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Autore: Dew_Drop    01/08/2015    1 recensioni
Dal testo: "Alec si lasciò andare contro lo schienale e chiuse gli occhi. Una statua di resa, esasperazione, sgomento. Rivisse mentalmente il momento in cui, il giorno prima, sua sorella lo aveva scovato a bisticciare con Jace e se n’era uscita con il suo famoso: “Siete ridicoli, tutti e due! Dovreste mettervi nei panni dell’altro, ogni tanto. Farebbe bene ad entrambi”. Appunto, nei panni dell’altro. Solo che, nel suo caso, i panni dell’altro erano panni eterosessuali. Oh, Raziel."
__
Già. Cosa accadrebbe se a qualcuno venisse la grande idea di proporre a Jace e ad Alec uno scambio di ruoli? Dareste loro qualche speranza? Avanti, stiamo parlando del ragazzo più etero e di quello più gay al mondo alle prese con una sfida biblica: adottare per un solo giorno le preferenze sessuali dell'altro. Affetto fra parabatai, lo chiamano.
Appunto. Secondo me, dicevo, di speranze non ce ne sono.
Genere: Commedia, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Alec Lightwood, Izzy Lightwood, Jace Lightwood, Magnus Bane
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
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4. Fuga d'amore e fabbrica di gelato






4. Fuga d'amore ( e fabbrica di gelato )



Sulle prime trovarono solo Church. Il gatto, che doveva aver colto lo sferragliare dell’ascensore in arrivo, si era appostato in mezzo al corridoio con la piumosa coda grigia avvolta sulle zampe. I suoi occhi grandi come monete li osservarono con autorità, quasi a voler loro chiedere dove diavolo fossero stati. Sembrava che volesse ottenere un’ammissione di colpa o una motivazione abbastanza convincente da scagionarli.

Jace, incrociando le sue pupille, gli rovesciò addosso un cipiglio irritato mentre chiudeva dietro di sé le porte dell’ascensore. «Da quando l’animale domestico ci guarda come se fosse lui il padrone di casa?»

«Da sempre», fu la svelta risposta di Alec. Non si attardò e tirò dritto, limitandosi ad evitare il gatto. Quanto al parabatai, lontano dall’accontentarsi di quel genere di spiccia indifferenza, rivolse una smorfia a Church e lo scavalcò con un lungo passo, prendendosi così la sua fetta di vittoria.

«Avremmo dovuto insegnargli a non sostare in mezzo al corridoio.»

«Se il dettaglio ti urta così tanto, Jace, prova a spiegarglielo.»

«Eri serio quando hai detto che chiamerai ancora Magnus in causa?»

«Serissimo.» Alec svoltò nel corridoio che proseguiva verso l’ala delle camere da letto. Nella sua camminata c’era una fretta non indifferente. «Verrà a prenderti tra mezz’ora.»

«“Prenderti”?»

«Non verrò con voi.»

Parole rapide come schiaffi. Jace lo afferrò per il braccio e lo strattonò il necessario per costringerlo a fermarsi e a voltarsi. Il suo sguardo scoppiettava di incredulità mista a confusione. «Tu non verrai?»

Alexander capì che l’altro non era consapevole dell’espressione che gli si era piantata in faccia. Mentalmente, e non senza una vena di sadismo, la incorniciò e l’appese nella sua personalissima galleria dedicata alle reazioni più spassose del suo parabatai. «No», dichiarò, ma dopo qualche momento. «Non stavolta. Non posso.»

«Non provarci, Alec. Non se ne parla. Avevamo deciso che avremmo fatto questa cosa assieme.»

«Non è una cosa che dipende da me. Forse. Cioè, dipende da me, ma non posso farci niente.»

«Cosa? Ma perché non sai mai spiegarti?»

«Ti dirà tutto Magnus. Davvero, non credo di volerci essere.»

Ci fu una leggera inflessione, nella sua voce, che a Jace non piacque. Era stata una sfumatura quasi invisibile, uno scricchiolio tanto veloce da poter passare inosservato, ma lui lo colse comunque. Quello che si era infilato fra il non e il credo di Alec era stato un inciampo da voglio evitarmi lo spettacolo.

Il biondo allentò la stretta sul suo braccio e lo guardò con la bocca appena schiusa in un gesto di teatrale sgomento. Non che avesse paura dell’immediato futuro, questo no, eppure realizzò un indesiderato sentimento di allerta, qualcosa che azionò il suo sempre vigile istinto di sopravvivenza, fisica o morale che fosse. Perché di mezzo c’era Magnus e se Alec se ne tirava fuori, allora l’idea era solo dello stregone. E se era solo farina tirata fuori dal suo psichedelico e poco sano sacco delle meraviglie...

