Maneggevole,
funzionale e facile da
montare. Così recitava il foglio delle istruzioni di
montaggio del mio nuovo
armadio Ikea, dove tre disegnini esplicativi mostravano un omino che in
pochi
passaggi riusciva ad assemblare un solido guardaroba partendo dalle
componenti
sparse presenti inizialmente nella confezione.
Fissai
il sorriso sul volto
dell'omino nell'ultimo dei disegni, quello in cui, a lavoro concluso,
ammirava
soddisfatto il suo bel mobile. Dopodiché spostai lo sguardo
attorno a me: un
campo di battaglia.
La
stanza, ancora invasa da abiti,
borse, scarpe ed ogni sorta di cianfrusaglie accumulate in
più di vent'anni
anni di vita, ora era anche riempita dai vari pezzi che avrebbero
dovuto
costituire il mio nuovo armadio.
Erano
le cinque di una domenica
pomeriggio di inizio febbraio e, in sei ore di lavoro ininterrotto, ero
riuscita a dare vita ad una costruzione astratta, a metà tra
Gaudì e
l'architettura razionalista, con un pizzico di Picasso, che certamente
non
assomigliava ad un armadio.
In
preda alla disperazione mi
accasciai a terra, tra viti e pezzi non ben identificati che non ero
riuscita a
capire a cosa servissero e dove dovessero andare, facendo attenzione a
non
sedermi sul trapano e a non calpestare il martello.
Il
libro di otorinolaringoiatria
giaceva abbandonato ai piedi del letto tra evidenziatori e appunti
sparsi.
Avevo
rinunciato a sei ore di studio
per creare un inquietante monumento che pareva la Tana, la casa dei
Weasley,
sviluppandosi in modo disordinato verso l'alto.
Avevo
dovuto rinchiudere Draco nel
bagno perché quando aveva visto il prodotto del mio duro
lavoro era impazzito e
aveva rizzato il pelo iniziando a miagolare in modo terrificante verso
di esso.
Se
fosse stato un cane avrei dovuto
spedirlo a quel programma su Real Time, quello con lo psicologo canino.
Ma per
Draco ormai l'unica soluzione restava un bravo esorcista.
Mi
rialzai dal parquet della mia
camera e ciabattai in cucina cercando Noel.
Ovviamente
sapevo già che chiedere il
suo aiuto corrispondeva a domandare a Kim Kardashian quanto costava un
litro di
latte del supermercato ma si sa che la speranza è l'ultima a
morire e che in
casi disperati l'essere umano tende ad appigliarsi dovunque pur di non
annegare
nel mare di pupù da cui è circondato.
Trovai
invece il mio stronzo cugino
spaparanzato allegramente sul nostro divano sfondato. Aveva gli occhi
chiusi e
le cuffiette dell'iPod nelle orecchie. Pur non facendo nulla trasudava
spocchia
e nobiltà da tutti i pori, dalla posa composta anche nel
sonno, stile mummia in
un sarcofago, perché fare sonnellini con gambe e braccia
buttate di qua e di là
era terribilmente plebeo, alla sua tenuta da casa, che non prevedeva
tute
improponibili o maglioni infeltriti e sbiaditi come la mia, consistente
in
morbido e caldo cardigan di alpaca color beige, pantaloni grigio scuro
e ai
piedi pantofoline di velluto con le sue iniziali ricamate in oro, tutto
mi
faceva ricordare quanto fosse incredibilmente borioso ed altezzoso
quell'essere
inspiegabilmente mio consanguineo.
Senza
troppi complimenti feci
atterrare il cuscino della poltrona accanto a me dritto sul suo bel
visino
serenamente addormentato.
Due
nanosecondi dopo il mio regal
parente aveva già perso tutti il suo aplomb, sostituito
invece da una sfilza di
epiteti poco carini riferiti alla sottoscritta dal linguaggio degno di
un mozzo
di una nave pirata.
Sebastian
era adorabile quando si
comportava da essere terreno e non da dio sceso in terra, anzi era
proprio
spassoso, soprattutto quando si arrabbiava o era terribilmente triste e
sconsolato.
