Sulle prime trovarono solo Church. Il gatto,
che doveva aver colto lo sferragliare dell’ascensore in arrivo, si era
appostato in mezzo al corridoio con la piumosa coda grigia avvolta sulle zampe.
I suoi occhi grandi come monete li osservarono con autorità, quasi a voler loro
chiedere dove diavolo fossero stati. Sembrava che volesse ottenere
un’ammissione di colpa o una motivazione abbastanza convincente da scagionarli.
Jace, incrociando le sue pupille, gli rovesciò
addosso un cipiglio irritato mentre chiudeva dietro di sé le porte
dell’ascensore. «Da quando l’animale domestico ci guarda come se fosse lui il
padrone di casa?»
«Da sempre», fu la svelta risposta di Alec. Non
si attardò e tirò dritto, limitandosi ad evitare il gatto. Quanto al parabatai,
lontano dall’accontentarsi di quel genere di spiccia indifferenza, rivolse una
smorfia a Church e lo scavalcò con un lungo passo, prendendosi così la sua
fetta di vittoria.
«Avremmo dovuto insegnargli a non sostare in
mezzo al corridoio.»
«Se il dettaglio ti urta così tanto, Jace, prova
a spiegarglielo.»
«Eri serio quando hai detto che chiamerai
ancora Magnus in causa?»
«Serissimo.» Alec svoltò nel corridoio che
proseguiva verso l’ala delle camere da letto. Nella sua camminata c’era una
fretta non indifferente. «Verrà a prenderti tra mezz’ora.»
«“Prenderti”?»
«Non verrò con voi.»
Parole rapide come schiaffi. Jace lo afferrò
per il braccio e lo strattonò il necessario per costringerlo a fermarsi e a
voltarsi. Il suo sguardo scoppiettava di incredulità mista a confusione. «Tu non verrai?»
Alexander capì che l’altro non era consapevole
dell’espressione che gli si era piantata in faccia. Mentalmente, e non senza
una vena di sadismo, la incorniciò e l’appese nella sua personalissima galleria
dedicata alle reazioni più spassose del suo parabatai. «No», dichiarò, ma dopo
qualche momento. «Non stavolta. Non posso.»
«Non provarci, Alec. Non se ne parla. Avevamo
deciso che avremmo fatto questa cosa assieme.»
«Non è una cosa che dipende da me. Forse.
Cioè, dipende da me, ma non posso farci niente.»
«Cosa? Ma perché non sai mai spiegarti?»
«Ti dirà tutto Magnus. Davvero, non credo di
volerci essere.»
Ci fu una leggera inflessione, nella sua voce,
che a Jace non piacque. Era stata una sfumatura quasi invisibile, uno
scricchiolio tanto veloce da poter passare inosservato, ma lui lo colse comunque.
Quello che si era infilato fra il non
e il credo di Alec era stato un
inciampo da voglio evitarmi lo spettacolo.
Il biondo allentò la stretta sul suo braccio e
lo guardò con la bocca appena schiusa in un gesto di teatrale sgomento. Non che
avesse paura dell’immediato futuro, questo no, eppure realizzò un indesiderato
sentimento di allerta, qualcosa che azionò il suo sempre vigile istinto di
sopravvivenza, fisica o morale che fosse. Perché di mezzo c’era Magnus e se
Alec se ne tirava fuori, allora l’idea era solo dello stregone. E se era solo farina
tirata fuori dal suo psichedelico e poco sano sacco delle meraviglie...
«Alexander Gideon Lightwood», pronunciò, molto
lentamente, «adesso mi devi spiegare cosa...»
«Tu
devi spiegarmi qualcosa, Jace», lo interruppe la voce di Clary. Improvvisa, del
tutto inaspettata.
I due alzarono gli occhi lungo il corridoio e
la videro, la camminata rapida e il braccio teso in avanti a mostrare quel che
reggeva in mano. Sembrava che, più che volerlo esibire a loro, sarebbe stata in
grado di piantarlo sotto agli occhi del mondo.
Dopo un momento di mutismo, Jace riconobbe
quel che la ragazza allungava. Il suo telefono. «Eccolo, il bastardo», disse, e
lasciò il braccio di Alec per fare un passo in avanti, verso di lei. «Ti giuro,
credevo di averlo portato con me. Mi sono accorto di averlo dimenticato qui
solo quando...»
Clary, piantata ora di fronte a loro e colto
il gesto con cui lui fece per prendere il cellulare, allontanò bruscamente la
mano. «Non te lo sto porgendo. Hai frainteso. Voglio delle spiegazioni.»
«Ovvero devo spiegarti perché ho scordato il
telefono? L’aria dell’Istituto ti fa così male?»
