo dal canto suo teneva le braccia contro il muro, alte ai lati del viso di Eri, il corpo premuto contro quello di lei. Non era così semplice per lui, come al contrario per la ragazza, non poteva assolutamente permettersi di perdere del tutto il controllo del suo corpo e della mente o solo Dio sa cosa sarebbe successo. Si sforzava di tenere le braccia contro le pareti bianche per non permettere alle mani di correre dove invece desideravano, poi lei aveva cominciato a sfiorargli la base del collo e a scendere un po’ più giù, soffermandosi a giocare con la treccina, allora l’autocontrollo era andato a farsi benedire. I palmi delle mani erano scivolati sui fianchi stretti della giapponesina, erano risaliti fino all’altezza dei reni e con una maestria che non sapeva di possedere, si erano infilate al di sotto del maglioncino di filo. Il contatto con la carne nuda della pancia lo aveva mandato ancor di più in estasi, tuttavia Eri aveva spalancato gli occhi avvertendo le mani di lui gelate contro la sua pelle calda. Con molta premura l’aveva allontanato, rossa come un peperone. Erano rimasti in assoluto silenzio per diversi minuti, entrambi imbarazzati e senza nulla da dirsi, poi lei gli aveva posato le dita sul braccio e tutta felice gli aveva chiesto:
«Ti piacciono i gelati? Conosco un posto che è la fine del mondo!»
Così l’aveva trascinato nella gelateria che le aveva fatto conoscere Ricardo Salas, quando erano andati in giro per Madrid tutti e tre insieme – lei, lui e okaasan. A proposito, pensò entrando all’ombra del bar, non aveva più avuto notizie di lui, avrebbe dovuto chiedere a Yumiko come stavano procedendo le cose fra loro. Era immersa in questi pensieri quando aveva intravisto Ricardo accomodato ad uno dei tavolini del locale. Si erano salutati manco fossero stati amici di vecchia data, quindi lui aveva volto l’attenzione su Kingsley e d'istinto Eri aveva tirato via la mano da dentro quella del suo fidanzato, imbarazzata, temendo che avesse potuto dirlo a sua mamma. Li aveva presentati, senza specificare cosa o chi rappresentassero per lei l’uno all’altro, ma Salas le aveva promesso che non avrebbe spifferato nulla a “sua sorella”. Eri aveva ringraziato sollevata e Kingsley l’aveva guardata stralunato, successivamente le avrebbe fatto notare che non aveva mai accennato ad una sorella.
A quel punto si era avvicinato l’uomo più bello che Eri avesse mai visto. Era alto e ben piazzato, i capelli scuri erano pettinati all’indietro, ma un ciuffo si ostinava a ricadergli al lato della fronte, nonostante lo tirasse sempre via; la pelle sembrava levigata, quasi fosse stata ritoccata con Photoshop, gli occhi erano scuri e le ciglia tremendamente folte. Alla ragazza ricordò vagamente quell’attore spagnolo di cui aveva visto decine di film, le pareva si chiamasse Antonio qualcosa. Bandieras? No, forse era Banderas. Tuttavia, quando Ricardo gliel'aveva presentato, le era caduto il mondo addosso: si capiva lontano un miglio che era omosessuale.
«Lei è la sorella di Yumiko» aveva specificato Salas e Oscar le aveva stretto la mano, senza ulteriore accenni. Eri, ripresasi dallo shock, avrebbe voluto chiedere come facesse a conoscere “sua sorella”, ma Kingsley l'aveva afferrata per il braccio e intimato di uscire immediatamente. Qualche metro più in là Rodriguez aveva vomitato bile e saliva.
 
Quella sera la ragazzina era rientrata a casa con l’umore sotto le suole delle scarpe. A nulla erano serviti i manicaretti preparati da sua madre per tirarla su di morale. Quello che le aveva raccontato Kingsley - inerente alla scena a cui aveva assistito in biblioteca, fra suo padre adottivo e l’uomo che quel pomeriggio era in compagnia di Ricardo Salas - aveva del surreale. Mescolando senza troppo interesse il cibo nel piatto davanti a sé, Eri aveva chiesto a Yumiko chi fosse Oscar. Era stato in quel preciso istante che la donna aveva deciso di licenziarsi.