A
sette anni lanciò il suo esercito
di Power Ranger parlanti nella piscina della casa in Costa Smeralda
perché
voleva vedere se avrebbero iniziato a nuotare per salvarsi. Quando il
giardiniere li ripescò fradici e destinati al mutismo
perenne, grazie al
bagnetto a cui le batterie e i cavetti elettrici nella loro schiena
erano stati
sottoposti, Sebastian pianse l'anima. Iniziò a sparire
sempre più spesso e ogni
giorno, dopo ore di ricerca, lo ritrovavano in angoli remoti della
villa in
compagnia dei suoi giocattoli rotti. Quando sua madre, stanca di quelle
fughe,
spedì qualcuno a comprare una squadra nuova fiammante di
Power Ranger,
Sebastian urlò così forte e pestò i
piedi così violentemente da far venire un
mini infarto alla nonna e da far scappare a gambe levate la sua tata
svizzera,
traumatizzata dagli strilli demoniaci del bambino. Il resto della
vacanza era
trascorso con una piccola Cecilia cicciotta che faceva castelli di
sabbia e
passava ore in acqua con il suo salvagente a forma di cavalluccio
marino,
mentre Sebastian stava tutto il giorno a seppellire e disseppellire
quei poveri
Power Ranger muti e rovinati senza proferire parola.
«Sai
montare un armadio?», gli
domandai ignorando i suoi continui borbottii.
«Secondo
te?»
Ovviamente.
Era probabile che si
fosse appena fatto fare la manicure e quindi che cosa mai andavo a
pensare.
Sebastian che forniva un qualche aiuto? Ma quando mai!
Avrei
dovuto prevederlo dal momento
che lui era la stessa persona che alla mia telefonata, da una stradina
dispersa
nella campagna del Kent con l'auto in panne, mi aveva risposto
laconico,
«Chiama un carroattrezzi». Quando lui era a quattro
kilometri da me dato che
stavo cercando di raggiungerlo quando l'auto aveva dato forfait e il
carroattrezzi probabilmente ci avrebbe impiegato ore.
Il
principino mi diede le spalle
rotolando su un fianco, facendomi intendere chiaramente di voler
continuare a
riposare indisturbato.
«Grazie
mille davvero!», sbottai
indispettita prima di girare sui tacchi e tornarmene in camera.
«Chiama
tuo papà e fatti mandare
qualcuno», mi strillò dal salotto il damerino che
non poteva assolutamente far
qualcosa di prima persona ma doveva sempre delegare, a suon di sterline
ovviamente.
Piuttosto
che chiamare papà mi sarei
tenuta quella meravigliosa opera d'arte che ora capeggiava ai piedi del
mio
letto.
Ripescai
da terra il libretto delle
istruzioni; magari mi era sfuggito qualcosa e rileggerlo si sarebbe
rivelato
utile.
07499674531
Nel
caso avessi bisogno di
aiuto.
E.
Avete
presente quando si dice una
manna dal cielo? Ecco, l'appunto scribacchiato da Ezra su un angolo
spiegazzato
del volantino esplicativo giunse come un raggio di sole dopo giorni e
giorni di
maltempo.
Tempo
un minuto ed ero già intenta a
digitare in modo febbrile il numero sullo schermo del mio telefono.
Squillò
otto volte a vuoto, alla
nona, una voce assonnata mugugnò,
«Pronto?»
Anche
questo fu un caso fortuito
perché io ogni volta che chiamavo qualcuno facevo
esattamente nove squilli
dopodiché, in assenza di risposta, desistevo e riattaccavo.
«Ezra?
Ti ho svegliato?», chiesi
dubbiosa lanciando un'occhiata alla radiosveglia sul comodino.
5.47
p.m.
Magari
stava emulando il mio nobile
cugino ed era perso nel mondo dei sogni su un divano a qualche
kilometro di
distanza.
«Chi
parla?», sonoro sbadiglio e voci
in sottofondo.
Avevamo
scambiato due parole in croce
e già mi sentivo terribilmente imbarazzata e a disagio.
Perché lo avevo
chiamato? Ci conoscevamo a malapena e prima di incontrarci all'Ikea non
avevamo
neanche mai avuto una vera conversazione.
«Cecilia?»,
un'ombra di sorpresa
nella voce.
«Ehm
si», confermai sommessamente,
«Ti ho disturbato?», domandai nuovamente.
Se
era vero, come sospettavo, che si
era appena svegliato era probabile che fosse ancora un pochetto
rimbambito
dalla siesta.
Fruscii,
una porta sbattuta e un
colpo di tosse arrivarono dall'altro lato della cornetta.