«Alexander Gideon Lightwood», pronunciò, molto lentamente, «adesso mi devi spiegare cosa...»

«Tu devi spiegarmi qualcosa, Jace», lo interruppe la voce di Clary. Improvvisa, del tutto inaspettata.

I due alzarono gli occhi lungo il corridoio e la videro, la camminata rapida e il braccio teso in avanti a mostrare quel che reggeva in mano. Sembrava che, più che volerlo esibire a loro, sarebbe stata in grado di piantarlo sotto agli occhi del mondo.

Dopo un momento di mutismo, Jace riconobbe quel che la ragazza allungava. Il suo telefono. «Eccolo, il bastardo», disse, e lasciò il braccio di Alec per fare un passo in avanti, verso di lei. «Ti giuro, credevo di averlo portato con me. Mi sono accorto di averlo dimenticato qui solo quando...»

Clary, piantata ora di fronte a loro e colto il gesto con cui lui fece per prendere il cellulare, allontanò bruscamente la mano. «Non te lo sto porgendo. Hai frainteso. Voglio delle spiegazioni.»

«Ovvero devo spiegarti perché ho scordato il telefono? L’aria dell’Istituto ti fa così male?»

«Smetti di fare lo spiritoso e dimmi da dove salta fuori questo messaggio.»

Sollevò di nuovo il telefono, imperiosamente. Sullo schermo tirato a lucido era aperto un sms, scritto nei caratteri standard della messaggistica mondana. Alec, che mise a fuoco prima di Jace, ebbe un singulto.

 

Sei tanto interessante, sai? Monica è troppo timida per riconoscere gli ottimi partiti. Quando ci rivediamo?

Bev

 

«Bev? Sta per Beverly?» insistette Clary, le sopracciglia chiare sollevate in una domanda sarcastica. «Sai che le peggiori di solito hanno proprio questo nome?»

Jace rimase zitto per un lungo momento. I suoi occhi si erano piantati su quel nome con una certa intensità prima di passare all’emoticon sbarazzina che concludeva il testo. Quella faccina sorridente, con tanto di occhiolino, sembrava promettere più di un rivedersi. E il silenzio improvviso e teso che era cascato alle sue spalle come un peso di piombo lo fece riflettere. Il silenzio del suo parabatai.

«Non posso crederci», se ne uscì alla fine, e girò lo sguardo su Alec, che sembrava non muovere nemmeno i polmoni. «È opera tua! Ti avevo chiesto di darle il tuo numero. Me l’avevi giurato, l’avevi giurato sull’Angelo!»

«Il mio numero l’ho dato», spiegò l’altro in tono inaspettatamente calmo. «Gliene ho lasciato anche un secondo.»

«Il mio? Aspetta, hai dato il mio numero a quella psicopatica?»

«Alla ragazza. E poi non me l’hai vietato, mi pare. Non rispondo delle azioni della matrigna.»

Jace lo fissò a bocca aperta, poi tornò con gli occhi su Clary, che aveva assistito senza battere ciglio. «Va bene, ci provo.»

«A fare cosa?» chiese la ragazza. Non aveva ancora abbassato il telefono, come se lasciarglielo davanti agli occhi equivalesse all’inquietante e bianca luce di una lampada per gli interrogatori.

«A spiegarti. Avrei preferito che a saperlo fossero solo Izzy e Magnus. Sono gay. No, aspetta», si corresse. «L’ho detto male. Solo per oggi. Abbiamo... Io e Alec ci siamo prestati le scarpe a vicenda, per così dire.»

Clary lo guardò come se gli avesse appena visto fiorire dell’edera in testa. «Cioè?»

«Un esperimento sociale», disse Jace, benché si stesse sentendo insopportabilmente stupido.

«Un modo elegante per dire che state facendo un’idiozia. Credevo che dopo Edom foste almeno un poco maturati.»

«È come dice», s’intromise Alec. Non si era ancora mosso e, dall’espressione frenetica che gli aveva acceso il volto, si sarebbe detto ansioso di fondersi con la parete giusto dietro. «Stiamo cercando di cambiare il modo in cui vediamo la sessualità dell’altro.»

La ragazza gli indirizzò la stessa occhiata scettica che aveva dedicato all’altro. Aveva abbassato il braccio, ma tutto nella sua postura lasciava intendere quanto ancora fosse poco propensa a riconsegnare il telefono al legittimo proprietario. «Okay», disse, anche se con una convinzione decisamente ironica. «È stata un’idea di Magnus.»

«Mia, a dire il vero.» Isabelle svoltò l’angolo mentre ancora si abbottonava con metodo il corsetto nero. I tacchi che aveva ai piedi, più che scarpe, erano fiordi norvegesi. «Clary, mi aiuti con la collana?»

