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Autore: _ivan    04/08/2015    3 recensioni
Un londinese sfortunato, un cinico parigino e un'italiana che si porta sulle spalle l'eredità di una pessima reputazione. Non è l'inizio di una barzelletta, ma il profilo di tre studenti dell'Accademia di magia dell'Ardéche, dove quest'anno serpeggia uno spietato traditore.
Coinvolti nel groviglio di misteri che si celano nell'antica scuola, i tre impareranno ad affrontare i propri mostri, ad affinare l'ingegno e a dubitare di chiunque...anche dei loro più cari amici.
Genere: Fantasy, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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|| Scusate la (lunga) assenza. O forse dico 'scusa' più a me che agli altri. La fine di una relazione, o meglio, DELLA relazione, ha trascinato con sè, come conseguenza, anche la fine del mio rapporto con la scrittura. Ora, a distanza di poco più di due anni, più tranquillo seppur non del tutto 'guarito', torno tuttavia a scrivere. Qui sotto, così, vi è parte del risultato, forse non editato con la cura necessaria, ma comunque frutto di qualcosa di buono. Spero vi piaccia. Un abbraccio forte a tutti, I.




Hermeline Chevalier non stava ferma un momento. Era qualcosa di ben radicato nel suo DNA, una tentazione troppo forte alla quale proprio non riusciva a resistere.
A ciclo continuo, così, lanciava polvere di zaffiro sulla lavagna d’alabastro, per farvi comparire le parole, osservava il tutto per un paio di secondi, mollava le frasi a metà, le riprendeva, andava verso la cattedra, un grosso blocco grezzo di opale di fuoco, tornava alla lavagna con appena due falcate, fissava il vuoto, parlava. Parlava davvero molto.
Durante le sue lezioni, di base, Hermeline sembrava dunque muoversi senza un reale progetto di vita concreto. Come se ciò non bastasse, la costante frenesia che le intasava le articolazioni, il tic alle labbra che la costringeva a smorfie carnevalesce, il viso appuntito e scurito dal sole e gli occhialetti tondi sempre a ridosso della punta del naso, la rendevano un personaggio ancor più singolare, un vero fenomeno da baraccone agli occhi astuti degli studenti.
La buona Hermeline Chevalier, dodici anni a tic per un totale di settantadue, così, veniva chiamata da tutti ‘Hermine’, ‘ermellino’: un nome che le calzava talmente a pennello che lei stessa si era ritrovata a utilizzarlo più volte, presentandosi ai nuovi colleghi e alle classi.
Nel ventaglio delle sue qualità, Hermine poteva vantare l’abilità di non riuscire a finire mai un discorso, così, più spesso di quanto uno studente dedito agli appunti non desidererebbe, si ritrovava a terminare discorsi sulle acquemarine con aneddoti sugli eliotropi, i diaspri o addirittura, con collegamenti più sfilacciati sulle nere ossidiane.
«La vedete, questa?» disse stringendo tra due dita ossute una riolite non più dissimile da un sasso di un qualunque altro sasso «So che state facendo l’esperimento, ma occhi a me, per favore. Occhi a me! Ragazzi! Ok, non importa, la metto qui. Ne parleremo più tardi. Ragazzi, insomma! Dicevamo che le onici possono essere di più qualità…»
«Dieci euro che non arriva alla fine della lezione con la stessa faccia che ha adesso» disse Mathieu frugando nella tasca senza trovare nulla «Le si sta già squagliando il cerone. Vedi? Si vede già il porro sul mento. Che poi qualcuno mi spieghi come fa quella lì a insegnare: sarà pure una luminare della Gemmologia, ma ha l’autorità di una noce e la dialettica di Forrest Gump. Zero percento di leadership».
«Lasciala in pace, poverina. È così gentile…» si intromise Denise «E poi potresti aiutarci qui, invece di dire idiozie» aggiunse porgendogli il libro di testo «Cosa ne pensi? Dimmi quanta ce ne vuole, dai».
Attorno a loro, gli schiamazzi degli studenti, seduti attorno ai banchi di lavoro in gruppi sparsi e assolutamente non omogenei. Hermine proseguiva noncurante la sua lezione, mentre Denise, con le orecchie un po’ ovunque ma gli occhi sugli strumenti da lavoro, giocherellava con un paio di pinze da medico.
«Non potremmo semplicemente copiare quello che fanno gli altri?» propose Snow sbirciando dovunque e da nessuna parte.