Dove
accidenti era? E con chi?
«Oh
no, no. Come fai ad avere il mio
numero?»
Ok,
il sonnellino pomeridiano che
poteva averlo rintronato un pochetto ma erano passate poco
più di
ventiquattr'ore dal nostro ultimo incontro. Probabilmente faceva uso di
sostanze non ben identificate ma sicuramente brucia neuroni.
«Me
lo hai dato tu», spiegai con una
punta di fastidio. «Ieri», specificai.
«Ti
serviva qualcosa?», nuove voci in
sottofondo, il suono di un clacson, delle risate trattenute.
«Deduco
tu sia impegnato. Lascia
stare, grazie lo stesso e scusami», cercai di congedarmi
senza far percepire la
mia confusione dopo quella stramba telefonata.
«No,
Cecilia, aspett-»
Troppo
tardi, avevo già riattaccato.
Cecilia
Lawrence non mendicava le
attenzioni di nessuno e comprendeva benissimo quando stava disturbando
qualcuno.
Mollai
la stanza nel caos in cui si
trovava e sconsolata andai in cucina con l'intenzione di prepararmi un
thè
caldo, sebbene in ritardo sulla tabella di marcia, completamente
stravolta a
causa dell'imprevisto dell'armadio.
Riempii
di acqua il bollitore e lo
accesi. Preparai una tazza e poi avvicinai una sedia alla dispensa,
prima di
arrampicarmici sopra per raggiungere il ripiano più alto e
acciuffare la
scatola nuova di bustine di Earl Grey.
Mentre
aspettavo che l'acqua
giungesse ad ebollizione l'occhio mi cadde sulla lavagnetta magnetica
affissa
sul frigorifero.
Sono
tornato a casa.
Ci
vediamo martedì.
Ti
spiegherò.
In
bagno sempre quindici
minuti, ho impostato un timer nella doccia.
Bacini
Cece (e Seb)
N.
Quella
si che era una notizia
preoccupante. Noel avrebbe preferito essere essere picchiato con un
bastone di
bambù sotto le piante dei piedi piuttosto che fare ritorno a
casa sua per una
causa che non fosse una festività comandata.
La
famiglia Donovan viveva a Exeter e
rappresentava tutto ciò da cui Noel aveva disperatamente
cercato di sfuggire
dall'età di dieci anni. Madre casalinga, padre avvocato di
provincia, villetta
a schiera, pastore tedesco, station wagon familiare, vacanze sempre nel
medesimo luogo tutte le estati. Erano una famiglia molto unita, i suoi
genitori
erano delle persone molto cordiali ed entrambe le volte che li avevo
incontrati
erano stati particolarmente carini nei miei confronti. Noel
però temeva che la
vita dei suoi genitori, ai suoi occhi terribilmente ordinaria e
monotona,
potesse diventare lo stampo della sua. Quando a diciotto anni Noel
disse ai
suoi genitori di essere gay, appena prima di fare i bagagli e partire,
solo e
squattrinato, per Londra, loro non la presero molto bene. Suo padre che
aveva
risparmiato per anni in vista delle spese della facoltà di
legge di Cambridge
che Noel avrebbe dovuto frequentare secondo i suoi progetti dovette
rassegnarsi
al fatto di avere un figlio che già a undici anni leggeva il
Financial Times
invece dei fumetti. Sua madre che segretamente aveva già
sferruzzato dozzine di
piccoli maglioni, piccole calzine e piccoli berrettini per i suoi
nipotini,
figli del suo unico figlio, aveva dovuto chiudere tutto in soffitta,
consolandosi con l'idea che almeno non avrebbe mai dovuto fare la
guerra ad
un'eventuale nuora che pensava di saperne più della suocera.
Anni
più tardi, accettato il fatto di
avere un figlio omosessuale e genio della finanza, continuavano a
telefonargli
per assicurarsi che si nutrisse, cosa che faceva indubbiamente,
complice un
metabolismo da tritatutto che gli invidiavo con tutto il cuore, che non
spendesse più di quanto guadagnasse, cosa su cui stava
ancora lavorando, e per
informarsi riguardo ad eventuali ragazzi da presentare loro.
