Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: HannibalLecter    04/08/2015    1 recensioni
Londra, Regno Unito. Cecilia, quasi medico, soprannominata Voldemort, a causa del suo gatto Draco e dei suoi comportamenti a volte aggressivi e psicotici, sopravvive grazie alla scorta di gelato nel suo freezer, alle serie Tv che le fanno trascorrere notti insonni e ai suoi amici, tutti più sciroccati di lei. C'è Noel, suo coinquilino gay, isterico e vanesio, batterista chiassoso e commercialista da strapazzo che tiene sotto controllo le spese di tutti tranne le sue, la sua amica Sienna, logorroica e fashion victim senza speranza di guarigione, i fratelli Adam, egocentrico e mono neuronico, dotato però di una voce stupenda, e Hannah, ecologista, vegetariana, animalista, femminista e qualsiasi cosa finisca con -ista e implichi cortei di protesta, incatenamenti ai cancelli del parlamento, scioperi della fame o incursioni notturne per liberare le foche dello zoo, Sebastian, cugino altolocato e insopportabilmente saccente e poi c'è Ezra che non somiglia per nulla a Derek Shepherd, Jon Snow o Matthew Crawley eppure fa ballare lo stesso il flamenco agli ormoni di Cece con le sue fossette e i suoi accordi di chitarra.
Di che cosa parla veramente questa canzone? Di tutto ciò e di niente di tutto ciò.
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

 

 

Maneggevole, funzionale e facile da montare. Così recitava il foglio delle istruzioni di montaggio del mio nuovo armadio Ikea, dove tre disegnini esplicativi mostravano un omino che in pochi passaggi riusciva ad assemblare un solido guardaroba partendo dalle componenti sparse presenti inizialmente nella confezione.

Fissai il sorriso sul volto dell'omino nell'ultimo dei disegni, quello in cui, a lavoro concluso, ammirava soddisfatto il suo bel mobile. Dopodiché spostai lo sguardo attorno a me: un campo di battaglia.

La stanza, ancora invasa da abiti, borse, scarpe ed ogni sorta di cianfrusaglie accumulate in più di vent'anni anni di vita, ora era anche riempita dai vari pezzi che avrebbero dovuto costituire il mio nuovo armadio.

Erano le cinque di una domenica pomeriggio di inizio febbraio e, in sei ore di lavoro ininterrotto, ero riuscita a dare vita ad una costruzione astratta, a metà tra Gaudì e l'architettura razionalista, con un pizzico di Picasso, che certamente non assomigliava ad un armadio.

In preda alla disperazione mi accasciai a terra, tra viti e pezzi non ben identificati che non ero riuscita a capire a cosa servissero e dove dovessero andare, facendo attenzione a non sedermi sul trapano e a non calpestare il martello.

Il libro di otorinolaringoiatria giaceva abbandonato ai piedi del letto tra evidenziatori e appunti sparsi.

Avevo rinunciato a sei ore di studio per creare un inquietante monumento che pareva la Tana, la casa dei Weasley, sviluppandosi in modo disordinato verso l'alto.

Avevo dovuto rinchiudere Draco nel bagno perché quando aveva visto il prodotto del mio duro lavoro era impazzito e aveva rizzato il pelo iniziando a miagolare in modo terrificante verso di esso.

Se fosse stato un cane avrei dovuto spedirlo a quel programma su Real Time, quello con lo psicologo canino. Ma per Draco ormai l'unica soluzione restava un bravo esorcista.

Mi rialzai dal parquet della mia camera e ciabattai in cucina cercando Noel.

Ovviamente sapevo già che chiedere il suo aiuto corrispondeva a domandare a Kim Kardashian quanto costava un litro di latte del supermercato ma si sa che la speranza è l'ultima a morire e che in casi disperati l'essere umano tende ad appigliarsi dovunque pur di non annegare nel mare di pupù da cui è circondato.

Trovai invece il mio stronzo cugino spaparanzato allegramente sul nostro divano sfondato. Aveva gli occhi chiusi e le cuffiette dell'iPod nelle orecchie. Pur non facendo nulla trasudava spocchia e nobiltà da tutti i pori, dalla posa composta anche nel sonno, stile mummia in un sarcofago, perché fare sonnellini con gambe e braccia buttate di qua e di là era terribilmente plebeo, alla sua tenuta da casa, che non prevedeva tute improponibili o maglioni infeltriti e sbiaditi come la mia, consistente in morbido e caldo cardigan di alpaca color beige, pantaloni grigio scuro e ai piedi pantofoline di velluto con le sue iniziali ricamate in oro, tutto mi faceva ricordare quanto fosse incredibilmente borioso ed altezzoso quell'essere inspiegabilmente mio consanguineo.