«Smetti di fare lo spiritoso e dimmi da dove
salta fuori questo messaggio.»
Sollevò di nuovo il telefono, imperiosamente. Sullo
schermo tirato a lucido era aperto un sms, scritto nei caratteri standard della
messaggistica mondana. Alec, che mise a fuoco prima di Jace, ebbe un singulto.
Sei tanto interessante, sai? Monica è troppo
timida per riconoscere gli ottimi partiti. Quando ci rivediamo?
Bev
«Bev? Sta per Beverly?» insistette Clary, le
sopracciglia chiare sollevate in una domanda sarcastica. «Sai che le peggiori
di solito hanno proprio questo nome?»
Jace rimase zitto per un lungo momento. I suoi
occhi si erano piantati su quel nome con una certa intensità prima di passare
all’emoticon sbarazzina che concludeva il testo. Quella faccina sorridente, con
tanto di occhiolino, sembrava promettere più di un rivedersi. E il silenzio
improvviso e teso che era cascato alle sue spalle come un peso di piombo lo
fece riflettere. Il silenzio del suo parabatai.
«Non posso crederci», se ne uscì alla fine, e
girò lo sguardo su Alec, che sembrava non muovere nemmeno i polmoni. «È opera
tua! Ti avevo chiesto di darle il tuo numero. Me l’avevi giurato, l’avevi
giurato sull’Angelo!»
«Il mio numero l’ho dato», spiegò l’altro in
tono inaspettatamente calmo. «Gliene ho lasciato anche un secondo.»
«Il mio? Aspetta, hai dato il mio numero a quella psicopatica?»
«Alla ragazza. E poi non me l’hai vietato, mi
pare. Non rispondo delle azioni della matrigna.»
Jace lo fissò a bocca aperta, poi tornò con
gli occhi su Clary, che aveva assistito senza battere ciglio. «Va bene, ci
provo.»
«A fare cosa?» chiese la ragazza. Non aveva
ancora abbassato il telefono, come se lasciarglielo davanti agli occhi
equivalesse all’inquietante e bianca luce di una lampada per gli interrogatori.
«A spiegarti. Avrei preferito che a saperlo
fossero solo Izzy e Magnus. Sono gay. No, aspetta», si corresse. «L’ho detto
male. Solo per oggi. Abbiamo... Io e Alec ci siamo prestati le scarpe a
vicenda, per così dire.»
Clary lo guardò come se gli avesse appena
visto fiorire dell’edera in testa. «Cioè?»
«Un esperimento sociale», disse Jace, benché
si stesse sentendo insopportabilmente stupido.
«Un modo elegante per dire che state facendo
un’idiozia. Credevo che dopo Edom foste almeno un poco maturati.»
«È come dice», s’intromise Alec. Non si era
ancora mosso e, dall’espressione frenetica che gli aveva acceso il volto, si
sarebbe detto ansioso di fondersi con la parete giusto dietro. «Stiamo cercando
di cambiare il modo in cui vediamo la sessualità dell’altro.»
La ragazza gli indirizzò la stessa occhiata
scettica che aveva dedicato all’altro. Aveva abbassato il braccio, ma tutto
nella sua postura lasciava intendere quanto ancora fosse poco propensa a
riconsegnare il telefono al legittimo proprietario. «Okay», disse, anche se con
una convinzione decisamente ironica. «È stata un’idea di Magnus.»
«Mia, a dire il vero.» Isabelle svoltò
l’angolo mentre ancora si abbottonava con metodo il corsetto nero. I tacchi che
aveva ai piedi, più che scarpe, erano fiordi norvegesi. «Clary, mi aiuti con la
collana?»
Clary aspettò che Izzy li raggiungesse. Stava
studiando il suo abbigliamento, i lunghi pantaloni scuri e la giacchetta aperta
tagliata ai fianchi, e dedusse, con la semplicità con cui si fa un due più due,
che era sul punto di uscire. Mollò il telefono a Jace, piantandoglielo in petto
tanto improvvisamente da costringerlo ad un sussulto mentre pescava il
cellulare alla bell’e meglio – sì, gli occhi gli erano cascati sul vestiario
poco cristiano della sorella -, quindi prese la collana che Isabelle le stava
porgendo. «Dove vai?»
«Izzy», disse Jace, osservandola con occhi
critico, «ti voglio annunciare che non è ancora sera. Sono solo le dieci del
mattino, nel caso non te ne fossi accorta.»
Lei gli rovesciò addosso uno sguardo mentre
Clary le girava alle spalle e le agganciava il ciondolo al collo. «Ti seguo. Mi
ha scritto Magnus; ci aspetta a due isolati tra quindici minuti.»