Noel
inventava sempre qualche scusa
poco credibile per sfuggire alla voce di sua madre che si preoccupava
proveniente dalla nostra segreteria telefonica e così finiva
che ero sempre io
a prendere le chiamate, dispiaciuta per il modo in cui Mrs. Donovan
veniva
costantemente ignorata dal figlio, e a fare lunghe chiacchierate con
lei. Avevo
scoperto così che era una donna dai mille interessi, dal
cake design alla
pittura ad olio, passando per lo squash e i tornei di burraco.
Quando
il bollitore iniziò a
borbottare e fischiare in modo insistente lo spensi. Pescai
dall'armadietto la
scatola in cui tenevo i miei biscotti preferiti, le digestive.
Stavo
versando l'acqua bollente nella
tazza quando il campanello alla porta suonò.
Non
mi illusi neanche per un momento
che sarebbe andato Sebastian ad aprire, abituato com'era ad avere un
maggiordomo era già tanto se rispondeva lui in persona al
suo cellulare.
Sbirciai
dallo spioncino e per farlo
dovetti alzarmi in punta di piedi, un giorno qualcuno mi avrebbe
spiegato
perché nel nostro palazzo tutto sembrava costruito per il
popolo dei watussi.
Ezra.
Anzi,
per essere più precisi, Ezra
una chitarra e un amplificatore.
Aprii
la porta sostando sulla soglia,
non avevo ancora deciso se farlo entrare o meno.
Dopotutto
meno di dieci minuti prima
aveva impiegato mezzo secolo a ricordarsi chi fossi e si era a malapena
trattenuto dallo sbadigliarmi in faccia, ok tecnicamente in faccia alla
cornetta, ma l’effetto sarebbe stato il medesimo.
«Cecilia,
ricordi?», domandai
indicandomi.
Lui
alzò gli occhi al cielo e sbuffò,
«Sono assonnato, non stupido»
«Davvero?»,
lo punzecchiai, «Non me
ne ero accorta, perdonami»
Simpatia
portami via.
Lui
fece un cenno verso la custodia
dello strumento che portava sulle spalle, «Mi fai
entrare?»
Certo
caro, e ti stendo anche un
tappeto rosso, con lancio di petali profumati al tuo passaggio.
«Cosa
vuoi?», domandai scontrosa.
Io
sapevo senza dubbio come farmi
degli amici.
Ezra
sollevò un sopracciglio e
assunse un’espressione scocciata, «Non ti serviva
aiuto per caso?», si passò
distrattamente una mano tra i capelli arruffandoli ancora di
più, «Io il numero
te lo avevo lasciato per quello, non per telefonarci a vicenda e
raccontarci i
nostri drammi sentimentali»
«Io
non ho drammi sentimentali»,
commentai piccata.
Come
si permetteva?
Lui
fece spallucce e mi superò senza
aspettare che mi spostassi dalla soglia, finendo così per
strusciare il suo
braccio destro contro il lato sinistro del mio corpo.
Era
proprio un maleducato, altroché!
«Che
mi dici di Jack?», mi sussurrò
piano in un orecchio sfiorandomi per un secondo il lobo con le labbra,
prima di
dirigersi in soggiorno ed esclamare, «Hey! Che ci fa Seb sul
tuo divano?»
Come
diamine faceva a sapere di Jack?
Che domande! Noel il pettegolo ovviamente. Lui e la sua assoluta
incapacità di
tenere la sua boccaccia chiusa e di farsi gli affari propri. Un giorno
gli
avrei sul serio tagliato lingua e dita per fare in modo che la sua
persona non
potesse più diffonder, tramite parole e frasi scritte,
notizie false e
infiocchettate dalla sua fervida e malata immaginazione che non
riguardavano
lui.
Mentre
chiudevo la porta e spingevo
l’amplificatore, con un peso che probabilmente gareggiava con
quello di una
balenottera azzurra, contro al muro, dato che Ezra lo aveva
semplicemente
mollato nel bel mezzo dell’ingresso, sentii la risata del mio
nobile cugino
provenire dall’altra stanza.
La
scena che mi si parò davanti agli
occhi fu piuttosto inaspettata. Il mio adorato parente stava
abbracciando
entusiasticamente Ezra, il quale sorrideva incredulo e gli restituiva
altre
pacche affettuose, ai loro occhi, probabilmente a me avrebbero sfondato
la
cassa toracica.
«Ezra
Cunningham! Che fine avevi
fatto?», esclamò Sebastian non appena si
separò da quello che pareva essere un
suo grande amico.