Senza troppi complimenti feci atterrare il cuscino della poltrona accanto a me dritto sul suo bel visino serenamente addormentato.

Due nanosecondi dopo il mio regal parente aveva già perso tutti il suo aplomb, sostituito invece da una sfilza di epiteti poco carini riferiti alla sottoscritta dal linguaggio degno di un mozzo di una nave pirata.

Sebastian era adorabile quando si comportava da essere terreno e non da dio sceso in terra, anzi era proprio spassoso, soprattutto quando si arrabbiava o era terribilmente triste e sconsolato.

A sette anni lanciò il suo esercito di Power Ranger parlanti nella piscina della casa in Costa Smeralda perché voleva vedere se avrebbero iniziato a nuotare per salvarsi. Quando il giardiniere li ripescò fradici e destinati al mutismo perenne, grazie al bagnetto a cui le batterie e i cavetti elettrici nella loro schiena erano stati sottoposti, Sebastian pianse l'anima. Iniziò a sparire sempre più spesso e ogni giorno, dopo ore di ricerca, lo ritrovavano in angoli remoti della villa in compagnia dei suoi giocattoli rotti. Quando sua madre, stanca di quelle fughe, spedì qualcuno a comprare una squadra nuova fiammante di Power Ranger, Sebastian urlò così forte e pestò i piedi così violentemente da far venire un mini infarto alla nonna e da far scappare a gambe levate la sua tata svizzera, traumatizzata dagli strilli demoniaci del bambino. Il resto della vacanza era trascorso con una piccola Cecilia cicciotta che faceva castelli di sabbia e passava ore in acqua con il suo salvagente a forma di cavalluccio marino, mentre Sebastian stava tutto il giorno a seppellire e disseppellire quei poveri Power Ranger muti e rovinati senza proferire parola.

«Sai montare un armadio?», gli domandai ignorando i suoi continui borbottii.

«Secondo te?»

Ovviamente. Era probabile che si fosse appena fatto fare la manicure e quindi che cosa mai andavo a pensare. Sebastian che forniva un qualche aiuto? Ma quando mai!

Avrei dovuto prevederlo dal momento che lui era la stessa persona che alla mia telefonata, da una stradina dispersa nella campagna del Kent con l'auto in panne, mi aveva risposto laconico, «Chiama un carroattrezzi». Quando lui era a quattro kilometri da me dato che stavo cercando di raggiungerlo quando l'auto aveva dato forfait e il carroattrezzi probabilmente ci avrebbe impiegato ore.

Il principino mi diede le spalle rotolando su un fianco, facendomi intendere chiaramente di voler continuare a riposare indisturbato.

«Grazie mille davvero!», sbottai indispettita prima di girare sui tacchi e tornarmene in camera.

«Chiama tuo papà e fatti mandare qualcuno», mi strillò dal salotto il damerino che non poteva assolutamente far qualcosa di prima persona ma doveva sempre delegare, a suon di sterline ovviamente.

Piuttosto che chiamare papà mi sarei tenuta quella meravigliosa opera d'arte che ora capeggiava ai piedi del mio letto.

Ripescai da terra il libretto delle istruzioni; magari mi era sfuggito qualcosa e rileggerlo si sarebbe rivelato utile.

 

07499674531

Nel caso avessi bisogno di aiuto.

E.

 

Avete presente quando si dice una manna dal cielo? Ecco, l'appunto scribacchiato da Ezra su un angolo spiegazzato del volantino esplicativo giunse come un raggio di sole dopo giorni e giorni di maltempo.

Tempo un minuto ed ero già intenta a digitare in modo febbrile il numero sullo schermo del mio telefono.

Squillò otto volte a vuoto, alla nona, una voce assonnata mugugnò, «Pronto?»

Anche questo fu un caso fortuito perché io ogni volta che chiamavo qualcuno facevo esattamente nove squilli dopodiché, in assenza di risposta, desistevo e riattaccavo.