«Tu con me?»
«Alec resta all’Istituto con Clary. Non
possiamo lasciare questo posto incustodito, lo sai meglio di me. Così sì, vengo
io con te.»
Jace guardò il parabatai come se potesse
infilargli un piccone in mezzo alla fronte. «Sei sadico.»
«È la regola dell’esclusione», si giustificò
l’altro. «Serve un testimone, dato che io non ho intenzione di assistere.»
«Dai, muoviti.» Isabelle arraffò il biondo per
un braccio e se lo tirò dietro il necessario perché lui cominciasse a camminare
di sua spontanea volontà. Poi, gettandosi un gesto alle spalle: «Torneremo per
il pranzo!»
«Allora tu hai il tempo di spiegarmi cosa sta
succedendo», disse Clary, ma rivolta ad Alec. La differenza di altezza quasi
biblica che li separava non riusciva a minimizzare l’espressione risoluta che
lei gli scagliò addosso. «La storia di quell’sms, soprattutto.»
Lui trasse un sospiro, quasi un mugolio
decisamente poco disposto, e lanciò uno sguardo a Izzy e Jace, che scomparivano
in quel momento dietro l’angolo. Il corridoio, per quanto lungo, consegnava
ugualmente l’eco delle lamentele pungenti del suo parabatai e le risposte per
le rime della sorella. «Va bene», disse alla fine, tornando a guardare Clary. «Deduco
di non avere scelta.»
* * *
Magnus li aspettava di fronte all’edicola. La
giacchetta azzurra che indossava, complici le spalline imbottite e volutamente
esagerate, bastava a fare di lui il protagonista indiscusso del marciapiede. Se
ne stava appoggiato ad un lampione, gli occhi camuffati da un incantesimo e
puntati verso le riviste esposte su un lato del chiosco. Dalla sua espressione
critica e dal leggero arricciarsi delle labbra, quasi una smorfia trattenuta a
stento, Jace concluse che quasi per certo stava mentalmente criticando le
letture mondane.
Rendersi visibili al mondo intero era una
scocciatura sotto molti punti di vista. A Isabelle, che gli camminava accanto a
passo spedito, le occhiate dei passanti sembravano fare solo piacere, per
quanto si trattasse di quel genere di soddisfazione leggera e disinvolta,
tipica insomma di una bella ragazza consapevole dei pensieri che passano in testa
agli uomini. Abituata agli sguardi altrui, proseguiva fiera per la sua strada
mordendo il marciapiede con i tacchi. Quanto a Jace, non si negava certo
l’attenzione delle ragazze che lo sbirciavano – stare sotto ai riflettori,
diavolo, gli piaceva -, ma a distrarlo da quella bella sensazione c’era il
pensiero, fastidioso e pressante come un tappo ermetico, di quel che Magnus
aveva in serbo per lui. Pensò ad Alec, che si era quasi per certo chiuso in
camera a leggere o a sonnecchiare; decise che lo avrebbe preferito ad Izzy, e
questo perché aveva il bellissimo pregio di imbarazzarsi prima di chiunque
altro. Era un vantaggio grazie a cui Jace aveva sempre avuto la possibilità di
passare per lo spaccone di turno. Il disagio del suo parabatai era, ecco, un
incentivo, una scorciatoia con cui poter urlare al mondo divertitevi con lui, non con me. Se era un pensiero malvagio? Perché
non era forse stato crudele ricevere il messaggio della psicopatica e sorbirsi
le punture di Clary per colpa sua?
«Ricordate la runa del Ballo?» esordì Magnus
quando li vide arrivare. Si spinse via dal lampione e andò loro incontro,
fermandosi davanti ai due. «Fate in modo di inventarvi anche quella della Puntualità.
Avete dieci minuti di ritardo.»
«Come vorresti che funzionasse?» lo rimbeccò
Jace. «Ti teletrasporta sul luogo allo scadere del tempo limite?»
«A dire il vero pensavo all’elettroshock. Una
scarica per ogni minuto che passa.»
«Come quelle con cui ti sei pettinato?»
Lo stregone lo fulminò con un cipiglio. In
qualche modo, per colpa della linea di glitter che gli illuminava le
sopracciglia scure, la sua espressione risultò più buffa che spazientita. «È
alta moda. Non pretendo che tu capisca, putto.»
Il Nephilim reagì come qualcuno gli avesse
girato la faccia con uno schiaffo. Stava per aprire bocca, e non per parlare di
un trattato di pace, quando Isabelle si precipitò a precederlo:
«Tolta questa parentesi, dove vogliamo andare?»