Clary aspettò che Izzy li raggiungesse. Stava studiando il suo abbigliamento, i lunghi pantaloni scuri e la giacchetta aperta tagliata ai fianchi, e dedusse, con la semplicità con cui si fa un due più due, che era sul punto di uscire. Mollò il telefono a Jace, piantandoglielo in petto tanto improvvisamente da costringerlo ad un sussulto mentre pescava il cellulare alla bell’e meglio – sì, gli occhi gli erano cascati sul vestiario poco cristiano della sorella -, quindi prese la collana che Isabelle le stava porgendo. «Dove vai?»

«Izzy», disse Jace, osservandola con occhi critico, «ti voglio annunciare che non è ancora sera. Sono solo le dieci del mattino, nel caso non te ne fossi accorta.»

Lei gli rovesciò addosso uno sguardo mentre Clary le girava alle spalle e le agganciava il ciondolo al collo. «Ti seguo. Mi ha scritto Magnus; ci aspetta a due isolati tra quindici minuti.»

«Tu con me?»

«Alec resta all’Istituto con Clary. Non possiamo lasciare questo posto incustodito, lo sai meglio di me. Così sì, vengo io con te.»

Jace guardò il parabatai come se potesse infilargli un piccone in mezzo alla fronte. «Sei sadico.»

«È la regola dell’esclusione», si giustificò l’altro. «Serve un testimone, dato che io non ho intenzione di assistere.»

«Dai, muoviti.» Isabelle arraffò il biondo per un braccio e se lo tirò dietro il necessario perché lui cominciasse a camminare di sua spontanea volontà. Poi, gettandosi un gesto alle spalle: «Torneremo per il pranzo!»

«Allora tu hai il tempo di spiegarmi cosa sta succedendo», disse Clary, ma rivolta ad Alec. La differenza di altezza quasi biblica che li separava non riusciva a minimizzare l’espressione risoluta che lei gli scagliò addosso. «La storia di quell’sms, soprattutto.»

Lui trasse un sospiro, quasi un mugolio decisamente poco disposto, e lanciò uno sguardo a Izzy e Jace, che scomparivano in quel momento dietro l’angolo. Il corridoio, per quanto lungo, consegnava ugualmente l’eco delle lamentele pungenti del suo parabatai e le risposte per le rime della sorella. «Va bene», disse alla fine, tornando a guardare Clary. «Deduco di non avere scelta.»


* * *

 

Magnus li aspettava di fronte all’edicola. La giacchetta azzurra che indossava, complici le spalline imbottite e volutamente esagerate, bastava a fare di lui il protagonista indiscusso del marciapiede. Se ne stava appoggiato ad un lampione, gli occhi camuffati da un incantesimo e puntati verso le riviste esposte su un lato del chiosco. Dalla sua espressione critica e dal leggero arricciarsi delle labbra, quasi una smorfia trattenuta a stento, Jace concluse che quasi per certo stava mentalmente criticando le letture mondane.

Rendersi visibili al mondo intero era una scocciatura sotto molti punti di vista. A Isabelle, che gli camminava accanto a passo spedito, le occhiate dei passanti sembravano fare solo piacere, per quanto si trattasse di quel genere di soddisfazione leggera e disinvolta, tipica insomma di una bella ragazza consapevole dei pensieri che passano in testa agli uomini. Abituata agli sguardi altrui, proseguiva fiera per la sua strada mordendo il marciapiede con i tacchi. Quanto a Jace, non si negava certo l’attenzione delle ragazze che lo sbirciavano – stare sotto ai riflettori, diavolo, gli piaceva -, ma a distrarlo da quella bella sensazione c’era il pensiero, fastidioso e pressante come un tappo ermetico, di quel che Magnus aveva in serbo per lui. Pensò ad Alec, che si era quasi per certo chiuso in camera a leggere o a sonnecchiare; decise che lo avrebbe preferito ad Izzy, e questo perché aveva il bellissimo pregio di imbarazzarsi prima di chiunque altro. Era un vantaggio grazie a cui Jace aveva sempre avuto la possibilità di passare per lo spaccone di turno. Il disagio del suo parabatai era, ecco, un incentivo, una scorciatoia con cui poter urlare al mondo divertitevi con lui, non con me. Se era un pensiero malvagio? Perché non era forse stato crudele ricevere il messaggio della psicopatica e sorbirsi le punture di Clary per colpa sua?

«Ricordate la runa del Ballo?» esordì Magnus quando li vide arrivare. Si spinse via dal lampione e andò loro incontro, fermandosi davanti ai due. «Fate in modo di inventarvi anche quella della Puntualità. Avete dieci minuti di ritardo.»