«Ezra? Ti ho svegliato?», chiesi dubbiosa lanciando un'occhiata alla radiosveglia sul comodino.

5.47 p.m.

Magari stava emulando il mio nobile cugino ed era perso nel mondo dei sogni su un divano a qualche kilometro di distanza.

«Chi parla?», sonoro sbadiglio e voci in sottofondo.

Avevamo scambiato due parole in croce e già mi sentivo terribilmente imbarazzata e a disagio. Perché lo avevo chiamato? Ci conoscevamo a malapena e prima di incontrarci all'Ikea non avevamo neanche mai avuto una vera conversazione.

«Cecilia?», un'ombra di sorpresa nella voce.

«Ehm si», confermai sommessamente, «Ti ho disturbato?», domandai nuovamente.

Se era vero, come sospettavo, che si era appena svegliato era probabile che fosse ancora un pochetto rimbambito dalla siesta.

Fruscii, una porta sbattuta e un colpo di tosse arrivarono dall'altro lato della cornetta.

Dove accidenti era? E con chi?

«Oh no, no. Come fai ad avere il mio numero?»

Ok, il sonnellino pomeridiano che poteva averlo rintronato un pochetto ma erano passate poco più di ventiquattr'ore dal nostro ultimo incontro. Probabilmente faceva uso di sostanze non ben identificate ma sicuramente brucia neuroni.

«Me lo hai dato tu», spiegai con una punta di fastidio. «Ieri», specificai.

«Ti serviva qualcosa?», nuove voci in sottofondo, il suono di un clacson, delle risate trattenute.

«Deduco tu sia impegnato. Lascia stare, grazie lo stesso e scusami», cercai di congedarmi senza far percepire la mia confusione dopo quella stramba telefonata.

«No, Cecilia, aspett-»

Troppo tardi, avevo già riattaccato.

Cecilia Lawrence non mendicava le attenzioni di nessuno e comprendeva benissimo quando stava disturbando qualcuno.

Mollai la stanza nel caos in cui si trovava e sconsolata andai in cucina con l'intenzione di prepararmi un thè caldo, sebbene in ritardo sulla tabella di marcia, completamente stravolta a causa dell'imprevisto dell'armadio.

Riempii di acqua il bollitore e lo accesi. Preparai una tazza e poi avvicinai una sedia alla dispensa, prima di arrampicarmici sopra per raggiungere il ripiano più alto e acciuffare la scatola nuova di bustine di Earl Grey.

Mentre aspettavo che l'acqua giungesse ad ebollizione l'occhio mi cadde sulla lavagnetta magnetica affissa sul frigorifero.

Sono tornato a casa.

Ci vediamo martedì.

Ti spiegherò.

In bagno sempre quindici minuti, ho impostato un timer nella doccia.

Bacini Cece (e Seb)

N.

Quella si che era una notizia preoccupante. Noel avrebbe preferito essere essere picchiato con un bastone di bambù sotto le piante dei piedi piuttosto che fare ritorno a casa sua per una causa che non fosse una festività comandata.

La famiglia Donovan viveva a Exeter e rappresentava tutto ciò da cui Noel aveva disperatamente cercato di sfuggire dall'età di dieci anni. Madre casalinga, padre avvocato di provincia, villetta a schiera, pastore tedesco, station wagon familiare, vacanze sempre nel medesimo luogo tutte le estati. Erano una famiglia molto unita, i suoi genitori erano delle persone molto cordiali ed entrambe le volte che li avevo incontrati erano stati particolarmente carini nei miei confronti. Noel però temeva che la vita dei suoi genitori, ai suoi occhi terribilmente ordinaria e monotona, potesse diventare lo stampo della sua. Quando a diciotto anni Noel disse ai suoi genitori di essere gay, appena prima di fare i bagagli e partire, solo e squattrinato, per Londra, loro non la presero molto bene. Suo padre che aveva risparmiato per anni in vista delle spese della facoltà di legge di Cambridge che Noel avrebbe dovuto frequentare secondo i suoi progetti dovette rassegnarsi al fatto di avere un figlio che già a undici anni leggeva il Financial Times invece dei fumetti. Sua madre che segretamente aveva già sferruzzato dozzine di piccoli maglioni, piccole calzine e piccoli berrettini per i suoi nipotini, figli del suo unico figlio, aveva dovuto chiudere tutto in soffitta, consolandosi con l'idea che almeno non avrebbe mai dovuto fare la guerra ad un'eventuale nuora che pensava di saperne più della suocera.