Preso il cellulare in mano, scattò di sfuggita una foto alla professoressa mentre, nel suo mondo, lanciava la polvere azzurra sulla lavagna.
«Oggi mi sento davvero stanco» sbuffò sconfortato e poggiò la fronte sul banco di raffinata lepidolite rosa.
«Sta roba non dovrebbe calmare gli animi?» aggiunse borbottando con le labbra vicine al minerale del loro banco di lavoro «A me sembra solo mi stia asciugando dentro».
«Se fosse vero che le pietre hanno effetti così immediati sugli uomini» rispose Mathieu con gli occhi sul libro di Gemmologia, interrompendosi solo per abbandonarsi a uno sbadiglio rumoroso «Penso non uscirebbe nessuno da quest’aula con un briciolo di sale in zucca. E poi la lepidolite rosa non penso neppure aiuti per la stanchezza».
Effettivamente, pensò Snow, non aveva tutti i torti: l’aula di Gemmologia era un cimitero degli elefanti di minerali d’ogni natura, ora accostati in casuali mosaici eleganti, ora assemblati dalla stessa madre terra in agglomerati senza alcun valore artistico. La stessa mobilia era ricavata in monoliti rosa e verdi, brillanti e opachi. Si diceva che, nei giorni immediatamente successivi alla lucidatura delle pietre – che avveniva sempre durante le festività -, facendo luce anche solo con un accendino ne si poteva vedere la fiamma riflessa milioni di volte, pressochè ovunque.
«Sono l’unica che abbia voglia lavorare, qui?» bofonchiò Denise, sollevando con le pinzette una scheggia di howlite bianca e poggiandola con cura su un vetrino. Aveva il labbro inferiore per metà nascosto nella bocca, mangiucchiato dagli incisivi per la concentrazione.
«Sì» rispose Mathieu sfogliando il libro.
«Sì» fece eco Snow, con la fronte incollata al banco.
Denise scosse la testa in silenzio.
«E ora cosa faccio?» chiese.
Mathieu leggiucchiò saltando da una riga all’altra.
«Almeno sei sulla pagina giusta?» ridacchiò Snow senza neppure alzare la testa, ma anzi grattandosi pigramente la nuca.
Mathieu sospirò «Prendere una tormalina nera e immergerla nello…»
Silenzio.
«…Nello?» chiese Snow alzando il viso sciupato dal sonno.
«Oh merda. Oh. Questa roba è da malati. Dobbiamo farla?» Mathieu arricciò il naso e si guardò attorno. Al banco accanto al loro, Jasmine scoppiò a ridere e qualcuno urlò “che schifo!”.
«Leggo: immergere la tormalina nello sperma di un bovino adulto per cinque minuti esatti».
A Snow per poco non cadde la mandibola. Arricciò il naso, si sporse, sfilò il libro a Mathieu, lesse e glielo ripassò in silenzio, un attimo dopo, scuotendo la testa. Hermine cercava inutilmente di calmare gli animi, mentre le risate di Jasmine stavano trascinando rovinosamente anche gli altri studenti, a manciate.
Un bicchierino cadde a terra e si infranse. David Cromelle urlò “Le scarpe!” e scappò dall’aula. Hermine urlò e tutti risero.
Denise ridacchiò appena.
Mathieu sollevò l’unico bicchierino di vetro sul tavolo e lo agitò per far traballare il liquido bianco al suo interno.
«Secondo voi è davvero sperma?» disse.
«Non è troppo fluido?» chiese Denise.
Silenzio e sguardi sbigottiti.
«Cos’è, non posso dire la mia?» aggiunse subito dopo.
«Saponetta che parla di spermatozoi con questa certezza empirica, fa un sacco ridere» disse Mathieu tra qualche risata.
«Secondo me è latte» si intromise Snow, ora meno annoiato e stanco.
«Nel dubbio, volete assaggiarlo?»
«Mathieu finiscila, sei disgustoso» Denise gli tolse di mano il contenitore, svitò il tappo e con l’aiuto della pinzetta vi immerse la tormalina, adagiandola sul fondo. Snow arricciò il naso; era un’impressione o ne sentiva l’odore nauseante? Prese il cronometro e lo fece parti.
«Cinque minuti esatti. Non un secondo di più. C’è scritto qui» disse Mathieu, per poi allontanare appena il libro aperto.