«Come vorresti che funzionasse?» lo rimbeccò Jace. «Ti teletrasporta sul luogo allo scadere del tempo limite?»

«A dire il vero pensavo all’elettroshock. Una scarica per ogni minuto che passa.»

«Come quelle con cui ti sei pettinato?»

Lo stregone lo fulminò con un cipiglio. In qualche modo, per colpa della linea di glitter che gli illuminava le sopracciglia scure, la sua espressione risultò più buffa che spazientita. «È alta moda. Non pretendo che tu capisca, putto.»

Il Nephilim reagì come qualcuno gli avesse girato la faccia con uno schiaffo. Stava per aprire bocca, e non per parlare di un trattato di pace, quando Isabelle si precipitò a precederlo:

«Tolta questa parentesi, dove vogliamo andare?»

«Il mio amico edicolante mi ha consigliato un ottimo posto», rispose Magnus. Pareva ringalluzzito, tanto che le sue labbra si allungarono in un gran sorriso da venditore di zucchero filato. Allungò il braccio verso l’edicola e mosse qualche passo per avvicinarsi al chiosco, inquadrando con quel gesto l’ometto che se ne stava in piedi dietro al ripiano. Questi, più per riflesso che altro, sfoderò un sorrisetto. «Al, ti presento Kate e Jerome, le persone che aspettavo. Ora posso togliere il disturbo.»

«Jerome?» starnazzò Jace. I suoi occhi passarono dall’edicolante allo stregone con la velocità di due frecce infuocate. «Si può sapere che cosa...?»

Muovendosi velocemente, Magnus allungò il braccio il necessario per afferrare il suo, per poi accostarsi a lui. «Cos’è, non ti va bene? Ma a voi Nephilim non va mai bene niente?»

«Per quale dannato motivo ci hai dato nomi falsi? E poi Jerome; non chiamerei così neanche un gatto. Se proprio volevi tentare qualcosa con la J, avresti potuto sforzarti.»

«Oh, che seccatura.» Lo stregone mollò la presa e parlò stretto stretto, gettando nel contempo un’occhiata all’edicolante, che cominciava ad allungare il collo. «Siete voi quelli fissati con la segretezza, e avete anche da ridire. Mai una volta che vi accontentiate.» Poi tornò a guardare Al, sfilando dal nulla un gran sorriso: «Strada a sinistra, tre isolati e poi strada a destra, avevi detto?»

«Affermativo, Atahualpa», rispose l’uomo. «Ricordati l’incrocio.»

«È tutto nella mia meravigliosa mente. Andiamo», aggiunse subito dopo, e infilò di nuovo il marciapiede costringendo Izzy e Jace ad un inseguimento serrato.

«“Atahualpa”?» chiese il Nephilim, le mani nelle tasche e gli occhi fuggita a incrociare un’ultima volta il viso allegro dell’edicolante. «Ti prego, dimmi che non ti sei fatto passare con quel nome.»

«Atahualpa è stato l’ultimo imperatore inca.» Magnus aveva assunto un tono da maestro paziente e baciato dalla luce dell’elevazione spirituale. «Perù, hai presente? Ancora una volta non mi stupisco della tua ignoranza. Purtroppo non l’ho conosciuto; in quegli anni ero altrove, forse a Firenze a godermi il Rinascimento.»

«E il mondano ci ha creduto? Cioè, crede sul serio che qualcuno possa portare quel nome senza avvertire la voglia di fare una visitare all’anagrafe o tentare un giustificato suicidio?»

«Niente scherzi. È un nome importante.»

«Allora dove si va? Cosa ti ha consigliato il nostro amico edicolante?»

Camminavano controcorrente. Erano un gruppo insolito persino per le vie dell’eccentrica Brooklyn e ogni volta che passavano di fronte alle vetrine, queste riflettevano due ragazzi e una ragazza che filavano svelti schivando mondani dall’espressione quasi sempre indaffarata. Se qualcuno avesse avuto occhio, e si parla dell’occhio della mente, l’occhio che legge qualsiasi cosa sotto qualsiasi luce, avrebbe capito che quei tre sembravano troppo indifferenti alla comune atmosfera di quotidianità che animava la città.

Magnus arricciò le labbra e parve pensare per un lungo istante. Poi, quasi assaggiando le parole in bocca: «Oggi voglio portare il mio ragazzo a fare shopping, perché mi sono stancato del suo noioso nero pipistrello.»

«Alec non è qui, se hai notato. Credevo ti avesse avvisato che non ci raggiungerà.»

«Non ho fatto il suo nome.»