Anni più tardi, accettato il fatto di avere un figlio omosessuale e genio della finanza, continuavano a telefonargli per assicurarsi che si nutrisse, cosa che faceva indubbiamente, complice un metabolismo da tritatutto che gli invidiavo con tutto il cuore, che non spendesse più di quanto guadagnasse, cosa su cui stava ancora lavorando, e per informarsi riguardo ad eventuali ragazzi da presentare loro.

Noel inventava sempre qualche scusa poco credibile per sfuggire alla voce di sua madre che si preoccupava proveniente dalla nostra segreteria telefonica e così finiva che ero sempre io a prendere le chiamate, dispiaciuta per il modo in cui Mrs. Donovan veniva costantemente ignorata dal figlio, e a fare lunghe chiacchierate con lei. Avevo scoperto così che era una donna dai mille interessi, dal cake design alla pittura ad olio, passando per lo squash e i tornei di burraco.

Quando il bollitore iniziò a borbottare e fischiare in modo insistente lo spensi. Pescai dall'armadietto la scatola in cui tenevo i miei biscotti preferiti, le digestive.

Stavo versando l'acqua bollente nella tazza quando il campanello alla porta suonò.

Non mi illusi neanche per un momento che sarebbe andato Sebastian ad aprire, abituato com'era ad avere un maggiordomo era già tanto se rispondeva lui in persona al suo cellulare.

Sbirciai dallo spioncino e per farlo dovetti alzarmi in punta di piedi, un giorno qualcuno mi avrebbe spiegato perché nel nostro palazzo tutto sembrava costruito per il popolo dei watussi.

Ezra.

Anzi, per essere più precisi, Ezra una chitarra e un amplificatore.

Aprii la porta sostando sulla soglia, non avevo ancora deciso se farlo entrare o meno.

Dopotutto meno di dieci minuti prima aveva impiegato mezzo secolo a ricordarsi chi fossi e si era a malapena trattenuto dallo sbadigliarmi in faccia, ok tecnicamente in faccia alla cornetta, ma l’effetto sarebbe stato il medesimo.

«Cecilia, ricordi?», domandai indicandomi.

Lui alzò gli occhi al cielo e sbuffò, «Sono assonnato, non stupido»

«Davvero?», lo punzecchiai, «Non me ne ero accorta, perdonami»

Simpatia portami via.

Lui fece un cenno verso la custodia dello strumento che portava sulle spalle, «Mi fai entrare?»

Certo caro, e ti stendo anche un tappeto rosso, con lancio di petali profumati al tuo passaggio.

«Cosa vuoi?», domandai scontrosa.

Io sapevo senza dubbio come farmi degli amici.

Ezra sollevò un sopracciglio e assunse un’espressione scocciata, «Non ti serviva aiuto per caso?», si passò distrattamente una mano tra i capelli arruffandoli ancora di più, «Io il numero te lo avevo lasciato per quello, non per telefonarci a vicenda e raccontarci i nostri drammi sentimentali»

«Io non ho drammi sentimentali», commentai piccata.

Come si permetteva?

Lui fece spallucce e mi superò senza aspettare che mi spostassi dalla soglia, finendo così per strusciare il suo braccio destro contro il lato sinistro del mio corpo.

Era proprio un maleducato, altroché!

«Che mi dici di Jack?», mi sussurrò piano in un orecchio sfiorandomi per un secondo il lobo con le labbra, prima di dirigersi in soggiorno ed esclamare, «Hey! Che ci fa Seb sul tuo divano?»

Come diamine faceva a sapere di Jack? Che domande! Noel il pettegolo ovviamente. Lui e la sua assoluta incapacità di tenere la sua boccaccia chiusa e di farsi gli affari propri. Un giorno gli avrei sul serio tagliato lingua e dita per fare in modo che la sua persona non potesse più diffonder, tramite parole e frasi scritte, notizie false e infiocchettate dalla sua fervida e malata immaginazione che non riguardavano lui.