«Il mio amico edicolante mi ha consigliato un
ottimo posto», rispose Magnus. Pareva ringalluzzito, tanto che le sue labbra si
allungarono in un gran sorriso da venditore di zucchero filato. Allungò il
braccio verso l’edicola e mosse qualche passo per avvicinarsi al chiosco,
inquadrando con quel gesto l’ometto che se ne stava in piedi dietro al ripiano.
Questi, più per riflesso che altro, sfoderò un sorrisetto. «Al, ti presento Kate
e Jerome, le persone che aspettavo. Ora posso togliere il disturbo.»
«Jerome?»
starnazzò Jace. I suoi occhi passarono dall’edicolante allo stregone con la
velocità di due frecce infuocate. «Si può sapere che cosa...?»
Muovendosi velocemente, Magnus allungò il
braccio il necessario per afferrare il suo, per poi accostarsi a lui. «Cos’è,
non ti va bene? Ma a voi Nephilim non va mai bene niente?»
«Per quale dannato motivo ci hai dato nomi
falsi? E poi Jerome; non chiamerei
così neanche un gatto. Se proprio volevi tentare qualcosa con la J, avresti
potuto sforzarti.»
«Oh, che seccatura.» Lo stregone mollò la
presa e parlò stretto stretto, gettando nel contempo un’occhiata
all’edicolante, che cominciava ad allungare il collo. «Siete voi quelli fissati
con la segretezza, e avete anche da ridire. Mai una volta che vi accontentiate.»
Poi tornò a guardare Al, sfilando dal nulla un gran sorriso: «Strada a
sinistra, tre isolati e poi strada a destra, avevi detto?»
«Affermativo, Atahualpa», rispose l’uomo. «Ricordati
l’incrocio.»
«È tutto nella mia meravigliosa mente. Andiamo»,
aggiunse subito dopo, e infilò di nuovo il marciapiede costringendo Izzy e Jace
ad un inseguimento serrato.
«“Atahualpa”?» chiese il Nephilim, le mani
nelle tasche e gli occhi fuggita a incrociare un’ultima volta il viso allegro
dell’edicolante. «Ti prego, dimmi che non ti sei fatto passare con quel nome.»
«Atahualpa è stato l’ultimo imperatore inca.»
Magnus aveva assunto un tono da maestro paziente e baciato dalla luce
dell’elevazione spirituale. «Perù, hai presente? Ancora una volta non mi
stupisco della tua ignoranza. Purtroppo non l’ho conosciuto; in quegli anni ero
altrove, forse a Firenze a godermi il Rinascimento.»
«E il mondano ci ha creduto? Cioè, crede sul
serio che qualcuno possa portare quel nome senza avvertire la voglia di fare
una visitare all’anagrafe o tentare un giustificato suicidio?»
«Niente scherzi. È un nome importante.»
«Allora dove si va? Cosa ti ha consigliato il
nostro amico edicolante?»
Camminavano controcorrente. Erano un gruppo
insolito persino per le vie dell’eccentrica Brooklyn e ogni volta che passavano
di fronte alle vetrine, queste riflettevano due ragazzi e una ragazza che
filavano svelti schivando mondani dall’espressione quasi sempre indaffarata. Se
qualcuno avesse avuto occhio, e si parla dell’occhio della mente, l’occhio che
legge qualsiasi cosa sotto qualsiasi luce, avrebbe capito che quei tre
sembravano troppo indifferenti alla comune atmosfera di quotidianità che
animava la città.
Magnus arricciò le labbra e parve pensare per
un lungo istante. Poi, quasi assaggiando le parole in bocca: «Oggi voglio
portare il mio ragazzo a fare shopping, perché mi sono stancato del suo noioso
nero pipistrello.»
«Alec non è qui, se hai notato. Credevo ti
avesse avvisato che non ci raggiungerà.»
«Non ho fatto il suo nome.»
Jace impiegò un decina di secondi. La mente
gli aveva giocato un conto meccanico, sistemando il nome del suo parabatai e la
parola ragazzo in un unico campo
semantico. Perché Alec era a tutti gli effetti il ragazzo di Magnus, e la
proposizione sarebbe stata vera al cento per cento se quello fosse stato un
giorno come tutti gli altri. Ma non era un giorno come altri, non quando ai
piedi portava almeno metaforicamente scarpe un po’ più grandi, graffiate ai
lati, quasi di certo con le stringhe in procinto di slacciarsi. Le scarpe di
Alec, per l’appunto.
Si arrestò in mezzo al marciapiede così di
colpo che Izzy e Magnus lo distanziarono di qualche passo prima di accorgersene
e fermarsi a loro volta. Lo guardarono con un misto di aspettativa e impazienza.
