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Autore: Billie Edith Sebster    09/08/2015    3 recensioni
[Seconda Guerra Mondiale / Olocausto AU! OOC! DESTIEL]
In un mondo dove vecchie tensioni si rinnovano con inaudita violenza, ferite non ancora rimarginate si riaprono ed il buio e la morte marciano sostenute in schiere compatte, c'è ancora spazio per qualcosa che non ha l'amaro sapore dell'odio. E' il 1938 anche per una cittadina fuori dal tempo come Colonia, e l'incontro di Dean e Castiel è pura coincidenza: è un amore prorompente che li porterà a trovare un espediente per cui combattere nel dolore e nel sangue ogni battaglia si presenterà loro davanti. Ma non sempre i nemici ci affrontano di petto, altri preferiscono strisciare da dietro e soffocarti lentamente nel tuo stesso passato...
Genere: Angst, Guerra, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Castiel, Dean Winchester, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Nessuna stagione
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Castiel nutriva poche speranze: solo il cancello d'ingresso del campo di Mauthausen, nero e contorto come fabbricato di ossa rotte e carbonizzate, gli aveva fatto tremare le gambe, la mente ed il cuore, scrollando via molti dei buoni propositi che si era fissato come piccoli promemoria nella testa.

Sin dal primo giorno, furono ben presto cambiati con altri, speranze che al di fuori di quell'osseo perimetro sarebbero sembrati nient'altro sogni di chi non sapeva apprezzare ciò che già possedeva.

Cibo. Acqua. Riposo. Erano tre costanti della vita del deportato medio, i tre pensieri fissi che galleggiavano nelle loro teste come l'unico vocabolario che fosse rimasto intatto durante la transizioni che li aveva portati da essere umani a creature senza anima né voglia di vivere.

Il problema lo si aggirava fin quando non ci si rendeva conto che i deportati, nella loro specie così scartata ed appallottolata come un foglio pronto per essere bruciato, non avevano nulla.

Solo il pigiama a righe, il loro numero e e una fame così violenta e pungente da assumere una presenza quasi concreta, una voragine nello stomaco che si contorceva attorno al vuoto di cui era piena. Venivano derubati del loro nome, della loro dignità con la stessa facilità con la quale si rubano le caramelle ad un bambino.

Ebbene, lì erano tutti bambini. Castiel lo realizzò fin da subito, una realtà così prepotente da afferrarlo per il colletto e scuoterlo forte. Erano bambini nel buio, disperatamente allungavano le braccia alla ricerca di una mano che li guidasse fuori da quel nero vischioso, troppo terrorizzati per piangere e assillati dalle proprie domande che non facevano altro se non sommarsi l'una all'altra nelle loro teste.

Erano piccoli quando li rasavano in tutto il corpo, impotenti sotto gli ordini ringhiati e nelle loro file ancora disordinate. Inesperti nell'allinearsi come un plotone ben addestrato.

– File da cinque, un braccio di distanza. – un ufficiale si fece strada avendo cura di non farsi toccare, come temendo di contrarre la misteriosa malattia che li aveva tutti condotti lì. Alcuni eseguirono subito, altri si guardarono attorno spaesati stringendosi nelle spalle, cercando di comprendere guardando i movimenti altrui lenti ed impacciati.

Un uomo, un ebreo dal viso scarno, si mise in testa al gruppo ed urlò in più lingue lo stesso ordine, prima in inglese poi in cieco ed in polacco. L'operazione assunse subito un ritmo più serrato, e tutti si mossero al loro posto con la testa bassa e le braccia abbandonate lungo i fianchi come se non avessero più idea di come usarle.

L'ufficiale contrasse il labbro inferiore e fissò l'uomo con superiorità.

Warst du Lehrer? [eri un insegnante?]– chiese lentamente, come a saggiare la stupidità dell'interlocutore. Questi non si scompose e lo fissò coraggiosamente negli occhi, con il mento alto ed il petto gonfio, senza ostentare alcuna paura.

Ja. Aber man braucht nicht einen Lehrer zu sein, wenn man weiss wie den leuten sprechen. – [Sì, ma non si ha bisogno di essere un insegnante se si sa come parlare alle persone].

Castiel osservò la scena con le viscere contratte in una morsa d'ansia: l'SS continuava a fissare il prigioniero con un labbro arricciato, un sorrisetto indifferente a contrargli le guance e gli occhi ridotti a fessure maligne.