Ezra
seguì l’esempio del compare e si
sedette sul divano, ignorando bellamente la mia persona.
«Io
sono andato a studiare a Parigi»,
si giustificò quello, «Tu invece dove sei sparito?
Nessuno è più riuscito a
rintracciarti o ad avere tue notizie…»
Mi
accovacciai sul bracciolo della
poltrona, incuriosita da quei due, «Oh, è stato
per un po’ negli States a fare
la cosa che gli viene meglio», commentai aspra.
«E
cioè?», domandò interessato Ezra
sorridendo al cuginastro.
«L’idiota»,
chiosai candida.
Purtroppo
non avevo mai avuto dei
buoni riflessi, come le molteplici pallonate ricevute al liceo
testimoniavano,
e così mi scansai troppo tardi e la pantofola lanciatami da
quel deficiente con
cui condividevo l’albero genealogico mi colpì
dritta in fronte per poi cadere
con un tonfo a terra.
Mugugnai
di dolore e mi massaggiai il
punto in mezzo agli occhi dove ero stata centrata, manco fossi un tiro
al
bersaglio.
«Sono
contenta che torni la tua pazza
e sclerotica madre, sono davvero contenta», sibilai cattiva,
facendomi sfuggire
ciò che papà mi aveva fatto giurare sulla testa
di Bisnonno Samuel di non
rivelare a Sebastian.
Mi
portai subito le mani alla bocca,
desiderando ardentemente di aver tenuto la bocca chiusa.
Sebastian
sbiancò visibilmente e si
alzò dal sofà iniziando a girare in tondo per il
salotto.
Questo
voleva dire che, avendo io
rotto la promessa fatta, il nonno sarebbe stato colpito da una qualche
sorta di
maledizione senza perdono?
«Dov’è
ora?», domandò terreo.
Aveva
gli occhi spalancati, colmi
quasi di terrore, e continuava a contorcersi le mani senza sosta.
«A
L.A. credo. Sarà a Heathrow
domattina», bisbigliai in preda ai sensi di colpa.
Lo
vidi annuire brevemente prima di
eclissarsi in camera sua, telefono alla mano, un cenno distratto
diretto a
Ezra.
Se
c’era una cosa che mandava
completamente a farsi fottere il bel castello fatto di alterigia e
raffinatezza
in cui Sebastian si rifugiava quella era sua madre.
Calliope
Seraphina Lawrence. Detta
anche PsicoZia, a causa della sua pazzia, ormai accertata e accettata
da tutta
la famiglia.
Sospirando
sconsolata feci segno ad
Ezra di seguirmi e a passi lenti mi diressi nella mia stanza,
assicurandomi di
lasciare aperta la porta.
Mi
lasciai cadere sul letto, lo
sguardo rivolto alla mia creazione astratta.
Vidi
come si guardava attorno
curioso, studiando ogni dettaglio, dalla stampa di Warhol appesa sopra
al comò
di sinistra alla poesia di Pessoa scarabocchiata sui post-it sparsi
sulla
scrivania; vidi e mi sentii quasi nuda di fronte al suo sguardo
scrutatore. Ma
non era uno scrutare che ti metteva imbarazzo e ti faceva sentire
giudicata,
no, era come uno sguardo bramoso di sapere di più,
desideroso di guadagnarsi il
permesso di guardare le cose più da vicino.
La
mia stanza era sempre stata il mio
rifugio e io tendevo a trasformare in qualcosa di mio e solo mio tutto
ciò che
lo era, anche se per un breve periodo.
E
così quando mi ero trasferita in
quell’appartamento avevo dipinto le pareti da sola, due
bianche e due color
verde acqua, avevo scovato stampe di quadri famosi al mercatino di
Portobello
Road e le avevo affisse alle pareti, seguendo un ordine che agli occhi
degli
altri pareva caotico ma che era chiarissimo nella mia mente.
E
così Schiele,
Warhol, Manet, Kokoschka, Rembrandt
e Botticelli erano solo alcuni degli artisti più celebri che
con le loro opere
rendevano più bello il mio piccolo mondo.
Citazioni,
stralci di frasi e versi
di poesie completavano l’opera, scritti su fogli volanti, su
appunti fissati
alla testata del letto con un pezzetto di scotch, dipinti sulla
porzione di
muro accanto alla porta.
Avevo
una passione immensa per
l’arte; adoravo tutto: musica, pittura, scultura,
architettura, teatro, cinema,
letteratura, poesia.