Mentre chiudevo la porta e spingevo l’amplificatore, con un peso che probabilmente gareggiava con quello di una balenottera azzurra, contro al muro, dato che Ezra lo aveva semplicemente mollato nel bel mezzo dell’ingresso, sentii la risata del mio nobile cugino provenire dall’altra stanza.

La scena che mi si parò davanti agli occhi fu piuttosto inaspettata. Il mio adorato parente stava abbracciando entusiasticamente Ezra, il quale sorrideva incredulo e gli restituiva altre pacche affettuose, ai loro occhi, probabilmente a me avrebbero sfondato la cassa toracica.

«Ezra Cunningham! Che fine avevi fatto?», esclamò Sebastian non appena si separò da quello che pareva essere un suo grande amico.

Ezra seguì l’esempio del compare e si sedette sul divano, ignorando bellamente la mia persona.

«Io sono andato a studiare a Parigi», si giustificò quello, «Tu invece dove sei sparito? Nessuno è più riuscito a rintracciarti o ad avere tue notizie…»

Mi accovacciai sul bracciolo della poltrona, incuriosita da quei due, «Oh, è stato per un po’ negli States a fare la cosa che gli viene meglio», commentai aspra.

«E cioè?», domandò interessato Ezra sorridendo al cuginastro.

«L’idiota», chiosai candida.

Purtroppo non avevo mai avuto dei buoni riflessi, come le molteplici pallonate ricevute al liceo testimoniavano, e così mi scansai troppo tardi e la pantofola lanciatami da quel deficiente con cui condividevo l’albero genealogico mi colpì dritta in fronte per poi cadere con un tonfo a terra.

Mugugnai di dolore e mi massaggiai il punto in mezzo agli occhi dove ero stata centrata, manco fossi un tiro al bersaglio.

«Sono contenta che torni la tua pazza e sclerotica madre, sono davvero contenta», sibilai cattiva, facendomi sfuggire ciò che papà mi aveva fatto giurare sulla testa di Bisnonno Samuel di non rivelare a Sebastian.

Mi portai subito le mani alla bocca, desiderando ardentemente di aver tenuto la bocca chiusa.

Sebastian sbiancò visibilmente e si alzò dal sofà iniziando a girare in tondo per il salotto.

Questo voleva dire che, avendo io rotto la promessa fatta, il nonno sarebbe stato colpito da una qualche sorta di maledizione senza perdono?

«Dov’è ora?», domandò terreo.

Aveva gli occhi spalancati, colmi quasi di terrore, e continuava a contorcersi le mani senza sosta.

«A L.A. credo. Sarà a Heathrow domattina», bisbigliai in preda ai sensi di colpa.

Lo vidi annuire brevemente prima di eclissarsi in camera sua, telefono alla mano, un cenno distratto diretto a Ezra.

Se c’era una cosa che mandava completamente a farsi fottere il bel castello fatto di alterigia e raffinatezza in cui Sebastian si rifugiava quella era sua madre.

Calliope Seraphina Lawrence. Detta anche PsicoZia, a causa della sua pazzia, ormai accertata e accettata da tutta la famiglia.

Sospirando sconsolata feci segno ad Ezra di seguirmi e a passi lenti mi diressi nella mia stanza, assicurandomi di lasciare aperta la porta.

Mi lasciai cadere sul letto, lo sguardo rivolto alla mia creazione astratta.

Vidi come si guardava attorno curioso, studiando ogni dettaglio, dalla stampa di Warhol appesa sopra al comò di sinistra alla poesia di Pessoa scarabocchiata sui post-it sparsi sulla scrivania; vidi e mi sentii quasi nuda di fronte al suo sguardo scrutatore. Ma non era uno scrutare che ti metteva imbarazzo e ti faceva sentire giudicata, no, era come uno sguardo bramoso di sapere di più, desideroso di guadagnarsi il permesso di guardare le cose più da vicino.

La mia stanza era sempre stata il mio rifugio e io tendevo a trasformare in qualcosa di mio e solo mio tutto ciò che lo era, anche se per un breve periodo.

E così quando mi ero trasferita in quell’appartamento avevo dipinto le pareti da sola, due bianche e due color verde acqua, avevo scovato stampe di quadri famosi al mercatino di Portobello Road e le avevo affisse alle pareti, seguendo un ordine che agli occhi degli altri pareva caotico ma che era chiarissimo nella mia mente.