Il primo ceffone colpì l'ebreo all'orecchio, con il suono agghiacciante della carne percossa. Il secondo centrò il suo viso con maggiore precisione, e l'impatto gli fece voltare la testa in uno scatto scomposto. L'uomo aveva l'aria di chi procedesse a passi distesi verso la vecchiaia, quindi non ci volle molto perché le ginocchia cominciassero a tremare minacciando di farlo cadere al suolo freddo. L'aguzzino parve rendersene conto e storse una smorfia soddisfatta. Lo aggirò con passo flemmatico, guardandosi attorno come ad assaporare la tensione che serpeggiava fra i presenti, e una volta che gli fu dietro, un colpo ben assestato di manganello frantumò le ginocchia al detenuto. Questi cadde pesantemente battendo la spalla sul selciato duro dello spiazzo in cui erano tutti stati radunati. Se non avesse fatto così freddo, probabilmente si sarebbe sollevata una nuvola di polvere, ma il gelo era tale da bloccare ogni cosa al suo posto. Stessa sorte che fecero gli occhi di Castiel.

Era paralizzato da una velenosa miscela di terrore, rabbia, disgusto, angoscia, odio, tutti così abbondanti in quantità da sentirli salire lentamente come una marea, finché non se ne sentì sopraffatto. Il respiro morì nella sua gola, i suoni divennero più ovattati e densi. Avrebbe voluto piangere, ma non lo fece perché i suoi occhi erano incastrati in quell'angolatura che gli consentiva di abbracciare la scena con lo sguardo senza che avesse modo di sfuggirvi.

Ich denke dass, du nicht verstanden hast. Im Konzentrazionslager bist du nur einen Häftlinge. Und jetzt bist du auch gestorben. – [Penso che tu non abbia capito. Nel Lager, sei solo un Häftlinge. E adesso, sei anche morto.]

Il suo tono faceva suonare quei ringhi quasi gutturali come una specie di beffa, e la rabbia nel corpo di Castiel moltiplicò sensibilmente. Avrebbe voluto fare un passo avanti e prendere a pugni quell'essere disgustoso che tutto si poteva definire tranne che un essere umano. Purtroppo, la paura ed il freddo lo avevano gelato lì, nella sua fila, a sottolineare l'impotenza e l'inferiorità di tutti i presenti.

Guardò quella che ai suoi occhi era solo una bestia mostrare i denti come se fossero state zanne pronte ad avventarsi su quello che ormai non era altro che un pezzo di carne percossa e tumefatta, sanguinante ma ancora troppo gonfia d'orgoglio per strisciare e chiedere pietà e perdono. L'ebreo sollevò il capo e, fra rivoli di sangue e lacrime, riuscì a contrarre la mascella per sputare direttamente sugli scarponi immacolati della guardia.

Questi parve essere travolto da un'ondata d'ira che gli fece salire il sangue alla faccia rendendolo spaventosamente somigliante ad un vulcano sul punto di eruttare e distruggere tutto quanto avesse la sfortuna di ritrovarsi sotto le sue pendici.

Castiel temette che avrebbe fatto aprire il fuoco su tutti loro. Invece ebbe cura di svuotare la giberna della pistola sul pover'uomo che ormai soccombeva senza via d'uscita, continuando a sparare anche dopo che il corpo si era afflosciato esangue e senza vita sul selciato, sorridendo ai lievi tremiti che percorrevano i muscoli ogni qualvolta che una pallottola si faceva strada nella carne; nutrendosi del suo stesso sadismo.

Completata l'opera, lanciò la pistola a uno dei deportati con il triangolino verde, che se la strinse al petto con espressione soddisfatta e cominciò la conta del primo mattino.

Castiel aveva abbastanza idea di chi fossero, nonostante fosse lì da nemmeno ventiquattro ore. Li chiamavano Kapo, o Kapò. Deportati come tutti gli altri cani affamati costretti in quella prigione di Lavori forzati e stenti infernali, erano quelli che mantenevano l'ordine, gli unici tramiti che intercorrevano fra le SS e i detenuti. Prigionieri a causa di sentenze penali che li accusavano di violenza verso il prossimo e dei crimini più svariati, erano ritenuti quelli più adatti a sporcarsi le mani se c'era qualcuno da punire, fustigare o uccidere, perché rispetto agli altri ritrovavano un piacere quasi orgasmico nell'arrecare dolore fisico a chi sembrava averne bisogno.