«Ma secondo voi chi ha inventato queste cose?» Snow si sollevò le maniche della camicia a fiori e sbadigliò «Insomma, qualcuno un giorno si è svegliato e ha detto “immergiamo per cinque minuti una tormalina nello sperma di un toro”, giusto? Cioè, non è normale. Non credo abbiano trovato un antico reperto a proposito di questa roba. La stele di Rosetta dello sperma».
«La stele di che?»
«Rosetta. Era una tipa. Credo».
«Ah ok. Comunque no, non è normale. Decisamente no».
«I miei capelli! PAZZO!» i voluminosi boccoli di Alisandre si mossero scaruffati seguendo gli scossoni della testa della ragazza, che scoppiò in lacrime tra le risate di pochi ragazzi, intorno a lei.
«Michael, fuori dall’aula!» cercò di imporsi Hermine, senza risultati, prima di avvicinarsi ad Alisandre per consolarla e aiutarla a pulirsi, tra le risate e le urla degli altri.
«Schifosi…» bofonchiò Denise.
«Che poi cosa ce ne facciamo di ‘sti cosi?» si intromise Snow, poggiando il cronometro e scuotendo il sacchettino di velluto blu che, passo passo, stavano riempiendo durante la lezione «Voglio andare a dormire» concluse.
«Sei un po’ nervosetto, Snow?» domandò Denise, distratta dal caos che li circondava.
«Bè, fai tu» si intromise Mathieu «Ha inseguito e gonfiato di botte Lefevbre, nel bosco. Anche io sarei stanco. Un gancio, così, poi un destro, così. Pam! Pom! Inghilterra uno, Italia zero, come da pronostico. Sul podio per la medaglia d’oro, s’il vous plait. Gli autografi e le donnine più tardi».
«Certo che sei proprio scemo» interruppe Snow, scambiando il sacchettino con il cronometro, che sbirciò «L’ho solo buttato a terra».
«L’ho solo buttato a terra» gli fece il verso l’amico «L’angelo della morte, altroché! Non ti facevo così pericoloso: un autentico uomo-cobra».
«Smettila».
«Non la ssssssmetto».
«Cretino!» Snow si sporse verso l’altro lato del tavolo e tirò un pugno sulla spalla di Mathieu, che si accartocciò, gemette appena e cominciò a ridacchiare.
«Voi due!» squittì Hermine.
«Shhht!» fece Denise, tornando con gli strumenti in mano.
«Blanchard, Foster, basta, per cortesia!»
La Chevalier li guardò da dietro gli occhiali tondi, poi, come se nulla fosse mai accaduto, tornò a parlare dell’importanza del velluto ‘blu di prussia’ per realizzare i sacchettini magici che tutti stavano cercando di comporre da più di due ore.
«Insomma, alla fine tu gli credi» disse tranquilla Denise, passandosi una mano tra i capelli corti «A Paolo, dico. Credi a quello che ti ha detto».
«Controlla il timer» aggiunse poi.
«Perché non dovrei? Credere a Paolo. Mancano due minuti».
«Bè, se posso» si intromise Mathieu.
«Non puoi».
«Per cominciare» continuò «Non ha esattamente la faccia raccomandabile, con tutti quei brufoli antiestetici: sembra una pizza con gli occhi».
«Vi prego ditemi che non fa sul serio» sospirò Denise.
«Ahimè ho paura di sì» disse Snow.
«Fatemi finire. Poi c’è quella faccenda del rumore strano che hai sentito, no? E anche il fatto che abbia già quattro Siv’ne. Insomma: quando mai si è sentito che uno prenda quattro monete in due mesi? Tre monete. Tre mesi. Insomma, quelli che sono. Quel tipo puzza, ve lo dico io. Fidatevi del mio fiuto infallibile, sono un cane da bugiardi».
«Il rumore strano non c’entra: l’ha detto anche Snow che non ha notato nulla di anomalo».
Snow annuì e guardò Paolo, di spalle e immobile, nell’unico gruppo della classe davvero intento a fare un buon lavoro.
«Secondo me è sincero» disse Snow tornando con lo sguardo un po’ sugli amici e un po’ sul cronometro «E ho passato al setaccio le mie monete: niente di niente. Tutto come prima. Insomma, le ha toccate, ma non è mai morto nessuno, no? Era un ticchettìo strano, è vero, ma cosa potrebbe aver mai fatto? Non mi viene in mente davvero nulla».
«Sarà, ma poi non dite che non vi avevo avvisati» bofonciò Mathieu massaggiandosi il punto colpito prima dal pugno di Snow.