 
Ricardo aprì la porta degli spogliatoi femminili con irruenza, senza preoccuparsi di bussare o di annunciarsi. C’erano ancora diverse ragazze all’interno, qualcuna con addosso solo un asciugamano, qualcun'altra in biancheria intima. I suoi occhietti scuri corsero sui volti di queste, fino a soffermarsi su ciò che cercavano, ovvero Yumiko Okada. Neanche si stupì di vedere al suo canto la drag queen. Ricardo fece un passo in avanti e senza distogliere gli occhi da quelli a mandorla della ragazza esclamò:
«Fuori tutte!» Accompagnando l’esclamazione con un gesto della mano che teneva stretto il foglio bianco. Sommessamente le ragazze uscirono in punta di piedi, portando con sé vestiti e scarpe. Anche Yumiko accennò a lasciare la stanza, chinando la testa e con il cuore impazzito, ma lo spagnolo le sbarrò la strada con un braccio, battendo la mano contro uno degli armadietti di ferro, l’unico suono che scosse l’atmosfera e fece sobbalzare la donna asiatica. Oscar gli si accostò, Salas non aveva smesso per un solo istante di guardare il capo di Yumiko, la quale continuava a tenere la testa bassa:
«Ricardo, per piacere, non essere infantile»
«Fuori» fu la sola risposta che gli diede
«Ricardo, dico davvero, non»
«Oscar» finalmente Salas lo guardò «Ho detto fuori!»
All’amico non rimase che uscire e chiudersi la porta alle spalle. Solo allora Yumiko alzò i suoi occhietti scuri che spiccavano al di sotto della frangia per lanciare una sguardo furtivo ad Oscar.
Già, Oscar, la famosa goccia che aveva fatto traboccare il vaso, seppur non intenzionalmente. Era stato il primo – e forse l’unico – collega con cui aveva instaurato un rapporto che andava oltre a quello lavorativo. Erano amici? Difficile a dirsi, ma una cosa era sicura: non era trascorsa sera che non avessero chiacchierato e, perché no, riso insieme. Prima dell’arrivo di Salas – che si era fiondato nella sua vita come un uragano, sconvolgendone la quiete – avevano anche fumato decine di sigarette insieme e alla fine Yumiko gli aveva confessato la storia della propria vita. In quell’istante, vedendo con quanta ira Ricardo si era scaraventato nello spogliatoio, cacciando via tutti, fu certa che la drag queen gli avesse raccontato che Eri in realtà non era la sua sorellina, ma sua figlia.
In fondo la ragazzina gliel’aveva chiesto solo la sera precedente:
«Chi è Oscar?» 
Yumiko era rimasta con il cucchiaio a mezz’aria. Bella domanda con una risposta difficile da dare, soprattutto perché non sapeva quanto conoscesse sua figlia di quella storia. Allora era rimasta sul vago, rispondendo alla domanda con un’altra domanda:
«L’hai conosciuto?» Eri aveva fatto spallucce e sua mamma aveva continuato a tempestarla di domande: “Dove l’hai visto? Con chi era? E in particolare, con chi eri tu?”
Allorché la ragazzina si era infastidita, sbottando che le sembrava di essere ad un interrogatorio di terzo grado, non aveva mica ucciso qualcuno, quindi si era alzata dalla sedia annunciando che non aveva più fame. Il piatto era rimasto praticamente intatto.
La donna giapponese aveva fumato il più alto numero di sigarette come mai prima, non era arrivata a toccare l’intero pacchetto da dieci, ma ci era andata vicina. Quando stava per accendersi l’ennesima cicca e aveva notato che ne rimanevano solo tre aveva desistito e si era messa davanti alla tv. Un talent show andava in onda senza che lei lo guardasse sul serio, la sua mente correva a 300 chilometri orari, frenando di colpo quando giunse all’unica soluzione possibile per salvare il salvabile, non solo con sua figlia, ma anche con lo stesso Ricardo Salas: licenziarsi.
Oscar le lanciò un’occhiata di sottecchi prima di lasciare gli spogliatoi, senza sorriderle e con un’espressione grave sul viso. Yumiko annuì con la testa, come a voler dire “stai tranquillo, va tutto bene” . La drag queen, con le sue piume sfavillanti e il vestito di paillettes, uscì di scena senza aggiungere altro.