Le SS non si vedevano quasi mai. Perlomeno, non all'interno del campo, perché quando il lavoro li portava fuori a costruire manualmente la ferrovia, li assistevano nel transito dal cantiere ai cancelli. Solo perché i Kapò nutrivano la stessa fame schiacciante di libertà di chi ancora si ricordava che c'era un mondo esterno in cui avere dei diritti, e quindi potevano avere improvvisamente voglia di darsela a gambe. Per quanto sarebbero potuti durare.

Gli altri momenti in cui erano nei paraggi, consistevano nell'appello di mattina e sera. Al resto, in cambio di favoritismi, cibo in più e il diritto a prevalere sugli altri, pensavano i Kapò dal triangolino verde.

Erano come i demoni dell'inferno, intrappolati nella loro stessa dimora ed annoiati al punto da versare sangue vivo e ancora caldo pur di avere un giocattolo in più su cui sfogarsi.

 

 

Sin da subito, a Castiel fu chiaro che, nonostante fossero tutti sulla stessa nave che colava a picco in un oceano di ghiaccio, esistevano le discriminazioni anche in un campo di lavoro.

Nella sua baracca, o Block, abitavano contemporaneamente quasi duemila persone. In un dormitorio che poteva ospitarne, a seconda del numero di brande, appena un centinaio, ne venivano costretti più di trecentocinquanta, al punto che metà di essi dormivano per terra, mentre gli altri si dividevano un letto in due oppure in tre.

Il primo segno di astio giunse già dalle prime ore: era usanza dei nuovi arrivati essere squadrati con ribrezzo ed odio da chi fosse lì da più tempo, perché poteva significare solo una cosa: meno spazio, razioni più piccole, file più lunghe per i bagni e un numero decisamente inferiore di utilità come ciotole, cucchiai, piccoli chiodi e scarpe decenti.

Inoltre, i novellini, erano sempre quelli che commettevano più casini, perché goffi ed inesperti per quanto concernesse le basi del comportamento da Lager, gli orari e gli itinerari. Qualcuno finiva sempre per perdersi, o fissare negli occhi con quella che il più delle volte veniva interpretata come sfida i Kapò, o arrivava in ritardo all'appello dato per fuggitivo o disperso.

Insomma, in ogni caso, qualsivoglia fosse la ragione, se qualcuno arrivava due minuti dopo lasciando la propria fila con l'aspetto di una bocca priva di un dente, altre due o quattro file da cinque venivano fatte camminare avanti con le spalle alle SS armate e fucilate alla schiena. Cas ebbe l'onore di assistere a quella scena una sola volta, e gli fu sufficiente. Il terrore di essere scelto come vittima sacrificale dell'idiozia di un ritardatario o di un codardo che aveva tentato la fuga era niente a confronto qualsiasi cosa avesse mai provato in vita sua.

Era un sentimento intollerabile, quello di ascoltare la ritmica conta procedere in una cantilena annoiata finché per qualche ragione non veniva saltato un numero. A quel punto era come percepire la paura prendere un corpo ed una tangibilità talmente densa e voluminosa che non c'era nulla di più tremendo che avvertire il proprio corpo compresso sotto un tale macigno.

L'unico modo per adattarsi era trovare un veterano dall'aria abbastanza affranta da lasciarsi seguire senza aver nulla da controbattere ed imitarlo in ogni meccanico gesto che veniva compiuto nell'arco dell'interminabile giornata.

Castiel ricevette personalmente molte batoste, sin dalle prime settimane. Il triangolino di stoffa logora e rosa appuntato sul suo petto era un segnale d'allarme che teneva istintivamente lontano chiunque, e riceveva sguardi a mezza via tra il frastornati ed il disgustati. Questo, da chi era stato trasferito con lui. I deportati che da più tempo si trovavano lì, i corpi privi di vita degni del nome che si trascinavano stancamente da una parte all'altra del campo senza mostrare alcuna emozione sui volti cinerei, si limitavano a lanciargli lunghe occhiate sofferenti. Nonostante tutto, Cas non credeva sarebbe mai riuscito a parlare con qualcuno, anche solo per farsi spiegare come funzionavano le cose in quel postaccio. Invece, rimase sorpreso.