«Ti prego, non svenire», disse Magnus, con
blanda nonchalance. «Se devi farlo, mira al marciapiede. Giù del gradino c’è la
strada e sulla strada passa il tram; non mi va di riattaccarti la testa se per
caso dovesse passare mentre tu sei riverso con il collo sulle rotaie.»
«Non puoi essere serio», se ne uscì Jace. E
non parlava del tram. «Tu non puoi
essere serio.»
«L’idea non è stata di Alec, giusto per la
cronaca», osservò Izzy. «E neanche mia. È stata sua.»
«Mia. Non puoi davvero credere di trascorrere
la tua giornata da gay senza sapere che effetto fa il giudizio degli altri su
di te», spiegò lo stregone. «Una delle cose più complicate è riuscire a
convivere con le occhiate dei più diffidenti. È tutto troppo facile finché sei
in un locale come quello della scorsa notte. Quindi sì, per qualche ora sarai
il mio ragazzo. La vera sfida è alla luce del sole. Tra la gente, sui
marciapiedi. Anche se, lo ammetto, detta così suona male.»
Jace lo guardò per degli istanti. Sembrava che
stesse osservando un idrante addobbato per Natale. «Adesso torno all’Istituto»,
dichiarò.
«Non fare i capricci. Oh, accidenti.» Isabelle
macinò la distanza fra loro e lo afferrò per il gomito, tirandoselo poi dietro
in una camminata svelta. «Magnus, io ti avevo avvisato. Poi non venire a dirmi
che pensavi che sarebbe stato più semplice.»
Quello aspettò che la ragazza gli passasse
oltre con Jace al seguito prima di andar loro dietro. «Peccato, mi ero già
preparato la frase. Tranquillo, putto, non ho intenzione di baciarti.»
«Se lo fai ti strappo le labbra», ruminò Jace.
Si scrollò di dosso la mano di Izzy. «So camminare anche da solo.»
«Dammi almeno la mano.»
«Ti prego, no.»
«Sei un fidanzato crudele. Non credevo che
potessi farmi questo. Mi tradisci?»
«Magnus», masticò Jace, mentre tentava in
tutti i modi di negare a se stesso l’incipit di imbarazzo che gli stava
montando sottopelle. «Magnus, cuciti la bocca e muoviamoci.»
* * *
Sperava che si sarebbero persi. Forse le
informazioni dell’amico edicolante si sarebbero rivelate semplici buchi
nell’acqua, e allora sarebbero stati costretti a fermarsi, riguardare la
situazione e decidere per un’altra iniziativa. Purtroppo per Jace non accadde.
L’unica difficoltà fu trovare la strada che svoltava
a destra, perché nessuno aveva detto loro che, più che una via, era un vicolo
incastrato tra due palazzi. Era stato quello il momento in cui il Nephilim
aveva creduto che la cosa si sarebbe risolta con un nulla di fatto e che
Isabelle avrebbe dichiarato l’annullamento di quell’enorme idiozia – Magnus era
oggettivamente un bell’uomo, con il problema che farsi passare per il suo
ragazzo non sarebbe comunque mai rientrato nella sua lista dei desideri -, e
invece lo stregone si era guardato attorno, aveva ripercorso il marciapiede
simile nell’atteggiamento ad un cane da tartufo e aveva scovato la viuzza di
cui l’edicolante aveva parlato.
E cane
da tartufo era l’espressione corretta se si tiene in conto che quel che
stavano cercando era una boutique d’abbigliamento. Non era tra le più
sofisticate e conosciute, ma il lavoro di sartoria, come spiegò Magnus mentre
infilavano la stradina, era uno dei migliori di tutta New York.
«È da tanto che volevo visitarla, anche se non
sapevo dove fosse», aggiunse mentre si dirigevano all’ingresso a due porte. «Girare
da solo per negozi non è divertente. Alec non mi vuole mai accompagnare.»
«Nessuno ti vorrebbe accompagnare, credo»,
borbottò Jace, alzando un’occhiata scettica all’insegna della boutique. «Soprattutto
quando si parla di shopping. Io stesso mi sento un ostaggio.»
«Perché il sentimento fra noi è tanto forte da
far invidia alla sindrome di Stoccolma.»
«Non penso che la ragione sia questa.»
Izzy entrò per prima, portandosi dietro il
rumore dei tacchi sul lucido marmo del negozio. La temperatura era gradevole,
piacevolmente viziata in confronto al fresco dell’esterno. Nell’aria aleggiava
un vago ma riconoscibilissimo sentore di lavanda mista ad ovatta, una fragranza
che si sposava alla perfezione con le tonalità pastello delle pareti. Un’ampia
scala saliva ad un pianerottolo su cui si poteva indovinare una fila di
camerini; quanto al resto, gli abiti erano presumibilmente esposti in un
secondo spazio, un suggerimento che Isabelle colse quando notò un breve
corridoio di specchi che scappava sotto alla scala.