E così Schiele,             Warhol, Manet, Kokoschka, Rembrandt e Botticelli erano solo alcuni degli artisti più celebri che con le loro opere rendevano più bello il mio piccolo mondo.

Citazioni, stralci di frasi e versi di poesie completavano l’opera, scritti su fogli volanti, su appunti fissati alla testata del letto con un pezzetto di scotch, dipinti sulla porzione di muro accanto alla porta.

Avevo una passione immensa per l’arte; adoravo tutto: musica, pittura, scultura, architettura, teatro, cinema, letteratura, poesia.

«Questo quadro è qualcosa di spettacolare e terrificante al tempo stesso…», lo sentii commentare piano alle mie spalle.

Quando mi voltai lo vidi di fronte al muro, intento ad ammirare una piccola riproduzione di un quadro che mi lasciava da sempre senza parole, regalandomi in egual misura inquietudine e profonda pace.

Si trattava de L’isola dei morti di Arnold Böcklin, quadro che rappresentava un’isola, dalle alte pareti rocciose, che sembrano quasi racchiuderla, e al centro dei cipressi, alti e svettanti verso il cielo. Nella porzione di mare antistante la macchia di terra è presente una piccola imbarcazione che si sta avvicinando, su questa sono presenti due figure, di cui una incappucciata di bianco, e una piccola bara del medesimo colore del manto del passeggero.

 Mi riscossi dallo stato pensieroso in cui ero caduta e gli ricordai il motivo per cui eravamo lì, «Potresti darmi una mano con l’armadio?», lo interrogai, indicando timidamente la forma prima di forma in verità ai piedi del letto.

Una risata ruppe la quiete di quel tardo pomeriggio e riecheggiò tra le pareti dell’appartamento silenzioso.

«Quello…», iniziò, presto interrotto da un nuovo attacco di ilarità, «Quello è l’armadio che abbiamo comprato ieri?»

Abbiamo?

Si avvicinò alla mia opera mentre io mi mordicchiavo nervosa un labbro.

Era davvero imbarazzante. Anzi, era assolutamente vergognoso che una quasi dottoressa, capace di suturare alla perfezione delle ferite, non fosse in grado di montare uno stupido armadio Ikea che, come mi ricordava il viso sorridente del tizio del manuale, era molto semplice da assemblare.

Per non parlare della mia incapacità di cucinare un misero uovo alla coque, di separare nel modo corretto i colori in lavatrice e calibrarne i gradi di lavaggio e di utilizzare il forno senza l’intervento di una squadra dei pompieri.

Ezra mi sorrise incoraggiante, «All’opera!». Si sfilò il maglione a righe che indossava e restò con una vecchia t-shirt sbiadita dei Dire Straits.

 

Le successive due ore trascorsero in un soffio. Ezra era un ottimo insegnante e, dopo aver smontato la mia creazione, non si limitò a rimontarlo nel modo corretto ma mi mostrò e mi spiegò a cosa servissero tutte quelle viti e quei coni di plastica bianca che assomigliavano tanto a delle cialde per gelato.

Quando l’opera fu completa ci sedemmo, fianco a fianco, ai piedi del letto per ammirare il frutto del nostro lavoro.

«Ottima scelta, è proprio un bell’armadio! Chissà chi te lo ha consigliato...», ridacchiò lui facendo dondolare i piedi.

Incrociai pigramente le gambe, «Un meraviglioso commesso Ikea! Occhi color zaffiro, capelli così biondi da sembrare bianchi, origini svedesi come i mobili che vendeva, lo conosci?», gli domandai prendendolo in giro.

«Probabilmente, se i commessi Ikea corrispondessero davvero alla tua descrizione, Noel si sarebbe già accampato in modo permanente in uno dei letti a baldacchino dell’esposizione del reparto zona notte…»

Scoppiai a ridere immaginandomi la polizia intenta a trascinare via di peso il mio coinquilino che, resistendo con tutte le sue forze, si opponeva aggrappandosi alle coperte del letto occupato abusivamente per spiare i bei commessi.

«Elimina il probabilmente, lo farebbe di sicuro!», mi passai una mano sugli occhi, era da quella mattina che portavo le lenti a contatto e la stanchezza iniziava a farsi sentire, «Dov’eri quando ti ho chiamato?», gli domandai cercando di non perdere il filo dei miei pensieri in quegli enormi occhi verdi che mi fissavano brillanti.