«Ma se ti basi sui brufoli, che credibilità vuoi avere?»
«Comunque sono ufficialmente in camera con uno stalker» disse Denise «Certo, aveva dimostrato di essere particolarmente difficile, ma non credevo fosse così strano. Insomma, pedinarti nel bosco…».
«Forse era lì per caso» rispose Snow «O forse sta davvero cercando di capire cosa è successo nella Prima Sala. In fondo non se n’è saputo più nulla. Chissà se se ne stanno occupando ancora…» sospirò appena «Ad ogni modo ti assicuro che stare in camera con il cinese non è meglio: quelle poche volte che lo vediamo sa come farsi sentire. Ci discuto sempre».
«Come mai?»
Snow non rispose, anzi, trasalì appena percettibilmente.
Denise lo osservò stranita, in silenzio. Hermine aveva smesso di parlare e si era messa a scrivere sul registro. Anche gli altri sembravano essersi calmati.
«In pratica Snow non sopporta che il cinese ti chiami ‘gamma’» sciorinò con noncuranza Mathieu «E per questo, per poco non lo spaccava in due come un cocco, qualche sera fa. Sai, mi viene da pensare che ci sia anche lo zampino della linguaccia di Adrien, se sentiamo ancora parlare della stizza di Emilien & Co. nei nostri confronti. Secondo me il cinese fomenta tutto il fomentabile; mi sfugge solo il motivo. Dev’essere malato».
Quando smise di parlare, Denise era già chiusa a riccio, con lo sguardo abbassato e il viso rabbuiato. La guardò senza capire.
Snow sospirò, guardò l’amico e fece roteare gli occhi, sconsolato. Con il pollice e l’indice della mano destra disegnò una ‘L’, che portò alla fronte. Loser. Sfigato.
Mathieu si fermò un attimo a pensare e lì si rese conto che, forse, aveva combinato un piccolo pasticcio.
«Non trovi anche tu che ormai Snow sia inarrestabile?» le disse forzando un sorriso «Ormai è un violento. Penso abbia la rabbia, perchè schiuma dalla bocca alla minima provocazione. Ormai ne ha per tutti, mi ha tirato un pugno anche prima! Potremmo farci dei soldi, venderlo al mercato nero, fargli fare le battaglie contro i Siv’ku nei bassifondi americani».
Snow sospirò rassegnato, ma Denise alzò il viso e stirò appena le labbra. Il sorriso divenne più ampio quando Mathieu cominciò a imitare, pur mantenedo un tono di voce accettabile, i ringhi di chissà quali bestie bavose, senza il minimo contegno.
«Sono passati quasi cinque minuti, passami il colino, dai» disse lei a lui, mettendo fine al pietoso spettacolino da clown.
Snow trasalì e strinse forte il cronometro.
«Tre, due, uno…» trattenne il fiato.
Sul fondo del bicchierino la tormalina s’animò d’una luce che le conferì sfumature azzurrate. Quella che sembrava fioca, in realtà si dimostrò poi essere una luce densa, quasi fluida, non appena la pietra venne estratta dal contenitore e messa in un colino sospeso su un piccolo piatto. A vederla così, viva ma coperta da un velo opaco, la gemma sembrava pervasa da un’energia più intensa del Myst, ma che lo ricordava per fascino e movimento, lento, quasi geologico.
La osservarono ancora per un po’, poi Denise la fece scivolare su un tovagliolo di carta.
«Ma poi cosa ce ne facciamo di questi sacchettacci blu?» chiese Snow «Cioè, ce li teniamo?»
«L’hai già chiesto, Foster» disse Mathieu.
«Ma nessuno mi ha risposto».
Qualcuno urlò di stupore, alla loro destra. Jasmine applaudì contenta alla riuscita dell’esperimento del suo gruppo.
«Non credo ce li faranno tenere» rispose Denise «Penso verranno dati all’Accademia. Cioè, quelli usciti bene, intendo. Gli altri penso li smantellino, anche perché, se ci pensi, in ognuno di questi sacchetti ci stanno facendo mettere la tsavorite, che vale una fortuna. Sarebbe come regalarci un anello d’oro senza alcun motivo».
«Questa roba vale come un anello d’oro? Questa micro-caccola?» Mathieu fece scivolare dal sacchetto di velluto, sul palmo, una gemma verde più piccola di una nocciolina, ma perfettamente levigata e ovale.