Oscar raramente aveva visto Ricardo così adirato, anzi, le volte che era accaduto si potevano contare sulle dita di una mano e non era mai successo con persone estranee, o comunque al di fuori della famiglia. L’ultima volta infatti era accaduto proprio con suo padre – pace all’anima sua – il giorno che gli aveva ordinato di fare l’università e poi di prendere le sue redini al night, poiché la malattia gli impediva di dedicarsi a quel luogo come desiderava. In tutta risposta Ricardo era volato ad Amsterdam, affermando che avrebbe studiato lì. Suo padre ovviamente gliel’aveva proibito, ma quando gli aveva telefonato quella sera stessa, poiché tardava a rientrare per la cena, il suo primo e unico figlio era già volato fuori dalla nazione.
 
Il click metallico della porta decretò l’inizio del loro incontro, come una sorta di gong che da’ il via alla lotta sul ring. Ricardo le piazzò davanti il foglio bianco, all’altezza del volto:
«Che cazzo significa?»
Yumiko non si fece intimorire dal tono della sua voce, era una giapponese e il suo popolo era tutto d’un pezzo, neanche i frequenti terremoti li spaventavano più, né facevano vittime al giorno d’oggi. La donna studiò il foglio, si era aspettata l’atto di famiglia che attestava come fosse la mamma e non la sorella di Eri, invece si ritrovò davanti le sue dimissioni. Le aveva scritte di getto la sera precedente, stampate e firmate a mano, le aveva consegnate in ufficio prima di mettersi a lavoro, ove vi aveva trovato Antonio. Questi le aveva detto di passare a fine serata, le avrebbe trovate firmate da almeno uno dei soci, invece ora quel foglio bianco A4 sventolava sotto il suo naso e non vi scorgeva alcuna firma.
«Sono le mie dimissio-»
«Non ti ho chiesto cos’è? So leggere, sai?! Ti ho chiesto che-cazzo-significa.» Il ragazzo adagiò il foglio sulla panca alla sua sinistra, immobile al centro fra le due corsie di armadietti in ferro verde, battendogli sopra il palmo. L’intera panchina di legno tremò, ma di nuovo Yumiko non si mosse di una virgola, sebbene il suo cuore pompava come un ossesso, manco stesse correndo la maratona di New York.
«Se sai leggere è inutile che ti spieghi il significato, mi sembra incoerente» sperò di aver azzeccato la parola, la pronunciava spesso Joaquin Morales quando litigavano. Le diceva: mantieni la tua tesi, non essere incoerente. Salas abbozzò un sorrisetto nervoso:
«Mi prendi per il culo anche?! Riformulo la domanda, allora: perché cazzo te ne vuoi andare?»
«Ho trovato un altro lavoro» mentì la donna orientale e lo sguardo le traballò un po’, lo spagnolo se ne accorse e continuò
«Come no! E dove l’avresti trovato questo nuovo impiego, sentiamo.» Yumiko disse la prima cosa che le passava per la testa
«In un supermercato»
«In ogni caso non te ne puoi andare.» La ragazza fece per protestare, ma la sua voce fu inghiottita da quella di lui, che di nuovo batté il palmo contro l’anta dell’armadietto, urlando: «Hai un contratto e lo rispetterai!»
«Non alzare la voce con me!» Esclamò lei, d’istinto. Ah, se fosse stata nel suo Paese, se non avesse dovuto far fronte a tante cose – sua figlia Eri, le spese, l’attrazione che irrimediabilmente provava per quel ragazzo e  che la inibiva come un’adolescente – non avrebbe mai permesso a nessuno di usare quel tono con lei. In Giappone sarebbe stato diverso, sarebbe stata sé stessa.
«Perché non facciamo una cosa, invece? Perché non urli anche tu contro di me? Perché non reagisci, perché non mi mandi a fanculo se è quello che senti? O magari vuoi baciarmi …» Ricardo avanzò di un passo, il suo tono era calato, allungò le dita per sfiorarle i capelli, tuttavia Yumiko scacciò la mano con la sua. Le tremava e non riusciva a guardarlo negli occhi come aveva fatto fino a quel momento, era molto meglio quando era incazzato, per lei era più semplice sostenere il suo sguardo infuriato piuttosto di quello lì.