Sospirò ed abbassò un attimo lo sguardo prima di rialzarlo deciso e tornare a guardarmi in quel suo modo troppo intenso, «Stavo dormendo nel retro di un pulmino. Stavamo tornando da un concerto e ho passato la notte in bianco»

Questo spiegava il perché di tutto quel trambusto in sottofondo e della voce assonnata.

«Non suoni con i ragazzi ora?»

Adam, Noel e Oliver avevano approvato il suo ingresso nella band e così ora gli Sleepless Nights avevano un nuovo chitarrista. Dopo Jack.

«Sì, ma quando capita faccio anche dei piccoli concerti acustici come solista», mi spiegò, piegando leggermente la testa verso destra, «Sai, per racimolare qualcosina…»

Lo disse piano, quasi come se fosse una cosa di cui vergognarsi. Ma eravamo tutti sulla medesima barca; la nostra intera generazione, lauree in tasca e dottorati in dirittura di arrivo, si reinventava in continuazione per riuscire ad arrivare alla soglia dei trent’anni camminando sulle proprie gambe.

Bastava guardare me e le prolungate ore di tortura a cui mi sottoponevo volontariamente, tra babysitteraggio e ripetizioni, per cercare di guadagnare qualcosina e al tempo stesso non commettere infanticidi. O Hannah che lavorava in questa radio in stile underground, che aveva sede in un capannone ammuffito e decorato da fitte ragnatele a Mayfair, dove trasmetteva musica deprimenti di artistoidi pseudo intellettuali la cui musica avrebbe istigato al suicidio anche la persona più gioiosa e amante della vita. Sienna, aspirante futuro direttore di Vanity Fair UK, per il momento si accontentava di scrivere articoli riguardanti gli ultimi stilosi tagli del pelo dei barboncini di qualche baby cantante appena partorita da un qualche talent o in cui doveva mentire spudoratamente e riempire due colonne intere di lodi nei confronti del look monotono e sempre uguale di Angela Merkel. Adam, laureato in scienze politiche, mentre aspettava di diventare un deputato di spicco, aggiustava auto d’epoca e cercava nuovi palchi da calcare per far conoscere gli Sleepless Nights. Oliver era l’unico ad avere un lavoro fisso con uno stipendio di tutto rispetto e il suo essere un genio dell’informatica sicuramente aveva giocato un ruolo di spicco.

Noel invece, pur guadagnando letteralmente una barca di soldi laggiù nel cuore pulsante della City, riusciva a restare puntualmente senza un pound prima della metà del mese.

«Suoni e canti?»

Annuì e io sempre più curiosa non riuscii a trattenermi, «Mi fai sentire qualcosa?»

Amavo la musica anche se avevo dei gusti molti particolari. Gli anni ’80 erano per me l’età dell’oro della musica, con sporadiche eccezioni nei decenni che li precedevano e succedevano. Ero fermamente convinta che il nuovo millennio non offrisse novità molto significative in campo musicale e l’unica corrente che apprezzavo era l’indie rock, genere suonato e prediletto anche dalla band dei miei amici.

Lasciandomi di stucco, già pronta com’ero a insistere e combattere contro una timidezza fuori luogo, si alzò e sparì oltre la soglia della camera.

Tornò pochi istanti più tardi e, dopo aver accostato la porta, tornò a sedersi sul letto a gambe incrociate.

«Richieste particolari?»

«Libertà assoluta», lo incoraggiai.

Mi fissò titubante, «Sii clemente, ti prego», mi supplicò accennando un sorriso.

Dopodiché imbracciò per bene lo strumento, sistemandolo con cura sulle cosce e abbassando il capo, concentrato solo su quelle sei corde.

E poi iniziò a sfiorare leggero le corde, la testa chinata che non mi permetteva di vedergli il volto e una dolce melodia a me sconosciuta nell’aria.

 

Through my window, cold wind blowing
I can't take this
I can't take no more

 

Ero pronta a tutto. A tutto ma non a questo.


Cars they race by, burning headlights
In the mirror, I watch myself cry

Play me a simple song, so I can sing along
Cherry blossoms in spring, they mean everything.

Adam aveva una voce indiscutibilmente bella. Era talentuoso e tutti lo riconoscevano.