«Puoi chiudere fuori il tuo sarcasmo?» stava
nel frattempo rispondendo Magnus, nel tono permaloso di chi subisce un torto
irreparabile. «Vorrei godermi la vacanza.»
«Vacanza? Tu sei sempre in vacanza.»
«Non quando sono a Washington a mandare avanti
la nostra attività.»
A quel punto Jace lo guardò con un’espressione
che esprimeva al contempo incredulità, confusione e una generosa dose di
disgusto. «Cosa? Si può sapere che stai dicendo?»
«Forse avrei fatto meglio a lasciarti dai tuoi
genitori. Non saremmo mai dovuti scappare insieme per aprire la fabbrica di
gelato per cui abbiamo tanto risparmiato.» Lo stregone sbirciò la commessa, che
si era lasciata il bancone alle spalle e li stava raggiungendo, e fu colto
dalla splendida idea di improvvisare un sorriso e dire, in tono dispiaciuto e
imbarazzo: «Mi scuso per la chiassosa entrata, signorina. Cose nostre.»
Lei scosse il capo mentre la sua mano coronata
da unghie smaltate di verde si muoveva in un gesto di benevolenza. Qualcosa
nella sua espressione, forse la leggera vena di divertimento che le arricciava
le labbra, lasciò capire a Jace che doveva aver sentito le parole di Magnus. «Nessun
problema», li accolse. «Come posso aiutarvi?»
«Stavamo cercando...», cominciò lo stregone,
ma poi si fermò e riavvolse il nastro. «Qualcosa di blu. Per lui.»
Indicò Jace, sollevando un angolo della bocca in un sorrisino per poter
concludere, in un tono quasi di confidenza: «Niente di troppo appariscente,
però. Non mi va che altri gli mettano gli occhi addosso.»
«Certo.» La giovane donna ricambiò quel
leggero arcuarsi delle labbra. «Ho capito.»
E fu allora che il Nephilim lo vide. Vide
quello sguardo, la rapida sbirciata della commessa, il modo in cui sembrò per
un istante incasellarli entrambi in una cornice immaginaria. In faccia le passò
una limpida e chiara realizzazione, tanto che Jace se la sentì addosso come
colla vinilica. Allora stanno assieme,
era stato il significato di quell’espressione. Oh, ma dai? Che teneri.
Alec gli diceva spesso quant’era facile capire
cosa pensava la gente, ma aveva colto il reale senso delle sue parole solo in
quel momento, di fronte a quella donna. Era come se esistesse una differenza
matematica fra il guardare una coppia etero e il guardare una coppia gay, una
legge immutabile e istintiva che convinceva le persone a cambiare atteggiamento
a seconda della sessualità dell’interlocutore. Potevi star certo che quasi
nessuno sarebbe stato troppo interessato agli affari tuoi se cercavi il sesso
opposto, e allo stesso modo non potevi invece esserlo quando a destare il tuo
interesse era il tuo stesso genere. Sembrava un comandamento dell’universo.
Se Dio aveva creato gli uomini, allora doveva essere stato sempre lui a dire: “Ecco, figli miei; osservate apertamente gli
etero, ma limitatevi a spiare i gay”. Il pensiero, neanche a dirlo, non gli
piacque. Nemmeno lo divertì, per quanto fosse profondamente ironico.
Magnus si era nel frattempo mosso insieme alla
commessa verso il breve corridoio di specchi. Jace se ne accorse solo quando
Izzy gli diede uno schiaffo sul gomito.
«Stai giocando al bel bambolotto di
porcellana?» gli chiese. Evidentemente doveva aver colto il suo improvviso e
inedito silenzio di riflessione. «Avanti.»
«Ma l’hai vista?»
«Cosa?»
«Lei. Il modo in cui mi ha guardato.» Camminavano
a qualche passo di distanza dallo stregone e dalla donna, ma non abbastanza da
convincere Jace ad alzare la voce. Mormorava. O meglio, borbottava. E sbirciava la commessa come se avesse potuto
inchiodarle un giavellotto fra le scapole. «Non l’hai notato?»
«Vedo che la giornata sta cominciando a dare i
suoi frutti», dichiarò Isabelle. Poi non aggiunse altro e allungò il
passo, costringendo il ragazzo a fare altrettanto.
«Il problema è che di recente la moda è solo un
affare di denaro», stava dicendo Magnus, gesticolando ampiamente. «Ma lei ha
idea delle vere e proprie guerre che gli stilisti si dichiarano? Una volta ci
si vestiva senza tutte le pretese che ci sono oggi.»