«Questo
quadro è qualcosa di
spettacolare e terrificante al tempo stesso…», lo
sentii commentare piano alle
mie spalle.
Quando
mi voltai lo vidi di fronte al
muro, intento ad ammirare una piccola riproduzione di un quadro che mi
lasciava
da sempre senza parole, regalandomi in egual misura inquietudine e
profonda
pace.
Si
trattava de L’isola dei morti di
Arnold Böcklin, quadro che rappresentava
un’isola, dalle alte pareti rocciose, che sembrano quasi
racchiuderla, e al
centro dei cipressi, alti e svettanti verso il cielo. Nella porzione di
mare
antistante la macchia di terra è presente una piccola
imbarcazione che si sta
avvicinando, su questa sono presenti due figure, di cui una
incappucciata di
bianco, e una piccola bara del medesimo colore del manto del passeggero.
Mi riscossi dallo stato
pensieroso in cui ero
caduta e gli ricordai il motivo per cui eravamo lì,
«Potresti darmi una mano
con l’armadio?», lo interrogai, indicando
timidamente la forma prima di forma
in verità ai piedi del letto.
Una
risata ruppe la quiete di quel
tardo pomeriggio e riecheggiò tra le pareti
dell’appartamento silenzioso.
«Quello…»,
iniziò, presto interrotto
da un nuovo attacco di ilarità, «Quello
è l’armadio che abbiamo comprato ieri?»
Abbiamo?
Si
avvicinò alla mia opera mentre io
mi mordicchiavo nervosa un labbro.
Era
davvero imbarazzante. Anzi, era
assolutamente vergognoso che una quasi dottoressa, capace di suturare
alla
perfezione delle ferite, non fosse in grado di montare uno stupido
armadio Ikea
che, come mi ricordava il viso sorridente del tizio del manuale, era
molto
semplice da assemblare.
Per
non parlare della mia incapacità
di cucinare un misero uovo alla coque, di separare nel modo corretto i
colori
in lavatrice e calibrarne i gradi di lavaggio e di utilizzare il forno
senza
l’intervento di una squadra dei pompieri.
Ezra
mi sorrise incoraggiante, «All’opera!».
Si sfilò il maglione a righe che indossava e
restò con una vecchia t-shirt
sbiadita dei Dire Straits.
Le
successive due ore trascorsero in
un soffio. Ezra era un ottimo insegnante e, dopo aver smontato la mia
creazione, non si limitò a rimontarlo nel modo corretto ma
mi mostrò e mi
spiegò a cosa servissero tutte quelle viti e quei coni di
plastica bianca che
assomigliavano tanto a delle cialde per gelato.
Quando
l’opera fu completa ci
sedemmo, fianco a fianco, ai piedi del letto per ammirare il frutto del
nostro
lavoro.
«Ottima
scelta, è proprio un
bell’armadio! Chissà chi te lo ha
consigliato...», ridacchiò lui facendo
dondolare i piedi.
Incrociai
pigramente le gambe, «Un
meraviglioso commesso Ikea! Occhi color zaffiro, capelli
così biondi da
sembrare bianchi, origini svedesi come i mobili che vendeva, lo
conosci?», gli
domandai prendendolo in giro.
«Probabilmente,
se i commessi Ikea
corrispondessero davvero alla tua descrizione, Noel si sarebbe
già accampato in
modo permanente in uno dei letti a baldacchino
dell’esposizione del reparto
zona notte…»
Scoppiai
a ridere immaginandomi la
polizia intenta a trascinare via di peso il mio coinquilino che,
resistendo con
tutte le sue forze, si opponeva aggrappandosi alle coperte del letto
occupato
abusivamente per spiare i bei commessi.
«Elimina
il probabilmente, lo farebbe
di sicuro!», mi passai una mano sugli occhi, era da quella
mattina che portavo
le lenti a contatto e la stanchezza iniziava a farsi sentire,
«Dov’eri quando
ti ho chiamato?», gli domandai cercando di non perdere il
filo dei miei
pensieri in quegli enormi occhi verdi che mi fissavano brillanti.
Sospirò
ed abbassò un attimo lo
sguardo prima di rialzarlo deciso e tornare a guardarmi in quel suo
modo troppo
intenso, «Stavo dormendo nel retro di un pulmino. Stavamo
tornando da un
concerto e ho passato la notte in bianco»
Questo
spiegava il perché di tutto
quel trambusto in sottofondo e della voce assonnata.