Kevin era un ragazzetto basso e smilzo, dal profilo asiatico e gli occhi scuri pieni di un contrastante misto di curiosità e rancore, che spesso si alternavano prevalendo l'uno sull'altra a seconda del giorno e di come si svegliava. La cosa che gli disse in tedesco, la sputò tra un affanno e l'altro aiutandolo a portare sulla spalla una trave metallica che avrebbe raggiunto le altre sulla ferrovia in costruzione.

– Seriamente, non capisco come a te possano piacere gli uomini. –

se non fosse stata una pessima idea cominciare una scazzottata lì, sotto la pioggia scrosciante, con una gamba di fango e neve vecchia a limitare il novanta per cento dei movimenti e le scarpe che gli procuravano vesciche sanguinanti, Castiel non si sarebbe tirato indietro. Qualche secondo dopo valutò l'idea di scansarsi da sotto la trave e guardarlo affondare nel pantano sotto il peso del metallo che avrebbe ugualmente tentato di trasportare da solo, ma riflettendo appurò che in entrambe le circostanze avrebbero fatto fuori sia lui che quel ragazzino petulante.

– E io non capisco come a te possano piacere le donne, quindi siamo pari marmocchio. – si limitò a replicare, arrancando lungo la ferrovia e raggiungendo il punto dove avrebbero dovuto incastrare il carico.

– Guarda che parlo sul serio. E in ogni caso, ho quasi diciotto anni ed ero in una delle classi avanzate, nella mia scuola. – esclamò indignato il ragazzo, cercando di stare al suo passo senza inciampare o scivolare.

– Oh davvero? Allora perché mi suoni incredibilmente stupido? – Castiel strinse i denti e serrò un paio di volte le palpebre. Era fradicio fino al midollo, la schiena era uno sconclusionato concerto di fitte lancinanti, le ginocchia gonfie non trovavano riparo dai tagli del freddo sotto alla logora divisa e le scarpe gli facevano un male assassino. La sera prima, quando le aveva tolte, le vesciche si erano scrostate e avevano cominciato a sanguinare, quindi aveva dovuto tagliare le maniche troppo lunghe per ricavare bendaggi di fortuna che sperava avrebbero impedito il sopraggiungere di un'infezione, ma che non alleviavano affatto il dolore.

Posò al suolo il componente di rotaia e cominciò subito a ripercorrere la strada a ritroso per andare a prendere un altro pezzo. Controllò lo stato delle sue mani, e quando le trovò piene di calli, tagli e rosse per il freddo, distolse immediatamente lo sguardo.

Kevin lo raggiunse allungando il passo.

– Non sono uno stupido. – asserì contrariato dalla precedente osservazione di Castiel.

– Allora evita di fare domande stupide. – il moro gli lanciò un'occhiata velenosa, con la pazienza già agli sgoccioli. Se doveva andare orgoglioso del suo essere, avrebbe protetto quella dignità con unghie e denti, anche da un moccioso irritante come quello lì.

– Mica ti sto attaccando. Solo, guarda che è strano. Insomma, sei l'unico nel nostro Block, o perlomeno nel dormitorio, la gente può pensare che tu ti faccia idee strane e...

– Ehi, imbecille, frena un secondo. – Castiel gli mise una mano sulla spalla e lo costrinse a voltarsi con un brusco strattone, guardandolo dall'alto in basso.

Kevin, dal canto suo, si sentì subito in soggezione. Aveva inquadrato quel tizio perché sembrava mite e coraggioso, ma vedere la rabbia traboccare da quegli occhi innaturalmente blu lo metteva a disagio.

– Chiariamo subito una cosa, ragazzino. Solo perché sono omosessuale non significa che io voglia saltare addosso ad ogni uomo che mi passa accanto, e il fatto che tu o chiunque altro l'abbia pensato è deprecabile ed offensivo nei mie confronti. Io non voglio problemi e se pensi che qui ognuno combatta insieme agli altri, hai ragione fino ad un certo punto perché quando la mannaia calerà sul tuo collo io ci potrò fare ben poco. Quindi, se fino a quel momento voi avere una mano su cui contare evita di dire emerite stronzate, perché sono capace di mollarti qui nel fango a trascinarteli da solo i pezzi della rotaia, sono stato chiaro?

Il ragazzo annuì spaventato, al che Castiel lo spinse lontano da sé e proseguì la marcia verso il prossimo componente metallico, le mani e le spalle che piangevano al solo pensiero di dover trasportare altri duecento chili con la forza di muscoli che si indebolivano ogni giorno di più.