«Esatto» annuì Denise «Tsavorite. Una protezione realizzata con quella, non solo difende dalle energie negative, ma fa anche da repellente per i Siv’ku. Per intenderci: c’è un bel po’ di tsavorite seppellita intorno all’Accademia e ai dormitori. Non scherma al cento percento, ma è comunque un buon deterrente».
«Strano che non lo sapessi» aggiunse «In fondo tuo padre è professore qui in Accademia».
«In genere non mi interesso a queste cavolate new age» concluse Mathieu.
«Io lo trovo interessante, invece. A volte» aggiunse lei, che con una palettina raccolse i frammenti delle pietre che avevano a disposizione e le inserì accuratamente nel pacchettino di velluto blu di Prussia, al quale Snow annodò poi, pigramente e per sette volte, un laccetto di fili d’argento e canapa.
«Gemmologia a me piace molto, e mi riesce anche bene. In fondo è anche matematica» riprese a spiegare Denise «Tipo, alcuni rituali vanno effettuati solo in seguito a calcoli fisici e astronomici particolari, e…»
«Sto già dormendo, fermati. Così mi uccidi» Mathieu agitò una mano a mezz’aria «Ecco svelato il motivo per il quale non studierò mai Gemmologia».
«Zitti un secondo» li ammonì Snow indicando la professoressa Chevalier «Stranamente è interessante».
«Per l’Accademia è diverso, signorina Mallory» squittì Hermine, mentre con le dita tamburellava sul registro di classe e con la punta del piede picchiettava il pavimento scabro «Dei miseri sacchettini non sarebbero bastati a proteggerla. Ci sono veri e propri monoliti sparsi nell’edificio e nascosti agli occhi, i cui effetti, combinati, ci assicurano l’immunità da pericoli e ostilità. A chi dobbiamo tutto questo? Federico Gorzetti, architetto italiano cresciuto nelle corti di Parigi, da semplice umano. La Gemmologia fu l’unica pratica del mondo dei Cyh’t che non rinnegò, e decise di applicarla all’arte della costruzione, con risultati strabilianti: vi confesso che neppure io, a distanza di quasi quattrocento anni, saprei rifare dei calcoli accurati come quelli condotti dal Gorzetti. Un genio. Un vero genio. L’architetto più bravo mai esistito. Anche per questa accademia, all’apparenza così semplice, Gorzetti…»
«Dove sono i monoliti?» interruppe Nikki, l’amica di Mallory, quella dai capelli rosso sangue e la personalità assente.
Hermine si illuminò a tal punto che l’orripilanza del suo trucco sbavato riuscì a passare in secondo piano per qualche istante. Stava aspettando quella domanda, così come, in fondo, un qualunque altro accenno di interesse.
Si sistemò gli occhialetti tondi sul naso e si alzò di fretta dalla cattedra, quasi ronzando come un insetto.
«Tsavorite dove sorge il Sole, simpsonite dove la sua luce non arriva, childrenite nel cielo, tra i venti e le nubi, boracite al centro, immersa nell’acqua, ma tra le rocce e la terra, a tenerle tra loro unite» sorrise appena «Sono gli appunti di Gorzetti. Dubito che qualcuno sappia ancora dove queste siano nascoste. Forse la Dottoressa Prinkett e pochi altri, chi lo sa. Come sapete la nostra Accademia è una creatura viva e in continuo mutamento, chissà quante stanze segrete ci saranno!»
Hermine e tutti gli altri rimasero in silenzio. Solo qualcuno stava ancora chiacchierando, sommessamente.
«Che strano sentire il silenzio in aula. Giubilo! Avanti, vediamo le vostre tormaline! Slacciate i sacchetti!»
 
***

L’occhio di Vyl’yhak, aggrovigliato in una matassa di nervi, si mosse al centro del corpo gelatinoso seguendo un’orbita con moto lento e costante. Quando emerse, l’iride si appiccicò lusinghiera alla persona che aveva di fronte, distante appena qualche passo.
Lo spazio era immerso in un buio fitto e viscoso. La bioluminescenza verde che lo stesso Siv’ku emanava permetteva a stento di intravedere i profili nudi delle pareti rocciose, e a Vyl’yhak questo generava un sincero stato di piacere, perchè per una volta non avrebbe dovuto sostenere il peso dello sguardo altrui.
Uno squarcio si aprì nel corpo melmoso col rumore di un risucchio e si modellò in qualcosa che ricordava vagamente un sorriso deforme, orribile.