«Non
suoni con i ragazzi ora?»
Adam,
Noel e Oliver avevano approvato
il suo ingresso nella band e così ora gli Sleepless Nights
avevano un nuovo
chitarrista. Dopo Jack.
«Sì,
ma quando capita faccio anche
dei piccoli concerti acustici come solista», mi
spiegò, piegando leggermente la
testa verso destra, «Sai, per racimolare
qualcosina…»
Lo
disse piano, quasi come se fosse
una cosa di cui vergognarsi. Ma eravamo tutti sulla medesima barca; la
nostra
intera generazione, lauree in tasca e dottorati in dirittura di arrivo,
si
reinventava in continuazione per riuscire ad arrivare alla soglia dei
trent’anni camminando sulle proprie gambe.
Bastava
guardare me e le prolungate
ore di tortura a cui mi sottoponevo volontariamente, tra
babysitteraggio e
ripetizioni, per cercare di guadagnare qualcosina e al tempo stesso non
commettere infanticidi. O Hannah che lavorava in questa radio in stile
underground, che aveva sede in un capannone ammuffito e decorato da
fitte
ragnatele a Mayfair, dove trasmetteva musica deprimenti di artistoidi
pseudo
intellettuali la cui musica avrebbe istigato al suicidio anche la
persona più
gioiosa e amante della vita. Sienna, aspirante futuro direttore di
Vanity Fair
UK, per il momento si accontentava di scrivere articoli riguardanti gli
ultimi
stilosi tagli del pelo dei barboncini di qualche baby cantante appena
partorita
da un qualche talent o in cui doveva mentire spudoratamente e riempire
due
colonne intere di lodi nei confronti del look monotono e sempre uguale
di
Angela Merkel. Adam, laureato in scienze politiche, mentre aspettava di
diventare un deputato di spicco, aggiustava auto d’epoca e
cercava nuovi palchi
da calcare per far conoscere gli Sleepless Nights. Oliver era
l’unico ad avere
un lavoro fisso con uno stipendio di tutto rispetto e il suo essere un
genio
dell’informatica sicuramente aveva giocato un ruolo di spicco.
Noel
invece, pur guadagnando
letteralmente una barca di soldi laggiù nel cuore pulsante
della City, riusciva
a restare puntualmente senza un pound prima della metà del
mese.
«Suoni
e canti?»
Annuì
e io sempre più curiosa non
riuscii a trattenermi, «Mi fai sentire qualcosa?»
Amavo
la musica anche se avevo dei
gusti molti particolari. Gli anni ’80 erano per me
l’età dell’oro della musica,
con sporadiche eccezioni nei decenni che li precedevano e succedevano.
Ero
fermamente convinta che il nuovo millennio non offrisse
novità molto
significative in campo musicale e l’unica corrente che
apprezzavo era l’indie
rock, genere suonato e prediletto anche dalla band dei miei amici.
Lasciandomi
di stucco, già pronta
com’ero a insistere e combattere contro una timidezza fuori
luogo, si alzò e
sparì oltre la soglia della camera.
Tornò
pochi istanti più tardi e, dopo
aver accostato la porta, tornò a sedersi sul letto a gambe
incrociate.
«Richieste
particolari?»
«Libertà
assoluta», lo incoraggiai.
Mi
fissò titubante, «Sii clemente, ti
prego», mi supplicò accennando un sorriso.
Dopodiché
imbracciò per bene lo
strumento, sistemandolo con cura sulle cosce e abbassando il capo,
concentrato
solo su quelle sei corde.
E
poi iniziò a sfiorare leggero le
corde, la testa chinata che non mi permetteva di vedergli il volto e
una dolce
melodia a me sconosciuta nell’aria.
Through
my window, cold wind blowing
I can't take this
I can't take no more
Ero
pronta a tutto. A tutto ma non a
questo.
Cars they race by, burning headlights
In the mirror, I watch myself cry
Play me a simple song, so I can sing along
Cherry blossoms in spring, they mean everything.
Adam
aveva una voce indiscutibilmente
bella. Era talentuoso e tutti lo riconoscevano.
Ezra
no, aveva una voce imperfetta,
dal timbro vibrante eppure incerto. Più che cantare pareva
sussurrarti
all’orecchio.