Jace impiegò un decina di secondi. La mente gli aveva giocato un conto meccanico, sistemando il nome del suo parabatai e la parola ragazzo in un unico campo semantico. Perché Alec era a tutti gli effetti il ragazzo di Magnus, e la proposizione sarebbe stata vera al cento per cento se quello fosse stato un giorno come tutti gli altri. Ma non era un giorno come altri, non quando ai piedi portava almeno metaforicamente scarpe un po’ più grandi, graffiate ai lati, quasi di certo con le stringhe in procinto di slacciarsi. Le scarpe di Alec, per l’appunto.

Si arrestò in mezzo al marciapiede così di colpo che Izzy e Magnus lo distanziarono di qualche passo prima di accorgersene e fermarsi a loro volta. Lo guardarono con un misto di aspettativa e impazienza.

«Ti prego, non svenire», disse Magnus, con blanda nonchalance. «Se devi farlo, mira al marciapiede. Giù del gradino c’è la strada e sulla strada passa il tram; non mi va di riattaccarti la testa se per caso dovesse passare mentre tu sei riverso con il collo sulle rotaie.»

«Non puoi essere serio», se ne uscì Jace. E non parlava del tram. «Tu non puoi essere serio.»

«L’idea non è stata di Alec, giusto per la cronaca», osservò Izzy. «E neanche mia. È stata sua.»

«Mia. Non puoi davvero credere di trascorrere la tua giornata da gay senza sapere che effetto fa il giudizio degli altri su di te», spiegò lo stregone. «Una delle cose più complicate è riuscire a convivere con le occhiate dei più diffidenti. È tutto troppo facile finché sei in un locale come quello della scorsa notte. Quindi sì, per qualche ora sarai il mio ragazzo. La vera sfida è alla luce del sole. Tra la gente, sui marciapiedi. Anche se, lo ammetto, detta così suona male.»

Jace lo guardò per degli istanti. Sembrava che stesse osservando un idrante addobbato per Natale. «Adesso torno all’Istituto», dichiarò.

«Non fare i capricci. Oh, accidenti.» Isabelle macinò la distanza fra loro e lo afferrò per il gomito, tirandoselo poi dietro in una camminata svelta. «Magnus, io ti avevo avvisato. Poi non venire a dirmi che pensavi che sarebbe stato più semplice.»

Quello aspettò che la ragazza gli passasse oltre con Jace al seguito prima di andar loro dietro. «Peccato, mi ero già preparato la frase. Tranquillo, putto, non ho intenzione di baciarti.»

«Se lo fai ti strappo le labbra», ruminò Jace. Si scrollò di dosso la mano di Izzy. «So camminare anche da solo.»

«Dammi almeno la mano.»

«Ti prego, no.»

«Sei un fidanzato crudele. Non credevo che potessi farmi questo. Mi tradisci?»

«Magnus», masticò Jace, mentre tentava in tutti i modi di negare a se stesso l’incipit di imbarazzo che gli stava montando sottopelle. «Magnus, cuciti la bocca e muoviamoci.»  


* * *

 

Sperava che si sarebbero persi. Forse le informazioni dell’amico edicolante si sarebbero rivelate semplici buchi nell’acqua, e allora sarebbero stati costretti a fermarsi, riguardare la situazione e decidere per un’altra iniziativa. Purtroppo per Jace non accadde.

L’unica difficoltà fu trovare la strada che svoltava a destra, perché nessuno aveva detto loro che, più che una via, era un vicolo incastrato tra due palazzi. Era stato quello il momento in cui il Nephilim aveva creduto che la cosa si sarebbe risolta con un nulla di fatto e che Isabelle avrebbe dichiarato l’annullamento di quell’enorme idiozia – Magnus era oggettivamente un bell’uomo, con il problema che farsi passare per il suo ragazzo non sarebbe comunque mai rientrato nella sua lista dei desideri -, e invece lo stregone si era guardato attorno, aveva ripercorso il marciapiede simile nell’atteggiamento ad un cane da tartufo e aveva scovato la viuzza di cui l’edicolante aveva parlato.

E cane da tartufo era l’espressione corretta se si tiene in conto che quel che stavano cercando era una boutique d’abbigliamento. Non era tra le più sofisticate e conosciute, ma il lavoro di sartoria, come spiegò Magnus mentre infilavano la stradina, era uno dei migliori di tutta New York.

«È da tanto che volevo visitarla, anche se non sapevo dove fosse», aggiunse mentre si dirigevano all’ingresso a due porte. «Girare da solo per negozi non è divertente. Alec non mi vuole mai accompagnare.»

«Nessuno ti vorrebbe accompagnare, credo», borbottò Jace, alzando un’occhiata scettica all’insegna della boutique. «Soprattutto quando si parla di shopping. Io stesso mi sento un ostaggio.»

«Perché il sentimento fra noi è tanto forte da far invidia alla sindrome di Stoccolma.»