 

 

Quella sera, che per precisare era il crepuscolo di un giorno abbastanza indefinito tra febbraio e marzo, il ragazzo asiatico lo avvicinò con ostentata titubanza, torturandosi le unghie già rotte e sanguinanti e con il capo chino.

– Signore, io...

– Ho un nome. – borbottò Cas, sedendosi contro la parete e tenendosi le ginocchia ancora sanguinanti da una caduta di quel pomeriggio strette al petto. Se ci ripensava sentiva i postumi della paura pungolargli lo stomaco: era un bene che non lo avessero visto, o gli avrebbero sparato.

– Oh. Io sono Kevin. Tu sei...?

– Castiel. E ora lasciami in pace. – Kevin per tutta risposta, si ritagliò un quadratino di spazio sufficientemente grande da contenere il suo corpo magro e si accomodò accanto a lui.

– Okay, Castiel-e-ora-lasciami-in-pace. Sappi solo che volevo scusarmi per oggi, alla ferrovia. Sono stato privo di tatto. Ti accetto comunque, se vorrai essere mio amico.

Cas gli rivolse uno sguardo stupito e si strinse ancora di più nelle spalle, profondamente a disagio. Non aveva mai parlato con nessuno della sua omosessualità, e farlo con qualcuno al di fuori di Dean gli lasciava una sensazione di vuoto tremendamente simile ad una voragine pronta a risucchiare tutto.

Dean. Quel pensiero lo attraversò come un fulmine. Se da una parte ricordarlo gli scaldava il cuore e lo aiutava a combattere più testardamente, dall'altra lo trascinava in un abisso senza fondo di triste nostalgia che minacciava di ancorarlo alla sua disperazione.

Abbandonò la testa contro le ginocchia e lasciò un sospiro.

Se fossi qui sarebbe tutto più facile da sopportare.

– Va tutto bene?

Di nuovo, la prospettiva di mollargli un pugno sul naso si affacciò nella sua mente come una speranza di miglioramento delle tragiche condizioni. Magari dopo.

– No. Solo... mi manca casa. Tutto qui.

Kevin appoggiò la testa alla parete di legno dietro di sé. – A chi lo dici. Mia mamma è stata presa come noi, ma non so dove sia, e ho paura che lei... – la sua voce si incrinò di botto, tanto che Castiel alzò il capo per controllare che non stesse per mettersi a frignare.

In effetti, aveva gli occhi rossi e gonfi, lucidi come una patina d'acqua.

– No... no, io non piangerò, se credi che lo stia per fare. – lo rimbeccò subito, prima che il moro potesse fare domande. – Ho promesso che l'avrei fatto solo il giorno in cui l'avrei rivista. Io non ho mai infranto una promessa, e questa è la più importante di tutte. Non la romperò. – ingoiò il magone che aveva in fondo alla gola e si strofinò le mani sugli avambracci per scacciare un po' del freddo. Se le persone intorno a loro stavano ascoltando, non diedero segno di essere interessati alla questione.

– E tu? Hai qualcuno da cui tornare, immagino. I tuoi genitori, dei fratelli... –

Castiel attese qualche momento, in cui gli ultimi due anni gli passarono davanti agli occhi in un vortice di calore, voci, sorrisi. Dean fece capolino nella sua mente e lo salutò con la sua solita espressione sghemba, le labbra carnose e così buone si sollevarono da una parte, le lentiggini che occhieggiavano dagli zigomi vennero nascoste da un lieve rossore che gli tinse il viso.

– Sì, certo. – mormorò, l'ombra di un sorriso che gli increspava la bocca screpolata.

– Mio marito.

 

 

 

 

 

Angolo della desperescion....

dunque ciao a tutti intanto. Ebbene, ecco il nuovo capitolo, spero che come al solito sia all'altezza degli altri perché mannaggia è stato molto difficile da scrivere.

Soprattutto le parti in tedesco, quindi se qualcuno ha più esperienza di me è libero di bocciarmi e fare tutte le correzioni del caso, sappiate che mi sono impegnata eheheh...

scusate se vi ho lasciati in sospeso con quelle due parole, ma ahimè un po' di sana spannung serve sempre.

Grazie a tutti quelli che recensiscono e leggono, il mio lavoro quando viene apprezzato mi rende felice e più sicura!!

ciao ciao!

   
 
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