Ezra no, aveva una voce imperfetta, dal timbro vibrante eppure incerto. Più che cantare pareva sussurrarti all’orecchio.

In my soul I'm aching to grow
Longing for a love I've never known

My own life has taken its toll
Drunk on whiskey, God don't let me go.

Era l’esperienza più destabilizzante di cui ero mai stata testimone. Pareva che quelle parole mi cullassero, mi confortassero e al tempo stesso mi dessero un pugno dritto in volto.

Provavo un’immensa malinconia ed ero divisa tra un dolore pressante che mi faceva venire voglia di lasciarmi andare e piangere e un conforto, una dolce promessa che tutto sarebbe andato per il verso giusto.

Play me a simple song, so I can sing along
Cherry Blossoms in spring, and all the joy that it brings

Cause I've been out on the road, driving with no place to go
From Cheyenne out to Frisco, I'm dying to find me a home

Sembrava completamente rapito dalla musica e solo verso la fine rialzò il viso e mi accorsi che teneva gli occhi chiusi, le dita che danzavano libere ed esperte sulle corde.

Take me home,
Take me home,
Take me home,
Take me home.

Le ultime parole si spensero nell’aria e il silenzio tornò a fare da padrone.

La mia mancanza di commenti fu interpretata probabilmente come un muto dissenso perché Ezra mi domandò preoccupato, «Così male?»

E aveva un’espressione così corrucciata e degli occhi così luminosi che io non ce la feci e scoppiai a piangere come una bambina.

Cercai di asciugare rapidamente le lacrime che sempre più copiose mi rigavano le guance ma era come tentare di arrestare un fiume in piena utilizzando un fazzolettino di carta.

Arraffai alla cieca la scatola di kleenex, onnipresente sul mio comodino, e mi soffiai rumorosamente il naso. Non osavo alzare lo sguardo per paura di scoprire che Ezra era fuggito di fronte a questo sfoggio di folle emotività.

Sentii una leggera pressione sul capo e mi resi conto che Ezra aveva abbandonato la chitarra sul pavimento per poi avvicinarsi a me e cingermi delicatamente tra le braccia, lasciandomi delle lievi carezze sui capelli.

«Ho reagito nell’esatto modo quando l’ho sentita per la prima volta…», cercò di consolarmi cullandomi piano.

Nel sentire ciò nuovi singhiozzi mi scossero il petto. Mi scostai brusca e tra una cortina di lacrime lo squadrai torva, «Credi davvero che sia stata la canzone?», domandai dandogli una spinta, «Tu! Sei stato tu! Io non piango mai e ora guardami…sto producendo più acqua di quanta non ce ne sia nella fontana di Trafalgar Square!»

Lo spintonai nuovamente cercando di allontanarmi da lui ma lui mi imprigionò i polsi e mi fissò negli occhi. Lo vedevo sfuocato a causa delle lacrime che continuavano a scendere inarrestabili ma vidi benissimo le meravigliose fossette che mi salutarono maliziose dagli angoli della sua bocca un attimo prima che mi scoppiasse a ridere in faccia.

Rideva e non mi lasciava andare, rideva e io continuavo a piangere e la situazione era così assurda da essere semplicemente comica. E resami conto di ciò mi lasciai andare anche io ad una timida risatina.

«Sei un idiota e non ci credo che hai pianto per questa canzone», esclamai liberandomi dalla sua stretta e cercando di asciugarmi, almeno sommariamente, il viso.

«E fai bene dato che non è vero», mi rispose sogghignando, «Adoro le fan come te, soprattutto quando passata la fase dello sciogliersi in lacrime passano a quella in cui tentano di strapparsi gli abiti di dosso, strillano come degli aquilotti neonati e paiono possedute»

Gli mollai uno scappellotto all’istante, «Sei un idiota! E probabilmente la tua unica fan sarà tua madre», insinuai maligna.

«E non dimentichiamoci della Bisnonna Violet! Con lei sono a quota due…», commentò fiero.

Allungai una mano e gli scompigliai i capelli, «E con me fanno tre», sussurrai prima di alzarmi e andare a vedere che fine avesse fatto il cugino disperso.

 

 

 

La canzone è Cherry Blossoms dei Night Beds.

Grazie a tutti i lettori silenziosi, grazie davvero.

S.

 

 

  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: HannibalLecter