«Sinceramente credo che sia una bugia la storia del supermercato. É per me, per quello che è successo fra noi se hai deciso di andartene» con la mano aperta indicò prima lui e poi lei, la quale scosse il capo. Non si era aspettata che il suo licenziamento prendesse una piega del genere. Immaginava che dopo quell’ultima nottata di lavoro sarebbe passata in ufficio a chiarire gli ultimi accorgimenti o mettendo qualche firmetta qua e là.
«Tra noi non è accaduto proprio niente» specificò Yumiko, che si chinò appena a raccogliere il foglio bianco abbandonato sulla panca «Se non vuoi firmare tu, chiederò a uno dei tuoi soci di farlo.»
La mente di Salas era rimasta alla penultima frase pronunciata dalla ragazza: tra noi non è accaduto proprio niente. Le strinse tutti e due gli avambraccio, all’altezza dei seni, e la spinse contro uno degli armadietti che emanò un rumore metallico, attutito dal corpo della ragazza asiatica, la quale inizialmente provò a divincolarsi da quella presa, senza troppa convinzione. Di sicuro conosceva due o tre mosse per liberarsi e metterlo al tappeto, ma probabilmente ritrovarsi il suo viso ad un centimetro dal proprio fu una mossa più disarmante di quelle che le aveva insegnato suo padre, maestro di Karate.
«Non è accaduto niente, dici?» le labbra si sfioravano, Yumiko poteva sentirle muoversi a ridosso delle proprie mentre le parlava. «Secondo me manca solo l’ufficializzazione» fece per baciarla, ma lei fu rapida a dirgli di non azzardarsi a toccarla. Ricardo la osservò a lungo: o quella ragazza era più tosta di quello che sembrava, o davvero era stato tutto frutto della sua immaginazione e quella donna non se lo filava manco di striscio. «Guardami negli occhi e giurami che non provi niente per me, che ti sono completamente indifferente.» Le bocche continuavano a sfiorarsi, seppur in maniera superficiale. Yumiko strinse i pugni e puntò gli occhi a mandorla dentro quelli di lui:
«Io appartengo a Joaquin Diego Morales»
L’ex fidanzato deceduto in un incidente d’auto. Era logico, come aveva potuto non pensarci prima al fatto che potesse essere ancora innamorata di lui. Ricardo avrebbe dovuto intuirlo durante il dopo cena a casa della giapponese, quando questa gli aveva illustrato la propria idea sull’anima gemella: era convinta che l’avesse trovata e che fosse pure morta, ciò non lasciava speranze a coloro che sarebbero arrivati dopo: nessuno avrebbe mai potuto reggere il confronto con chi non abitava più il mondo terreno. La lasciò andare, sconfitto. La rabbia e la foga che aveva provato improvvisamente si erano affievolite, lasciando il passo alla delusione. Abbassando il capo vide il foglio nella mani di Yumiko, estrasse dalla tasca dei jeans una stilo e le fece cenno di passarglielo, senza dire nulla vi pose la propria firma, quindi glielo porse:
«Sei libera, Yumiko Okada» voleva essere una battuta, invece uscì come se avesse firmato una petizione che la scagionava da qualsiasi accusa di omicidio, evitandole la sedia elettrica e, a rafforzare quella tesi, le pupille castane di lei si riempirono di lacrime. Farfugliò un grazie e recuperò dal suo – vecchio – armadietto la borsa che aveva riempito con tutte le cianfrusaglie. Si congedò con un cenno del capo, ma non appena gli diede le spalle la fermò ancora, Yumiko si voltò a guardarlo, ritrovandoselo dannatamente vicino:
«Avrei voluto incontrarti prima di… » stava per dire Joaquin, però si trattenne « …di tutto quanto. Avrei voluto conoscerti in un’altra circostanza, magari le cose sarebbero andate diversamente» le sorrise con tristezza, non voleva si ricordasse di lui come l’orco cattivo che le aveva gridato contro e baciata con la forza. La vocina che era parte di Yumiko tornò a galla, dopo esser rimasta muta per tutto il tempo, a ricordarle che quella era con ogni probabilità la sua ultima chance, che lui era di fronte a lei in carne e ossa e praticamente le aveva fatto capire in tutti i modi possibili che la desiderava. Credeva davvero a quello che aveva detto pocanzi, e cioè che apparteneva a Joaquin? Per l’amor del cielo, gli sarebbe appartenuta per l’eternità ed Eri ne era la prova vivente, ma la differenza stava tutta lì, nella parola “vivente”. Joaquin Morales era cenere in un vaso di terracotta murato al fianco della bara di sua madre – i suoi genitori erano morti giovani in un incidente stradale, ironia della sorte – mentre Ricardo Salas era proprio lì, se si fosse alzata sulle punte dei piedi gli avrebbe potuto toccare le labbra. Baciarlo. «Anche io» disse d’un tratto, le parole che aveva pensato nella mente le uscirono dalla bocca senza che potesse fermarle, come un corso d’acqua che si insinua comunque, nonostante gli sbarramenti. Ricardo corrugò la fronte, gli era parso di sentire “anche io” ma non ne era sicuro, o meglio, non voleva rischiare di continuare a tessere la trama di quel film che si era costruito finora in testa. Le chiese di ripetere, ma come era prevedibile la ragazza non lo fece. Salas per tutta risposta l’attirò a sé, doveva tentare ancora, il tutto per tutto. Di nuovo cercò di posarle il palmo della mano sulla guancia, la ragazza non poté scacciarla poiché entrambe le mani erano occupate: una la teneva ferma lui, nell’altra stringeva la cinghia del borsone da lavoro. Allora tirò indietro il volto, ciò nonostante Ricardo glielo carezzò:
«Di cosa hai paura, Yumiko?»
«Ho quanti anni più di te? Due? Tre?»
«Ehm … facciamo quattro o cinque»
«E sei il mio superiore»
«No, non lo sono più. Ho firmato le dimissioni, ricordi?» La donna rimase senza parole, senza sapere cosa inventarsi per allontanarlo da sé. Lentamente vide il suo viso farsi sempre più vicino, le palpebre socchiudersi e le labbra schiuse posarsi sulle proprie. Quel lieve contatto le provocò una scarica elettrica che dalla spina dorsale si diffuse lungo le braccia e giù per le gambe. Lasciò cadere il borsone sulle mattonelle del pavimento e fu libera di gettargli le braccia al collo, quasi aggrappandosi come se temesse di capitolare da un momento all’altro. Ricardo le circondò la schiena, chiudendola in un forte abbraccio per paura che decidesse di liberarsi e scappare via. Le bocche erano incollate, le lingue si cercavano e trovavano in un moto perenne. Salas la sospinse con il peso del corpo a ridosso degli armadietti, Yumiko prese a carezzargli ora il viso, ora il collo, intanto che le mani di lui andavano su e giù lungo la sua schiena. Poi le labbra abbandonarono quelle della ragazza per scendere a lambirle il collo scoperto, che sotto alla luce al neon appariva più bianco di quello che era. Yumiko gettò la testa all’indietro mordendosi il labbro inferiore, quando la porta degli spogliatoi si aprì ed Antonio vi fece capolino:
«Disturbo?» Il suo tono era chiaramente irrisorio. Ricardo Salas gli disse di andare via, Yumiko nel frattempo aveva nascosto il volto contro la sua spalla, ma il socio proseguì sghignazzando. «Mi sa di si»
«Antonio vai-via!» Solo allora il socio fece retromarcia e richiuse la porta.
Oramai l’atmosfera passionale si era dissipata, guardandosi Ricardo e Yumiko scoppiarono a ridere, senza tuttavia allontanarsi l’uno dall’altro.
«I soliti italiani» continuò il ragazzo senza smettere di sorridere
«Antonio è italiano?» Chiese conferma Yumiko
«Perché, non si vede?» Altri risolini, poi tornarono seri e Salas le carezzò la guancia con il dorso della mano. «Aspettami nel parcheggio, il tempo di prendere le mie cose e ti raggiungo»
«Ok» sussurrò lei, godendosi il lieve e fugace bacio a fior di labbra, quindi sgusciò via dalla sua morsa e raccolse la borsa inerme sul pavimento e con essa il foglio delle dimissioni. Ricardo lo afferrò e lo strappò in quattro parti, si chinò a lasciarle ancora un bacio, quindi Yumiko sgattaiolò fuori dalla stanza. Si sentiva leggera come una piuma.  
 
 
 
 
 
 
 
  
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