«Non penso che la ragione sia questa.»

Izzy entrò per prima, portandosi dietro il rumore dei tacchi sul lucido marmo del negozio. La temperatura era gradevole, piacevolmente viziata in confronto al fresco dell’esterno. Nell’aria aleggiava un vago ma riconoscibilissimo sentore di lavanda mista ad ovatta, una fragranza che si sposava alla perfezione con le tonalità pastello delle pareti. Un’ampia scala saliva ad un pianerottolo su cui si poteva indovinare una fila di camerini; quanto al resto, gli abiti erano presumibilmente esposti in un secondo spazio, un suggerimento che Isabelle colse quando notò un breve corridoio di specchi che scappava sotto alla scala.

«Puoi chiudere fuori il tuo sarcasmo?» stava nel frattempo rispondendo Magnus, nel tono permaloso di chi subisce un torto irreparabile. «Vorrei godermi la vacanza.»

«Vacanza? Tu sei sempre in vacanza.»

«Non quando sono a Washington a mandare avanti la nostra attività.»

A quel punto Jace lo guardò con un’espressione che esprimeva al contempo incredulità, confusione e una generosa dose di disgusto. «Cosa? Si può sapere che stai dicendo?»

«Forse avrei fatto meglio a lasciarti dai tuoi genitori. Non saremmo mai dovuti scappare insieme per aprire la fabbrica di gelato per cui abbiamo tanto risparmiato.» Lo stregone sbirciò la commessa, che si era lasciata il bancone alle spalle e li stava raggiungendo, e fu colto dalla splendida idea di improvvisare un sorriso e dire, in tono dispiaciuto e imbarazzo: «Mi scuso per la chiassosa entrata, signorina. Cose nostre.»

Lei scosse il capo mentre la sua mano coronata da unghie smaltate di verde si muoveva in un gesto di benevolenza. Qualcosa nella sua espressione, forse la leggera vena di divertimento che le arricciava le labbra, lasciò capire a Jace che doveva aver sentito le parole di Magnus. «Nessun problema», li accolse. «Come posso aiutarvi?»

«Stavamo cercando...», cominciò lo stregone, ma poi si fermò e riavvolse il nastro. «Qualcosa di blu. Per lui.» Indicò Jace, sollevando un angolo della bocca in un sorrisino per poter concludere, in un tono quasi di confidenza: «Niente di troppo appariscente, però. Non mi va che altri gli mettano gli occhi addosso.»

«Certo.» La giovane donna ricambiò quel leggero arcuarsi delle labbra. «Ho capito.»

E fu allora che il Nephilim lo vide. Vide quello sguardo, la rapida sbirciata della commessa, il modo in cui sembrò per un istante incasellarli entrambi in una cornice immaginaria. In faccia le passò una limpida e chiara realizzazione, tanto che Jace se la sentì addosso come colla vinilica. Allora stanno assieme, era stato il significato di quell’espressione. Oh, ma dai? Che teneri.

Alec gli diceva spesso quant’era facile capire cosa pensava la gente, ma aveva colto il reale senso delle sue parole solo in quel momento, di fronte a quella donna. Era come se esistesse una differenza matematica fra il guardare una coppia etero e il guardare una coppia gay, una legge immutabile e istintiva che convinceva le persone a cambiare atteggiamento a seconda della sessualità dell’interlocutore. Potevi star certo che quasi nessuno sarebbe stato troppo interessato agli affari tuoi se cercavi il sesso opposto, e allo stesso modo non potevi invece esserlo quando a destare il tuo interesse era il tuo stesso genere. Sembrava un comandamento dell’universo. Se Dio aveva creato gli uomini, allora doveva essere stato sempre lui a dire: “Ecco, figli miei; osservate apertamente gli etero, ma limitatevi a spiare i gay”. Il pensiero, neanche a dirlo, non gli piacque. Nemmeno lo divertì, per quanto fosse profondamente ironico.

Magnus si era nel frattempo mosso insieme alla commessa verso il breve corridoio di specchi. Jace se ne accorse solo quando Izzy gli diede uno schiaffo sul gomito.

«Stai giocando al bel bambolotto di porcellana?» gli chiese. Evidentemente doveva aver colto il suo improvviso e inedito silenzio di riflessione. «Avanti.»

«Ma l’hai vista?»

«Cosa?»

«Lei. Il modo in cui mi ha guardato.» Camminavano a qualche passo di distanza dallo stregone e dalla donna, ma non abbastanza da convincere Jace ad alzare la voce. Mormorava. O meglio, borbottava. E sbirciava la commessa come se avesse potuto inchiodarle un giavellotto fra le scapole. «Non l’hai notato?»