«Chiedo umilmente perdono, ehk» gorgogliò il mostro «’Vyl’yhak devi portare a termine il compito in una settimana’ aveva detto, ‘Solo tu ci puoi riuscire’, ma ho provato e non è facile, ehk. È un compito molto complicato. Molto molto difficile. Davvero».
Le parole ritornarono a lui in un’eco che si perse poco dopo nelle tenebre.
«Ti ho sempre trattato con garbatezza, Vil’yhak, ma confesso che ti ritenevo più scaltro, come solo un vero braccio destro è in grado di essere. Pensavo che il fatto che fossi una creatura differente fosse un pregio, non una mancanza. A questo punto temo di averti sopravvalutato. Ma dimmi cosa devi ancora fare, avanti, non temere».
Braccio destro. Creatura differente.
L'eco glielo ripetè ancora due volte, per farglielo sentire bene. Il discorso in sé gli era sembrato duro, ma le singole parole usate bastavano a scaldarlo, così Vil’yhak gorgogliò e si mosse sul posto come minestrone rimestato in una pentola.
Una Garguille strillò nella profondità della terra, lontana. Quel posto ne era pieno, e a lui non piaceva l’idea. Il suo unico occhio sfarfallò, si tuffò nel corpo e ne riemerse.
«Ho avvicinato la piccola pietra nera alla grande pietra verde, come aveva detto, e quella si è spenta, come aveva detto, ehk. Allora l’ho allontanata, perché ‘Faremo tutto in una volta sola’, aveva detto, ‘Ma prima dobbiamo vedere se funziona, e preparare il terreno per quando sarà il momento giusto’, ehk. Così adesso le pietre nere sono nelle stanze delle grandi pietre, ma non tutte, perché ne manca una. Una pietra grande Vil’yhak proprio non la trova. Proprio no. Ho aperto anche il cancello nel passaggio segreto, che non è segreto per Vil’yhak, ma gli amici comunque non possono entrare. Forse serve un invito. Madame Prinkett può scrivere questo invito, forse, ehk».
Si sentì un sospiro leggero come un refolo di vento, o forse era proprio un refolo, perché Vil’yhak lo sentiva sulla sua pelle.
«Nessun invito, Vil’yhak. Non deve saperlo nessuno. Nessuno, va bene? I tuoi amici entreranno quando avrai finito con le pietre. Ora dimmi dove hai lasciato l’ultima nerolite».
«Non capisco, ehk».
«La pietra nera. Dove l’hai messa. Quella che devi accostare all’ultimo monolite, la pietra grande».
«Le custodisco in un posto segreto, ehk. ‘Nascondile’ aveva detto a Vil’yhak, e io le ho nascoste, ehk. Ho fatto male?».
Vil’yhak chinò la sua sommità superiore, nell’unico gesto di remissione che il suo corpo gli permetteva di adottare.
«No. Non hai fatto male, Vil’yhak. Hai fatto molto bene, ma dimmi che monolite manca».
«Non capisco, ehk».
«Quale pietra grande manca, dannazione!»
Vil’yhak vibrò con tutto il suo essere.
«Quella gialla è nel cielo,» mormorò «e questo povero Siv’ku non vola, ehk».
«Bè allora il povero Siv’ku dovrà imparare a farlo, o trovare altri mezzi, così avrà quello che gli è stato promesso e che gli spetterà di diritto. Ricordi?»
Vil’yhak era confuso: non sapeva se esser contento per l’idea della ricompensa o intimorito dal rimprovero. Esitò un istante per evitare di tradirsi con una reazione inappropriata, ma un sorriso si allargò involontariamente sul suo corpo, quasi a tagliarlo in due, mentre la testa tornava a sollevarsi fiera.
«Potrò diventare il padrone della Prima Sala, ehk? Davvero tutta?» azzardò.
Questa volta aveva sentito un sospiro, ne era certo.
«Sarai il padrone anche di tutta l’Accademia, Vil’yhak, se lo vorrai. In fondo te lo meriti: stai facendo un buon lavoro e sei un bravo essere. Stai facendo la cosa giusta, ma devi cercare di farla in fretta».
Erano davvero troppi complimenti da reggere: il Siv’ku si squagliò lentamente in una polla di muco che si allargò sul terreno scabro. Indugiò un’istante e cercò inizialmente di ricomporsi, ma poi traspirò del tutto e sparì nella roccia della grotta. Quando anche l’ultima goccia bioluminescente del suo corpo venne così assorbita, ovunque rimase solo il buio.

 
   
 
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