«“Una volta” quando, per la precisione?» La
commessa, che procedeva lì accanto, si era lasciata scappare una risatina. «La
moda è denaro.»
«Nel Quattrocento era più una questione di
buongusto, ad esempio.»
«Difficilmente qualcuno in carne ed ossa potrebbe
testimoniarcelo.»
Lui le fece un sorrisetto sornione, quasi
l’arricciarsi dei baffi di un gatto. «Oh. Vero. Me ne dimentico spesso.
Preferisci il blu notte o il blu elettrico?» chiese poi, girando uno sguardo
su Jace. «Promettimi che non guarderai il cartellino. Pago io: voglio che sia
un regalo, quindi non sbirciare il prezzo.»
«Nessun rischio, credimi», disse il Nephilim,
ma a voce così bassa da rischiare di non essere udito da nessuno. Il modo in
cui la commessa li guardava era irritante. Si domandò come Magnus facesse a
tollerarlo. Esperienza, tirò ad indovinare.
«È solo un po’ imbronciato», si giustificò
Magnus all’indirizzo della donna, in un tono da canarino che plana nell’aria
estiva. «Di solito è molto più socievole.»
Ammesso
che nel “socievole” siano comprese anche le voglie omicide, rifletté Jace, e per poco non lo disse. Da
qualche parte nel cervello aveva una penna con cui segnava forsennatamente
mille e più modi per fargliela pagare. Poi capì che avrebbe potuto rifarsi con
Alec, che con tutta probabilità era steso sul letto a leggersi qualcosa con un
impettito e imperiale Church sistemato sulla pancia, e allora si sentì un poco
meglio.
Il suo mentale blocco per gli appunti ebbe
modo di riempirsi dall’inizio alla fine nel giro di un’ora scarsa. Decise
persino di prenderne un secondo, perché dubitava che un quaderno solo sarebbe
bastato. Più che Magnus, la protagonista indiscussa fu la commessa: c’erano
dettagli nel suo atteggiamento che gli impedivano quasi la digestione, come la
maniera che aveva di girare gli occhi ogni tanto per inquadrarli in un unico
scatto neanche in coscienza stesse progettando un servizio fotografico. Lo
stregone si divertiva a dare gli input, a lasciar intendere questo o quello –
la storia, per come l’aveva messa giù, li ritraeva come due giovani innamorati fuggiti
a Washington per poter avviare una fabbrica di gelato specializzata in gusti
esotici; Jace non aveva idea del perché si fosse inventato un racconto così
assurdo, ma si chiese come la giovane donna riuscisse a crederci -, e lei lo
assecondava, sbirciava, ricambiava i sorrisi di confidenza, ma con quel
qualcosa di non-detto, in sottofondo, che rendeva il suo atteggiamento
decisamente snervante, come se servire una coppia gay in una boutique fosse più
appagante che servirne una etero.
Furono costretti a stringare i tempi per via
dell’orari di chiusura. Quando uscirono mancava mezz’ora all’una e le strade
erano più calde di come le avevano lasciate. Magnus teneva la bella giacca blu
piegata sul braccio, attento a non spiegazzare l’involucro di morbida carta in
cui era stata impacchettata. Era senza ombra di dubbio un bel capo, con il
problema che le spalle restavano a Jace un po’ larghe. Quando chiese
spiegazioni allo stregone, lui si strinse nelle spalle e picchiò la mano libera
sulla giacca, in un gesto soddisfatto e realizzato.
«Ebbene, ho mentito», disse, ma con
naturalezza. «Questa dolcezza è per Alexander. Lui non vuole mai accompagnarmi
nei negozi, te l’ho detto; così mi sono servito di te per avere almeno una vaga
idea sulla misura giusta.»
Jace fece una smorfia senza rallentare il
passo. Aveva una gran voglia di allontanarsi da quel negozio. «Degradato da
parabatai a manichino. Non so se sia peggio questo o il fatto d’essere stato
sbirciato da quella donna come se fossi un raro esemplare di rinoceronte
bianco.»
«Non è un paragone del tutto sbagliato. In
quanto a grazia ed eleganza, tu e i rinoceronti siete sullo stesso livello»,
puntualizzò Magnus.
Izzy sollevò la mano e ammirò il bracciale che
si era comprata a spese dello stregone. «Qualunque cosa tu voglia combinare per
il pomeriggio», s’intromise prima che il ragazzo potesse lanciarsi in un
battibecco, «io non ci sarò. Ho da fare.»