In my soul I'm aching to grow
Longing for a love I've never known
My own life has taken its toll
Drunk on whiskey, God don't let me go.
Era
l’esperienza più destabilizzante
di cui ero mai stata testimone. Pareva che quelle parole mi cullassero,
mi
confortassero e al tempo stesso mi dessero un pugno dritto in volto.
Provavo
un’immensa malinconia ed ero
divisa tra un dolore pressante che mi faceva venire voglia di lasciarmi
andare
e piangere e un conforto, una dolce promessa che tutto sarebbe andato
per il
verso giusto.
Play me a simple song, so I can sing along
Cherry Blossoms in spring, and all the joy that it brings
Cause I've been out on the road, driving with no place to go
From Cheyenne out to Frisco, I'm dying to find me a home
Sembrava
completamente rapito dalla
musica e solo verso la fine rialzò il viso e mi accorsi che
teneva gli occhi
chiusi, le dita che danzavano libere ed esperte sulle corde.
Take me home,
Take me home,
Take me home,
Take me home.
Le
ultime parole si spensero
nell’aria e il silenzio tornò a fare da padrone.
La
mia mancanza di commenti fu
interpretata probabilmente come un muto dissenso perché Ezra
mi domandò
preoccupato, «Così male?»
E
aveva un’espressione così
corrucciata e degli occhi così luminosi che io non ce la
feci e scoppiai a
piangere come una bambina.
Cercai
di asciugare rapidamente le
lacrime che sempre più copiose mi rigavano le guance ma era
come tentare di
arrestare un fiume in piena utilizzando un fazzolettino di carta.
Arraffai
alla cieca la scatola di
kleenex, onnipresente sul mio comodino, e mi soffiai rumorosamente il
naso. Non
osavo alzare lo sguardo per paura di scoprire che Ezra era fuggito di
fronte a
questo sfoggio di folle emotività.
Sentii
una leggera pressione sul capo
e mi resi conto che Ezra aveva abbandonato la chitarra sul pavimento
per poi
avvicinarsi a me e cingermi delicatamente tra le braccia, lasciandomi
delle
lievi carezze sui capelli.
«Ho
reagito nell’esatto modo quando
l’ho sentita per la prima volta…»,
cercò di consolarmi cullandomi piano.
Nel
sentire ciò nuovi singhiozzi mi
scossero il petto. Mi scostai brusca e tra una cortina di lacrime lo
squadrai
torva, «Credi davvero che sia stata la canzone?»,
domandai dandogli una spinta,
«Tu! Sei stato tu! Io non piango mai e ora
guardami…sto producendo più acqua di
quanta non ce ne sia nella fontana di Trafalgar Square!»
Lo
spintonai nuovamente cercando di
allontanarmi da lui ma lui mi imprigionò i polsi e mi
fissò negli occhi. Lo
vedevo sfuocato a causa delle lacrime che continuavano a scendere
inarrestabili
ma vidi benissimo le meravigliose fossette che mi salutarono maliziose
dagli
angoli della sua bocca un attimo prima che mi scoppiasse a ridere in
faccia.
Rideva
e non mi lasciava andare,
rideva e io continuavo a piangere e la situazione era così
assurda da essere
semplicemente comica. E resami conto di ciò mi lasciai
andare anche io ad una
timida risatina.
«Sei
un idiota e non ci credo che hai
pianto per questa canzone», esclamai liberandomi dalla sua
stretta e cercando
di asciugarmi, almeno sommariamente, il viso.
«E
fai bene dato che non è vero», mi
rispose sogghignando, «Adoro le fan come te, soprattutto
quando passata la fase
dello sciogliersi in lacrime passano a quella in cui tentano di
strapparsi gli
abiti di dosso, strillano come degli aquilotti neonati e paiono
possedute»
Gli
mollai uno scappellotto
all’istante, «Sei un idiota! E probabilmente la tua
unica fan sarà tua madre»,
insinuai maligna.
«E
non dimentichiamoci della Bisnonna
Violet! Con lei sono a quota due…»,
commentò fiero.
Allungai
una mano e gli scompigliai i
capelli, «E con me fanno tre», sussurrai prima di
alzarmi e andare a vedere che
fine avesse fatto il cugino disperso.
La
canzone è Cherry
Blossoms dei Night Beds.
Grazie
a tutti i lettori silenziosi, grazie davvero.
S.