«Vedo che la giornata sta cominciando a dare i suoi frutti», dichiarò Isabelle. Poi non aggiunse altro e allungò il passo, costringendo il ragazzo a fare altrettanto.

«Il problema è che di recente la moda è solo un affare di denaro», stava dicendo Magnus, gesticolando ampiamente. «Ma lei ha idea delle vere e proprie guerre che gli stilisti si dichiarano? Una volta ci si vestiva senza tutte le pretese che ci sono oggi.»

«“Una volta” quando, per la precisione?» La commessa, che procedeva lì accanto, si era lasciata scappare una risatina. «La moda è denaro.»

«Nel Quattrocento era più una questione di buongusto, ad esempio.»

«Difficilmente qualcuno in carne ed ossa potrebbe testimoniarcelo.»

Lui le fece un sorrisetto sornione, quasi l’arricciarsi dei baffi di un gatto. «Oh. Vero. Me ne dimentico spesso. Preferisci il blu notte o il blu elettrico?» chiese poi, girando uno sguardo su Jace. «Promettimi che non guarderai il cartellino. Pago io: voglio che sia un regalo, quindi non sbirciare il prezzo.»

«Nessun rischio, credimi», disse il Nephilim, ma a voce così bassa da rischiare di non essere udito da nessuno. Il modo in cui la commessa li guardava era irritante. Si domandò come Magnus facesse a tollerarlo. Esperienza, tirò ad indovinare.

«È solo un po’ imbronciato», si giustificò Magnus all’indirizzo della donna, in un tono da canarino che plana nell’aria estiva. «Di solito è molto più socievole.»

Ammesso che nel “socievole” siano comprese anche le voglie omicide, rifletté Jace, e per poco non lo disse. Da qualche parte nel cervello aveva una penna con cui segnava forsennatamente mille e più modi per fargliela pagare. Poi capì che avrebbe potuto rifarsi con Alec, che con tutta probabilità era steso sul letto a leggersi qualcosa con un impettito e imperiale Church sistemato sulla pancia, e allora si sentì un poco meglio.

Il suo mentale blocco per gli appunti ebbe modo di riempirsi dall’inizio alla fine nel giro di un’ora scarsa. Decise persino di prenderne un secondo, perché dubitava che un quaderno solo sarebbe bastato. Più che Magnus, la protagonista indiscussa fu la commessa: c’erano dettagli nel suo atteggiamento che gli impedivano quasi la digestione, come la maniera che aveva di girare gli occhi ogni tanto per inquadrarli in un unico scatto neanche in coscienza stesse progettando un servizio fotografico. Lo stregone si divertiva a dare gli input, a lasciar intendere questo o quello – la storia, per come l’aveva messa giù, li ritraeva come due giovani innamorati fuggiti a Washington per poter avviare una fabbrica di gelato specializzata in gusti esotici; Jace non aveva idea del perché si fosse inventato un racconto così assurdo, ma si chiese come la giovane donna riuscisse a crederci -, e lei lo assecondava, sbirciava, ricambiava i sorrisi di confidenza, ma con quel qualcosa di non-detto, in sottofondo, che rendeva il suo atteggiamento decisamente snervante, come se servire una coppia gay in una boutique fosse più appagante che servirne una etero.

Furono costretti a stringare i tempi per via dell’orari di chiusura. Quando uscirono mancava mezz’ora all’una e le strade erano più calde di come le avevano lasciate. Magnus teneva la bella giacca blu piegata sul braccio, attento a non spiegazzare l’involucro di morbida carta in cui era stata impacchettata. Era senza ombra di dubbio un bel capo, con il problema che le spalle restavano a Jace un po’ larghe. Quando chiese spiegazioni allo stregone, lui si strinse nelle spalle e picchiò la mano libera sulla giacca, in un gesto soddisfatto e realizzato.

«Ebbene, ho mentito», disse, ma con naturalezza. «Questa dolcezza è per Alexander. Lui non vuole mai accompagnarmi nei negozi, te l’ho detto; così mi sono servito di te per avere almeno una vaga idea sulla misura giusta.»

Jace fece una smorfia senza rallentare il passo. Aveva una gran voglia di allontanarsi da quel negozio. «Degradato da parabatai a manichino. Non so se sia peggio questo o il fatto d’essere stato sbirciato da quella donna come se fossi un raro esemplare di rinoceronte bianco.»

«Non è un paragone del tutto sbagliato. In quanto a grazia ed eleganza, tu e i rinoceronti siete sullo stesso livello», puntualizzò Magnus.

Izzy sollevò la mano e ammirò il bracciale che si era comprata a spese dello stregone. «Qualunque cosa tu voglia combinare per il pomeriggio», s’intromise prima che il ragazzo potesse lanciarsi in un battibecco, «io non ci sarò. Ho da fare.»