«Li accompagnerò io.» Lo stregone aveva preso
a pizzicare l’involucro, ma con gentilezza. «Ah, questa giacca è così magnifique.»
«Non
penso che Alec apprezzerà la tua presenza», informò Jace, abbandonando il
marciapiede per poter infilare un vicolo. Era abituato a schivare la folla
mondana ovunque fosse possibile. «Però, a ben pensarci, il tuo regalo gli
servirà.»
«Cosa?»
«La giacca.»
Magnus mise quasi il broncio. Strinse la
giacca a sé, stropicciando la carta in cui era avvolta. «Niente da fare. La
indosserà la prima volta per me.»
«Mio turno, Magnus. Ho il diritto di scegliere
qualsiasi cosa. Alec se la metterà; non è colpa mia se la sua eleganza si
limita a maglioni sfilacciati. Per quello che ho in mente mi serve però che sia
davvero presentabile, quindi quella
giacca casca di proposito.»
«Allora è meglio che lo sappia», disse Izzy. «Qualcuno
deve informarlo perché si possa preparare psicologicamente a vestirsi con
decenza.»
«Ho fame. Informa che stiamo arrivando per
pranzo, piuttosto.»
«Rettifico», dichiarò lo stregone. «I
rinoceronti sono meno primitivi di te.»
«I rinoceronti sono anche in via d’estinzione»,
se ne uscì Jace. «Vuoi far loro compagnia?»
«È una gentile proposta, ma sono costretto a
rifiutare: in un mondo di bassezze morali e fisiche, io sono già in via d’estinzione. Sono un raro
esemplare di bellezza fatta persona.»
«Sarebbe comunque bello renderti un po’ più in via d’estinzione,
soprattutto perché mi hai costretto a farmi passare per il tuo ragazzo.»
«Non ci sono problemi», annunciò Magnus,
chiudendo gli occhi e prendendo un respiro. «Ci siamo già lasciati. Sono
inconsolabile; credo me ne andrò a casa a pettinare il Presidente e a farmi
coccolare dal suo disinteressato amore felino.»
Il Nephilim gli girò addosso uno sguardo
livido. Quel gioco di ruoli, più che instillare in lui il divertimento che si
leggeva sull’espressione di Izzy, gli faceva solo venire voglia di chiedere al
sole di tramontare il più in fretta possibile. Peccato che non fosse ovviamente
possibile. «Dammi la giacca», disse invece, sorprendendo anche se stesso, e
allungò la mano in modo sbrigativo senza smettere di camminare. «La porto
all’Istituto e convincerò Alec a mettersela addosso. Ti voglio reperibile per
le due, Magnus.»
«Sai come si dice? “L’erba ‘voglio’ non cresce neanche del giardino
del re”.»
«Appunto», rispose Jace. Mosse le dita in un movimento
più che eloquente, un modo per dirgli di consegnargli la giacca e di farlo in
fretta. «Non cresce nel suo perché cresce nel mio. Dai, mollala.»
Oh, Raziel, perché?
La prima: per un bel periodo ho avuto problemi con Nvu, il programma che uso per caricare i testi in html. Semplicemente, al momento della pubblicazione, la pagina mi si presentava con i tag. Avevo avvisato del problema sulla mia pagina Facebook - che non uso troppo spesso, a dire il vero, ma per una volta si è resa utile -, e spero quindi che qualcuno di voi sapesse già di questa contrattempo. Poi un'anima pia mi ha suggerito di scaricare Publisher; in più ho scaricato di nuovo Nvu, e ora funziona. Ovvero, adesso ho un salvagente nel caso in cui dovesse ricapitare *fa corna*
La seconda: il lavoro mi ha tenuta impegnata. Lavorando a chiamata, non so mai quando ho del tempo libero. Ma sono immensamente felice di essere riuscita a terminare e a postare questo capitolo. Avete atteso qualcosa come sette anni per un aggiornamento, tanto che qualcuno dovrebbe farvi santi/e (?)
Poi... Ormai sapete che odio Jace c: Lo odio con il cuore in mano, con tanto, infinito affetto. Non credo mi spingerei mai a shippare la Jagnus - "Jagnus"? Si chiamerebbe così? -, ma il senso di sadica soddisfazione che ho provato scrivendo di questa sua uscita con Magnus è stato davvero degno di nota. Semplicemente, mi piace fargli perdere la pazienza un po' come mi piace far imbarazzare Alec.
Dal momento che ho ben in mente cosa combinare al nostro Alexander, non credo proprio che vi farò ancora aspettare così tanto per un aggiornamento. Vi ringrazio a prescindere, perché ho notato che qualcun altro si è messo a seguire la ff benché non aggiornassi da tempo <3
Dew_