«Li accompagnerò io.» Lo stregone aveva preso a pizzicare l’involucro, ma con gentilezza. «Ah, questa giacca è così magnifique

 «Non penso che Alec apprezzerà la tua presenza», informò Jace, abbandonando il marciapiede per poter infilare un vicolo. Era abituato a schivare la folla mondana ovunque fosse possibile. «Però, a ben pensarci, il tuo regalo gli servirà.»

«Cosa?»

«La giacca.»

Magnus mise quasi il broncio. Strinse la giacca a sé, stropicciando la carta in cui era avvolta. «Niente da fare. La indosserà la prima volta per me.»

«Mio turno, Magnus. Ho il diritto di scegliere qualsiasi cosa. Alec se la metterà; non è colpa mia se la sua eleganza si limita a maglioni sfilacciati. Per quello che ho in mente mi serve però che sia davvero presentabile, quindi quella giacca casca di proposito.»

«Allora è meglio che lo sappia», disse Izzy. «Qualcuno deve informarlo perché si possa preparare psicologicamente a vestirsi con decenza.»

«Ho fame. Informa che stiamo arrivando per pranzo, piuttosto.»

«Rettifico», dichiarò lo stregone. «I rinoceronti sono meno primitivi di te.»

«I rinoceronti sono anche in via d’estinzione», se ne uscì Jace. «Vuoi far loro compagnia?»

«È una gentile proposta, ma sono costretto a rifiutare: in un mondo di bassezze morali e fisiche, io sono già in via d’estinzione. Sono un raro esemplare di bellezza fatta persona.»

«Sarebbe comunque bello renderti un po’ più in via d’estinzione, soprattutto perché mi hai costretto a farmi passare per il tuo ragazzo.»

«Non ci sono problemi», annunciò Magnus, chiudendo gli occhi e prendendo un respiro. «Ci siamo già lasciati. Sono inconsolabile; credo me ne andrò a casa a pettinare il Presidente e a farmi coccolare dal suo disinteressato amore felino.»

Il Nephilim gli girò addosso uno sguardo livido. Quel gioco di ruoli, più che instillare in lui il divertimento che si leggeva sull’espressione di Izzy, gli faceva solo venire voglia di chiedere al sole di tramontare il più in fretta possibile. Peccato che non fosse ovviamente possibile. «Dammi la giacca», disse invece, sorprendendo anche se stesso, e allungò la mano in modo sbrigativo senza smettere di camminare. «La porto all’Istituto e convincerò Alec a mettersela addosso. Ti voglio reperibile per le due, Magnus.»

«Sai come si dice? “L’erba ‘voglio’ non cresce neanche del giardino del re”.»

«Appunto», rispose Jace. Mosse le dita in un movimento più che eloquente, un modo per dirgli di consegnargli la giacca e di farlo in fretta. «Non cresce nel suo perché cresce nel mio. Dai, mollala.»






Oh, Raziel, perché?


Ho due cose da dirvi.
La prima: per un bel periodo ho avuto problemi con Nvu, il programma che uso per caricare i testi in html. Semplicemente, al momento della pubblicazione, la pagina mi si presentava con i tag. Avevo avvisato del problema sulla mia pagina Facebook - che non uso troppo spesso, a dire il vero, ma per una volta si è resa utile -, e spero quindi che qualcuno di voi sapesse già di questa contrattempo. Poi un'anima pia mi ha suggerito di scaricare Publisher; in più ho scaricato di nuovo Nvu, e ora funziona. Ovvero, adesso ho un salvagente nel caso in cui dovesse ricapitare *fa corna*
La seconda: il lavoro mi ha tenuta impegnata. Lavorando a chiamata, non so mai quando ho del tempo libero. Ma sono
immensamente felice di essere riuscita a terminare e a postare questo capitolo. Avete atteso qualcosa come sette anni per un aggiornamento, tanto che qualcuno dovrebbe farvi santi/e (?)

Poi... Ormai sapete che odio Jace
c: Lo odio con il cuore in mano, con tanto, infinito affetto. Non credo mi spingerei mai a shippare la Jagnus  - "Jagnus"? Si chiamerebbe così? -, ma il senso di sadica soddisfazione che ho provato scrivendo di questa sua uscita con Magnus è stato davvero degno di nota. Semplicemente, mi piace fargli perdere la pazienza un po' come mi piace far imbarazzare Alec.
Dal momento che ho ben in mente cosa combinare al nostro Alexander, non credo proprio che vi farò ancora aspettare così tanto per un aggiornamento. Vi ringrazio a prescindere, perché ho notato che qualcun altro si è messo a seguire la ff benché non aggiornassi da tempo <3

Dew_

 






   
 
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